Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

L'invalidità delle ordinazioni anglicane

Ultimo Aggiornamento: 10/03/2010 08:51
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
09/02/2010 12:49

L'invalidità delle ordinazioni anglicane (prima parte)

Dopo il motu proprio Anglicanorum coetibus, il tema delle Ordinazioni anglicane è tornato a destare interesse. Da qualcuno si è perfino tentato di mettere in dubbio il valore della costituzione Apostolicae curae di Leone XIII, che ne dichiarò solennemente l'invalidità. Per capire meglio come stanno le cose, pubblichiamo un efficace riassunto storico-teologico della questione, estratto dal libro Il movimento di Oxford di C. Lovera di Castiglione (Brescia, 1935).



1. Dal Concilio Vaticano alla lettera leoniana

Mentre il movimento della riunione (1) si sviluppava con grandi incertezze e confusioni, il Concilio Vaticano del 1870 venne a mutare completamente la situazione.

Già l'annunzio del Concilio aveva sollevato le più vive discussioni, non solo nel campo religioso; le grandi correnti liberali, al potere in quasi tutta Europa, stavano piene di sospetti e di diffidenze, abilmente sfruttate dalle massonerie rivoluzionarie, le quali sentivano che il Concilio sarebbe stato un atto di forza della Chiesa in momenti in cui essa attraversava difficoltà grandissime.

I governi, più che mai impeciati di regalismo ereditato dalle spossessate corone, erano gelosi della Chiesa e dell'autorità papale: il sofismo della «potestà straniera», considerante il Papa come legiferante nei singoli paesi, incominciava ad entrare nel catalogo dei pretesti alla resistenza.

Né bisogna dimenticare che anche da parte di cattolici troppo indiscreti e fanatici si contribuiva non poco a crescere le confusioni, colla mania di voler tutto dogmatizzare: e quel che è peggio, di tali impudenti orientamenti si discuteva su libri e giornali, aggravando la situazione, per il fatto che i più ardenti sostenitori della Chiesa venivano spesso confusi, in quel tempo, con gli elementi «ultra» e retrivi di tutto lo sconfitto legittimismo e dell'agonizzante conservatorismo europeo. Equivoco religioso e politico, che la Santa Sede era ben lungi dal confortare, ma di cui subiva, innocente, tutti i danni.

Anzi, tali esagerazioni avevano aggravato le resistenze nello stesso campo ecclesiastico cattolico e qualcuno era stato tratto, come il noto vescovo Döllinger, futuro capo dei vecchi cattolici, addirittura a consumare una netta separazione da Roma, in nome della tradizione e contro le così dette novità dogmatiche.

Pusey (2), sempre in preda alle proprie illusioni, desiderava di partecipare al Concilio, sperando di trovare in esso l'occasione per discutere della «riunione»; perciò era in grandi faccende e relazioni coi vescovi francesi, poco fidandosi dei cattolici inglesi. Anzi, meditava di redigere una serie di proposte, le quali avrebbero dovuto essere sottoscritte da alcuni vescovi anglicani e da molti «clergymen», coll'impegno che, se accettate dal Concilio, essi sarebbero entrati senz'altro nell'unità romana.

Tali idee di Pusey trovavano però ostacoli grandissimi, sia tra i suoi stessi correligionari che tra i cattolici, ai quali non sfuggiva la impossibilità pratica di tutte quelle combinazioni. Le proposte del Pusey ci porterebbero troppo lontano; esse, d'altra parte, non uscirono mai dal segreto di una trattativa, mal condotta, del padre De Buck, gesuita, il quale, tutto ansioso di unire la Chiesa anglicana, andò tant'oltre da rappresentare alla Santa Sede come possibili certe transazioni e da comunicare al Sant'Offizio le sue vedute in merito; ma il pronto intervento del Padre Generale e l'ordine dato al P. Buck di sospendere ogni attività in quel senso posero fine a tentativi dettati da generoso cuore più che da logiche premesse.

Pusey incominciava intanto ad essere più che mai scoraggiato dalle notizie che gli giungevano da Roma; la stessa bolla papale di convocazione del Concilio appariva assai precisa nei confronti degli anglicani. Essa infatti era diretta a tutte le gerarchie cattoliche, col consueto formulario; quindi, con parole ed atti distinti, l'invito era stato rivolto ai vescovi orientali non in comunione colla Santa Sede; e finalmente «omnibus protestantibus coeterisque acatholicis», nei quali era chiaro venir compresi gli anglicani.

Ormai Pusey non poteva più revocare in dubbio che Roma non considerava vescovi veri quelli della Chiesa stabilita (3). Proclamata poi l'infallibilità, come è storia notissima, si ebbero reazioni veementi ed antiromane un po' dappertutto, nate soprattutto dalle idee poco chiare che si avevano su quel dogma, e intrattenute artificialmente dai partiti anticlericali del tempo nei paesi cattolici, attizzate dai pregiudizi antiromani in quelli riformati. Tutto ciò coincideva colla caduta del potere temporale e con un periodo in cui pareva che la Chiesa fosse all'estremo delle sue possibilità nella società moderna.

Tutti questi movimenti contribuirono potentemente a cambiare l'indirizzo di molti anglicani verso l'unità. Persuasi di nulla ottenere da Roma sulla base di trattative alla pari, incomincia in molti di essi a balenare l'idea di raggiungere tale possibilità orientandosi verso la Chiesa greco-ortodossa scismatica o verso la setta dei vecchi cattolici. E da allora datano quegli approcci, atti a condurre più tardi a tentativi di intercomunione con quelle Chiese in possesso della successione apostolica, i quali tentativi rimangono oggi sempre tali, saltuari, risultato di maneggi piuttosto che di convinzioni.

Comunque variassero gli orientamenti degli anglicani, una cosa rimaneva ad immutabile base di tutto quel lavoro: voler essi la provata certezza della validità delle proprie Ordinazioni ed uscire dall'isolamento.

Già fin dal 1866 un primo incontro era avvenuto tra anglicani e alcuni vescovi russi: Wilberforce (4), anzi, aveva chiesto ai russi la reciprocità del riconoscimento della validità dei propri Ordini, ma, all'atto pratico, gli ortodossi non erano andati oltre la cortesia; dopo il 1870 il vescovo Döllinger si era fatto promotore di nuovi incontri a Bonn, ma se tutti erano d'accordo nell'avversare Roma, non lo erano affatto circa la dottrina e quindi nulla fu concluso.

Dal 1878 al 1898 i rapporti coi vecchi cattolici si fecero più frequenti e più intimi, ma sempre poco conclusivi; si stabilì tuttavia che gli anglicani desiderosi di comunicarsi in una chiesa di vecchi cattolici, in Germania, Austria e Svizzera, lo potessero fare ed anche sotto le due specie.

Però nelle sfere anglicane non ci si illudeva su tutte quelle negoziazioni, ben conscie che soltanto l'unità con Roma avrebbe rappresentato la soluzione definitiva del problema. Specialmente un gruppo di giovani anglicani pareva ardentemente animato da nuove speranze di accordi con Roma, mai immaginando che essi sarebbero stati causa occasionale e incolpevole di una delle più grandi disillusioni anglicane.

(segue)


(1) Verso la metà del XIX alcuni ministri anglicani, tra cui John Henry Newman, avvertirono l'esigenza di riformare la loro chiesa in senso più conforme alle tradizioni apostoliche che essa, dopo lo scisma di Enrico VIII, aveva progressivamente abbandonato. Nacque in questo modo, a Oxford, un movimento di vaste dimensioni, che avrebbe fortemente influenzato la vita della Chiesa d'Inghilterra per oltre mezzo secolo. I suoi esponenti, benché partiti da posizioni antiromane, giunsero presto alla conclusione che la Chiesa cattolica era quella che meglio aveva conservato la tradizione dei primi secoli. D'altra parte, la Chiesa anglicana, soggetta in tutto al potere politico e lacerata al suo interno dalle più gravi discordie dottrinali, appariva loro sempre più compromessa. Dopo qualche infruttruoso tentativo di riforma, alcuni capirono che l'unica soluzione possibile era la conversione al cattolicesimo: tra questi spiccano le figure di Newman e Manning, entrambi destinati ad avere un ruolo di prim'ordine nella rinascita cattolica dell'Inghilterra. Altri preferirono restare nella Chiesa d'Inghilterra, dando luogo ad un vasto movimento di riforma (il ritualismo), che però, nonostante i successi iniziali, non riuscì mai ad affermarsi su vasta scala, a causa della violenta opposizione delle fazioni protestanti (Broad e Low Church) e del governo. Tra le iniziative promosse da costoro vi fu anche un tentativo di riunione con Roma. I colloqui dottrinali tra le due parti si protrassero per lungo tempo, fino alle ben note «Conversazioni di Malines» di fine secolo, senza però giungere ad alcun risultato concreto. I ritualisti, infatti, fondavano la loro proposta su una nozione erronea di Chiesa cattolica (ritenuta divisa, per ragioni puramente storiche, in tre branche, la romana, l'orientale e l'anglicana, ognuna delle quali, pur con tradizioni diverse, aveva mantenuto la successione apostolica e conservato la retta dottrina) e miravano ad una confederazione, piuttosto che ad una vera e propria unificazione, della Chiesa anglicana con la Chiesa romana. È precisamente a questo tentativo di unificazione che si riferisce l'autore parlando di "movimento della riunione" (n.d.r.).

(2) Edward Bouverie Pusey (1800-1882), teologo e ministro anglicano. Dopo la conversione di Newman e Manning, divenne la guida del movimento ritualista inglese (n.d.r.).

(3) Con questa espressione si intende la Chiesa anglicana, in quanto stabilita sotto l'autorità dello Stato (n.d.r.)

(4) Samuel Wilberforce (1805-1873), vescovo anglicano di Oxford dal 1845 al 1870 (n.d.r).

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
16/02/2010 14:16

L'invalidità delle ordinazioni anglicane (seconda parte)



Prima parte



Il 14 febbraio 1895, quando le ire pel Concilio Vaticano erano da lungo sopite e le invettive di Gladstone (1) non avevano più eco alcuna, quando lo stesso fallimento del «Kulturkampf» tedesco e lo splendore del pontificato di Leone XIII provavano la rinascente vitalità della Chiesa romana in tutto il mondo e in tutti gli ambienti, in un «meeting» tenutosi in Bristol della «English Church Union» un giovane Pari d'Inghilterra, presidente di molte associazioni religiose, colto, virtuoso, noto, eloquente, Lord Halifax, faceva un appello pieno di passione al ristabilimento della comunione visibile colla Sede di S. Pietro; affermava l'unione essere possibile, se gli uomini di entrambe le Chiese volessero studiarne il modo con buona volontà e sollecitarla con una vasta azione di preghiera.

In quell'occasione Lord Halifax aveva alluso al Papa, tessendone pubblicamente l'elogio, cosa inconsueta in un «meeting» anglicano, ed assicurandolo che egli avrebbe potuto contare su di una risposta piena di devozione a qualunque invito che fosse stato rivolto alla Chiesa d'Inghilterra.

Agiva, accanto a Lord Halifax, un altro personaggio: un umile prete cattolico, figlio di S. Vincenzo de' Paoli, l'abate Portal, dal cuore grandissimo, portato da un ottimismo mai stanco ad intravvedere in qualunque circostanza possibilità che alcune volte lo tradivano e lo amareggiavano. Egli cercava in Roma stessa di far sorgere e intrattenere simpatie verso i suoi amici anglicani ed informava Lord Halifax, volta per volta, dei sentimenti prevalenti nella prelatura e nella Curia.

La stampa inglese aveva simpaticamente commentato le parole del «meeting» di Bristol: vi era quindi per l'aria come un senso di aspettazione per qualche grande avvenimento. E il grande avvenimento fu la lettera «Ad Anglos» di Leone XIII, il quale sembrava quasi di voler rispondere all'appello del giovane Lord; la lettera leoniana del 15 aprile 1895 faceva nascere subito le più rosee speranze, le quali, degenerate in molti equivoci, dovevano poi occasionare altre manifestazioni del tutto contrarie.

Il Papa nella sua lettera si rivolgeva «agli inglesi che cercano il Regno di Cristo nella unità della fede», per dir loro con parole commosse e paterne, quasi eco di quelle con cui il lontano Pontefice del VI secolo aveva mandato in Britannia i primi missionari, quanto il Pontefice attuale seguisse gli sforzi da essi fatti per avvicinarsi al cattolicesimo, e li invitava, qualunque fosse la denominazione a cui appartenevano, a mantenersi in tale volontà; concludeva assicurandoli di pregare per loro e domandava ad essi di pregare per lui.

E a dar prova di quanto il problema inglese gli stesse a cuore, il Papa nominava senz'altro una commissione di studio per esaminare la validità delle Ordinazioni anglicane, scegliendo alcuni membri tra elementi noti per esservi favorevoli.

Finalmente dopo tre secoli veniva da Roma all'Inghilterra una calda e paterna parola; l'eco ne fu subito immensa. Lord Halifax si mise tosto in viaggio per Roma, non senza prima abboccarsi con alcuni vescovi francesci, onde dare al movimento tutto lo sviluppo possibile.

Negli altri ambienti anglicani la lettera pontificia fu accolta con deferenza, anzi l'arcivescovo di York dichiarò nel convegno di Norwich essere «la riunione nell'aria» e salutava la voce «venuta da Roma», proclamando «doversi accogliere calorosamente una lettera così importante, tanto da potersi dire in un certo senso unica»; e parlando poi del Papa diceva «che egli presiedeva una Chiesa che aveva prodotto una moltitudine di santi, espresso un nobile esercito di martiri, una Chiesa alla quale si doveva un grande tesoro di letteratura teologica, una Chiesa dalla quale gli inglesi avevano ricevuto nei secoli passati, quando erano deboli ed infelici, un soccorso considerevole e pieno di amore»; ed ancora esprimeva il desiderio ardente che «cessasse il grande scandalo» della divisione e invitava gli anglicani a procedere ad una revisione dei loro pregiudizi. Alla sua volta l'arcivescovo di Canterbury ordinava preghiere e Lord Gladstone, famoso per le sue invettive contro il Concilio Vaticano e la Chiesa romana, interveniva col peso della sua autorità in favore del movimento di unione, parlando del Papa con grande deferenza e chiamandolo «il primo vescovo della cristianità».

La stampa comunicava al pubblico, sempre più avido di notizie, quanto stava succedendo, accompagnandovi commenti in genere benevoli. Quanto era lontano il tempo del «No popery»!

Purtroppo, e senza volerlo da nessuna parte, gli entusiasmi deformavano la realtà; si davano per certezze le speranze, onde le difficoltà più gravi parevano facilmente superabili; nessuno poi avvertiva più che Roma sottintendeva che la unione dovesse avvenire colla sottomissione degli anglicani alle sue dottrine, e non già a modo di riunione in corpo, mantenendo la Chiesa anglicana più o meno inalterato il proprio bagaglio avariato. E poi, chi era la Chiesa d'Inghilterra? l'Alta, la Bassa, la Larga? E non era, come oggi ancora, soltanto un'audace ma piccola minoranza di anglo-cattolici a pensarla in tal modo? Roma scrutava attentamente così confuso panorama.

Mentre le fantasie galoppavano a briglia sciolta, nessuno si occupava più della commissione di studio nominata da Leone XIII, che frattanto era al lavoro. I cattolici inglesi però non ristavano dal rappresentare alla Santa Sede quanti equivoci si stessero pericolosamente accumulando: pareva a molti di loro di essere quasi travolti, dopo tanti sacrifici personali, dall'ondata degli accomodamenti e delle pattuizioni; onde attendevano con grande ansia che finalmente una parola chiara fosse detta a stabilire la validità o l'invalidità del sacerdozio nella Chiesa anglicana.

Né di tale parola chiarificatrice, come essa sperava, era altrettanto desiderosa la parte anglicana, in quanto il dubbio sulle proprie Ordinazioni, sebbene né ammesso né discusso pubblicamente, non era meno reale ed opprimente.

Perciò la delusione e l'amarezza furono immense e costernate, quando si seppe aver la commissione concluso contro la validità e che il suo responso era basato su dati di fatto, liturgici, storici, tratti dagli stessi testi anglicani, ciò che ne rendeva particolarmente difficile la confutazione, per non dirla impossibile.

(segue)


(1) William Ewart Gladstone (1809-1898), fiero avversario dei ritualisti, ricoprì per quattro volte la carica di primo ministro.

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
23/02/2010 10:43

L'invalidità delle ordinazioni anglicane (terza parte)


Prima parte

Seconda parte


2. I motivi della invalidità.


La sentenza romana aveva dovuto risalire il corso della storia e rifarsi ai primi inizi della Riforma. Gli anglicani affermavano che le loro ordinazioni erano valide, per non essere mai venuta meno la successione apostolica, e che, pur ammesso di aver variate od anche omesse alcune condizioni liturgiche, le essenziali erano rimaste inalterate, per cui l'ordinazione doveva considerarsi «idonea», anche se non «determinata», come la voleva la bolla pontificia «Apostolicae curae» (14 settembre 1896). Doveva quindi la commissione dimostrare anzitutto che la successione apostolica era stata interrotta, ed in seguito che anche la formula sacramentale anglicana non era sufficiente al compiersi del sacramento: in fondo anche la sola dimostrazione storica sarebbe stata ragione più che sufficiente a concludere per l'invalidità.

Nel campo storico, toccato dai profondi studi della commissione, il primo fatto accertato fu che Enrico VIII, separandosi da Roma e proclamandosi capo della Chiesa inglese, non aveva variato il culto esistente, né aveva introdotto novità dottrinali, rimanendo sempre avverso alle infiltrazioni ereticali che incominciavano a verificarsi sotto l'influsso dei sovvertimenti religiosi dilanianti la Germania.

Dichiarata la propria supremazia, il re aveva affidato a Cromwell, semplice laico, il governo della Chiesa, col titolo di «Vicario Generale della Corona» per le cose spirituali. Alle sedi più cospicue, rimossi i vescovi fedeli a Roma, erano stati chiamati altri vescovi, debitamente ordinati, ma ligi alla Corona. È evidente che tali vescovi dovevano essere malfermi nella fede per accettare una situazione tanto irregolare; erano invero infetti di eresia luterana ed inclini al protestantesimo, sebbene cautelati e segreti, conoscendo gli umori del re.

Né la soppressione della supremazia pontificia era avvenuta senza grandi contrasti. La resistenza degli antichi Ordini monastici fu causa della loro soppressione e spogliazione in favore del re, dei suoi favoriti e di alcune grandi famiglie del regno, determinando un grande disorientamento nei cattolici e vasti spostamenti di interessi materiali e di clientele. Gli Ordini erano ricchissimi; il trapasso di tali ricchezze non poteva non determinare inconvenienti, accrescere appetiti, sopprimere fonti inesauste di beneficenza: occasionare, in una parola, reazioni, disordini e persecuzioni, che furono un ottimo ambiente per l'eresia venuta d'oltre mare.

Certo è che il Paese era in grande anarchia. Che fossero accadute «quaedam facinorosa, quaedam adhuc ploranda» ammisero due noti anglicani, mescolati in certi passi a Roma, i reverendi Lacey e Puller.

A cotesto periodo di profondi turbamenti, un altro ne succede. Morto re Enrico, durante la minorità di Edoardo VI, l'andamento della Chiesa, da scismatico che era, si muta in eretico per opera principale di Tommaso Crammer, arcivescovo di Canterbury, legittimamente ordinato, tutto invasato di spirito luterano ed antiromano.

Crammer aveva dovuto attendere la morte del re per operare i cambiamenti da lungo tempo meditati in segreto. Egli, coll'approvazione del parlamento, in gran parte guadagnato alla Riforma, cominciò coll'interdire il Messale e il Pontificale Romano (15 gennaio 1549), sostituendoli coll'«Officio della Comunione», tratto da testi riformati e da antiche pratiche liturgiche in uso; ed altre del tutto nuove ne prescrisse, contenute nell'«Ordinale» (1550), riformando completamente l'antica liturgia.

Crammer in tutti questi mutamenti aveva avuto essenzialmente di mira l'esclusione dalla nuova liturgia di qualunque riferimento al concetto di sacrificio e di sacerdozio: anzi, parendogli il nuovo «Ordinale» ancora troppo largo, nel 1552 ne promosse una revisione in senso ancora più riformato.

Nel nuovo «Ordinale», detto il «King's Book» o di Edoardo VI, i soli Ordini riconosciuti erano il diaconato, il presbiterato e l'episcopato; nei testi liturgici non si accenna ai poteri sacerdotali di consacrare e di offrire a Dio né si consacrano i candidati colle sacre unzioni, viene omessa la «traditio instrumentorum» (messale, calice, patena con l'ostia, ecc.). La stessa preghiera eucaristica (1), antichissima e comune a tutti i riti, colla quale si suole accompagnare l'imposizione delle mani, viene mutilata, separata dalla imposizione, ridotta ad una semplice preghiera di carattere preparatorio. Infine l'«Ordinale» evita a bello studio qualunque espressione indicante l'Ordine e quindi la potestà conferita.

Fu con tale «Ordinale» che durante il regno di Edoardo VI (1547-1553) vennero consacrati sei vescovi, e cioè i dottori Poynet, Hoopel, Coverdale, Scores, Taylor, Harley.

Ad Edoardo VI succede la regina Maria e si inizia un terzo periodo, di restaurazione cattolica, che va dal 1550 al 1558.

Il primo pensiero di Maria Tudor fu quello di ristabilire la religione cattolica nella quale era stata allevata e si era conservata, malgrado tante procelle, e per la quale sua madre, Caterina d'Aragona, aveva tanto sofferto. Ma la regina aveva un carattere assai violento e vendicativo, per cui non di raro si lasciò trascinare in repressioni feroci contro i riformati. Era, in fondo, la pena del taglione, in uso corrente a quei tempi, ma è certo che, mentre un'opera assidua ed oculata avrebbe grandemente giovato al ristabilimento del cattolicesimo, al quale le masse erano tuttora attaccatissime, la repressione non fece che continuare la guerra religiosa, attizzare rancori, favorire vendette personali, ladrerie e disordini.

Invano il Cardinale Legato aveva tentato di influire sulla regina per maggior prudenza. Le cose si complicarono ancor più al seguito del matrimonio spagnolo, contratto dalla regina con Filippo II re di Spagna e figlio di Carlo V imperatore romano. Matrimonio avversatissimo, perché spiaceva agli inglesi il re straniero, del quale era noto essere gli interessi dinastici e politici in contrasto con quelli del nuovo regno; i riformati temevano poi la reazione cattolica come quella che minacciava di spogliarli dei beni ecclesiastici mal tolti: per cui la questione meramente religiosa incominciò ad intorbidarsi di elementi politici, dando buon gioco, sotto colore di difesa nazionale, all'eresia e ai suoi partigiani. Londra e Roma apparivano termini antitetici. Pericolosissima situazione psicologica pel rinascente cattolicesimo.

Però, come Enrico VIII prima e Crammer poi avevano mutati i riti, colla stessa facilità Maria li aveva ristabiliti, tanto più che in Inghilterra una vera e propria questione religiosa non era ancora mai esistita: il popolo cattolico, la Riforma voluta soltanto da pochi potenti, specialmente interessati alla conservazione dello spoglio dei beni ecclesiastici.

Il Papa Giulio III aveva mandato alla regina, quale Legato, il famoso domenicano Reginaldo Card. Polo, uomo dottissimo, di santi e severi costumi, di grande misura e prudenza, e lo aveva munito dei più ampi poteri.

Nei primi tre anni del regno di Maria, il Legato si occupò della situazione creatasi negli anni precedenti nei confronti degli ordinati secondo l'«Ordinale», e fin da allora, in quattro espliciti documenti del 5 agosto 1553, 8 marzo 1554, 20 giugno e 30 ottobre 1555, tali ordinazioni si dichiaravano invalide e quindi da rifarsi. Il Cardinale, secondando la regina, provvide quindi a pubblicare gli inviti, a promettere salvacondotti e a procedere a nuove ordinazioni, delle quali molti casi si conoscono particolarmente.

Morta la regina Maria, in pieno sviluppo della restaurazione cattolica, si apre il quarto e più infausto periodo, quello elisabettiano.

Elisabetta, a parte i rancori personali verso la religione cattolica che ne considerava quale concubina la madre, Anna Boylen, e se stessa figlia illegittima, era cresciuta in un ambiente tutto permeato di idee eversive e riformiste, e soltanto per sfuggire a mali maggiori aveva dovuto per molti anni dissimulare e apparire cattolica. Però essa non tendeva all'eresia, ma, come il padre, avrebbe preferito dominare la Chiesa nazionale, lasciandone pressoché intatte le antiche parvenze: abolita la supremazia e il controllo romano, le era in fondo assai indifferente la parte rituale.

Ma, al di fuori della regina, altri elementi di tempo, di politica, d'ambiente influivano sul rivolgimento religioso dell'Inghilterra e sul suo distacco da Roma; né Roma stessa era sempre in grado di avere una esatta visione di un complesso così affannoso di elementi diversi, premuta come essa era dalla apostasia già consumata in Germania, dai pericoli mortali in cui la religione versava in Francia e dai turbamenti politici dell'Italia stessa.

Comunque, nel febbraio del 1559, appena tre mesi dopo la sua assunzione al trono, la regina, convocato il parlamento, risopprime il culto cattolico e ristabilisce l'«Ordinale» di Edoardo VI. Ciò fu lo stesso che dare la piena libertà agli audaci amici della Riforma, i quali in poco tempo trassero la regina ben oltre il suo pensiero e i suoi desideri, verso forme sempre più protestanti e calviniste, verso negazioni sempre più radicali.

La regina, destreggiandosi tra le varie correnti protestanti e la resistenza cattolica, altro non poté salvare che quell'ibridismo che è attualmente ancora la Chiesa stabilita, mezzo termine tra un cattolicesimo devastato e un protestantesimo soltanto in parte accettato.

All'atto delle nuove ordinanze elisabettiane, i vescovi cattolici, consacrati durante il regno di Maria, vennero sollecitati perché prestassero il giuramento già in vigore sotto Enrico VIII, rinnegando la giurisdizione e la supremazia pontificia. Ma, mentre sotto Enrico i vescovi cattolici avevano dato prove di grande codardia, di quelli sollecitati sotto Elisabetta solo uno, il vescovo Kitchen, fu apostata.

Dello stato della gerarchia di quel tempo sappiamo dal cardinal Morone che, di 27 Chiese cattedrali, 15 erano vacanti per morte dei vescovi cattolici e legittimi, 12 avevano ancora i loro vescovi, dei quali 10 languivano nella Torre di Londra, confessori della fede cattolica romana, uno al Concilio di Trento per ordine del Papa, l'altro, il Kitchen, che «si lasciò persuadere dalla regina e obbedisce a lei».

(segue)


(1) Con questa espressione non si intende l'anafora della Messa, ma la preghiera consacratoria, strutturata a modo di prefazio, che si trova nel rito delle sacre ordinazioni.
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
03/03/2010 13:14

L'invalidità delle ordinazioni anglicane (quarta parte)



Prima parte

Seconda parte

Terza parte


Abolito il rito romano e la lingua latina, la regina si era preoccupata di nominare alla sede di Canterbury una sua creatura; scelse Matteo Parker, già cappellano eretico di sua madre. Però non trovava vescovi che volessero saperne di consacrarlo, nemmeno lo spergiuro Kitchen, essendo Parker troppo noto per le sue idee antisacramentali ed avanzate. Dovette allora ricorrere a Coverdale e ad altri tre ex frati, fatti vescovi da Crammer secondo il nuovo rito: i consecranti furono dunque Barlow, Scory e Hodgkins.

La situazione individuale di costoro era assai diversa. La consacrazione di Barlow è incertissima, non trovandosi alcun documento che ricordi come essa sia avvenuta, se pure è avvenuta; Scory e Coverdale erano stati consacrati in base all'«Ordinale» di Edoardo VI; Hodgkins era invece stato consacrato seguendo il Pontificale Romano e quindi lo era validamente. In quanto a Parker, si sa con certezza che egli fu consacrato da Barlow seguendo l'«Ordinale», assistendovi gli altri tre per l'imposizione delle mani e pronunciando tutti assieme la formula anglicana: «Accipe Spiritum Sanctum ac memento ut exsuscites gratiam Dei, quae in te est, sed virtutis et charitatis et sobrietatis». Parker, alla sua volta, consacrò coll'«Ordinale» tutti i nuovi vescovi anglicani e costoro successivamente gli altri, fino ai giorni nostri.

Però gli anglicani stessi erano ben poco persuasi della formula consecratoria tanto indeterminata del loro «Ordinale», e i loro dubbi portarono infatti ad una revisione del testo nel 1662 e all'adozione di una modifica quanto mai importante, e cioè «accipe Spiritum Sanctum» coll'aggiunta specifica «in officium et opus Episcopi in Ecclesia Dei» ecc.

Però se quella formula, benché non ancora del tutto regolare, poteva ormai apparire sufficiente, ciò avveniva dopo 103 anni dalla consacrazione invalida di Parker, né poteva rimediare alle invalidità delle successive consacrazioni, dato che nel 1662 non vi era più alcun vescovo vivente che fosse stato validamente consacrato. Quindi la successione apostolica era veramente e totalmente interrotta.

Pertanto anche quelli consacrati dopo il 1662 non lo erano meno invalidamente degli altri, perché, come nota la Lettera Apostolica di Leone XIII, «eadem adiectio, si forte quidem legitimam significationem apponere formae posset, serius est inducta, elapso enim saeculo post receptum Ordinalem eduardianum, quum propterea, Hyerarchia extincta, potestas ordinandi iam nulla esset» (1).

L'esame delle consacrazioni dei primi vescovi avvenute al tempo di Elisabetta ha pure rivelato delle grandi oscurità; tutto fa indurre che esse avvennero alla chetichella, non volendosi da una parte allarmare i cattolici e dar motivo alle loro proteste, le quali avrebbero messo in evidenza le enormità che succedevano, e dall'altra esasperare le fazioni, già anche troppo facinorose. Da tale mistero l'origine di una quantità di favole e di leggende, di cui quella più celebre è la «fabula tabernaria», secondo la quale Parker sarebbe stato consacrato di notte in una taverna, da vescovi senza insegne e con cerimonie strane.

Ma il difetto delle ordinazioni anglicane non era soltanto d'indole cronologica o in lacune rituali gravissime; la Lettera Apostolica ne ricercava ragioni più profonde, nella carenza, cioè, dell'intenzione, la quale deve concorrere col rito a fare ciò che la Chiesa intende fare; e ciò collo scopo di provare e dimostrare agli anglicani che non solamente tale intenzione non vi fu, ma ve ne fu una del tutto contraria: quella cioè di non fare ciò che la Chiesa cattolica intende generalmente fare.

Quindi difetto di forma e di intenzione. Per la chiara intelligenza di cotesta non facile materia, ritengo sia necessario ricordare al lettore che nel rito di tutti i sacramenti vi sono due parti nettamente distinte: il cerimoniale, che può essere mutabile nel tempo ed è diverso a seconda delle varie Chiese, perché non è parte essenziale al compiersi del sacramento; un'altra parte, invece, è essenziale ed immutabile, costituita alla sua volta dai due elementi di materia e forma: la materia è la cosa sensibile di cui si fa uso per significare il sacramento, per esempio l'acqua nel battesimo, la forma consiste nelle parole colle quali si eleva la cosa sensibile alla funzione spirituale di segno pratico della grazia, e sono atte quindi a produrre un determinato effetto interiore e spirituale. Dice S. Agostino scultoriamente: «Si aggiunge la parola all'elemento (materiale) e ne nasce il sacramento».

Quindi è evidente che le parole sacramentali non devono esser vaghe e imprecise, ma devono avere un significato ben determinato, che, congiunto ad una data materia sensibile, costituisca un segno pratico e tangibile che il sacramento è compiuto; da ciò ne viene che ogni sacramento deve avere una forma tutta propria, ed anche una materia distinta e particolarmente opportuna.

Ora, nel sacramento dell'Ordine la materia, per costante tradizione da tutti accettata, anglicani compresi, sta nel fatto della imposizione delle mani, la quale viene impiegata in tutti e tre i gradi dell'Ordine: diaconato, presbiterato ed episcopato; perciò occorre che sia accompagnata da parole di differenziazione, significanti particolarmente il carisma donato e la potestà trasmessa, per cui la potestà conferita è piuttosto l'una che l'altra.

Quando tale determinazione non si verifica, sorge il difetto di forma, che è appunto la grave lacuna lamentata nell'«Ordinale» edoardiano, e ciò proprio contrariamente alle consuetudini di tutte le antiche liturgie sia latine che slave, paleoslave e delle altre Chiese autocefale d'Oriente.

In quanto al vizio d'intenzione, esso non è meno evidente, prescrivendosi dal Concilio di Trento che «se vi sia chi sostenga che nei ministri, nell'atto di conferire il sacramento, non sia necessaria l'intenzione di fare almeno ciò che la Chiesa intende di fare, sia anatema». Quindi l'intenzione è importantissima e gli stessi anglicani lo ammettono. La Chiesa poi la suppone senz'altro implicitamente nel ministro che faccia atti sacramentali, anche se egli ne è indegno e non si trovi in stato di grazia; donde la validità degli atti sacramentali nei ministri scismatici delle varie Chiese separate, che però abbiano conservata la successione apostolica.

Ma l'«Ordinale» edoardiano, scostandosi deliberatamente dal rito cattolico, fa uso di una forma incompleta e insolita, escludente la significazione cattolica, per cui il celebrante non può non essere conscio di non operare «almeno ciò che la Chiesa intende di fare».

Tutto ciò è poi aggravato dalle circostanze che accompagnarono la redazione dell'«Ordinale» e che precisano veramente quale fosse la mens dei riformatori: infatti i famosi «39 Articoli di Religione», carta fondamentale delle credenze della Chiesa stabilita, e che ogni ministro giura prima di accedere agli Ordini, sono espliciti. Dei sacramenti soltanto due sono ammessi: il Battesimo e la Cena; degli altri, la Confermazione seguitò ad essere praticata come una consuetudine ed un modo di immettere in un grado distinto del laicismo, il Matrimonio fu considerato come una benedizione nuziale, la Penitenza abolita del tutto e l'Estrema Unzione non altro che una pratica devozionale; e ciò col pretesto che gli uni originavano da una cattiva imitazione di atti compiuti dagli Apostoli, gli altri erano da considerarsi piuttosto stati di vita approvati nella Sacra Scrittura che sacramenti, onde in nessun modo potevano dirsi «istituiti da Dio», come il Battesimo e la Cena.

In quanto alla Messa, nessun anglicano può negare che nei «39 Articoli» si dichiari esplicitamente: «I sacrifici delle Messe, che si dicevano offerti dal sacerdote in remissione della pena o della colpa per i vivi o per i morti, sono finzioni blasfeme e perniciose imposture».

Quindi, fedele a tali premesse, l'«Ordinale» edoardiano aveva soppresso tutto ciò che potesse far supporre la realtà di tali «blasfeme imposture», come la consacrazione con i sacri olii, la consegna degli strumenti, e financo evitando i vocaboli di «sacerdozio, sacerdote, altare, sacrificio». Perciò è evidente che nella mente del riformatore non vi era affatto l'idea di fare dei veri sacerdoti mediante l'ordinazione, ridotta a mera cerimonia simbolica.

Gli anglicani di tutto ciò non potevano non essere convinti e consapevoli. Il vicario di Exton, infatti, nell'«Echo» scriveva proprio in quei giorni di così accese discussioni: «Noi non crediamo vi siano Ordini nel senso cattolico e consideriamo l'imposizione delle mani come una semplice e formale ammissione nel ministero di una denominazione qualunque. Nella Chiesa episcopale (anglicana) noi riceviamo l'ufficio di ministrare al popolo dall'ufficiale capo, il vescovo... Nella nostra Chiesa non esistono né vescovi, né sacerdoti, né sacrifici... Noi siamo soltanto ministri, come i nostri fratelli delle Chiese dissidenti (i protestanti)».

«Con la riforma - scrive un altro «clergyman» sul «The Rock» - i capi della Chiesa d'Inghilterra si separarono deliberatamente ed effettivamente dalla Chiesa di Roma, ripudiando il suo insegnamento sul sacerdozio e sull'episcopato, e perciò non ebbero mai, nell'ordinare, alcuna intenzione di conferire il sacerdozio, considerando il sacerdotalismo come ingiuria al sacerdozio di Cristo...».

E il vescovo anglicano di Liverpool, Dr. Ryle: «L'ecclesiastico della Chiesa romana è un vero prete, il cui principale ufficio è di offrire il sacrificio della Messa; per contro, l'ecclesiastico anglicano in nessun modo è prete: sebbene sia così chiamato, egli è soltanto un presbytero» (cioè un anziano).

L'arcidiacono di Liverpool, Dr. Taylor, aggiungeva: «È un fatto storico che dall'"Ordinale" del 1550 non solo fu esclusa per l'ordinazione la formula sacrificante "accipe potestatem offerre sacrificium", ma altresì ogni traccia dell'idea di sacrificio e di sacerdozio; è vero che vi è conservata la parola "prete", ma le funzioni e le manifestazioni proprie del prete sono svanite».

E tante altre ragioni profondamente liturgiche e sostanzialmente teologiche sarebbero da aggiungersi, se non esulassero dai limiti che ci siamo imposti e che del resto il lettore sollecito può facilmente trovare nella notissima
lettera leoniana.

Non sono però da omettersi i giudizi e la pratica della Santa Sede all'epoca della Riforma, quando tanti elementi ora mal noti erano nel dominio di tutti e quindi facilmente sindacabili.

Tra le varie facoltà del Card. Polo, Legato di Giulio III, vi era quella di «riabilitare» o semplicemente di «abilitare» al sacro ministero gli ecclesiastici che lo avevano esercitato al tempo dello scisma di Enrico e dell'eresia di Edoardo; la riabilitazione riguardava soltanto coloro che, caduti nell'errore, erano però stati validamente ordinati; l'abilitazione invece serviva a quelli che non lo erano stati «per non essere stata osservata la consueta forma della Chiesa». Costoro, «se degni ed idonei», dovevano dai propri vescovi «essere promossi agli Ordini sacri e al presbiterato», cioè dovevano essere riordinati, perché considerati tuttora laici.

Un altro dato di fatto conferma tale modo di procedere. La regina Maria, nel 1555, aveva spedito a Paolo V un'ambasciata composta dal vescovo di Thirbly e da due gentiluomini per appianare tutte le divergenze in corso e domandare la «conferma della dispensa per le ordinazioni e le promozioni di ecclesiastici, sia secolari che regolari, i quali, durante lo scisma, le avevano ottenute con nullità (cioè invalidamente)». Segno, essere notoria in quel tempo la posizione di tali presunti ecclesiastici. Difatti nell'Archivio Vaticano esistono tuttora le relazioni comprovanti che in quell'occasione l'ambasciatore aveva sottoposto l'«Ordinale» all'esame della Santa Sede, appunto a prova della necessità di tale dispensa.

Fu infatti in base alle concessioni romane che la regina dispose testualmente: «In quanto a coloro che già furono promossi a qualche Ordine secondo il modo di ordinare novellamente fabbricato, considerando che veramente e di fatto non furono ordinati, il vescovo diocesano, se idonei e capaci, può sopperire a ciò che ad essi è mancato prima». Alla sua volta il Cardinale Polo, appena giunto in Inghilterra, aveva decretato che coloro i quali «male Ordines susceperunt» venissero riordinati, perché «non servata forma et intentione Ecclesiae», e Paolo IV alla sua volta conferma tutte le decisioni del suo Legato, facendo propri gli stessi decreti del grande Cardinale.

Senonché, giunta la bolla di Paolo IV e pubblicatala in Inghilterra il 22 settembre 1555, sorse ancora un dubbio sui vescovi scismatici, e quindi se costoro dovessero ritenersi «rite et recte ordinati». Ma a tale dubbio il Papa stesso, con suo breve del 20 ottobre, rispose nettamente che «soltanto quei vescovi e arcivescovi ordinati e consacrati non secondo la forma della Chiesa, non possono essere considerati rettamente e validamente ordinati».

Inoltre, dell'attività del Card. Polo in quel senso la documentazione è amplissima, anche in una sua lettera ai sovrani inglesi del 24 dicembre 1557, in cui egli annunzia di aver già dispensato e di essere disposto a dispensare ancora coloro i quali per difetto di giurisdizione (cioè per causa della supremazia regale, come origine di potere) avevano ottenuti Ordini e benefici con nullità; in altra lettera al vescovo di Norwich del 29 gennaio 1555, insieme con altre facoltà, elargisce a quel vescovo anche quella di accettare le ordinazioni degli ecclesiastici già ordinati da vescovi scismatici, purché avvenute secondo il rito cattolico, cioè «Ecclesiae forma et intentione servata»; che invece gli ordinati secondo l'«Ordinale» dovessero considerarsi nulli e quindi gli ecclesiastici in parola doversi riordinare.

Ma quale fosse la mente della Santa Sede in quei frangenti e in quegli anni appare non meno esplicita dalle domande alle quali gli ecclesiastici erano tenuti a rispondere, tra le altre, per essere riabilitati o abilitati, se cioè fossero stati ordinati otto anni prima, in quanto avanti il 1547, vigendo il Pontificale Romano, nessun dubbio potea esservi sulla validità delle ordinazioni.

La regina Maria seguì fedelmente le disposizioni apostoliche, dimettendo dalle loro sedi tutti i vescovi ordinati col rituale edoardiano e ciò con regolare processo di cui esistono tuttora gli atti. Del Dr. Taylor per esempio si legge «privato per nullità di consacrazione», e di Harley «deposto per matrimonio, eresia e nullità di consacrazione», ecc.

A tutte coteste prove della continuità di indirizzo seguita dalla corte romana si può aggiungere che fin dal principio furono riordinati ex novo, quasi fossero laici, quei vescovi e sacerdoti che tornavano dall'anglicanesimo alla fede romana e desideravano entrare negli Ordini sacri. Di tali casi soltanto dal 1555 al 1558 ben 14 vengono ricordati dai registri episcopali inglesi di quel tempo, senza calcolare quelli numerosi avvenuti fuori, in Francia, nelle Fiandre e in Roma stessa.

Quindi la Lettera leoniana non lasciava nessun punto controverso, e la documentazione ne era amplissima; ed infatti l'eco da essa suscitata in Inghilterra fu enorme.

(segue)


(1) «
Quell'aggiunta, ammesso che possa conferire alla forma un significato legittimo, fu introdotta troppo tardi, un secolo dopo l'adozione dell'Ordinale edoardiano, quando ormai, estintasi la gerarchia, non vi era più alcun potere di conferire le ordinazioni» (n.d.r.).
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
10/03/2010 08:51

L'invalidità delle ordinazioni anglicane (quinta parte)



Prima parte

Seconda parte

Terza parte

Quarta parte


3. Reazione anglicana alla lettera leoniana.

L'effetto della lettera leoniana, disastroso per certe correnti della Chiesa anglicana, giunse graditissimo ai cattolici inglesi, che da lungo tempo insistevano perché una autorevole parola pontificia mettesse fine agli equivoci ed appagasse anche quei ministri anglicani che, passando al cattolicesimo, dovevano ricevere sub conditione il battesimo ed essere ordinati ex novo, come se fossero semplici laici: causa per molti di viva contrarietà e di non poca umiliazione.

Le fazioni protestanti della Chiesa anglicana furono del pari soddisfatte del documento pontificio, che negava, come esse facevano, ogni potestà sacerdotale negli anglicani: infatti lo stesso «Times», frequente loro portavoce, non esitò a definire la lettera di Leone XIII chiara, leale, moderata.

Anche gli anglicani dell'Alta Chiesa non furono del tutto spiacenti della lettera leoniana, come quella che pareva portare un colpo gravissimo ai ritualisti, da essi considerati come elementi perturbatori e nocivi alla tranquillità della Chiesa: sentimenti molto bene interpretati dal «Western Times» di Exter, il quale, in un articolo del tempo, diceva: «Se una conseguenza disastrosa dovrà seguire la pubblicazione del grave documento, il disastro non sarà per la Chiesa di Roma, ma piuttosto per coloro che si sono allontanati dai princìpi della Riforma».

I ritualisti ammettevano infatti che il colpo era ben duro: cadevano le loro illusioni sacerdotali, le loro convinzioni di far parte della Chiesa ecumenica come branca separata ma legittima, cadeva infine la loro certezza di essere operatori di sacramenti, e tutto ciò in un momento, rapidamente, dopo speranze carezzate a lungo, nelle quali erano stati mantenuti purtroppo anche da certe fazioni cattoliche, più sentimentali che logiche. Specialmente in Francia, anche una parte dell'episcopato, lusingato di essere interpellato e desideroso di favorire la tendenza all'unione, non sempre aveva avuto il coraggio di dir tutta la verità, nella sua crudezza, e ciò nel timore di mancare di carità verso i dissidenti, così bene intenzionati.

Quelle illusioni nei ritualisti dovevano essere ben tenaci, se anche oggi perdurano, non solo in moltissimi, i quali opinano di essere davvero ordinati, parendo loro impossibile il contrario, malgrado i documenti prodotti e le argomentazioni cattoliche; ma anche in altri molti, che, ritenendo il documento pontificio una dichiarazione non «ex cathedra» ma un'opinione privata, sperano possa essere riveduto ed anche mutato dai successori di Leone XIII.

A tale proposito è bene aggiungere subito che il documento pontificio non costituì di fatto una dichiarazione dogmatica nel senso stretto della parola, ma che esso appartiene a quel genere di documenti che, per il modo con cui sono redatti, lo studio che importano, le ricerche a cui danno luogo, la solennità della commissione cardinalizia che li discute e redige prima di sottoporli all'approvazione del Papa, assumono sempre una posizione definitiva, tanto più quando, per non essersi aggiunta alcuna nuova documentazione in contrario, nessuna delle ragioni addotte fu confutata o dimostrata errata, e quindi immutata è rimasta la materia del documento: che, anzi, nuove indagini storiche non fanno che avvalorarne le ragioni e le sanzioni.

Allo stupore dei ritualisti successe una irritazione profonda, tanto che i giornali loro amici, quegli stessi che da tempo esaltavano la Sede Romana, sì da parere alla vigilia di riconoscerne l'autorità, iniziarono una campagna violenta contro, tendendo a diminuire il valore conclusivo della lettera pontificia, a porre in luce presunti errori del Pontefice, male edotto, peggio consigliato, a dimostrare trattarsi di un nuovo caso di intolleranza papale, e giù a parlare di «prepotenze», di «sogni egemonici», di «finalità politiche», tirando fuori lo stantio bagaglio antipapale (sempre eguale in tutti i tempi), mischiando insieme sacro e profano, realtà e fantasia, verità e calunnia.

Ma forse ancora più dei ritualisti, l'episcopato della Chiesa stabilita si trovava in grande imbarazzo: avrebbe preferito assai di non rispondere alla lettera leoniana, ma il non farlo sarebbe equivalso ad ammettere col Papa che nella Chiesa anglicana non esisteva più né l'episcopato né vescovi. Decise quindi di rispondere. Del grave compito si incaricarono i due primati inglesi, quello di Canterbury e quello di York, dopo diligenti studi affidati ai migliori dei loro storici e dei loro teologi.

La lettera è intitolata «Responsio Archiepiscoporum Angliae ad litteras apostolicas Leonis Papae XIII de ordinationibus anglicanis» e reca come motto il versetto del salmo «Da pacem, Domine, in diebus nostris». Il tono della lettera è contenuto e degno, anche se talvolta lascia apparire l'amarezza e il disappunto; i due primati si rivolgono con rispetto al Papa, chiamandolo «venerando fratello» («Frater ille venerabilissimus»), ne riconoscono la costante retta intenzione («semper cum bona voluntate scripsit») e la sua persona confessano degna di onore e di riverenza («multa in ipso amore et reverentia digna esse libenter profitemur»), e quindi iniziano la contro discussione, protestando di volerlo fare «in spiritu lenitatis».

Infatti i due primati, come lo possono, date le divisioni dottrinali della loro Chiesa e la loro scarsa autorità, cercano in primo luogo di controbattere la lettera pontificia sul terreno storico, affermando che essa lascia trapelare varie incertezze sulle occorrenze del secolo XVI; insinuano inoltre che il Papa si sarebbe basato su una copia imperfetta della bolla di Paolo IV, ma naturalmente non riescono però a produrre il famoso testo che sarebbe il giusto, né del documento basilare gravissimo ed inoppugnabile, che è il breve pontificio al Card. Polo, fanno il benché minimo accenno.

Quindi si inoltrano in un complicato labirinto di induzioni sopra le date delle facoltà accordate al Cardinal Legato, cercando di equivocare sul fatto che esse furono segnate qualche giorno prima della spedizione del breve da Roma. Ma sulla facoltà di «abilitare» e di «riabilitare» gli arcivescovi preferiscono cautamente di non interloquire, poiché i fatti citati nella lettera pontificia erano già da se stessi ben eloquenti. E del resto, a suffragare le asserzioni romane giunse in buon punto il Dr. Brown, vescovo anglicano di Stepeney, il quale, in una sua lettera al «Times» del 1° maggio 1896 accennava proprio ai 14 casi di riordinazione occorsi al Cardinal Polo e già citati.

Passano quindi i due primati ad accennare il caso Gordon, che secondo loro è il fondamento principale della decisione papale. Questo caso fu curiosissimo: nel 1704 il vescovo protestante di Glascow, Clemente Gordon, convertitosi al cattolicesimo, espresse il desiderio di conservare lo stato ecclesiastico. Egli era stato consacrato colla formula già corretta del 1662, e tuttavia la Sacra Congregazione, interrogata, ritenne dovesse «riordinarsi ex integro». La Congregazione aveva preso tale decisione dietro lunghe ricerche di formule consacratorie orientali; anzi, in quella occasione furono appunto tradotte, per la prima volta, quelle degli armeni, dei maroniti, dei siri, dei giacobiti, dei nestoriani, tanto cattolici che scismatici, cosicché la Congregazione dovette forzatamente concludere che nella formula anglicana mancava proprio la forma sufficiente al sacramento: per cui il vescovo Gordon dovette esser considerato nulla più che alla stregua di un laico qualunque. Ora gli arcivescovi anglicani, nella loro risposta, insinuarono che il Papa non si sarebbe ispirato a testi genuini e originali; senonché la pubblicazione fotografica dei documenti, numerosissimi, riflettenti il caso Gordon fu la migliore risposta alle gratuite asserzioni, le quali erano essenzialmente fondate su vecchie circostanze del secolo XVIII, d'indole polemica e già dimostrate false.

Gli arcivescovi passano poi ad accennare un po' superficialmente alla «favola tabernaria» citata da Leone XIII, appunto per confermare di non averla ritenuta degna di essere considerata elemento d'indagine, essendo già fin dal 1685 appiena screditata presso lo stesso informatissimo Santo Offizio. Del resto l'importante non è il luogo e nemmeno il come sia potuta avvenire la consacrazione di Parker, ma unicamente l'esame dell'intenzione e della mancata forma tradizionale.

Inoltre gli arcivescovi paiono dubitare che a trarre in errore il Papa possa essere stata la stessa esposizione di Gordon sul modo di ordinare della Chiesa anglicana; ma anche tale dubbio non appare fondato, perché il giudizio della commissione pontificia di quel tempo venne emesso in base allo studio di un esemplare dell'«Ordinale» edoardiano, comunicato, con lettera del 4 marzo 1685, dall'internunzio in Fiandra all'Em.mo Card. Casanata, e del quale si servì infatti la commissione pontificia per lo studio della situazione Gordon e per le debite comparazioni tra i testi dell'«Ordinale» e quelli delle varie liturgie orientali.

Contrastato così il campo storico con molte ragioni incerte, tutte tratte da supposizioni assai gratuite, i due arcivescovi si trovarono costretti a seguire il documento pontificio anche sul campo più strettamente teologico.

Davanti alla grave obiezione centrale del difetto di forma dell'«Ordinale» e dell'asserzione della sua indeterminatezza, i primati ricorrono ad una sottile distinzione, affermando di essere d'accordo col Papa che la forma deve essere «idonea», ma negano la necessità che essa sia «definita», equivocando così sulle espressioni, quasi che il Papa avesse inteso dire che la validità della forma nella ordinazione fosse legata ad una data parola piuttosto che ad un'altra, mentre dal testo pontificio chiarissimo risultava null'altro occorrere alla validità che un determinato accenno all'Ordine conferito, ossia alla qualità di potere dato.

Inoltre gli arcivescovi negano che nella Chiesa vi sia una tradizione divina e apostolica riguardante la forma e la materia dell'ordinazione e affermano il rito dell'ordinazione variare totalmente a seconda delle differenti liturgie; ciò che per nulla elimina le difficoltà addotte dalla lettera papale, poiché rimane pur sempre provato che i riti variano, ma in tutti si conserva una menzione esplicita del grado e dei poteri conferiti, e che in tutte le Chiese, anche separate, l'imposizione delle mani è sempre accompagnata dalle parole precisanti l'Ordine stesso.

(segue)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 16:49. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com