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Il canto del Lògos in Clemente Alessandrino

Ultimo Aggiornamento: 03/03/2010 18:50
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03/03/2010 18:50

Il canto del Lògos in Clemente Alessandrino

E dall'infinito una voce risveglia l'uomo


di Leonardo Lugaresi

La prima parola di Clemente Alessandrino sul Lògos divino, o meglio la prima parola con cui il Lògos divino ci viene incontro, all'inizio del suo Protrettico, è un canto:  il "canto nuovo", come egli lo chiama a più riprese; ben diverso e superiore a quello di Orfeo e degli altri leggendari poeti - Anfione di Tebe, Arione di Metimna, Eunomo di Locri - a cui il mito greco attribuiva falsamente straordinari poteri come quello di ammansire le bestie selvagge, ma che in realtà erano degli impostori i quali "con il pretesto della musica corrompevano la vita" degli uomini rendendoli schiavi.

Anche il Lògos, afferma Clemente, intona un canto, ma non secondo i modi (nòmoi) della musica greca bensì con il "nòmos eterno della nuova armonia", e il suo canto contiene un "farmaco dolce e vero che persuade". Egli davvero "ha ammansito le fiere più difficili che mai vi siano state, cioè gli uomini", anzi ha reso uomini coloro che, a causa dell'ignoranza e del peccato, erano come pietre:  "quelli che altrimenti erano morti, quelli che non avevano parte alla vita reale, solo divenendo ascoltatori del canto sono tornati alla vita" (Protrettico 1, 4, 1).
Da questa potente immagine iniziale, la metafora del canto del Lògos si dispiega in tutta la ricchezza delle sue sfaccettature:  è il canto che ordina e intona a sé l'universo, "affinché il cosmo intero si armonizzi con Lui" (1, 5, 1); è "sostegno e armonia di tutto" (1, 5, 2); ha come strumenti il cosmo e il microcosmo, cioè l'uomo, ma il Lògos celeste è anche in prima persona lo "strumento panarmonico di Dio" (1, 5, 3-4) che svolge la sua incessante azione trasformatrice e benefica nel mondo (1, 6, 1-2). È un canto nuovo, ma c'è da sempre, perché il Lògos era dal principio (1, 6, 5; 7, 3); si è espresso "attraverso il coro dei profeti", e per certi uomini "canta" perché "ha molte voci e molti modi per la salvezza degli uomini" (1, 8, 2-3); ha in Giovanni Battista una voce che precorre, incita e prepara alla salvezza (1, 9, 1-2):  grazie ad essa e all'altra voce precorritrice dell'angelo, il Lògos feconda la donna sterile e la terra che non produceva frutti (1, 9, 3-5); risuona nel silenzio, simboleggiato dal mutismo di Zaccaria, della lunga attesa dell'umanità, "affinché la luce della verità, il Lògos, divenuto evangelo, sciogliesse il mistico silenzio degli enigmi profetici" (1, 10, 1).

Per quanto aderente ai dettami della precettistica retorica, questa insistenza sulla metafora del canto del Lògos non è solo la sapiente mossa d'esordio di un retore raffinato quale Clemente indubbiamente sa essere:  il tema del canto viene infatti ripreso in più occasioni, nel corso del libro, fino alla peroratio finale, quasi a suggerirci che in esso si trova uno dei motivi conduttori dell'intero discorso. Non possiamo qui citare tutti i passi:  ci basti ricordare che, nell'ultimo capitolo, il tema del canto ricompare, quasi in una ideale contrapposizione a quello iniziale del Lògos, nella reinterpretazione cristiana del mito di Odisseo e le Sirene, che tanto aveva affascinato Hugo Rahner, là dove il padre alessandrino dice che "la consuetudine (synètheia)" è come lo scoglio delle Sirene, perché "in essa canta il piacere, una prostituta fiorente, che gode di una musica volgare", e che per "navigare oltre quel canto" che genera morte, bisogna, come Ulisse, farsi legare all'albero della nave e prendere il Lògos di Dio come proprio nocchiero (12, 118). Questa navigazione conduce a un "coro pieno di saggezza", ben diverso da quello delle Menadi, e alla gioia ineffabile della danza eterna. "Queste sono le feste bacchiche dei miei misteri. Se vuoi, anche tu fatti iniziare ai misteri, e danzerai insieme con gli angeli intorno all'Ingenerato e all'Imperituro, al solo vero Dio, mentre il Lògos di Dio canterà inni insieme con noi" (12, 120, 2).

 Il ricorso alla metafora del canto non è limitato al solo Protrettico, ma si riverbera anche sulla successiva opera di Clemente, il Pedagogo, ove ritorna più volte a indicare la sapiente "armonizzazione" dell'azione del Lògos a beneficio degli uomini in tutta la varietà delle loro situazioni e caratteri, e non è assente neppure nella sua opera maggiore, gli Stromati. Ci limitiamo qui a richiamare un passo del ii libro, in cui l'autore scrive che "colui che crede nelle Scritture divine rende saldo il suo giudizio e ne riceve come prova inconfutabile la voce di Colui che ci ha dato le Scritture, di Dio:  così la fede non diventa più una posizione corroborata per mezzo di dimostrazione. Dunque "beati coloro che non hanno visto e hanno creduto". D'altronde le voci ammaliatrici delle Sirene, che manifestavano un potere sovrumano, colpivano coloro che si trovavano nelle vicinanze, disponendoli all'ascolto dei loro canti quasi loro malgrado" (Stromati ii 9, 6-7). Qui la ripresa del mito delle Sirene, a cui abbiamo già accennato sopra, riceve un'inflessione particolare e di grande interesse, perché per una volta l'esempio delle fascinose e letali creature marine è addotto non per significare i pericoli e le tentazioni del mondo, ma al contrario per indicare la forza di persuasione che la parola di Dio ha su chi legge con fede le Scritture. È come se la "voce di Dio", cioè la parola che, dal testo, risuona "fisicamente" agli orecchi del fedele, rendendo concretamente percepibile, con la sua sonorità, la presenza divina, trapassasse, se così possiamo dire, la pagina della Scrittura, trascendendone il piano discorsivo di esposizione e dimostrazione razionale della dottrina e quasi soggiogando, a somiglianza del canto delle Sirene, colui che vi si accosta.

Che cosa vuol dirci Clemente, con questo suo insistente richiamo all'immagine del canto del Lògos, al di là dell'indubbio fascino retorico della ripresa di motivi della letteratura e del mito greco, e del ricorso a un patrimonio di conoscenze musicali di cui fa sfoggio anche altrove nei suoi scritti? Forse per capirlo meglio dovremmo rivolgerci innanzitutto a quella corrente del pensiero greco che, da Pitagora, Damone e Platone in poi, aveva lungamente riflettuto sulla corrispondenza tra rapporti armonici e struttura cosmologica e sui rapporti tra musica ed ethos, cioè sugli effetti psicagogici del canto - una tradizione che era ben viva nell'Alessandria del ii secolo, che Clemente mostra di conoscere bene e nella quale si inserisce a pieno titolo. Non è questa la sede per addentrarsi nella ricostruzione di un sistema di pensiero molto complesso, che da un lato conosce posizioni differenziate, e non sempre per noi esattamente definibili, stante anche la nostra scarsa conoscenza della concreta pratica musicale greca e la conseguente difficoltà di afferrare pienamente il significato di certe affermazioni teoriche degli antichi trattatisti, e dall'altro ha dimensioni molteplici che coinvolgono la cosmologia, la medicina, e la politica. Qui basterà rilevare che gran parte di quella cultura è assolutamente convinta che tra musica, anima e mondo ci sia una corrispondenza strutturale, e che in forza di questa corrispondenza la musica sia in grado di agire potentemente sull'uomo:  essa non si limita a toccarne superficialmente la sensibilità o a provocare in modo irriflesso certe reazioni emotive, ma si imprime in profondità nell'animo, incide sull'ethos, arriva a trasformare la natura stessa dell'uomo, rendendolo migliore o corrompendolo, a seconda che si tratti di musica "buona" o "cattiva". La musica, in questa concezione, è la chiave che apre il cuore dell'uomo e penetra nell'intimo della sua coscienza:  basti ricordare che l'Alcibiade del Simposio platonico, per tributare a Socrate il più alto elogio, lo paragona a un flautista, le cui musiche "da sole rendono invasati e rivelano [chi sono] quelli che hanno bisogno degli dèi e delle iniziazioni, per il fatto che sono divine" (Simposio 215 c).

Che Clemente sia profondamente consapevole e attento al problema dell'influsso esercitato dalla musica sugli uomini, lo si vede chiaramente nella sezione del Pedagogo specificamente dedicata a questo argomento (Pedagogo ii 40-44), dove, all'interno di una più ampia trattazione su come il cristiano possa praticare la vita di società in modo conforme al Lògos, egli fa osservazioni molto particolareggiate sulle esecuzioni musicali durante i banchetti, mostrando notevoli competenze "tecniche". Vita cristiana e vita mondana, nella sua prospettiva, vengono quasi a contrapporsi sotto gli emblemi di due modalità di canto tra loro assolutamente dissonanti:  lo scontro tra il bene e il male, tra la vita della fede e la morte del peccato acquista l'evidenza sonora di una cacofonia. Parlare di forza psicagogica della musica, è bene ribadirlo, significa, in questo contesto, alludere a un'azione che non incide solo sulle manifestazioni esteriori dell'uomo, sulla sua "moralità" e sui costumi intesi come modi di comportamento esterno, ma opera una profonda e duratura trasformazione del suo habitus, una sorta di metamorfosi. Può essere illuminante, in proposito, il confronto con quanto Clemente dice all'inizio del iii libro del Pedagogo (1, 2-5):  rifacendosi alla tradizionale tripartizione platonica dell'anima umana, egli ne caratterizza la parte concupiscibile (tò epithymetikòn) nel segno del polimorfismo, mitologicamente simboleggiato dal mutevole Proteo e, citando un passo dell'Odissea che ne descrive le trasformazioni, interpreta allegoricamente il suo farsi "fluida acqua" come un simbolo delle passioni che si riversano e si abbattono come onde sulla bellezza dell'uomo. "Il desiderio, infatti, diviene ogni cosa e prende ogni forma e vuole sedurre, per far sparire l'uomo" (iii 1, 4). Viene così individuato un polo negativo, che provoca la distruzione dell'uomo, caratterizzato dalla mutevolezza, dall'instabilità, dal continuo fluire delle forme, sull'onda di una concupiscenza che è di per se stessa insaziabile. A esso si contrappone, nel segno del Lògos, il polo della stabilità, dell'identità che non cambia, che non deflette dalla sua traiettoria di progressiva assimilazione alla bellezza divina. Non sfugga l'analogia con quanto egli dice a proposito della musica:  varietà (poikilìa) e mollezza (hygròtes) non a caso, sono termini che impiega anche per qualificare la capacità delle harmonìai più pericolose e sensuali di insinuarsi nell'animo, indebolendolo e corrompendolo.

Se torniamo, con questa consapevolezza della partecipazione di Clemente alla dottrina dell'ethos musicale, all'immagine iniziale del Lògos-Canto, possiamo coglierne meglio il significato profondo. Presentare il Lògos non solo come parola proferita da Dio ma come parola "cantata", significa infatti metterne in evidenza il carattere, per così dire, performativo, cioè la capacità di fare ciò che dice, o meglio di essere una parola che è di per se stessa azione, gesto produttivo di effetti. Il canto, potremmo dire, è parola elevata a potenza, quanto alla sua efficacia psicagogica; considerato nel suo aspetto di evento produttivo di effetti morali, anzi di una duratura trasformazione dell'ethos di chi subisce la sua influenza, esso, nella metafora clementina si presta a significare che il Lògos-canto è più che semplice parola, è forza che agisce. La scelta di presentare, per prima cosa, il Lògos come canto divino che dispiega in tutto il cosmo la sua sonorità e raggiunge l'uomo con la sua vibrazione ha dunque una valenza molto forte, in quanto contribuisce a metterne in rilievo, sia pure implicitamente, la natura di soggetto che "agisce" nel mondo e nella storia. Mentre in Filone, come già osservava molti anni fa uno dei suoi più attenti studiosi, Salvatore Lilla, il Lògos divino, che pure gioca un ruolo importantissimo nell'etica ed è presentato come la fonte perpetua delle virtù, "rimane sempre la legge immanente dell'universo nel senso stoico e platonico e, di conseguenza, è solo la norma etica per l'uomo (...) per il cristiano Clemente il Lògos non è semplicemente la legge impersonale della physis e dell'etica, né rappresenta solo la ragione umana:  essendo un'unica cosa con Cristo, il suo intervento nella sfera umana è molto più concreto e personale. Egli insegna, educa, guida, è il pedagogo, sia quando è un principio metafisico sia quando, dopo la sua discesa sulla terra, agisce come persona storica".

L'immagine del canto, infine, sottolinea mirabilmente il carattere di azione che si svolge nel tempo, assunto dall'apparizione del Lògos e richiesto parimenti alla risposta dell'uomo. In un bellissimo passo del ix capitolo del Protrettico Clemente osserva che, proprio perché il Lògos canta, e il canto è essenzialmente "temporaneo", è "tempo cantato", e propriamente risuona solo nel presente, anche la risposta dell'uomo deve avvenire "oggi", mentre quel canto vibra. "Grande, infatti, è la grazia della sua promessa, se oggi ascolteremo la sua voce, e questo "oggi" si accresce in ogni giorno, finché si dirà "oggi". Infatti, fino al compimento di tutte le cose l'oggi e [la possibilità di] apprendere permangono; e allora il vero "oggi", il giorno di Dio, che non manca di nulla, si estende nei secoli. Ascoltiamo sempre, dunque, la voce del Lògos divino; l'oggi, infatti, è eterno, è immagine dell'eternità, il giorno è simbolo della luce, e luce per gli uomini è il Lògos, per mezzo del quale noi contempliamo Dio" (84, 5-6). Nella densa espressione di Clemente, "l'oggi e l'apprendimento", ci appaiono strettamente congiunti l'oggi della fede, il sì della libertà umana che, anche quando matura attraverso un lungo travaglio, conosce sempre un discrimine momentaneo, un punto nel tempo in cui avviene, e il percorso diuturno della conoscenza che dalla fede si diparte. A partire dal concetto del Lògos come persona, che agisce "oggi", si può dunque impostare anche la questione del rapporto tra pìstis e gnòsis in modo un po' diverso da come ha fatto molta parte della ricerca clementina, quando ha puntato l'attenzione o sulla distinzione tra vera e falsa gnosi, o sulla distinzione tra (vera) gnosi e semplice fede. In realtà, nella concezione di Clemente, fede e conoscenza, per quanto distinte come fasi dello sviluppo del rapporto dell'uomo con il Logos, sono però fondamentalmente unite per il fatto di essere entrambe "azioni" che corrispondono, "nell'oggi", all'azione del Logos stesso. La distinzione che gli sta a cuore è piuttosto da una parte quella tra la gnosi cristiana e una conoscenza filosofica che, pur senza essere una "cattiva conoscenza", appare inadeguata perché rimane astratta, e dall'altra quella tra la fede-conoscenza e una ortoprassi nominalmente cristiana che risulta assolutamente insufficiente in quanto non è metodo della conoscenza.


(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010)
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