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Quando Joseph Roth scriveva di Pio XII come il nemico delle bestie pre-apocalittiche

Ultimo Aggiornamento: 03/03/2010 18:55
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03/03/2010 18:55

Quando Joseph Roth scriveva di Pio XII

Il nemico delle bestie pre-apocalittiche


di Francesco M. Petrone

Uno dei tre volumi che raccolgono l'opera giornalistica di Joseph Roth contiene una breve nota del marzo 1939, a pochi giorni dalla incoronazione papale di Eugenio Pacelli, in cui l'autore di Giobbe - uno dei più famosi scrittori ebrei del Novecento, "il più compiutamente ebreo" degli scrittori di lingua tedesca, diceva Mittner, con quell'"intelligenza poetico-profetica" che gli riconosceva Italo Alighiero Chiusano - celebra Pio XII come il nemico per eccellenza delle belve "pre-apocalittiche" al potere in Germania.

Anche i biografi che hanno maggiormente messo in evidenza l'avvicinamento alla Chiesa di Roma del romanziere non hanno mai menzionato queste poche righe che forse, nella discussione attuale, assumono un piccolo rilievo. Non si tratta di un documento storico ma di una testimonianza letteraria. Non sta chiusa negli archivi, in attesa di scadenze e di rivelazioni, ma si offre docile ai rari lettori di un diario dimenticato. Raccoglie intuizioni sull'epoca demoniaca avvolte in una nostalgia cupa del mondo di ieri che può apparire fatua soltanto ai fatui, pensieri lucidi di perseguitati che scombinano le interpretazioni ideologiche.

 Cominciava l'ultima primavera nella vita di Roth. Ormai anche la sua amata Austria era finita da un anno nella gola del Terzo Reich, dissolto l'Impero danubiano, tramontato il sogno dei popoli federati nella corona degli Habsburg, una dozzina di lingue parlate, di etnie riconosciute per negare gli sciovinismi. Lui aveva  risposto all'Anschluss con Die Kapuzinergruft ("La cripta dei cappuccini"),  un'orazione funebre per la civiltà  europea.  Da  tempo  si  accendevano  roghi  dei suoi libri nei Paesi di  lingua  tedesca, ma il grande inviato continuava ostinatamente a pubblicare in Olanda o sui periodici dell'emigrazione. Si aggirava per la Francia, senza soldi, senza più editori e prestigiose testate per cui scrivere, consumandosi in estenuanti dialoghi di profughi.

Il 12 marzo c'era stato a San Pietro il solenne rito di inaugurazione del Pontificato di Pio XII e, forse suggestionato anche dalla liturgia e dal simbolismo del triregno che sottolineava la superiorità spirituale dei Papi sui sovrani terreni, Roth pubblica sull'"Österreichische Post", giornale dei monarchici austriaci stampato a Parigi, una considerazione sull'evento romano. L'abile giornalista descrive la fisionomia di Pacelli come se lo vedesse per la prima volta, ma è un artificio retorico per mettersi nei panni dei lettori. A loro racconta di un personaggio maestoso, una figura tra cielo e terra, che sfida i nuovi barbari:  "14 marzo. Il nuovo Papa è incoronato, e così comincia in mezzo all'anno un nuovo anno, una nuova decade. A giudicare dalla fisionomia e dalla postura, da asceta e uomo di mondo al contempo, questo papa sembra rappresentare, con uno zelo che ha come caposaldo la rinuncia, e una capacità scontata a rinunciare, uno dei più antichi ideali della Chiesa, lo spirito diplomatico, al quale non può e non deve abdicare mai. La Chiesa romana è una potenza soprannaturale impegnata a dare al mondo regole e norme, comandamenti e proibizioni. Sì, anche proibizioni. Perfino chi non la serve e non fa parte di essa deve poter ascoltare la sua voce. Ed è una delle sciocchezze più scontate pretendere che la Chiesa rimanga "impolitica". L'universalità del cattolicesimo non è solo da intendersi in modo orizzontale, ma - e forse ancora di più - verticale. Quello che lo caratterizza non è solo l'estensione ma anche la spinta verso la profondità. Per sua natura infatti il cattolicesimo mette le radici prima di diffondersi. Non può perdere di vista alcun aspetto della vita. Non la scuola, non la famiglia, non il lavoro, dunque neanche la "politica". In questo senso superiore e generale la Chiesa è eminentemente politica. Le bestie pre-apocalittiche che adesso dominano nella politica già presagiscono i veri motivi per cui perseguitano la Chiesa. Lei è l'unica che le danneggi veramente. E, ancor di più, semmai costoro  hanno  temuto  un Papa, temono  questo.  E  non si limitano a presagirlo, loro sanno già il perché". (Das Journalistische Werk, vol. iii, pp. 904-905).

Un'insolita apologia del cattolicesimo, con il punto di vista di chi è braccato in una fuga senza fine e cerca aiuto nelle antiche istituzioni. Poche righe in cui celebra la diplomazia del Papa che era stato nunzio in Germania, che aveva firmato il Concordato e ben cinquanta note di protesta rivolte al governo nazional-socialista per le sue ripetute violazioni:  dunque, lo conosceva bene.
Roth, che da giovane si firmava sui fogli rivoluzionari "der rote Joseph", Joseph il rosso, che ancora nel 1933 sembrava perplesso nei confronti di quel  Concordato,  si era accostato negli ultimi anni ai legittimisti austriaci nella Parigi degli esiliati, e sembrava riconoscersi in quella monarchia cattolica che gli aveva permesso di essere "contemporaneamente un patriota e un cittadino del mondo", come confessò nella prefazione del suo ultimo romanzo.

Mentre andava in pezzi l'Europa sotto i colpi del nazismo e del comunismo staliniano, mentre la stessa bimillenaria storia ebraico-cristiana sembrava arrivata al termine, lo rincuora "la sonnolenta ma oculata saggezza del crollato impero asburgico, così abile nel sopire quei nazionalismi e terrorismi che ora sembrano impazziti e, più ancora, lo conquista fino alla conversione, il materno realismo condito di metafisica della vecchia Chiesa di Roma" (secondo il ricordo di Chiusano nel centenario della nascita).

 Il romanziere Moma Morgenstern, conterraneo galiziano e compagno di esilio a Parigi, nel suo libro di testimonianza Joseph Roths Flucht und Ende (tradotto in italiano da Adelphi:  Fuga senza fine, 1995), estremamente critico sulla svolta "cattolica" dell'amico - fu lui a opporsi risolutamente, senza riuscirci, ai funerali con la croce - non poté fare a meno di accennare all'interesse di Roth per la figura di Pio XII, rammentando l'ironia con cui i suoi vecchi sodali del bistrot circondavano lo scrittore per questo desiderio di interloquire con il Papa attraverso i suoi nuovi sostenitori cattolici. In quell'esilio parigino, la marea nazista, che le argomentazioni  materia- liste  non  riuscivano  a spiegare, gli appariva  come  il regime dell'Anticristo, il regno dei demòni. "Ci avviciniamo a grandi catastrofi - scrisse in una lettera allo scrittore Stefan Zweig quando il nazional-socialismo prese il potere - die Hölle regiert" l'inferno comanda. E cominciò a guardare a Roma.
Sull'"Österreichische Post", Roth pubblicava una volta a settimana un "Diario giallo-nero", dai colori asburgici, nel quale tornò più volte sulle questioni cattoliche.
Così qualche giorno dopo l'elezione di Pacelli al soglio di Pietro, polemizzava con i pregiudizi dei marxisti e con la superficialità di molti editorialisti e osservatori delle cose vaticane, che avevano dato per scontato l'"ingresso dei barbari nel conclave", quasi si trattasse di un qualsiasi congresso di partito, per poi rimanere delusi accorgendosi che "gli uomini in nero non portano la camicia nera".

Un uguale imbarazzo notava nei giornali dell'estrema sinistra e in quelli goebbelsiani di fronte al nome del nuovo Papa. Del resto, concludeva con un richiamo al mito di Cadmo, "i denti di drago sono germogliati:  hanno seminato rivoluzioni e raccolto croci uncinate e fasci littori". E insistendo sulla generale perplessità dei giornalisti, come in una sospensione del tempo, un incantesimo, scriveva in "latino" parafrasando Eusebio di Cesarea con un gioco di parole benaugurante:  "In hoc sogno tacent omnes. In hoc sogno vinces, Pontifex"!

Erano i giorni in cui Roth componeva la Leggenda del santo bevitore, l'ebreo galiziano abituato ai miracoli chassidici si spingeva a fantasticare su un aiuto celeste della petite Thérèse, la santa Teresa di Lisieux nella Parigi dei disperati. Chissà che cosa avrebbe saputo scrivere di agiografico, l'autore della  moderna  mi- tologia asburgica, sul suo Carlo i, l'ultimo imperatore, portato alla  gloria degli altari  da  Giovanni Paolo II.

Pochi mesi dopo l'omaggio a Pio XII, il cantore della Finis Austriae moriva a Parigi in un ospedale dei poveri, a soli quarantacinque anni. Al suo funerale, tra corone di fiori degli Asburgo e cuscini rossi dei comunisti viennesi, gruppi di monarchici, di cattolici e di ebrei si accapigliarono in un litigio tra esiliati intorno alla bara. Il narratore di personaggi sradicati sembrava ritrovare tante radici.


(©L'Osservatore Romano - 4 marzo 2010)
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