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Il pensiero politico secondo i Padri della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 06/03/2010 22:30
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06/03/2010 22:30

Il pensiero politico secondo i Padri della Chiesa

Moralità civile e vita sociale


Pubblichiamo uno stralcio di una delle relazioni del seminario in corso a Milano al centro per la Dottrina sociale della Chiesa dell'Università Cattolica del Sacro Cuore sul tema "Alle radici della libertà. L'affermarsi dei diritti della persona in Occidente dalle origini al XVI secolo".

di Maurizio Ormas
Pontificia Università Lateranense

I Padri della Chiesa ripropongono in molti punti, arricchendole, le stesse concezioni politiche di Cicerone, di Seneca e dei giuristi. Ciò che fa la differenza, però, è costituito dal fatto che la società cristiana rende sperimentabili, non astratte o opzionali, le conseguenze di tali concezioni. Lungo un arco di tempo di circa sei secoli, da Clemente Romano (i secolo), a Isidoro di Siviglia (inizio vii secolo), i Padri hanno dato vita a un sistema omogeneo di pensiero, che consente di ordinare la materia per temi fondamentali. La teoria ciceroniana del diritto naturale, riletta alla luce del pensiero di Paolo (Romani, 2, 12-14), rappresenta uno dei punti in cui la concezione cristiana coincise, in genere, con quella del mondo occidentale. Per i Padri la legge naturale (la legge mosaica) doveva informare di sé lo Stato, e il loro pensiero è così sintetizzato da Luigi Sturzo:  "Il decalogo per la vita sociale, il Vangelo per la vita spirituale; il decalogo per lo Stato, il Vangelo per la Chiesa".

Quanto all'uguaglianza, i Vangeli la affermano come essenziale alla natura umana. Per san Paolo gli schiavi sono chiamati, come i liberi, a una vita spirituale e morale e a conoscere e amare Dio. Lo schiavo dev'essere trattato con giustizia dal suo padrone, dal momento che non è meno caro a Dio di lui. Questa idea riproposta dai Padri emerge, per esempio, nell'Ottavio di Minucio Felice, ove si dice che tutti gli uomini, senza distinzione, sono in grado per natura, non per fortuna, di ragionare, di sentire e di acquisire la saggezza. I successivi Padri della Chiesa, approfondendo tale dottrina, elaborano una teoria che spiega l'istituto della schiavitù come convenzionale. Colui che riassume più efficacemente questa posizione pare essere l'Ambrosiaster, che espone quattro principi relativi alla natura umana:  Dio ha creato gli uomini liberi; la libertà perdura anche nello schiavo, la cui condizione dipende dalla fortuna avversa ma non va oltre la corporeità perché la sua anima rimane libera; la schiavitù è conseguenza del peccato dell'uomo, la vera schiavitù è infatti quella dell'anima e i veri schiavi sono gli stolti; i padroni devono trattare i loro schiavi con giustizia e indulgenza. Considerazioni analoghe fanno anche Salviano, Agostino e Isidoro di Siviglia.

Queste affermazioni sono altresì corroborate dalla convinzione che i cristiani sono una sola cosa in Cristo, per cui, dice Ambrogio, la schiavitù non toglie nulla alla dignità dell'individuo. Quanto alle donne, egli ricorda agli uomini che la loro dignità risale alle origini:  "Tu non sei il suo padrone, ma suo marito; lei non ti è stata data per essere la tua schiava, ma per essere tua moglie (...) Restituiscile le sue attenzioni e sii grato per l'amore che prova per te" (Hexameron, v, 7).

Dopo il iv secolo, le dichiarazioni dei Padri contro la schiavitù divennero sempre più esplicite. Se i Padri del secondo secolo avevano insistito sulla libertà, quelli del quarto insisteranno sull'uguaglianza. Di conseguenza, una trasformazione fondamentale si stava verificando nella politica:  si affacciava sulla scena una forza esterna allo Stato che voleva definire i limiti della sua autorità. In effetti, quando Cristo disse:  "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", diede al potere civile limitazioni che esso non aveva mai conosciuto e che costituivano il ripudio dell'assolutismo e l'inaugurazione della libertà. Tale divenne il compito e l'interesse perpetuo dell'istituzione più energica e dell'associazione più universale del mondo:  la Chiesa.

Sembra chiaro, allora, che la filosofia politica dei Padri si basa sulla distinzione fra lo stato naturale o primitivo, con la sua legge e le sue istituzioni naturali, e lo stato storico, con le sue istituzioni convenzionali adattate alle nuove caratteristiche e circostanze della natura e della vita umana. Schiavitù, governo, proprietà, nello stato di natura non esistono:  essi vengono identificati dai Padri con la condizione dell'uomo dopo il peccato. Tuttavia, l'uguaglianza della natura umana domina ancora ogni ordine giusto, con il quale tutte le istituzioni devono in un certo senso accordarsi". I Padri giudicano lo Stato, infatti, sia un rimedio contro il peccato, sia una punizione per il peccato stesso, ma "di norma lo considerano uno strumento per assicurare e mantenere la giustizia, e ritengono che il principale dovere del sovrano sia proprio quello di rendere felice il suo popolo assicurandogli la giustizia". Era questo il senso dell'affermazione paolina circa il carattere divino dell'autorità dello Stato (Romani, 13, 1-3):  esso ha il compito di punire i malvagi e ricompensare i buoni. Così nel secondo secolo Ireneo minaccia il giudizio e la punizione divina ai governanti ingiusti e Clemente Alessandrino definisce il sovrano come colui che governa mediante la legge. Per Ambrogio, giustizia e beneficenza costituiscono la ragion d'essere dello Stato, ma la giustizia è superiore. In una lettera a Teodosio, egli afferma che i buoni governanti amano la libertà, i cattivi la schiavitù, mostrando di apprezzare particolarmente il valore della libertà nella vita dello Stato; altrove dice che l'imperatore è tenuto a osservare le leggi che egli stesso ha promulgato e non è superiore a esse.

La giustizia e la pace definitive appartengono solo alla Città Celeste, sostiene Agostino nel De civitate Dei, di essa non si dà compiuta attuazione nella storia non è quindi possibile identificare il Regno di Dio con alcuna forma storica di convivenza umana. Questo non significa rassegnazione al male, ma impegno, da parte di ciascuno, a realizzare il massimo di giustizia e di pace possibile in un determinato momento storico. Pace e giustizia sono continuamente insidiate, dal momento che l'ordine non è dato una volta per tutte ma è rimesso continuamente in discussione dai singoli esseri umani con i loro vizi e virtù. Solo il rigore morale dei cittadini può migliorare la vita sociale; la crisi degli stati dipende da un processo interno di disgregazione, "perché le leggi, che sono espressione di ciò che i consociati amano, si svuotano di contenuto e non esprimono più i desideri e i sentimenti dei cittadini" (De civitate Dei, xiv, 10). Senza un ordine giuridico non è possibile conseguire quel bene comune che è al fondamento della civitas.



(©L'Osservatore Romano - 7 marzo 2010)
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