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Necessità e natura della Conversione degli Ebrei

Ultimo Aggiornamento: 27/03/2010 17:36
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17/03/2010 18:31

Necessità e natura della Conversione degli Ebrei

La nuova preghiera Pro conversione Iudaeorum per la forma straordinaria del rito romano: un tentativo di analisi teologica.


I parte

Necessità e natura della Conversione degli Ebrei


1. Lo Status quaestionis.

Le difficoltà maggiori del dialogo inter-religioso tra la Chiesa Cattolica e gli Ebrei non riguardano né la negazione della Shoah - che nessun cattolico sano di mente nega -, né il riconoscimento dello Stato di Israele – il cui stato di fatto, pur unito a riserve sui trattamenti riservati talvolta ai palestinesi cristiani e non, oggi nessuno contesta -, né le critiche al Pontificato di Pio XII (più conseguenza che causa di dissapori).

La difficoltà maggiore è data dalla questione se il Cattolicesimo e l’Ebraismo possano essere considerate due vie parallele di salvezza o meno; se per un cattolico gli Ebrei si debbano convertire o arrivare al Cattolicesimo, oppure possano o debbano rimanere nella loro religione.

La scelta della seconda soluzione comporterebbe la fine della missio ad Hebreos.


In questi termini, in riferimento al problema teologico, si esprimeva già - non so con quali auspici di soluzione - il Cardinale Etchegaray, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (e recentemente tornato agli onori della cronaca per la frattura al femore durante l’aggressione al Papa la sera del 24 dicembre 2009):

"Fino a quando la teologia non avrà risposto in modo chiaro e sereno al problema del riconoscimento da parte della Chiesa della vocazione permanente del popolo ebraico, il dialogo ebraico-cristiano rimarrà superficiale ed amichevole, pieno di restrizioni mentali” [1].

Il Rabbino Riccardo Di Segni poneva, qualche anno fa, la stessa questione in questo modo:

“Il dato che segnalo, è che a 39 anni dalla Nostra aetate (…) non mi è parso di vedere - e sarei lieto se qualcuno mi potesse contraddire - un solo articolo di un cattolico dove si dicesse che i tempi sono cambiati e che un rabbino che si converte al cristianesimo non è più un obbiettivo e un ideale per la Chiesa Cattolica”[2].

E ancora, recentemente, Il Card. Kasper ribadiva il medesimo concetto

“Con questo si affronta la questione teologica più fondamentale dell'attuale dialogo ebraico-cristiano: c'è una sola alleanza o ci sono due alleanze parallele per ebrei e cristiani?”[3]

Dunque il vero problema è il seguente: se oggi incontriamo un nuovo Ratisbonne, che viene a chiedere il Battesimo, gli dobbiamo dire: “Bravo, vieni che ti battezzo”, oppure: “Torna pure alla Sinagoga; dopo il Concilio abbiamo capito che puoi rimanere tranquillamente Ebreo”? E, ammesso che giustamente desideriamo che il maggior numero possibile di Ebrei entri nella Nuova Alleanza, dobbiamo darci da fare anche per cercare di convincere gli Ebrei stessi, annunciare loro Gesù Cristo, oppure dobbiamo limitarci ad una silenziosa testimonianza?

Il problema è acuito dalla forte pressione, esercitata tanto da Ebrei quanto da sedicenti cattolici, per una soluzione che vada in quest’ultimo senso: così scriveva qualche giorno fa Riccardo Cascioli:

“Lunedì 18, ad esempio, nel Giornale Radio di Radio 2 alle 7.30, lo storico Alberto Melloni ha affermato che il fatto più importante della visita è la chiara rinuncia alla conversione degli ebrei da parte della Chiesa, cosa che discenderebbe dalla affermazione della irrevocabilità dell’Alleanza tra Dio e il popolo di Israele. Il giorno successivo è toccato al presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, chiedere – come ulteriore passo nel cammino di avvicinamento tra ebrei e cristiani – una rinuncia esplicita alla conversione degli ebrei che, secondo lui, è già implicita”[4].


2. La risposta nei documenti ufficiali.


Benché la pressione mediatica presenti come dominante l’idea che Ebraismo e Cristianesimo siano due vie parallele di salvezza, i documenti ufficiali parlano chiaro:

“Chiesa ed ebraismo non possono essere presentati dunque come due vie parallele di salvezza e la chiesa deve testimoniare il Cristo redentore a tutti”[5].

Né si può far risalire al Concilio la teoria delle due vie parallele; una retta oggettiva interpretazione del testo conciliare ci viene proprio dal rabbino Di Segni:

“C’è una frase nella Nostra aetate che non viene quasi mai citata, ma rivela il nodo del problema: "E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio..." dice il documento. È in qualche modo una ripresa dell’antico tema del verus Israel, che nella sua formulazione conciliare lascia aperto il problema: se "nuovo" popolo di D. significa che il vecchio non lo è più, o se insieme vecchio e nuovo hanno un ruolo nella salvezza. Il card. Bea, coraggioso difensore del documento conciliare, (…) non aveva dubbi su questo punto: spiegava che "naturalmente è vero che il popolo ebraico non è più il popolo di D. nel senso di istituzione di salvezza per l’umanità"”[6]

Inoltre il rabbino capo di Roma fa notare come anche l’allora Card. Ratzinger sembrava anche lui “seguirne la dottrina (…) quando afferma che:


“Nell’Antico Testamento [il popolo di D.] era il popolo d’Israele, da Cristo in avanti il nuovo popolo è quello dei suoi seguaci”[7].


D’altronde, il Cardinale Ratzinger stesso si era espresso in modo inequivocabile prima di essere eletto Papa: dopo aver ribadito che “Israele ha ancora un tratto di cammino da compiere”, alla domanda “Questo significa che gli Ebrei devono o dovrebbero riconoscere il Messia ‘?”, il futuro pontefice rispondeva “Noi crediamo di sì”[8].



3. Ancora lo scontro tra le “due ermeneutiche”.

Benedetto XVI si trova, anche per quanto riguarda la teologia dell’ebraismo, a dover dare energici colpi di timone per raddrizzare la rotta che l’ermeneutica della rottura vuole vanamente far prendere alla Chiesa.

I problemi di questa correzione di rotta sono enormi: da un lato un Pontefice romano non può che confermare i suoi fratelli ribadendo la verità, senza sconti; da un altro però bisogna non urtare la sensibilità degli Ebrei, al fine di non pregiudicare il dialogo con essi. Per un ebreo, la conversione dall’ebraismo ad altra religione è cosa gravissima[9].

Con l’espressione dialogo da non pregiudicare non intendo cedimento dottrinale, ma la realizzazione di quanto lo stesso Benedetto XVI si auspicava nel Discorso tenuto nella Sinagoga di Colonia:


“Infine, il nostro sguardo non dovrebbe volgersi solo indietro, verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani. Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo. Il Decalogo (cfr Es 20; Dt 5) è per noi patrimonio e impegno comune”[10].

4. La verità senza sconti.


Il papa ha parlato chiaro; ermeneutica della Riforma non vuol dire assolutamente ritorno al passato, ma progredire senza rotture con lo stesso passato.

E allora, insieme a tanta pazienza e carità mostrata dal Papa in varie circostanze, il termine conversione, riferito agli Ebrei, è riapparso in un documento del magistero.

Infatti, ancor prima della tanto contestata preghiera “pro Iudeis” per la forma straordinaria del rito romano - preghiera a cui non è stata tolta l’indicazione rubricale Pro conversione Iudeorum[11] -, il Papa diceva:

”Con la loro stessa esistenza i Dodici - chiamati da provenienze diverse - diventano un appello a tutto Israele perché si converta e si lasci raccogliere nell'alleanza nuova, pieno e perfetto compimento di quella antica”[12].


La benefica influenza di questa impostazione comincia anche a vedersi nei documenti di alcuni episcopati.

Non si possono che valutare positivamente le ultime prese di posizione - quasi una metamorfosi - dei Vescovi statunitensi.

Se nelle “riflessioni cattoliche” del documento congiunto del 12-8-2002 Reflections on Covenant and Mission[13] si arrivava a dichiarare che “gli Ebrei già si trovano in una situazione di alleanza salvifica con Dio” [14], abbiamo, quasi sette anni dopo (19-6-2009) - meglio tardi che mai - una Nota dottrinale importantissima dello stesso episcopato nord-americano: A Note on Ambiguities Contained in «Reflections on Covenant ond Mission».

In questo documento si dichiara che, sebbene la partecipazione cristiana al dialogo inter-religioso “non include normalmente l’esplicito invito al Battesimo e all’entrata nella Chiesa, l’interlocutore cattolico offre sempre la testimonianza per la sequela di Cristo, alla quale tutti sono implicitamente invitati”; e ancora viene detto che alcune affermazioni del documento in questione “porterebbero erroneamente a trarre la conclusione che gli Ebrei hanno l’obbligo di non diventare Cristiani e che la Chiesa avrebbe un corrispondente obbligo di non battezzare gli Ebrei”[15].

La recente affermazione del Card. Bagnasco, secondo cui “la Conferenza Episcopale Italiana ribadisce che non è intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei”[16], va intesa - se vogliamo salvarne l’ortodossia - non in senso assoluto; ma nel senso che non si deve fare proselitismo in modo scorretto; oppure nel senso delle dichiarazioni dei Vescovi statunitensi, che distinguono il dialogo inter-religioso dall’invito al Battesimo, senza però dichiararli incompatibili.

5. La nuova preghiera pro Iudeis.


E adesso, dopo aver visto la cornice in cui si colloca la nuova preghiera pro Iudeis, entriamo finalmente in medias res. E cominciamo proprio dal titolo rubricale Pro conversione Iudeorum.

Che importanza dare a un titolo rubricale? Niente di più di ciò che è, ma neppure niente di meno, considerando che nel Messale del 1965 il titolo era stato tolto[17], cosa che non viene fatta nella prima riforma che il Messale del 1962 subisce in quanto tale.


6. In che senso si deve parlare di Conversione degli Ebrei ?

Certamente l’espressione conversione è pertinente agli Ebrei, e rimane ancora valida in sé, perché in questo senso è propria della Tradizione della Chiesa ed è presente nella S. Scrittura.

“Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”[18].


Però dobbiamo ben intendere questa parola, perché la conversione degli Ebrei non è della stessa specie della conversione di un peccatore in generale o di un pagano o di un eretico: si tratta una conversione differente rispetto alla conversione da altre specie di incredulità[19].

La parola conversione indica comunque l’abbandono di una strada sbagliata, e l’ingresso in una via giusta.

Qual è dunque il costitutivo formale dell’incredulità degli Ebrei, cioè il terminus a quo della loro conversione?

Lasciamo la parola a San Tommaso d’Aquino: troviamo una magnifica risposta a questa domanda nella Somma Teologica, I-II, q. 104, art. 4, co.; il titolo dell’articolo è il seguente: Se dopo la passione di Cristo si possano osservare le cerimonie legali senza peccato mortale (… de duratione caeremonialium praeceptorum … utrum sit peccatum mortale observare ea post Christum). Esaminiamo ora il corpo dell’articolo:

“Tutte le cerimonie sono altrettante professioni di quella fede, che costituisce il culto interiore di Dio. Ora, l'uomo può professare la sua fede interiore con gli atti e con le parole: e in entrambi i casi, se professa della falsità, pecca mortalmente. E sebbene la fede che noi abbiamo del Cristo sia identica a quella che di lui avevano i Patriarchi, tuttavia poiché essi precedettero il Cristo, mentre noi siamo a lui posteriori, la medesima fede viene espressa con verbi differenti. Essi infatti dicevano: "Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio", usavano cioè verbi al futuro: invece noi ci serviamo del passato nell'esprimere la stessa cosa, dicendo che "concepì e partorì". Allo stesso modo, le cerimonie dell'antica legge indicavano il Cristo che doveva ancora nascere e patire: mentre i nostri sacramenti lo indicano già nato e immolato. Perciò, come peccherebbe mortalmente chi adesso, nel professare la fede, dicesse che Cristo deve nascere, cosa che gli antichi invece dicevano con tutta pietà e verità; così peccherebbe mortalmente chi osservasse ancora le cerimonie che gli antichi osservavano con pietà e con fede. Ciò corrisponde a quanto scrive S. Agostino: "Ormai non c'è più la promessa che Cristo deve nascere, patire e risorgere, come quei sacramenti in qualche modo ricordavano; ma c'è l'annunzio che egli è nato, ha patito ed è risorto, come dichiarano apertamente i sacramenti usati dai cristiani"[20].

Innanzi tutto notiamo che l’Aquinate afferma che la fede che noi abbiamo del Cristo è identica a quella che di lui avevano i Patriarchi; e questo non si può dire di nessuna altra forma di incredulità: e per questo che la conversione degli Ebrei è una conversione specifica.

Allora da che cosa è necessaria la conversione? Dal dichiarare come ancora da venire gli eventi salvifici che si sono già realizzati nella storia.

Altrove lo stesso Aquinate – citando S. Agostino, afferma che l’antico popolo dell’Alleanza era tutto prefigurativo: “la vita stessa di quel popolo era profetica, e figurativa del Cristo”[21]: l’incredulità, da cui è necessaria la conversione, è il misconoscere che il tutto essere prefigurativo del popolo dell’Antica Alleanza si è ora compiuto in Gesù Cristo.

In base a quanto detto, parafrasando il testo di San Tommaso pecca mortalmente – e quindi necessita, oggettivamente, di una vera e propria conversione - chi adesso, nel professare la fede, dice che Cristo deve nascere (anziché è nato), cosa che gli antichi ebrei invece dicevano con tutta pietà e verità.

Dopo aver visto il terminus a quo della conversione degli Ebrei, vediamo ora il terminus ad quem.

Questo termine è indicato nella nuova preghiera pro Iudeis: “ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum”; la preghiera è perfettamente conforme con quanto afferma San Tommaso, nel commentare 2 Cor 3,16 (“ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”):

“affinché questo [velo] sia tolto, non resta altro da fare che convertirsi, ed è quanto egli dice: «quando ci sarà la conversione», ossia di qualcuno di loro a Dio mediante la fede in Cristo, con la stessa conversione «quel velo sarà tolto»”[22].


7. Conversione o compimento?

Dopo aver affermato la giustezza e la liceità dell’espressione conversione degli Ebrei, vediamo ora se, in alcuni casi, non sia meglio dire che gli Ebrei devono arrivare a Gesù Cristo; cioè se, talvolta, il riconoscimento soggettivo di Gesù Cristo da parte di un singolo ebreo non sia piuttosto un compimento e un coronamento che una conversione.

Queste espressioni (compimento e un coronamento) risalgono al … Vaticano I, seppure non compaiano in un decreto ufficiale (sì avete letto bene Vaticano I e non Vaticano II).
Si tratta del Postulatum pro Hebreis, cioè una petizione che i sacerdoti Augustin e Joseph Lémann (due dei più illustri ebrei convertiti francesi del XIX secolo, che dedicarono poi la loro vita per la conversione del loro popolo), presentarono ai padri conciliari perché la sottoscrivessero[23]: il postulatum chiedeva al Santo Padre e al Concilio di rivolgersi agli Ebrei con un invito del tutto paterno (paterna quadam invitatio), perché questi credessero in Gesù Cristo. Questo testo raccolse l’adesione di ben cinquecentodieci Padri conciliari: i fratelli Lémann non andarono oltre nella raccolta, per non superare il numero delle firme di coloro che richiedevano la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale (cinquecentodiciotto). Pio IX fu entusiasta dell’iniziativa e promise che sarebbe stata messa in agenda per la successiva sessione del Concilio (che non poté tuttavia proseguire, a causa dell’invasione dei Piemontesi).

Ecco alcuni stralci del postulatum:

“I sottoscritti Padri, con umile e pressante preghiera, chiedono al Sacro Ecumenico Sinodo Vaticano che si degni di compiere un primo passo, con un invito del tutto paterno, nei confronti del sofferentissimo popolo ebreo: cioè di esprimere l’auspicio che essi, stremati da una lunga e vana attesa, si appressino infine, sollecitamente, al Messia Salvatore nostro, veramente promesso ad Abramo e preannuziato da Mosé: in questo modo non mutando, ma compiendo e coronando la religione Mosaica”[24].

Quanto sottoscritto dalla totalità dei Padri del Vaticano I, corrisponde ai sentimenti di Eugenio Zolli, ex rabbino capo di Roma: scrive a proposito Judith Cabaud:

«Quando gli chiedevano perché aveva rinunciato alla Sinagoga per entrare nella Chiesa, [Zolli] rispondeva: "Ma io non vi ho rinunciato. Il cristianesimo è il compimento della Sinagoga. La Sinagoga infatti era una promessa e il cristianesimo è il compimento di questa promessa. La Sinagoga indicava il cristianesimo; il cristianesimo presuppone la Sinagoga. Vedete, dunque, che l'una non può esistere senza l'altra. In realtà io mi sono convertito al cristianesimo vivente"»[25].

Dobbiamo quindi tenere presente che se, oggettivamente parlando, le cose stanno esattamente come le ha spiegate l’Angelico (cioè la negazione del compimento delle promesse antiche costituisce una colpa grave), non possiamo dire che tutti gli Ebrei dopo la venuta di Gesù Cristo siano nello stato soggettivo di peccato.

Per capire questi concetti, pensiamo a quegli Ebrei che frequentavano la sinagoga dopo la Resurrezione di Cristo, e ai quali Paolo insegnava nelle sinagoghe, argomentando che Gesù era il Cristo. L’Ebreo che aveva solo vagamente sentito parlare di Gesù Cristo e, soppesando le argomentazioni di San Paolo, accettava il Battesimo, non si è propriamente convertito (a differenza dei neofiti pagani), cioè non è passato da una falsa religione a quella vera, ma ha compiuto e coronato la sua religione.

Ma ora leggiamo un brano dagli Atti degli Apostoli:

“Percorrendo la strada che passa per Anfìpoli e Apollònia, giunsero a Tessalònica, dove c'era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine, Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti. E diceva: "Il Cristo è quel Gesù che io vi annuncio". Alcuni di loro furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un grande numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà.”[26].

Ora, soggettivamente, ciò che accadde a Tessalonica pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, può accadere anche oggi.

Mi si potrebbe obiettare: “Ma sono duemila anni che gli Ebrei conoscono Gesù Cristo; ormai ne hanno sentito parlare abbastanza”.

Ricordiamo che è dottrina tradizionale che l’obbligo di assentire alla vera fede c’è quando la singola persona è in condizioni soggettive – conosciute solo da Dio – di poter emettere il cosiddetto giudizio di credendità, cioè quando, come direbbe San Tommaso, vede che deve credere[27].

Non basta, per dovere credere, che una persona conosca la verità, ma è necessario che questa verità sia credibile per lui: cioè la credibilità gli deve essere evidente di certezza morale[28]. La grazia soprannaturale, causa radicale dell’atto di fede, non può che appoggiarsi questa certezza.
L’acquisizione di questa certezza è quasi sempre il termine di un lungo cammino. E la buona teologia ci dice che quando c’è la retta intenzione ci si può salvare in virtù della fede implicita, facendo parte dell’”anima della Chiesa”.
Ciò non significa affermare che automaticamente e necessariamente tutti gli Ebrei misconoscono Gesù Cristo senza colpa: come ogni cristiano può rendere vana per lui la grazia di Dio, anche un ebreo può perderla.
D'altra parte, sempre secondo san Tommaso - che ben riformula un adagio teologico medioevale -, “Dio non nega la grazia a chi, mosso da Dio stesso, fa tutto quello che può”[29].
E solo Dio ha le bilance per scrutare i cuori di ciascuno, Ebrei, Cristiani e chi altro; quindi solo Dio sa se un singolo ebreo rifiuta Cristo con o senza colpa. Solo se una verità viene infatti conosciuta come credibile, può e deve essere creduta. E, benché la Verità Cattolica sia oggettivamente credibile, possono esistere condizioni soggettive (la storia personale di ognuno) per cui essa è incolpevolmente rifiutata.

Scriveva Giovanni Paolo II:

“È evidente che, oggi come in passato, molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del vangelo, di entrare nella chiesa. Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose.
Per essi la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione”[30].

Queste sono le premesse delle teologia cattolica, che hanno ispirato anche Dante, quando scriveva:

“Ma vedi molti gridan «Cristo Cristo!»
che saranno in giudizio assai men prope
a lui che tal che non conosce Cristo”[31].

E tra questi, chi può dire che non ci siano tanti Ebrei?

Conclusione.


Alla luce di quanto detto, possiamo dire che la conversione degli Ebrei è sempre necessaria ed è una categoria della teologia cattolica. Ma ciò che è vero sul piano oggettivo, da un punto di vista soggettivo può essere un arrivo anziché un cambiare strada, un andare avanti anziché tornare indietro (come invece, etimologicamente, il termine conversione significa)

Nella valutazione morale soggettiva della singola persona, il crinale del passaggio dalla prima alla seconda fase della vera religione rivelata non è - quasi meccanicamente - il momento in cui si è squarciato il velo del tempio, ma il momento in cui un ebreo è in grado di compiere il giudizio di credendità, cioè quando è in condizione di vedere che bisogna credere.

L’ebreo peccherebbe se impugnasse la verità conosciuta: cosa che Gesù ha rimproverato ad alcuni scribi e farisei del suo tempo (Cf. Gv 9): allora sì che sarebbe necessaria una conversione dalla cecità spirituale e dall’aver professato colpevolmente come ancora da realizzarsi i misteri della nostra salvezza già realizzati.

E qui bisogna da un lato evitare una teoria simil-cristiani-anonimi applicata agli Ebrei: cioè dire che ogni Ebreo è trascendentalmente credente in Cristo anche se non lo sa o se non ne vuole sapere mezza. D’altra parte bisogna evitare di dire che tutti gli Ebrei che oggi rifiutano il Cristianesimo e non riconoscono Gesù come Messia sono – ipso facto – in stato di colpa grave.

E questa non è una novità post-conciliare: non basta sapere che Cristo c’è per essere obbligati a credere in lui, ma bisogna avere tutti gli elementi, anche soggettivi, per potere e quindi dover credere. Tanti Ebrei convertiti hanno riconosciuto Gesù al termine di un lungo cammino, e non si può dire che non fossero uniti a Cristo se non al momento materiale del Battesimo.

È evidente che la prima pietra del dialogo inter-religioso è la convinzione che l’interlocutore sia animato da buone intenzioni (anche se è chiaro che solo Dio sa questo), e che egli sta facendo quello che san Tommaso definisce quod in se est, tutto quello che può da parte sua.

E allora un ebreo di oggi, a cui viene rivolto l’annuncio cristiano, si trova in un stato di sincronia con l’ebreo della sinagoga a cui San Paolo annunciava il Vangelo “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco”[32]. E nel caso un ebreo riconosca Gesù Cristo, nelle fede, come salvatore di tutti gli uomini, in primis non si converte, ma corona la sua fede.

Quanto affermo è ben lontano dalle affermazioni secondo le quali non deve essere annunciato il Vangelo agli Ebrei. D’altra parte possiamo vedere quanto danno arrechi alla battaglia della Tradizione un antisemitismo stupido da duri e puri, che considera tutti gli Ebrei di oggi maledetti, decidi etc.

Vorrei citare alcune parole rivolte ad un ebreo non ancora convertito, da parte di San José Maria Escriva de Balaguer (che ha sempre detto la Messa di San Pio V, anche dopo la riforma liturgica):

“Io amo moltissimo gli Ebrei, perché sono follemente innamorato di Gesù, che è Ebreo; non dico era, ma è: Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula. Gesù Cristo è vivo ed è un ebreo proprio come te. E il secondo amore della mia vita è una donna ebrea, Maria Santissima, la Madre di Gesù; perciò rivolgo lo sguardo verso di te con grande affetto”[33].


* * *

La prossima tappa del nostro cammino di approfondimento della nuova preghiera per la conversione degli Ebrei sarà chiederci quando dobbiamo sperare questa medesima conversione. Si può sapere qualcosa di quando accadrà? Sarà solo contemporanea alla seconda venuta di Gesù Cristo, oppure avverrà nelle ultime fasi del tempo della storia che stiamo vivendo? E del piccolo resto d’Israele, che continuamente arriva nella Chiesa, dai tempi della predicazione di San Paolo nelle sinagoghe fino ai giorni nostri, quale cura pastorale si deve avere?

A Dio piacendo, proverò a pubblicare qualcosa prossimamente.

Don Alfredo Morselli
Stiatico di San Giorgio di Piano,
15 marzo 2010.


[1] A. Cagiati. ( a c. di), La salvezza viene dagli ebrei (Gv.4,22). Prospettive cristiane di dialogo. Carucci
 ed. 1987, p. 15, cit. in Lea Sestrieri, «50 anni di dialogo ebraico cristiano», www.nostreradici.it/50anni_dialogo.htm, sito visitato il 26 gennaio 2010.

[2] Riccardo Di Segni, «Percorsi fatti e questioni aperte 
nei rapporti ebraico cristiani oggi», Roma, 19 ottobre 2004, 5 Cheshwan 5765, presso la Pontificia Università Gregoriana, www.nostreradici.it/dialogo-DiSegni.htm.

[3] W. Kasper, «La discussione sulle recenti modifiche della preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei», L’Osservatore Romano, 10-4-2008, nota 5.

[4] R. Cascioli, “La conversione degli ebrei è ancora attuale?”, in tinyurl.com/y8eugkk; sito visitato il 1 marzo 2010.

[5] Segretariato per l'Unione dei Cristiani (Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo), Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi cattolica (24 giugno 1985), I, 7.

[6] Riccardo Di Segni, Ibidem.

[7] Il Tempo, 27-2-2004, pag. 7.

[8] J. Raztinger, Dio e il mondo: Essere cristiani nel nuovo millennio, in colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p. 133.

[9] Cf. ad esempio, R. Di Segni, “Problemi culturali delle conversioni”, in tinyurl.com/ykc8jj4, visitato il 1 marzo 2010. In occasione visita alla Sinagoga di Roma (13-1-1986) da parte di Giovanni Paolo II fu posta da parte ebraica la condizione che non fosse presente nessun convertito dall’Ebraismo: cf. R. Neudecker, I vari volti del Dio unico, Genova: Marietti, 1990, p. 54. Inoltre, lo stesso Di segni ha dichiarato che “Su questo mutamento del testo tutti i rabbini del mondo hanno dichiarato la loro preoccupazione, seppur con diversi livelli di allarme”. «Ebrei e cattolici. Dialogo o conversione?» Colloquio di Lia Tagliacozzo con Riccardo Di Segni, in tinyurl.com/ygcrl9t, visitato il 14 marzo 2010.
[10] 19 agosto 2005.

[11] La Nota della Segreteria di Stato riguardante le nuove disposizioni del Santo Padre Benedetto XVI per le celebrazioni della liturgia del venerdì santo (4-2-2008), dispone la sostituzione del testo della preghiera, e non dei titoli rubricali, di cui non si fa alcuna menzione e che perciò rimangono immutati. Cf. tinyurl.com/yb5x846, visitato l’ 8 marzo 2010.

[12] Benedetto XVI, Udienza Generale, Piazza San Pietro,
 Mercoledì, 15 marzo 2006

[13] Reflections on Covenant and Mission, Consultation of The National Council of Synagogues and The Bishops Committee for Ecumenical and Interreligious Affairs, USCCB, August 12, 2002. Un timido comunicato di pochi giorni dopo smentiva che le riflessioni cattoliche fossero una presa di posizione dell’intera Conferenza Episcopale degli Stati Uniti: “Press Release from the USCCB Office of Communications, August 16, 2002 [...] Cardinal Keeler, the U.S. Bishops' Moderator for Catholic-Jewish relations, said that the document, entitled Reflections on Covenant and Mission, does not represent a formal position taken by the United States Conference of Catholic Bishops (USCCB) or the Bishops' Committee for Ecumenical and Interreligious Affairs (BCEIA). The purpose of publicly issuing the considerations which it contains is to encourage serious reflection on these matters by Jews and Catholics in the U.S.” Cf. tinyurl.com/nxu4gl, visitato il 1 marzo 2010.

[14] “Thus, while the Catholic Church regards the saving act of Christ as central to the process of human salvation for all, it also acknowledges that Jews already dwell in a saving covenant with God”.

[15] "Though Christian participation in interreligious dialogue would not normally include an explicit invitation to baptism and entrance into the Church, the Christian dialogue partner is always giving witness to the following of Christ, to which all are implicitly invited"; e ancora “since this line of reasoning (alcune affermazioni del documento “Reflections on Covenant ond Mission") could lead some to conclude mistakenly that Jews have an obligation not to become Christian and that the Church has a corresponding obligation not to baptize Jews”; il corsivo è nostro.

[16] “22-9-2009, cf. tinyurl.com/yzfvelf, visitato il 14 marzo 2010.

[17] Variationes in Ordinem hebdomadae sanctae inducendae, (9 marzo e 19 marzo 1965).

[18] 2 Cor 3, 15-16: ἀλλ' ἕως σήμερον ἡνίκα ἂν ἀναγινώσκηται Μωϋσῆς κάλυμμα ἐπὶ τὴν καρδίαν αὐτῶν κεῖται: ἡνίκα δὲ ἐὰν ἐπιστρέψῃ πρὸς κύριον, περιαιρεῖται τὸ κάλυμμα.

[19] “… si infidelitas attendatur secundum comparationem ad fidem, diversae sunt infidelitatis species et numero determinatae”; San Tommaso d’Aquino, S. Th., IIª-IIae q. 10 a. 5 co.

[20] [38138] Iª-IIae q. 103 a. 4 co. 
Respondeo dicendum quod omnes caeremoniae sunt quaedam protestationes fidei, in qua consistit interior Dei cultus. Sic autem fidem interiorem potest homo protestari factis, sicut et verbis, et in utraque protestatione, si aliquid homo falsum protestatur, peccat mortaliter. Quamvis autem sit eadem fides quam habemus de Christo, et quam antiqui patres habuerunt; tamen quia ipsi praecesserunt Christum, nos autem sequimur, eadem fides diversis verbis significatur a nobis et ab eis. Nam ab eis dicebatur, ecce virgo concipiet et pariet filium, quae sunt verba futuri temporis, nos autem idem repraesentamus per verba praeteriti temporis, dicentes quod concepit et peperit. Et similiter caeremoniae veteris legis significabant Christum ut nasciturum et passurum, nostra autem sacramenta significant ipsum ut natum et passum. Sicut igitur peccaret mortaliter qui nunc, suam fidem protestando, diceret Christum nasciturum, quod antiqui pie et veraciter dicebant; ita etiam peccaret mortaliter, si quis nunc caeremonias observaret, quas antiqui pie et fideliter observabant. Et hoc est quod Augustinus dicit, contra Faustum, iam non promittitur nasciturus, passurus, resurrecturus, quod illa sacramenta quodammodo personabant, sed annuntiatur quod natus sit, passus sit, resurrexerit; quod haec sacramenta quae a Christianis aguntur, iam personant.

[21] “… vita illius populi prophetica erat, et Christi figurativa”: Summa Theologiae, Iª-IIae q. 100 a. 12 co. Ecco il testo esatto di S. Agostino (Contra Faustum, 22, 24), citato a senso da S. Tommaso: “Qua in re hoc primum dico, illorum hominum non tantum linguam, verum etiam vitam fuisse propheticam; totumque illud regnum gentis Hebraeorum, magnum quemdam, quia et magni cuiusdam, fuisse prophetam. Quocirca quod ad eos quidem attinet, qui illic erant eruditi corde in sapientia Dei, non solum in iis quae dicebant, sed etiam in iis quae faciebant; quod autem ad caeteros ac simul omnes illius gentis homines, in iis quae in illis vel de illis divinitus fiebant, prophetia venturi Christi et Ecclesiae perscrutanda est. Omnia enim illa, sicut dicit Apostolus: Figurae nostrae fuerunt” (trad.: Su tale argomento, dico in primo luogo che di quegli uomini fu profetica non solo la lingua, ma anche la vita, e che l'intero regno del popolo ebraico fu in qualche modo un grande profeta, in quanto profetizzò qualcuno di grande. Riguardo dunque a coloro che lì avevano il cuore istruito nella sapienza di Dio, bisogna cercare la profezia di Cristo che stava per venire e della Chiesa non solo in ciò che dicevano, ma anche in ciò che facevano; riguardo invece agli altri e ai componenti di quel popolo presi nell'insieme, essa va cercata nei fatti che per volere di Dio accadevano fra loro o rispetto a loro. Tutte quelle cose, infatti, come dice l'Apostolo, avvennero come figure per noi”.

[22] Super II Cor., cap. 3 l. 3 “Et ideo, ad hoc ut removeatur, nihil restat, nisi quod convertantur, et hoc est quod dicit cum autem conversus fuerit, scilicet aliquis eorum ad Deum per fidem in Christum, ex ipsa conversione auferetur velamen”.

[23] Storia e testi di questa vicenda in: Joseph et Augustin Lémann, La cause des restes d'Israel introduite au concile oecuménique du Vatican sous la bénédiction de S.S. le pape Pie IX, Lyon: Vitte, 1912. Per la storia dei fratelli Lémann, vedi Théotime de Saint Just, Les frères Lémann. Juifs Convertis, Paris, 1937.

[24] “A Sacra œcumenica Synodo Vaticana infra scripti Patres humillima instantique postulant prece ut et miserrimam Hebreorum gentem paterna quadam invitatione dignetur prœvenire : scilicet votum exprimere, ut tandem longissima inutilique expectatione lassati, ad Messiam Salvatorem nostrum vere promissum Abrahae et a Mose praenuntiatum festinent accedere : sic perficientes coronantesque religionem Mosaicam, non mutantes”. Cf: Ibidem, pp. 91-92.

[25] Judith Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo. La storia di Eugenio Zolli, rabbino capo a Roma durante la seconda guerra mondiale, prefazione di Vittorio Messori, Cinisello Balsamo (MI): San Paolo, 2002, p. 98.

[26] At 17,1.

[27] "…non enim crederet nisi videret ea esse credenda"; S. Th. II-II, 1, 4, 2.


[28] Scrive Cajetanus “Stat enim unum et idem dictum, ab un videri in ratione credibilis, et ab alio non: ex eo enim quod evidentia ista non convenit credibili ex parte rei semper, sed quandoque ex parte nostri, ideo variatur in diversi set exigit aliquam conditionem objecti relative ad nos”. Cit. da A. Gardeil, in «Credibilité», Dictionnaire de Théologie Catholique, III/2, col. 2284.

[29] “… facienti quod in se est - secundum quod est motus a Deo - Deus non denegat gratiam”; cf S. Th. Iª-IIae q. 109 a. 6 ag 2 e ad 2.

[30] Lettera Enciclica Redemptoris Missio, 10.

[31]Paradiso, XIX, 106-108.

[32] Rom 1, 16.


[33] Testo estratto da un video; vedi www.opusdei.us/art.php?p=24902.

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