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La pienezza dei poteri del Vicario di Cristo nella Chiesa del Duecento

Ultimo Aggiornamento: 22/03/2010 19:23
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22/03/2010 19:23

La pienezza dei poteri del Vicario di Cristo nella Chiesa del Duecento

Il rosso e il bianco


Nell'ambito dell'"Anno giubilare celestiniano" il 20 marzo si è tenuto a Sulmona un convegno sul tema "L'esperienza di Pietro del Morrone in un secolo fervido e tormentato", primo di una serie di incontri che si concluderanno in ottobre a L'Aquila. Pubblichiamo la relazione d'apertura.

di Agostino Paravicini Bagliani


Nella plurisecolare storia del papato il Duecento occupa uno spazio di notevolissimo rilievo.
A tutti i livelli - religiosi, ecclesiologici, istituzionali e politici, ma anche culturali, giurisdizionali e di autorappresentazione - i Papi di quel secolo hanno conferito al papato un ruolo di assoluta centralità in seno alla cristianità. 
I problemi della società cristiana furono discussi da tre concili, celebrati a Roma (Lateranense IV, 1215) e a Lione (Lione I, 1245; Lione II, 1274), che contribuirono a consolidare il ruolo legislativo promosso da Pontefici che erano sovente maestri di diritto e la cui produzione di decretali irrigò le varie diocesi della cristianità e l'insegnamento del diritto presso le maggiori università europee, anzitutto quelle di Bologna e di Parigi, la cui storia è nel Duecento indissociabile da quella del papato.

Il papato duecentesco è presente in tutte le grandi questioni che attraversano la società di quel tempo, dalla creazione degli ordini mendicanti alla formazione di una legislazione canonica che non aveva precedenti, dalla lotta contro le eresie ai movimenti religiosi femminili, da una politica di forte intervento nelle crociate a una vivacissima azione missionaria oltre che alla messa in opera di azioni diplomatiche ad ampio raggio con i mongoli, i principi islamici e così via. Persino sul piano residenziale, quel secolo segnala grandi novità:  Innocenzo III (1198-1216) fece edificare un nuovo palazzo a nord della basilica vaticana. Il nascendo Stato pontificio ma anche nuove sensibilità culturali - la paura della malaria, il piacere della natura - e aspre contingenze politiche (i conflitti con Federico ii e con la città di Roma) indussero i Papi del Duecento a vivere per più della metà del secolo fuori di Roma. E nel corso del secolo affidarono ai più grandi artisti italiani, da Cimabue a Giotto, da Jacopo Torriti ad Arnolfo di Cambio, il compito di fare di Roma la capitale artistica della cristianità occidentale e di sostenere con documenti visivi la plenitudo potestatis del Papa.

Non a caso soltanto con Innocenzo III il concetto di plenitudo potestatis entra nel linguaggio della cancelleria papale. Le formule proposte da Innocenzo III nei suoi sermoni e nelle sue lettere diventarono classiche e furono considerate come definitive. Innocenzo III aveva sostenuto il concetto di plenitudo potestatis con il ricorso alla regalità:  "Pietro è l'unico che è stato chiamato a godere della pienezza del poteri. Ho ricevuto da lui la mitra per il mio sacerdozio e la corona per la mia regalità; mi ha stabilito Vicario di Colui sul cui abito sta scritto:  "Re dei re e signore dei signori, prete per l'eternità secondo l'ordine di Melchisedek"".

 Un altro concetto chiave - quello di christianitas - si impone nel corso del Duecento, grazie proprio a Innocenzo III secondo cui il Papa è caput et fundamentum totius christianitatis, ossia "necessità e utilità di tutto il popolo cristiano". La fusione tra Ecclesia e christianitas appare nettamente nella lettera di convocazione del quarto concilio Lateranense (1215) che rinvia a una christianitas a un tempo ecclesiale e politica. Come nei concili dell'antichità cristiana, per la prima volta nel medioevo, un Papa invitò a prendere parte a un'assemblea conciliare non soltanto l'episcopato, ma anche gli abati e i priori dei monasteri, delle collegiali e degli ordini cavallereschi, oltre che i principi laici; insomma tutti i rappresentanti della christianitas, intesa nel senso più ampio di "società cristiana".

La centralità e l'universalità del papato sono sostenute da metafore e riflessioni di assoluta importanza che hanno però grandi implicazioni nella storia dell'autorappresentazione visiva della figura del Papa. In questa prospettiva, il titolo di Vicario di Cristo appare di estrema importanza, un titolo che Innocenzo III riservò esclusivamente alla figura del Papa. Già nel suo trattato sui misteri della messa, Lotario dei Conti di Segni, il futuro Innocenzo III, ricordava come il Papa debba rivestire paramenti rossi quando celebra il giorno della festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e paramenti bianchi nella festa della Cattedra di san Pietro (22 febbraio). In occasione delle due massime feste romane in onore di san Pietro, dunque, il Papa doveva quindi portare due colori, il rosso e il bianco che erano, secondo una grande tradizione altomedievale, colori cristici. Vestendosi di rosso (29 giugno) e di bianco (22 febbraio), il Papa rivestiva dunque i colori di Cristo, ossia della Chiesa romana. Lo affermerà con altre parole lo stesso Innocenzo III, nel sermone vi pronunciato al IV concilio Lateranense (1215):  il Papa è vestito di lino (ossia di bianco) perché in quanto sommo Pontefice "deve  attraversare  la  Chiesa universale".

Il discorso inaugurato da Innocenzo III si farà sempre più intenso nel corso del Duecento. Verso il 1286, il grande liturgista Guglielmo Durando conierà una definizione destinata a diventare classica:  "Il sommo Pontefice appare sempre vestito di un manto rosso all'esterno; ma all'interno è ricoperto di veste candida:  perché il biancore significa innocenza e carità; il rosso esterno simbolizza la compassione (...) il Papa infatti rappresenta la persona di Colui che per noi rese rosso il suo indumento".

Mai come prima del Duecento, i Papi ricorsero alle immagini pittoriche, e, verso la fine del secolo, persino alla statuaria, per sostenere la plenitudo potestatis del Papa. È una creatività che si esprime in affreschi, mosaici, statue che accompagnano l'azione storica del papato duecentesco.
Al centro del mosaico dell'abside della basilica di San Pietro fatta restaurare da Innocenzo III - l'affresco è andato perduto, tranne qualche frammento, all'inizio del Seicento quando si costruì la moderna basilica vaticana - era raffigurato il Cristo in trono benedicente, con ai lati san Pietro e san Paolo, inquadrati da due palme. Nella zona del fregio figurava la successione degli agnelli uscenti dalla città simbolica e convergenti verso l'Agnello, ai lati del quale si trovavano Innocenzo III e la Ecclesia romana. La Ecclesia romana era rappresentata da una figura di donna che portava il vessillo con le Chiavi ed era incoronata da un vistoso diadema gemmato. Anche il Pontefice portava la tiara e teneva le mani rivolte verso l'Ecclesia romana, un gesto che significava che nell'esercizio della sua "pienezza del potere", ecclesiale (pallio) e temporale (tiara), il Papa agisce su delega della Chiesa romana senza mediazione, perché il suo potere proviene da Cristo (Trono/Agnello).

Anche il programma pittorico ordinato da Niccolò III (1277-1280) nella cappella del Sancta sanctorum, consacrata prima del 4 giugno 1280, costituisce un documento di grandissima efficacia artistico-ecclesiologica. Niccolò III è rappresentato in effigie, nell'affresco della parete orientale, in atto di presentare il modello della cappella al Cristo in trono. Niccolò è raffigurato a metà inginocchiato e san Pietro lo aiuta a reggere la cappella. Il Papa è più vicino a Pietro che a Paolo, un chiaro riferimento all'apostolicità petrina e paolina del papato romano ma con il gesto della mano sinistra, Cristo accoglie lo sguardo che gli viene offerto dagli apostoli e dal Papa.

Nel magnifico mosaico di Santa Maria Maggiore, Niccolò IV (1288-1292), il primo Papa francescano, è invece rappresentato ai piedi di Cristo che incorona Maria Vergine che è qui - secondo una tradizione ecclesiologica romana che risale all'xi secolo - non soltanto la Madre di Cristo ma anche la sua Sposa e dunque il simbolo della Chiesa.
È dunque alla luce di questa prospettiva che si deve comprendere il messaggio ecclesiologico del busto di Papa Bonifacio VIII (1294-1303) che si può ammirare negli Appartamenti del Palazzo Apostolico (Sala dei Papi), una delle più celebri statue di Arnolfo di Cambio. Perché secondo studi recenti (Serena Romano), nel busto arnolfiano il gesto della mano destra del Papa appartiene a una tradizione iconografica in cui veniva raffigurato Cristo benedicente, come nel ritratto pre-iconoclasta di Cristo del Sinai.

L'abside di San Pietro restaurata da Innocenzo III, l'affresco del Sancta sanctorum di Niccolò III, il mosaico di Niccolò IV a Santa Maria Maggiore e il busto di Bonifacio VIII sono straordinari documenti storico-artistici attraversati da un identico itinerario ecclesiologico, rivolto a rendere visibile una delle grandi affermazioni del papato duecentesco, ossia il fondamento cristico della plenitudo potestatis del Papa e quindi il suo ruolo di centralità in seno alla christianitas.


(©L'Osservatore Romano - 22-23 marzo 2010)
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