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“LA RIFORMA LITURGICA E IL VATICANO II. QUALE FUTURO?”

Ultimo Aggiornamento: 15/04/2010 23:49
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15/04/2010 23:49

RECENSIONE DEL TESTO

“LA RIFORMA LITURGICA E IL VATICANO II. QUALE FUTURO?”

DI ANDREA GRILLO E MATTEO FERRARI, ED. PAZZINI, 2009.

A CURA DI MAURO FRANZINI (FUCI DI PAVIA)



“Siate quel che vedete, ricevete quel che siete.”

“Disporre l’assemblea è comporre la Chiesa”



Con queste parole – rispettivamente di St. Agostino e di papa Montini – Andrea Grillo, autore del primo contributo, ci invita a cogliere una dimensione fondante dell’azione rituale, ovverosia la profonda compenetrazione tra l’annuncio evangelico, a noi proposto nell’ottica della gratuità, e la vita del credente, il quale, attraverso una partecipazione attiva e consapevole al rito, consente alla sua esistenza di “simbolizzarsi […] come vita buona”. (pag. 7)

Queste ed altre importanti istanze hanno trovato una loro precisa configurazione nella riforma liturgica condotta dal Concilio Vaticano II. Tuttavia sarebbe un grave errore considerare tale “ristrutturazione” una sorta di “bene acquisito” (pag. 6), un regalo impacchettato di cui tutti possiamo ormai fruire a nostro piacimento. La principale difficoltà in cui tutt’ora ci si imbatte giace nell’eccessiva dose di ovvietà nella quale siamo soliti calare l’attuale forma liturgica, senza tener conto di quanto poco ovvia ma anche quanto desiderata fosse in precedenza.

Tale tensione verso la riscoperta di ciò che l’autore del secondo contributo, Matteo Ferrari, definisce i “tesori” fino ad allora quasi “tenuti lontani dalla vita spirituale cristiana” (pag. 50) è riscontrabile nelle parole del Cardinal Lercaro, arcivescovo di Bologna dal 1952 al 1968 nonché presidente del consiglio per la riforma liturgica. Nell’omelia in occasione del 50° anniversario di ordinazione sacerdotale (1964), a Concilio ancora in atto, egli fa memoria della propria formazione spirituale negli anni del seminario, della progressiva consapevolezza di come “tutto allora mancasse per rendere efficace quel luminoso principio” (pag 58) che è l’azione liturgica, e infine del suo entusiasmo verso la possente portata innovativa di cui il Concilio si faceva carico, e che a sua volta rimandava alla perpetua novità della testimonianza evangelica.

Ecco che dunque dare futuro alla Riforma Liturgica significa considerarla portatrice di un’esperienza di Chiesa sempre nuova e feconda, che si traduca nell’amore per Cristo e nella comunione con i fratelli.

Attraverso i punti nodali del messaggio liturgico, gli autori ci presentano limpidamente questa nuova concezione del rito, che ognuno di noi è chiamato a comprendere e a vivere.

In primo luogo – come già evidenziato – siamo esortati a scoprire la dimensione di Dono gratuito in cui l’azione rituale si identifica. La Domenica si trasforma pertanto in un “atto di amore” (lettera Dies Domini di Giovanni Paolo II, 1996), che travalica qualsiasi sistema contrattuale di diritti e doveri, per il quale rischierebbe di divenire “una logica troppo astratta, al cui interno posso fare di tutto, fuorché celebrare” (pag. 12), ma che al contempo ne rappresenta il fondamento insostituibile e necessario . Infatti proprio questo suo “donarsi” a noi, irrompendo costantemente nella nostra esistenza come momento festivo, riveste di significato il nostro tempo “umano”, le nostre regole, il nostro agire : “ è una dinamica tipica di una festa, quando un particolare giorno, che tu non hai scelto, si incarica di dirti il senso della tua esistenza come accoglienza, dono, un destino non di morte ma di vita, non di solitudine ma di comunione.” (pag. 34). Tale comunione si compie attraverso una molteplicità di piccoli gesti che tutti noi siamo invitati ad attuare (il canto, la processione offertoriale, lo scambio della pace etc.), gesti assai semplici ma fondamentali in quanto “supportano il senso del tempo, rinnovano corporalmente la memoria di derivare da contatti di grazia” (pag. 16).

Questo scambio fraterno di segni visibili tra i fedeli e il celebrante, che rinviano all’unione con Cristo, entra a far parte di un concetto più ampio e di portata notevolissima nella concezione del rito sacro: tutti i fedeli sono chiamati a prendere attivamente parte alla celebrazione, affermazione forse fin troppo scontata per noi oggi; ma è necessario compiere un salto indietro di pochi decenni per renderci conto delle profonde differenze di veduta.

Nella sua enciclica Mediator Dei (1947) papa Pio XII affermava che partecipare al rito significava avere in sé gli stessi sentimenti di Cristo, ma questo non secondo un atto comune, bensì per strade parallele: “il prete […] grazie al rito, i fedeli grazie alla novena di St. Antonio, grazie alla meditazione personale …” (pag. 24).

In seguito al Concilio tutto ciò subisce un mutamento radicale. L’intera assemblea diventa compartecipe dell’azione sacramentale, facendo sì che “la liturgia diventi un’unica azione di lode, di rendimento di grazie, di benedizione, un’unica azione di tutti per tutti” (pag. 25).

Questo concetto ha colpito Lercaro quasi come un’illuminazione. La partecipazione attiva non è per lui esclusivamente accessoria all’azione liturgica, ma “appartiene alla sua stessa natura” (pag. 61). L’assemblea dunque rappresenta “il luogo dove si mostra visibilmente la dimensione invisibile della Chiesa come corpo mistico di Cristo” (pag. 64), dove si riscopre un Mistero che ci precede e in cui troviamo piena realizzazione.

Da questa natura della celebrazione derivano quelli che Lercaro stesso chiama i “fasci di luce” , ovvero le conseguenze più significative: la proclamazione della Parola divina in maniera accessibile a tutti e – come si afferma nel Sacrosantum Concilium, documento programmatico conciliare - in base ad una più ampia e varia scelta dei brani, l’introduzione della processione offertoriale, della preghiera dei fedeli, del canto comunitario, profondamente radicato nel rito e della concelebrazione in cui “si manifesti l’unità del Sacerdozio.” (pag. 76)

Non è facile immaginare soltanto quante reazioni discordanti e quante controversie abbiano fatto seguito ad alcune di queste affermazioni, in special modo per quanto concerne le traduzioni di testi, di sequenze e gesti dalla lingua latina, ormai sconosciuta ai più. Questo non vuol dire espropriare la liturgia del suo portato “tradizionale” : anzi la tradizione può mantenersi tale solo se siamo “ disposti a cambiarla” (pag. 39), adattandola alle particolarità ma anche alle ricchezze delle singole culture. Diversamente essa rischia di divenire un mero reperto museale.

Lungi inoltre dalle intenzioni di Lercaro qualunque intento “archeologico”! Non v’è nulla di forzatamente erudito in queste nuove disposizioni, soltanto il desiderio di rendere nuovamente la liturgia il luogo di manifestazione più vera e comunitaria della Chiesa.

Ecco che con questo introduciamo un aspetto della celebrazione per noi abbastanza arduo da intuire, vale a dire - come premesso sopra - l’essenza “comunitaria” della liturgia. Perché arduo? Per il semplice fatto che, come riguardo all’ottica diritto-dovere, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un modo di essere che esula dalle nostre comuni categorie esperienziali. Abituati come siamo a concepire le nostre azioni nei soli ambiti del “pubblico” e del “privato”, questa dimensione ci riesce spesso sfuggente, tuttavia una volta abbracciata, è davvero in grado di trasformarci interiormente in quanto proietta “sotto l’occhio del Padre che ti ama, del fratello che ti riconosce e ti custodisce, che fa parte della tua famiglia, che non ti guarda come un estraneo.” (pag. 13) E’ la logica sacramentale del “riconoscersi riconosciuti” (E. Salmann) alla presenza di Dio e dei fratelli, del percepirci come comunità ecclesiale che sperimenta su di sé l’azione travolgente della grazia divina. Questa è la vera Chiesa: laddove una comunità si affida interamente a Cristo, sentendosi incapace di sostenersi con le proprie forze, e da Cristo continuamente si lascia sorprendere.

L’importante è che tale visione sappia permeare ogni aspetto della nostra vita: l’aspetto rituale, l’ambito familiare, oggi più che mai in crisi, le istituzioni; come già sottolineato, è un impegno non semplice, ma che la Chiesa deve saper promuovere: essa “non può privatizzarsi, se non vuole diventare una sette, un club filantropico, ma neppure può pubblicizzarsi, se non vuol diventare un’agenzia di servizi” (pag. 30) che l’aiuterebbe a riscuotere forse un discreto successo, ma senz’altro di valore effimero.

Sappiamo fin troppo bene come il mondo attuale sia fittamente attraversato dai “mass - media”, strumenti senz’altro utili ai fini della comunicazione a distanza ma che troppo spesso tendono a costituire basi ideologiche piatte e monocordi, a” massificare” appunto, attraverso i loro messaggi, le coscienze individuali a scapito dell’intrinseca “irripetibilità” di ciascuno.

Non è così che si fa esperienza di Chiesa: è innanzitutto necessario chiarire che la liturgia stessa non esiste per trasmettere messaggi, “non è mai riducibile ai nostri valori, alle nostre priorità” (pag. 20), è essa stessa che produce quei valori, che li propone, affinché noi ne facciamo tesoro. Questo è il senso di un’altra importante affermazione del concilio: liturgia come “fonte” dell’azione della Chiesa, ma anche come suo “culmine”, in quanto, partendo da essa, scopriamo intimamente la Verità che ci pone d’innanzi.

In secondo luogo c’è da dire che Chiesa e massa non potranno mai rappresentare un binomio accettabile. Lo spirito dell’”ecclesia” non risiede nel plauso generale o nel bombardamento mediatico, né tantomeno – come già accennato - in un modello settario ed esclusivo. Va invece rintracciato nell’apertura verso il prossimo, nel saperlo accogliere per quello che è, scorgendo in lui il segno tangibile dell’Altro e della sua Verità.

La liturgia ci spinge esattamente in questa direzione, verso la celebrazione compartecipata, la lode e la preghiera, ma lo fa in modo particolare, per certi versi “infantile”. Capita spesso di accorgerci come le letture stesse che ascoltiamo siano pervase da esperienze ”sensoriali” che parlano “al tatto, all’odore, al gusto, all’udito, alla vista, prima che alla mente” (pagg. 46-47). Questo per ricordarci di una cosa: è l’uomo integrale a far esperienza di Cristo: non solo il suo lato intellettuale, ma anche la sua corporeità, il suo lato infantile e giocoso vivono e gustano la bellezza del Sacramento. Anche in questo senso la liturgia è fons et culmen: “all’inizio – come stanno gli animali, i bambini, i primitivi e i pazzi - … alla fine – come noi sappiamo essere, al meglio di noi stessi, in quanto uomini adulti capaci di restare animali, bambini, primitivi e pazzi” (pag. 47).
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