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I cinque anni di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 01/05/2010 16:59
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I cinque anni di Benedetto XVI

L’umiltà del Papa rompe gli schemi

Lucio Brunelli

Cadono oggi cinque anni dall’elezione a Papa del cardinale Joseph Ratzinger. Della sua prima apparizione, quel pomeriggio del 19 aprile 2005 nella loggia delle benedizioni, ricordiamo le maniche nere di un maglione da poco che spuntavano sotto la tunica pontificia.

«Umile lavoratore nella vigna del Signore» si definì, e davvero lui si percepiva così.! Non suonarono retoriche quelle parole, sebbene molti di quelli che lo ascoltavano, giù in piazza san Pietro, sapevano che il nuovo Papa era un teologo di prima grandezza. Non suonarono retoriche perché davvero Benedetto XVI credeva (e crede) che a sostenere la barca della Chiesa tra i flutti del mondo non potevano bastare la correttezza di un’opinione teologica o l’acume di una riflessione culturale. «Il mio vero programma di governo – proclamò nella Messa d’insediamento – è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».

Con adorabile noncuranza della sua resa televisiva, timido e a volte impacciato, il supposto «gelido inquisitore» Joseph Ratzinger è entrato pian piano nel cuore di molti fedeli come il Papa dell’umiltà e della mitezza.
Il Papa spirituale che non vuole essere una rock star, che non mette la sua persona al centro ma richiama la Chiesa all’essenziale, al grande mistero della presenza viva di Gesù Cristo.

Il Papa della fermezza e il Papa riformatore che vede con lucidità le nuove piaghe della Chiesa, e vara provvedimenti efficaci per togliere più sporcizia possibile nei comportamenti del clero e delle gerarchie ecclesiastiche.

Ponendosi in questo modo Benedetto XVI ha scombinato parecchi schemi.
Ha difeso la semplicità della tradizione, e da garante dell’unità cattolica ha cercato di sanare lo scisma lefebvriano. Ma ha deluso i «ratzingeriani» fondamentalisti che da lui si aspettavano che occupasse tutto il suo tempo a lanciare anatemi al mondo e annientare il dissenso.
Diversità dichiarata in modo commovente a Brescia lo scorso novembre, quando si identificò nella risposta che Paolo VI diede ai critici che lo accusavano di eccessiva debolezza, di fronte ai sommovimenti del ‘68.
«Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a chiunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta… Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera».
L’anniversario del primo lustro da Papa cade in mezzo a un’altra tempesta, per lo scandalo dei preti pedofili. Piaga fra le più dolorose e umilianti della Chiesa.

Se a prevalere in lui fosse una preoccupazione di immagine, Papa Ratzinger avrebbe facile gioco a dimostrare, carte alla mano, quanto la sua azione non abbia paragoni, per incisività, rispetto a quella del suo venerato predecessore.
Potrebbe rivelare le resistenze che da cardinale incontrò (anche in certo entourage del Papa polacco) quando decise di indagare su alcuni alti ecclesiastici accusati di molestie sessuali.

Fortunatamente non è questo lo stile di Benedetto XVI. Bersagliato con accuse ignobili, non ha gridato al complotto, non ha puntato il dito contro ebrei e omosessuali.

Il 15 aprile, in una omelia pronunciata tutta a braccio, ha parlato degli attacchi alla Chies! a per il peccato di pedofilia come di una grazia, per fare penitenza e purificarsi. Così, paradossalmente, il Papa intellettuale sta iniziando a farsi amare proprio dalle persone più semplici e umili di cuore, ma infine sarà compreso e apprezzato anche da quanti ora si sentono lontani.

© Copyright Eco di Bergamo, 19 aprile 2010

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19/04/2010 18:36

Annuntio vobis gaudium magnum;
habemus Papam:
Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum Josephum Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Ratzinger qui sibi nomen imposuit Benedictum XVI

L'elezione di Sua Santità Papa Benedetto XVI
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19/04/2010 18:38

Il pranzo del Papa con i cardinali nel quinto anniversario dell’elezione. Il saluto del cardinale Sodano

Un’occasione per ringraziare Benedetto XVI, con affetto fraterno, nel quinto anniversario del suo Pontificato: con tale spirito, si tiene nella Sala Ducale del Palazzo apostolico un pranzo offerto al Papa dal cardinale decano del Collegio cardinalizio, Angelo Sodano. Al momento conviviale partecipano i 60 cardinali residenti nell’Urbe e spiritualmente anche i 121 porporati sparsi nel resto del mondo. Il servizio di Alessandro Gisotti.

Nel suo indirizzo d’omaggio, il cardinale Sodano ha innanzitutto ringraziato Benedetto XVI per il suo servizio alla Chiesa e al mondo. Una missione, ha detto, portata avanti “con grande generosità”. Il Collegio cardinalizio, ha affermato il cardinale Sodano, “è una grande famiglia, sempre unita al Successore di Pietro ed impegnata a vivere in un vicendevole spirito di comunione fraterna”. Certo, ha osservato il porporato, non si possono dimenticare “le sfide che il mondo moderno pone ad ogni discepolo di Cristo”. Ma, ha osservato, “ci sostiene la luce della speranza cristiana, con la certezza che la grazia del Signore continua ad operare in mezzo a noi”. Quella speranza nella Provvidenza, ha poi ricordato, che ha sempre guidato il cardinale Tomáš Špidlík, scomparso venerdì scorso. Il cardinale Sodano ha infine rinnovato la gratitudine al Papa per il suo messaggio di speranza, ed ha concluso il suo discorso con il beneaugurante “Ad multos Annos”.

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19/04/2010 18:42

La forza della ragione nel confronto con le altre religioni

Nei suoi primi anni ha rivelato tratti da ricercatore, umiltà, generosità e amore. Ha affrontato i temi fondamentali e lasciato cadere le inezie


Jacob Neusner

La battuta migliore della mia vita l' ho fatta una volta in palestra, a qualcuno che contestava le mie opinioni sulla squadra di baseball dei New York Yankees in confronto ai New York Mets: «Non cercare di prevalere su di me. Sono un professore, quindi ho sempre ragione!». Sfortunatamente, invece di prenderla sul ridere, il tizio mi tirò contro un asciugamano. Quando a uno studioso e intellettuale di successo è conferito lo status di infallibilità, ecco che cominciano i problemi. Uno studioso non ha bisogno che gli si dica che è infallibile. Già lo sa, ed è pagato per essere tale. La professione di ricercatore richiede integrità, razionalità e onestà intellettuale. Nei suoi primi cinque anni di papato, Ratzinger ha rivelato tutti questi tratti, insieme ad abbondante umiltà, generosità e amore. Tuttavia, il mondo ha bisogno di tempo per abituarsi a questo Papa-studioso, che affronta in modo diretto e senza esitazione i temi fondamentali e lascia cadere le inezie, quando possibile. I musulmani hanno compreso di che pasta fosse fatto questo Papa a Regensburg, quando, con un intervento molto profondo, Benedetto XVI ha messo in dubbio il contributo dell' islam alla civilizzazione. Gli anglicani hanno capito di che pasta fosse fatto questo Papa quando egli, in uno slancio di onestà, ha invitato il clero anglicano a entrare a far parte della Chiesa. Gli ebrei hanno capito di che pasta fosse fatto questo Papa quando Benedetto XVI ha fatto ritorno a una liturgia che questionava il credo ebraico. In tutti e tre i casi, la frattura è stata ricomposta e hanno prevalso le posizioni più moderate: con l' islam è stata fatta pace e con anglicani ed ebrei si è arrivati a una conciliazione.
Ma il Papa-studioso non aveva fatto altro che esprimere la verità così com' è sentita al cuore del cattolicesimo: l' islam non può competere con il cristianesimo in quanto a levatura morale, gli anglicani saranno sempre i benvenuti e gli ebrei starebbero molto meglio all' interno della Chiesa. Papa Benedetto parla come uno studioso e pronuncia verità cristiane così come le enunciava l' infallibile vescovo di Roma. Uno studioso non potrebbe fare a meno di agire in questo modo. La questione che al momento turba la pace è il modo in cui, in passato, il cardinale Ratzinger liquidò il caso di un prete colpevole di aver abusato sessualmente di alcuni bambini. La carità cristiana suggeriva di perdonare quel prete, un' anima penitente dilaniata e in fin di vita.
Il cardinale Ratzinger gli risparmiò le umiliazioni che una giusta punizione avrebbe comportato. Il prete morì in seno alla Chiesa e Benedetto XVI mostrò il vero significato di pentimento e amore cristiano.
Lo scorso gennaio, quando ho incontrato il Papa a Roma, gli ho domandato cosa intendesse fare quando, tra circa sei mesi, avrà completato il secondo volume del suo Gesù di Nazareth. Con un sorriso, mi ha risposto: «Nient' altro. Questo è il mio ultimo libro. Ho altre faccende da sbrigare». Uno studioso che smette di scrivere libri non mantiene a lungo tale titolo. Benedetto XVI non ha dovuto aggiungere: «Dopo tutto, sono il Papa». Ma l' accademico in me ha sussurrato: «A quale prezzo».
Ciò che il mondo ha imparato in questi cinque anni riguardo al Papa-studioso è il prezzo che l' accademia paga per sostenere la verità e mantenere la propria integrità. L' infallibilità ha i suoi costi. La gente preferisce politici capaci di mediare piuttosto che personaggi critici e inclini alle controversie. Questo è ciò che ci insegnano i papi-studiosi in generale. Ma ciò che io ho appreso da questo Papa-studioso in particolare è qualcosa di più. La genuina integrità di quest' uomo e la sua capacità di esporre la verità all' umanità intera muovono interessi molto forti. E per questo anche i musulmani, gli anglicani e gli ebrei devono prepararsi a un dibattito di alto profilo sulla ragione e la razionalità condivisa e trovare un punto d' incontro sui conflitti che cercano di stabilire chi è dalla parte giusta e chi da quella sbagliata e che cosa ci prescrivono le Sacre Scritture e la tradizione.

(Traduzione di Esther Leibel)

© Copyright Corriere della sera, 18 aprile 2010 consultabile online anche
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19/04/2010 19:24

  I cinque anni di pontificato di Benedetto XVI

La restaurazione dell'intelligenza


di Alain Besançon

L'elezione del cardinale Joseph Ratzinger al soglio di Pietro, cinque anni fa, è stata accolta con fiducia dalla Chiesa cattolica e dai cristiani di tutto il mondo. Ci si ricordava dell'importante "squadra" che aveva costituito con il suo predecessore, Giovanni Paolo II. Il Papa polacco, dotato di una forte personalità e di un carisma irresistibile, aveva avuto la saggezza, e si può dire l'umiltà, di volere accanto a sé una grande mente alla tedesca, che aveva ricevuto una formazione classica più completa della sua; un Herr Doktor Professor, il più preparato custode della fede ricevuta  dagli apostoli. Giovanni Paolo II lasciava - si pensava - una Chiesa rimessa in piedi. Si riteneva che la Chiesa avesse allora bisogno di calma e di riflessione. Nessuno era meglio preparato per questo di Benedetto XVI, ed egli ha mostrato fin dai suoi primi atti quale sarebbe stato lo spirito del suo pontificato.
Il suo nome è quello del saggio Benedetto xv che cercò invano di mettere fine alla prima guerra mondiale, quello di Benedetto XIV, il Papa dell'illuminismo, così dotto e dalle ampie vedute, quello di san Benedetto, il padre fondatore dell'Europa. La sua prima enciclica, Deus caritas est, metteva fine alla confusione, così tipica del nostro tempo, fra l'èros, l'agàpe cristiana e la philìa degli antichi. Egli non condannava assolutamente Eros, fonte di ogni vita, ma lo metteva al suo posto, cioè al servizio dell'Amicizia e della Carità. Allo stesso modo, la seconda enciclica indicava il giusto discernimento fra la virtù della speranza e ciò che si può ragionevolmente  sperare,  insomma  le  falsificazioni utopiche e rivoluzionarie. Benedetto XVI si è battuto instancabilmente per la chiarezza e la precisione. Nulla gli sembrava più pericoloso del relativismo che si accorda con la società democratica moderna:  qualsiasi gruppo organizzato può legittimare un'opinione solo perché è la sua opinione, senza doverla sostenere con la ragione. In campo religioso, il corrispondente del relativismo è l'umanesimo vago, ostile alle affermazioni dogmatiche perché creerebbero frontiere e provocherebbero conflitti. Ovvero:  è un male proclamare la verità, è un male in sé avere dei nemici.
Si è visto bene che questo Papa si è dato un compito dall'ampio respiro:  la restaurazione dell'intelligenza, in seno alla Chiesa. La Riforma, la rivoluzione francese, il comunismo, il nazismo, erano stati altrettanti choc drammatici che minacciavano la Chiesa nella sua sopravvivenza e che non lasciavano assolutamente posto all'otium, quello svago tranquillo di cui il pensiero ha bisogno. Il Papa ha indicato ciò che bisognava fare pronunciando nel Collège des Bernardins a Parigi una magnifica lezione, degna dei più augusti Padri della Chiesa. Bisognava approfittare di quel momento di pace per compiere un lavoro approfondito. In particolare, si sarebbe potuto riflettere anche sulla struttura amministrativa della Curia che risaliva fondamentalmente al concilio di Trento, e che il concilio Vaticano ii aveva cercato di alleggerire. Il Papa, grande appassionato di musica, si era fatto portare il suo vecchio pianoforte. Aveva del tempo davanti a sé, o così sembrava.
Ebbene, non l'ha avuto. La storia è imprevedibile. In cinque anni il Papa ha dovuto affrontare due accidenti inattesi.
Come  i  suoi  predecessori,  Benedetto XVI si è votato alla causa dell'ecumenismo. Ha salutato con gioia l'accordo raggiunto con le comunità luterane. Da parte dell'Ortodossia la fase di stallo dura, sebbene non ci si possa rassegnare al fatto che queste Chiese siano separate da quella di Roma dalla stessa fede, come si dice che l'Inghilterra e l'America sono separate dalla stessa lingua. È troppo presto per giudicare i risultati del cammino cominciato in direzione dell'anglicanesimo. D'altro canto il Papa ha cercato di trovare una buona intesa con le religioni non cristiane. È allora che si è posta in modo acuto la questione dell'islam. Primo accidente.
Il discorso di Ratisbona era dotto, moderato, benevolo. Ha però suscitato subito reazioni molto violente, mettendo in pericolo le ultime Chiese cristiane che sopravvivono nella condizione di Dhimmi. Ha rivelato anche l'incomprensione degli attivisti umanitari, i quali non sopportano che l'islam sia separato dal loro cristianesimo nebuloso da differenze di fondo. Evidentemente, se si considerano l'Incarnazione, la Redenzione e la Trinità misteri superati e senza importanza, cosa impedisce di accogliere l'islam come una varietà della stessa religione per tutti? Quella reazione sproporzionata ha rivelato innanzitutto l'ignoranza drammatica del clero e dei fedeli riguardo alla religione dell'islam, e senza dubbio alla propria, poiché non si può comprendere l'una se non si comprende l'altra. Di nuovo il bisogno di un raddrizzamento dell'intelligenza cristiana s'impone in maniera assoluta. San Tommaso d'Aquino alla domanda se la stupidità (stultitia) fosse un peccato, rispondeva che lo è quando ha come causa l'aver dimenticato le cose divine. Secondo lo stesso Dottore, l'ignoranza è anche un peccato quando concerne cose che si è tenuti a sapere.
L'altro accidente si è prodotto a livello molto più basso. Numerose e antiche questioni di pedofilia sono bruscamente venute alla luce, orchestrate da un vortice mediatico di quelli che le nostre società generano sempre più spesso, ma che questa volta ha assunto un'ampiezza inaudita. Si rimprovera al clero cattolico di aver voluto tacere e nascondere fatti incontestabili, e spesso così è stato.
Vorrei a tale proposito fare due osservazioni.
La prima è che la scala dei crimini, nell'ultimo mezzo secolo, ha subito nell'opinione pubblica un rimaneggiamento considerevole e che spesso il diritto si è accodato a quest'ultima. In materia sessuale, molti atti sono oggi consentiti, a volte lodati, atti che in altri tempi venivano puniti con pene molto severe. Il peso di queste colpe ormai perdonate si è riversato completamente sull'atto di pedofilia, l'ultimo a essere proibito in questo ambito.
La seconda è che il punto di vista proprio della Chiesa è quello dell'offesa a Dio e che il peccato è per essa una nozione distinta da quella del crimine o del delitto. La Chiesa non scusa il crimine, lascia al magistrato il compito di punirlo, ma la valutazione del peccato spetta a lei ed è sottoposta alla sua giurisdizione. Ha il potere delle chiavi, assolve o non assolve.
Ora la prima cosa che sa e dice la Chiesa è che l'uomo è peccatore. Lo ricorda in tutte le sue preghiere, come un tratto identitario dell'uomo. Ora pro nobis peccatoribus. "Non faccio il bene che amo e faccio il male che odio". Davanti alla colpa più spaventosa, non si stupisce:  "Siamo tutti capaci di tutto", scriveva santa Teresa del Bambin Gesù. È dunque per uno strano pregiudizio che ci si sorprende del fatto che alcuni uomini, solo per avere abbracciato lo stato clericale, non siano diversi dagli altri e forzatamente migliori. Non è stato trovato finora il modo per rendere gli uomini diversi da quello che sono:  orgogliosi, avidi, lussuriosi, collerici, sempre peccatori. Non è attraverso un esame psicologico o medico previo che ci si riuscirà.
Ciò non toglie che l'immenso mälström mediatico trascina con sé cose che non c'entrano nulla:  il matrimonio dei sacerdoti, l'ordinazione di uomini sposati, e così via, questioni radicalmente diverse. Tali questioni avventizie rivelano odio per il nome cristiano o una perdita di autorità e di fiducia nella Chiesa cattolica. In ogni caso, tocca al Papa portare il fardello di questa confusione. Il suo pontificato dopo cinque anni mi sembra doloroso. Giovanni Paolo II combatteva contro un regime politico mostruoso, il comunismo, ma aveva dalla sua parte la società e l'umanità intera. Benedetto XVI ha contro l'insieme della società moderna,  quella nata dalla crisi degli anni Sessanta, con la sua nuova morale e la sua nuova religiosità. Si ritrova in una situazione analoga a quella di Paolo vi,  quando,  dopo  il concilio Vaticano ii, dovette affrontare quella che chiamò "l'autodemolizione" della Chiesa. Questa volta è  l'autodemolizione  di  tutta  la società, della natura e della ragione. La gloria del suo pontificato non è visibile. È quella del martirio.


(©L'Osservatore Romano - 19-20 aprile 2010)
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21/04/2010 12:23

Ferruccio de Bortoli e il cardinale Tucci sul pontificato di Benedetto XVI

Un'identità forte per parlare con tutti


Milano, 20. "Con Benedetto XVI l'identità cristiana dialoga e rispetta le altre identità, dalle quali chiede a sua volta di essere rispettata. L'essere cristiani non vuole dire essere depositari di una serie di colpe storiche, cosa che qualche volta mi sembra di notare anche nella pubblicistica italiana, ma è qualcosa che incarica di una serie di responsabilità, nel rispetto e nella solidarietà degli altri. E che contempla non soltanto l'affermazione dei valori non negoziabili ma anche di una serie di valori sociali e morali, altrettanto necessari in un mondo sempre più distante, egoista e materialista". È uno dei passaggi dell'intervista rilasciata ieri dal direttore del "Corriere della Sera", Ferruccio de Bortoli, a "Il Sussidiario.net", in occasione del quinto anniversario dell'elezione  di  Benedetto XVI, un Papa "visto come conservatore" ma che "in realtà ha avviato un confronto a tutto campo molto forte". Egli - spiega de Bortoli - "non chiude il dialogo, lo apre in forme diverse:  con la scienza, con gli Stati, con il mondo laico. La Chiesa di papa Ratzinger, forte della  propria  identità, dialoga senza alcun complesso di inferiorità e  senza  rinunciare a nessuna parte di se stessa. C'è che Benedetto XVI soffre l'handicap della percezione di un Papa tedesco nelle opinioni pubbliche occidentali, soprattutto nel mondo anglosassone. Proprio per questo sarà interessante il viaggio in Inghilterra".
Sulle sfide che il pontificato di Benedetto pone alla società, il direttore del "Corriere della Sera" osserva come al Papa interessi "un dialogo costruttivo sul versante della morale, dei valori etici non negoziabili. Ma anche sul terreno della presenza sociale della Chiesa. E questo aspetto, a differenza del primo, è rimasto secondo me un po' in subordine. È un difetto che ho riscontrato nel dibattito sulla presenza cattolica nella nostra società". C'è oggi - ha osservato ancora de Bortoli - "un nichilismo imperante che spesso e volentieri dà contro il cristianesimo. Anche nella polemica sul tema, purtroppo triste, della pedofilia c'è una parte della società italiana che assiste da spettatrice non interessata, qualche volta annoiata e qualche volta compiaciuta, a questa disputa che vede il Papa e la Chiesa accerchiati, per molti motivi. Naturalmente, anche per errori commessi". Tuttavia, "La Lettera pastorale ai cattolici d'Irlanda ha un peso rivoluzionario. La Chiesa è chiamata al risarcimento e sta facendo la sua parte, ma sono convinto che sia ancora oggi oggetto di una crociata", che è "dettata da pregiudizi e interessi. Penso con sofferenza alla quasi totalità dei preti che fanno il proprio mestiere ma che probabilmente, oggi, escono di casa con un timore in più. Non è giusto, perché la pedofilia riguarda tutta la società".
Proprio sulle colonne del "Corriere della Sera", domenica scorsa, anche il cardinale Roberto Tucci ha scritto dei primi cinque anni di pontificato di Benedetto XVI:  "Quando anni fa - scrive nel suo articolo intitolato "Una lingua nuova capace di parlare ai fedeli e agli atei" - si parlava della sua speranza di essere messo a riposo, di ritornare ai suoi studi, ho sempre pensato che il desiderio più grande del cardinale Joseph Ratzinger fosse di potersi dedicare alla ricerca di un linguaggio nuovo, ciò che già aveva cominciato a fare con le lezioni raccolte in quel libro magnifico che è Introduzione al cristianesimo:  proseguire su quella linea, trovare un linguaggio alto che tuttavia sia comprensibile a tutti, ai semplici fedeli come alla gente in ricerca, a chi non crede o a chi crede di non credere. Avevo già più di ottant'anni e non ero un cardinale elettore ma nel 2005, se avessi partecipato al conclave avrei votato sicuramente per lui. Mi sembrava la persona più degna:  un grande teologo che è, soprattutto un uomo di grande spiritualità. E quando venne eletto pensai subito che sarebbe stato un grande pontificato, un pontificato che avrebbe fatto la storia. Questi cinque anni me lo hanno più che mai confermato".
Benedetto XVI - ha scritto il cardinale Tucci - "è un Papa che ha cercato e trovato un linguaggio nuovo:  nelle omelie, nelle udienze del mercoledì, nelle encicliche. È importante l'immagine biblica del "cortile dei gentili", l'atrio esterno del Tempio di Gerusalemme, che ha evocato di recente parlando del dialogo con i credenti". Il Pontefice "è convinto che tanta gente sia in ricerca ma non trovi una persona che li aiuti a mostrare ciò che c'è già dentro di loro:  quasi un metodo maieutico, socratico. Sbaglia chi ritiene che il Papa sia in una posizione di conflitto con la cultura del nostro tempo. Se c'è uno che conosce bene il pensiero laico contemporaneo è Benedetto XVI, come si è visto ad esempio nel confronto con Jürgen Habermas. La sua cultura è vastissima, anche se non la fa mai pesare. E quando discute, certo, non molla. Ma una cosa è sicura:  colui che discute con il Papa si rende conto che il Papa lo capisce, lo ascolta e lo capisce. Anche se non è d'accordo con la sostanza, si sente che ti ha ascoltato e ne tiene conto".
Anche sulla questione degli abusi - ha sottolineato il cardinale Tucci - Joseph Ratzinger "sin da quando era cardinale ha mostrato una capacità d'intervento tempestivo, chiaro, anche compromettente". Da buon intellettuale "Benedetto XVI ci pensa a fondo e, una volta deciso, affronta i problemi senza paura:  come ci ha mostrato nella lettera ai cattolici irlandesi". Secondo il cardinale "ci vorrà tempo per giudicare" il pontificato di Benedetto XVI "e per vedere, dagli effetti delle sue decisioni, che aveva visto giusto".



(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)
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27/04/2010 18:56

La ristampa anastatica e la prima traduzione italiana del "De Europa" scritto nel 1453 dal futuro Pio II

Da Enea a Benedetto


Nel quinto anniversario dell'elezione al Pontificato, il presidente della Repubblica Italiana offrirà il 29 aprile a Benedetto XVI un concerto in suo onore nell'Aula Paolo vi in Vaticano. Nell'occasione il presidente consegnerà al Papa un'edizione in ristampa anastatica (accompagnata dalla prima traduzione italiana realizzata da Francesca Macino) del "De Europa" di Enea Silvio Piccolomini. Il volume - un'edizione fuori commercio realizzata in 500 copie dall'editore Magnus e dalla Biblioteca Apostolica Vaticana per iniziativa dell'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede - vuole esprimere un particolare apprezzamento per gli sforzi del Papa nel far progredire una corretta visione europea. Pubblichiamo qui sotto la prefazione del presidente della Repubblica Italiana e stralci dei saggi dell'Ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, a destra, e, infine, dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

di Giorgio Napolitano

È ben curioso che quest'opera di un grande umanista quale fu Enea Silvio Piccolomini, poi Pio II, dal titolo per quell'epoca sorprendentemente moderno e ancora oggi fortemente suggestivo, sia rimasta per mezzo millennio nota solo a pochi studiosi e mai tradotta in lingua italiana.

Non posso che rallegrarmi che la nostra Ambasciata presso la Santa Sede, sostenuta dalla generosità di una delle più importanti fondazioni bancarie italiane, abbia preso l'iniziativa di provvedere alla traduzione dell'opera, di corredarla del prezioso testo introduttivo di monsignor Gianfranco Ravasi e di curarne la pubblicazione in facsimile dell'incunabolo del 1490 e in edizione italiana.

 Il disegno dell'impresa, da me condivisa, è ovviamente quello di richiamare un parallelismo implicito tra la figura di un grande uomo italiano, Enea Silvio Piccolomini, che ebbe la ventura di vivere e di conoscere in profondità la Germania e divenne poi Papa, con quella di un grande uomo di cultura tedesco, Joseph Ratzinger, che ha vissuto più di trent'anni in Italia ed è divenuto Papa con il nome di Benedetto XVI. Ed è a Sua Santità Benedetto XVI che quest'opera viene dedicata, come contributo a rendere accessibile il lavoro di quel grande uomo di Chiesa, umanista, letterato e diplomatico che fu il cardinal Piccolomini.

Ma come non collegare anche la prospettiva europea di Enea Silvio, la sua conoscenza profonda della geografia e della storia del continente di cui per tanti anni era stato attivo protagonista, con lo spirito, l'attenzione e la cura che l'attuale Pontefice pone nel sottolineare l'esigenza di una definizione precisa e aggiornata dell'identità di questo nostro continente?

E la prospettiva europea di Enea Silvio è tanto più sorprendente, pochi anni dopo la reintroduzione da parte di Niccolò v del termine "Europa" per definire le nostre terre e i nostri Paesi, in quanto convive serenamente con l'estrema varietà dei costumi e dei popoli descritti nell'opera:  pannoni, gepidi e daci, ungari, dalmati, illiri detti bosniaci, triballi o mesi detti a volte serbi a volte rasciani, i geci, gli amantini, gli unni, i goti, i bussatori detti parvi, i bructeri, gli alani, i longobardi e gli oqueni e cento altri ancora.

La narrazione, la grande cavalcata sul continente all'epoca di Federico iii fa con sorprendente immediatezza tornare alla mente le parole di un grande storico francese, Lucien Febvre, che nel suo libro L'Europa. Genesi di una civiltà scrive "l'Europa in questo senso, (così) come noi la definiamo, come la studiamo, è una creazione del medioevo; un'unità storica che, come tutte le unità storiche, è fatta di diversità, di pezzi, di cocci strappati da unità storiche anteriori, a loro volta fatte di pezzi, di cocci, di frammenti di unità precedenti".

L'Europa di Enea Silvio evoca infatti il processo magmatico con cui un mondo ancora medievale si avvia alla ricerca di parametri comuni, di valori condivisi, di un'identità diversa dalla mera giustapposizione dei vari "cocci" che componevano l'Europa di allora. A questo processo l'Umanesimo, di cui il cardinal Piccolomini fu rappresentante insigne, fornì una sorta di polo magnetico che attrasse forze ed energie intellettuali che consentirono al continente di compiere un percorso importante. E come si può trovare descritto in molte pagine del De Europa, la Chiesa dotò il mondo di quel tempo di strumenti di comunicazione preziosi, di sia pur limitata mobilità sociale, e di un'internazionalità che sarebbe sopravvissuta rigorosa alla caduta dell'impero e alla nascita degli Stati Nazione.


(©L'Osservatore Romano - 28 aprile 2010)
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L'etnografo che diventò Papa


di Antonio Zanardi Landi
 

"Piace consegnare ai posteri, nella forma breve possibile, i fatti degni di essere ricordati e a me noti accaduti al tempo di Federico, terzo imperatore con questo nome, presso gli Europei e gli abitanti delle Isole che vengono annoverati fra i cristiani; inseriremo talora alcune cose già richiamate, secondo quanto ci sembrerà richiedere l'ordine dei luoghi e degli argomenti".

Con questa dichiarazione d'intenti - dallo stile sobrio e diretto - inizia il De Europa di Enea Silvio Piccolomini. Di statura piccola e tarchiato, minato nel fisico e soggetto a un precoce invecchiamento, si era calato con l'usuale dolcezza nelle diverse realtà sociali, culturali e politiche del momento.

 Grazie alla lungimirante scelta di servirsi anche di fonti coeve, come le testimonianze di Gerolamo da Praga sui lituani, in questo saggio di storiografia umanistica - nei panni di un curious observer a servizio di Federico iii, come del concilio o del papato - racconta il suo viaggio verso la conoscenza delle ragioni dei loci e delle res del proprio tempo, assai lontane dal mondo delle ruote celesti descritto da Dante.
Sapeva di essere alieno dal fascino del miracolistico, ma non da quello di una fede vissuta, essendo rimasto, da giovane, soggiogato innanzi alla toccante predicazione di Bernardino da Siena.
Sapeva della forza della passione, che assecondò nel suo libro di poesie latine Cynthia e nell'Historia de duobus amantibus, quando, rinunciando al sonno e ai pasti, avidamente ricercava nelle Humanae litterae - da Cicerone a Petrarca - il gusto della vita.

Sapeva, da inquieto e ambizioso poeta, frequentatore assiduo dei più rinomati poli culturali dell'Italia del suo tempo, di avere, nel 1431, iniziato una brillante carriera di segretario di note personalità ecclesiastiche, che lo aveva portato lontano, soprattutto da quando, nel 1446, abbracciò lo stato ecclesiastico.
Sapeva di essere stato esposto ai capricci del tempo, come la natura e le sue stagioni, le pietre e la loro erosione, gli uomini e i loro umori, ma anche di ritrovarsi, nonostante tutto, fiduciosamente ancorato ai fondali della loro bellezza.

Per questi motivi, a tutti coloro che, una volta diventato Papa, gli rimproveravano gli storpiati accenti del proprio recente passato, richiamava la verità della sua conversione, misteriosa quanto radicale, della sua stessa fisionomia morale, che era rinata. Del resto, all'Estouteville, che nel conclave si era chiesto se mai si potesse innalzare sulla cattedra di Pietro un poeta e permettere che la Chiesa venisse governata "alla pagana", aveva risposto, dopo avere indossato le vesti papali, di accettare la capitolazione elettorale "per quanto lo posso con Iddio, coll'onore e la giustizia della Sede Apostolica".

Umanista europeo dai grandi orizzonti, aveva ormai sviluppato una non comune conoscenza dei risvolti più intimi della psiche umana e delle sue inclinazioni, tanto da scrivere, nella sua lettera del 1443 a Sigismondo, duca d'Austria:  "Conosco, infatti, la condizione umana:  chi non ama da giovane, ama poi nella vecchiaia e diviene, allora, oggetto di risa e favola del volgo, poiché quell'età non è adatta all'amore. Conosco inoltre la natura dell'amore, che risveglia nei giovani le virtù assopite, spinge uno alle armi, l'altro alle lettere; e ciascuno cerca ardentemente di fare ciò che possa procurargli il favore della sua donna. E perché le virtù rendono famosi, chi ama cerca la virtù per essere lodato di fronte alla persona amata; e, sebbene questo sia piccolo premio per la virtù, tuttavia è sempre lodevole qualsiasi modo di conseguire la virtù".

Echi ormai lontani per chi aveva intrapreso il ben più arduo viaggio della fede, in quella straordinaria parabola umana e spirituale che lo avrebbe visto prima conciliarista, a Basilea, al seguito del cardinale Domenico Capranica, e poi a Roma, successore dell'Apostolo Pietro.
Di quella pubblica ammenda e convinta conversione alla causa della Chiesa romana professata nel 1445 ai piedi di Eugenio iv, sempre conserverà l'innocente stupore della bellezza, tanto da lasciarsi sfuggire nel De Europa quel moto di stizza:  "Ora, chiunque tu sia che leggi, predici anche il futuro!", a proposito delle peripezie dovute alla "singolare mutevolezza della sorte umana", che portarono l'appena diciottenne Mattia Corvino alla corona d'Ungheria. Chiave di comprensione geo-storica dell'Europa del Piccolomini, che faceva tanto leva sulla conversione di vari sovrani al cristianesimo, da Clodoveo a Stefano, despota della Serbia, al punto da attribuire a essa non solo un carattere religioso ma anche un ben definito valore culturale e civile.

Dalla grande vocazione storiografica, di pronta intuizione e vivace curiosità, nel corso dei suoi innumerevoli viaggi e missioni diplomatiche in tutta Europa - densi di esperienze tanto diverse, come di avventure, pericoli e suggestioni sentimentali - si era appassionato ai diversi aspetti non solo morfologici e topografici del suo territorio, ma anche culturali e storici delle popolazioni locali:  dalla lingua in uso ai costumi, dalle invenzioni alle antichità, non trascurando i caratteri somatici e la pavimentazione delle strade, l'edilizia e l'igiene.

Una passione, quella per i viaggi, a torto troppo spesso rimproveratagli, e che all'opposto rivelava la sua straordinaria modernità, sulla scia delle grandi esplorazioni geografiche extra-europee dell'epoca. E dopo aver visitato un numero di città decisamente inusuale per qualunque altro umanista del suo tempo, condivideva l'esigenza di una soliditas e commoditas dell'architettura urbana da contrapporre a ogni eccesso, anche sacro.

Rispettato storiografo, geografo ed etnografo, diversi anni dopo, ancora da giovane cardinale alle prese con il non facile rilancio del ruolo del papato nel variegato scacchiere italiano ed europeo, proprio a quell'unicum fece riferimento per iniziare la stesura di alcune significative opere di carattere storico-geografico, forse poi troppo frettolosamente accomunate nella Cosmographia o Historia rerum ubique gestarum. Espressioni del deciso richiamo del Pius Aeneas all'importanza delle rappresentazioni geografiche nello sviluppo delle idee religiose e nazionali. Una geografia politica che non poteva non essere "del" o "dei" poteri, nell'intento di scrivere una storia contemporanea vista e vissuta - tempora nostra et res vulgo notas - e attenta alla varietà e novità dei dati storici, anche di quelli apparentemente meno significativi; fini cornici di una sana laicità che conteneva i ridondanti chiaro-scuri delle complesse e cangianti realtà geo-politiche dell'Europa e dell'Italia del xv secolo.
 
Un aggancio vivo al territorio che traspare ovunque nel De Europa a partire dalla citazione di Leon Battista Alberti "di Firenze, che compose i bellissimi volumi De architectura e di innumerevoli altri che componevano nuove opere". Tanto che il Piccolomini condivideva con quest'ultimo molte cose, dall'insofferenza verso l'ambiente curiale - manifestato nella sua Epistola de curialium miseriis - al rifiuto di ogni forma di tirannia (si veda il giudizio su Cosimo il Vecchio nei suoi Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt). Un insieme di geografia, storia, politica, architettura e quant'altro, che gli fece auspicare l'inevitabile osmosi tra il mondo latino romano e quello germanico.


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27/04/2010 19:01

L'arazzo multicolore di un umanista raffinato


di Gianfranco Ravasi

Il suo corpo era stremato dalla gotta e dalle bronchiti che da anni lo tormentavano; s'era aggiunta la fatica del trasferimento da Roma; ora s'era insinuata anche la peste. I suoi occhi, ormai appannati, dall'alto del colle di San Ciriaco di Ancona sogguardavano la distesa dell'Adriatico, ove finalmente s'avvicinava la flotta veneziana, tanto attesa, del doge Cristoforo Moro. Ormai, però, il respiro del Papa si faceva sempre più affannoso e così nella notte che si affacciava sulla solennità dell'Assunta del 1464 Pio II si spegneva. Con lui moriva anche il progetto di un'ultima crociata:  il Papa stesso un anno prima l'aveva annunciata ai cardinali di Curia con un discorso appassionato e l'aveva bandita proponendosi come il "Goffredo della nona crociata". La morte, però, aveva posto fine anche a questo suo sogno, per altro accolto molto freddamente dalle potenze occidentali che poco si curavano dell'espansionismo  turco in Europa orientale.
In quelle ultime ore il Pontefice forse ripercorreva le vicende che l'avevano condotto a quell'approdo. Il suo pensiero poteva risalire a quel gesto compiuto verso la fine del 1461, quando egli aveva deciso di inviare una Epistula ad Mahometem, cioè una lettera ufficiale al
sultano Maometto ii, il cui profilo è a noi noto attraverso l'efficace ritratto del pittore veneziano Gentile Bellini. Si trattava di uno scritto che tentava un dialogo interreligioso un po' particolare, ovviamente legato a quel clima culturale e spirituale. Al sultano turco si offriva la corona di imperatore di tutte le terre d'Oriente purché si convertisse al cristianesimo, la cui superiorità teologica era dimostrata attraverso una puntigliosa trattazione apologetica.
Ebbene, proprio in quello stesso anno, quasi astraendosi per qualche momento dalla bufera internazionale che soffiava dai confini orientali, Pio II aveva ripreso tra le mani per un'ultima redazione-edizione un testo già parzialmente elaborato quand'era cardinale. Era la Cosmographia, una vera e propria panoramica geopolitica del mondo, articolata in un trittico i cui titoli erano già emblematici:  De ritu, situ, moribus et conditione Germanorum, al quale subentrava il De Europa, che ora proponiamo rispolverandolo da un lungo oblio, e infine un De Asia. Questo interesse così vivace per l'orizzonte geografico e storico era quasi connaturato nell'anima di un Papa, da un lato, simbolo dell'umanesimo e, d'altro lato, dotato di una biografia fittissima di incarichi diplomatici internazionali.
Eppure Enea Silvio Piccolomini proveniva dalla provincia toscana, da quel Corsignano in Val d'Orcia che sarebbe  poi  divenuto, in onore di questo  suo figlio celebre, Pienza. Là egli era nato il 18 ottobre del 1405 e di là, dopo gli studi a Siena, aveva iniziato un pellegrinaggio fatto dei più disparati incarichi sotto i più diversi signori nelle più differenti sedi d'Europa, a partire da quella Basilea ove si stava celebrando un concilio ecumenico talmente travagliato da giungere all'atto estremo dell'elezione di un antipapa, l'allora duca di Savoia Amedeo viii che assunse il nome di Felice v e che nominò come suo segretario proprio il Piccolomini. Non è nostro compito ricostruire questo itinerario esistenziale che costantemente s'accompagnava a un'intensa produzione letteraria, pronta a inoltrarsi persino su sentieri moralmente proibiti. La guida ideale per ricomporre questa trama di eventi e di opere è quel capolavoro, spesso riedito, che sono i Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, un monumentale e affascinante diario destinato al pubblico, mirabile saggio di storiografia umanistica, specchio di un'anima dai mille interessi, di un'intelligenza fremente e di una forte coscienza di sé, tanto da essere definito un testo "auto-agiografico".
Certo è che la prima svolta nella vita di Enea avvenne attraverso il suo legame con l'imperatore Federico iii d'Asburgo (1415-1493) la cui figura sta sull'ideale frontespizio letterario del De Europa. Fu durante il servizio presso questo sovrano che Piccolomini divenne sacerdote, il 4 marzo 1447, e fu con Federico che egli riuscì a ritessere il ritorno dei principi tedeschi sotto l'autorità del legittimo Papa di Roma, Eugenio iv, riconosciuto come unico pastore supremo della cristianità nella Dieta di Francoforte del 1446. E fu ancora con lo stesso imperatore che si ricompose pienamente lo scisma del concilio di Basilea, quando ormai sul soglio di Pietro, nel 1447, era asceso Niccolò v che aveva per questo conferito a Enea la sede episcopale di Siena. Anche nella nuova veste Piccolomini continuò il suo servizio a Federico iii attraverso diverse legazioni. All'orizzonte intanto incombeva un evento epocale, che avrebbe segnato una seconda radicale svolta nell'esistenza del Nostro.
Il 29 maggio 1453 Costantinopoli cadeva in mano ai Turchi:  sbocciava, così, nel cuore del vescovo Piccolomini quel progetto di riscossa che sarebbe stato trascinato in deviazioni e dilazioni e che alla fine sarebbe abortito con la sua morte, come abbiamo sopra indicato. Ormai egli era un dignitario non più dell'impero ma della Santa Sede. Il nuovo Papa, Callisto iii, lo nominava nel 1456 cardinale e quel breve pontificato apriva la strada al conclave dell'agosto 1458 ove, dopo un veemente scontro con la candidatura del potente cardinale normanno Guillaume d'Estouteville, Enea Silvio Piccolomini veniva eletto Papa dai diciotto (su ventiquattro) cardinali riuniti a Roma. Era il 19 agosto 1458, l'eletto aveva 53 anni, il nome prescelto era stato modulato, certo, sul Pius Aeneas virgiliano, ma ormai con una connotazione marcatamente cristiana, tant'è vero che lo stesso Pontefice non aveva esitato a proclamare:  Aeneam reiicite, Pium suscipite!
Doveva, dunque, morire l'Enea umanista e diplomatico e nasceva il Pio vicario di Cristo. In realtà la complessa personalità di questa figura non perdeva le molteplici iridescenze della sua formazione intellettuale e politica. E l'opera [sua] (...) è una testimonianza, accanto alla multiforme attività ecclesiale e internazionale svolta nei sei anni del suo pontificato da Pio II. Lasciamo, perciò, tra parentesi la storia di quel periodo che va dall'elezione combattuta al papato sino all'amaro epilogo sul colle di Ancona, ed entriamo in questo scritto, per altro incompiuto, che è una mappa geopolitica dell'Europa percorsa e studiata dall'allora alto funzionario di Federico iii ormai cardinale del titolo di Santa Sabina. Era il marzo 1458, quattro mesi prima dell'elezione al pontificato.
L'arazzo multicolore di nazionalità, (...) attraverso le pagine del cardinale Piccolomini, raffigura l'Europa, un nome che era stato rinverdito e applicato al nostro continente proprio da Papa Niccolò v, Tommaso Parentucelli (1447-1455), l'indomani della presa di Costantinopoli, un Papa colto e raffinato, il fondatore della Biblioteca Apostolica Vaticana. Era un nome che attingeva alla tradizione mitologica classica ove era portato da varie eroine:  da una nipote di Zeus, amata da Poseidone, da una delle Oceanine, che erano figlie di Teti e dell'Oceano e incarnavano i ruscelli, dalla madre di Niobe, figlia del primo uomo e quindi "madre dei viventi", da una figlia del dio fluviale Nilo, ma soprattutto dalla celebre fanciulla amata da Zeus che l'aveva vista giocare sulla spiaggia fenicia rendendola madre di Minosse, re di Creta. Il Papa umanista Niccolò v non aveva esitato ad attingere alla grande eredità classica, anche se sul continente europeo ormai svettava e dominava da secoli la croce di Cristo. Non per nulla Goethe dichiarerà che "la lingua materna dell'Europa è il cristianesimo".


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29/04/2010 00:19

Intervento del presidente del Senato italiano

Il Papa che non ha paura di fronte ai lupi


Si tiene il 28 aprile un incontro dedicato al tema Il mondo soffre per la mancanza di pensiero, organizzato a Roma, presso la Sala San Pio X, dalla Congregazione dei Figli dell'Immacolata Concezione in occasione del quinto anniversario dell'elezione di Benedetto XVI. All'incontro intervengono il presidente del Senato italiano, Renato Schifani, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, l'arcivescovo Rino Fisichella, e il presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana, Giuliano Amato. Pubblichiamo quasi per intero il testo del presidente del Senato.

di Renato Schifani

Benedetto XVI, senza ipocrisia e senza ammiccamento, afferma con chiarezza:  "il programma del cristiano è un cuore che vede".
Su quest'ultima affermazione sembrano incontrarsi due distinte tradizioni di pensiero. Da un lato, l'affermazione di chi riconosce nel vero maestro non colui il quale dice qualcosa di nuovo, bensì qualcosa di vero; dall'altro, la riflessione che riconosce la novità del Vangelo non solo in un messaggio, ma innanzitutto nel messaggero.
Per Benedetto XVI il compito prioritario è quello di essere "un umile servitore nella vigna del Signore"; in altri termini non è quello di perseguire le proprie idee ma di mettersi in ascolto e lasciarsi guidare dall'unico messaggero,  dall'unica  parola,  dall'unica volontà.
Serve allora uscire da stereotipi frequenti e fuorvianti, quelli che ritraggono, a seconda dell'attualità o del clamore di alcuni fatti, anche in termini non necessariamente negativi, Benedetto XVI come teologo, professore, intellettuale, filosofo, pensatore. Mi sembra di poter dire, invece, che il ritratto più vicino a Papa Benedetto sia proprio l'immagine che egli ricava dal suo messaggero:  l'immagine cioè del pastore e del pescatore.
Benedetto XVI sa realmente che "amare vuol dire essere pronti a soffrire" e come pastore egli rende testimonianza a chi "ha veramente fatto storia con gli uomini".
Da questa profonda e radicale consapevolezza, sulle tracce dei Padri della Chiesa, Benedetto XVI condanna senza scorciatoie i pastori che evitano i conflitti e lasciano che il veleno si diffonda. Già prima di assumere il mandato petrino, Joseph Ratzinger, senza possibilità di fraintendimento, dichiarava:  "un vescovo interessato solo a non avere grane e a mascherare il più possibile tutte le situazioni di conflitto, mi spaventa" (Il sale della terra, cristianesimo e Chiesa cattolica nella svolta del terzo millennio. Un colloquio con Peter Sewald, Joseph Ratzinger, Edizioni San Paolo, 1997, p.95). E a ciascuno di noi Benedetto XVI ha rivolto un invito umile e lungimirante proprio all'indomani della sua elezione:  "pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi".
Di fronte alle insidie, ai tradimenti, agli scandali, alle ferite aperte e dolorose della Chiesa, Benedetto XVI non fugge per paura di fronte ai lupi.
In un momento in cui lo sgomento e il senso di tradimento che "atti peccaminosi e criminali" hanno ingenerato in tutto il mondo e in tutta la Chiesa, Benedetto XVI ha espresso apertamente - cito le sue parole - "la vergogna e il rimorso che tutti proviamo".
Ha condannato il silenzio dei "cani muti" del nostro tempo. Al tradimento e alla sofferenza delle vittime di abusi sessuali non si è limitato a manifestare la propria indignazione per il torto e la violenza subiti, ma con loro ha voluto condividere la sofferenza, la preghiera, il dolore destinato a rimanere.
La vergogna e il rimorso, il pentimento, la condanna per il tradimento della fiducia riposta nei sacerdoti pedofili "da giovani innocenti e dai loro genitori", sono stati pronunciati senza riserve e con parole forti. Joseph Ratzinger non è mai stato inerte di fronte alla sofferenza e all'ingiustizia, ma è un pastore che non lascia "naufraghi senza spettatore", nell'indifferenza o nel quieto vivere.
Nel 1969 non ebbe paura di indicare il rischio di un nuovo paganesimo nella stessa Chiesa e nel 2005 non si limitò a parlare di superbia, di autosufficienza, di sporcizia in termini generali, bensì dentro la Chiesa e - cito ancora le sue parole - "proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui".
Come una sorta di passaggio del testimone, nel Venerdì Santo del 2005, da un lato, la parola ferma di Joseph Ratzinger, dall'altro, il crocefisso a stento trattenuto dalle mani fragili di Giovanni Paolo ii nella sua cappella privata:  la continuità dei due pontificati sta proprio nel passaggio della croce dalle mani dell'uno a quelle dell'altro. Del suo predecessore dirà:  "egli ha potuto farsi compagno di viaggio per l'uomo di oggi (...). La sua è stata una sofferenza vissuta fino all'ultimo per amore e con amore".
Assistiamo in questi ultimi mesi al tentativo di ingenerare un vero e proprio "panico morale", teso a minare il cuore stesso del Magistero attraverso l'erosione del rapporto di fiducia che è alla base di ogni sfida comunicativa e, in particolare, della sfida educativa.
La teologia della carità e la teologia della speranza rappresentano per Benedetto XVI gli assi portanti dell'intero messaggio cristiano. La vita autentica è infatti allo stesso tempo relazione e conoscenza, "un dare e ricevere". A chi vuole nascondere con un chiassoso brusìo mediatico il messaggio di speranza e la testimonianza di carità della Chiesa, Benedetto XVI contrappone un percorso di risalita dall'orrore attraverso la mitezza evangelica:  "insultato non rispondeva con insulti; maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a Colui che giudica con giustizia".
In altri termini, quando assistiamo ad attacchi che non sono mai mancati e a difese che, viceversa, spesso sono rimaste senza voce, con le parole di un teologo del nostro tempo, mi sento di dire:  "la grandezza di uno spirito si misura dal grado di verità che è capace di sopportare" e "la verità non ha bisogno di essere difesa, si difende da sé".
In questo modo emerge anche il secondo ritratto di Benedetto XVI che ho voluto legare all'immagine del pescatore. Da quelle che egli definisce le "acque salate della sofferenza", egli trae comunque e sempre la rete del Vangelo. Ancora una volta le sue parole non hanno bisogno di alcun commento:  "noi soffriamo per la pazienza di Dio. E non di meno abbiamo tutti bisogno della Sua pazienza".
Nella tradizione della Chiesa ritroviamo una parola densa di significato dove l'apparente eclissi di Dio è accostata al martirio:  questa parola è legata ai più deboli e indifesi, a quelli che sono chiamati gli "inermi".
La via degli inermi è quella di un'identità arricchita capace di partire dall'incontro con il più debole, l'escluso, l'emarginato, che fa sentire ciascuno di noi debitore di qualcosa. Con le parole di Benedetto XVI:  "nessuno ha la vita da se stesso e solamente per se stesso. Noi l'abbiamo dall'altro nella relazione con l'altro".
Vi sarà un giorno nel quale le donne e gli uomini liberi del nostro tempo potranno dire di lui:  "in mezzo a quella violenta tempesta, mantenne la fiducia e la speranza e la trasmise anche ai compagni di viaggio. Da quel naufragio (...) nacque una comunità cristiana fervente e solida".
Il pensiero di Benedetto XVI non è tuttavia chiuso dentro il perimetro del cattolicesimo, né in quello della sola cultura cristiana.
Egli ci dice:  "con i mezzi della nostra ragione dobbiamo trovare le strade".
Anche alla politica la testimonianza autentica del cristiano indica una rotta precisa:  la cultura dei valori. Il personalismo cristiano si oppone alla "mistica dell'indistinzione", al relativismo, che considera eguale o equivalente, senza distinzione, qualsivoglia ideale.
Ai giovani e a tutti noi Benedetto XVI parla di una "nuova evangelizzazione" che non significa "attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa", bensì riconoscere che "le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo". Si tratta di accettare la sfida di "prendere il largo della storia e gettare le reti".
Vorrei chiudere questo mio intervento ricordando due lunghi articoli comparsi nella stampa scritti da due teologi che muovono critiche estremamente severe all'attuale Pontefice.
Non spetta certamente a me entrare in un terreno che non mi appartiene, ma sono rimasto sinceramente colpito dalla coincidenza di un motivo comune che sta alla base della loro riflessione:  si imputa al Papa il fallimento della sua - cito testualmente - "politica" ovvero della sua "linea" e gli si dice che "oggi il Papa è chiamato soprattutto a essere un grande maestro di spiritualità". In altri termini, è estremamente significativo che la critica che gli si appunta è estranea alla sua missione di pastore, ma al suo ruolo di politico, di statista, di "maestro di spiritualità".
Proprio il filo conduttore del nostro incontro mi pare capace di rispondere a questa e altre accuse:  un mondo che soffre per mancanza di pensiero è un mondo - con le parole di Paolo vi - dove l'uomo "ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni".
A tutti, anche ai cattolici che - cito le parole di Benedetto XVI - "abbiano pensato di dovermi colpire con un'ostilità pronta all'attacco", il Papa risponde:  "se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri".
La parola di Benedetto XVI è la testimonianza della sofferenza accolta con serenità e gioia. Il Papa dice agli uomini del nostro tempo molte volte schiacciati alle pareti del pessimismo e del conformismo che "la gioia non la si può comandare. La si può solo donare" e dunque "la Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente".


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