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In ricordo del cardinale Giuseppe Siri

Ultimo Aggiornamento: 08/05/2010 07:09
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08/05/2010 07:09

A vent'anni dalla morte

Il cardinale Siri è vivo nel cuore di Genova



Pubblichiamo l'omelia che il cardinale arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, ha pronunciato ieri nella cattedrale di San Lorenzo in occasione della messa celebrata per il ventesimo anniversario della morte del suo predecessore, il cardinale Giuseppe Siri, che guidò la diocesi di Genova dal 1946 al 1987. 

 

di Angelo Bagnasco

Sono trascorsi vent'anni - era il 2 maggio 1989 - dalla morte del cardinale Giuseppe Siri, indimenticato pastore della nostra diocesi dal 1946 al 1987.

La sua presenza è ancora viva e cara nel cuore della diocesi e della città:  l'avverto nei sacerdoti che l'hanno conosciuto e amato, e che, avvicinandolo, sentivano di essere da lui amati e conosciuti, a volte con un'arguzia bonaria che non si immaginava sotto l'immagine pubblica.




L'avverto nelle istituzioni e in grande parte del popolo; soprattutto lo sento nel cuore dei lavoratori degli stabilimenti e delle aziende a tutti i livelli. La memoria della sua attenzione per i problemi del lavoro e per il bene della città è vivissima:  attenzione che si traduceva in interventi puntuali perché nulla si perdesse del patrimonio imprenditoriale e portuale di Genova, o in mediazioni richieste tra le parti sociali in vertenze difficili e note.

Ancora oggi tocco con mano la fiducia che questo mondo ha verso la Chiesa grazie soprattutto a lui che, in anni di forti contrapposizioni e diffidenze verso il clero, non ha avuto timore di varcare le soglie di ogni ambiente per portare il Vangelo e celebrare le messe pasquali. Non si è tirato indietro semplicemente perché amava le anime per amore di Cristo, e sapeva che quello era il suo dovere:  essere il pastore di tutti sempre e ovunque.

Non posso dimenticare, nei giorni in cui la salma rimase esposta qui nella sua cattedrale, la folla di operai in tuta, braccia conserte, in piedi e in silenzio:  sembrava che volessero vegliare, quasi trattenere il loro vescovo che forse sentivano padre più di quanto apparisse solitamente. Incarnavano la presenza del popolo, della gente semplice, avvezza al lavoro duro, a far quadrare i conti del mese.

Non so se andassero in chiesa ogni domenica, ma di certo lo riconoscevano come un punto di riferimento, di sicurezza; sentivano che di lui ci si poteva fidare al di là di ogni bandiera, perché capivano che lui, figlio di povera gente, li comprendeva e li amava. I vicoli del centro storico, qui attorno, lo conoscevano bene:  lui e chi regolarmente mandava per distribuire aiuti ai più poveri.

Era, la sua, una carità tipicamente genovese, discreta e concreta:  carità che andava a completare quel senso profondo di giustizia sociale che sempre ha ispirato la sua azione di pastore e di uomo di cultura, in particolare con la presidenza delle Settimane sociali.

La divina provvidenza gli diede molte e delicate responsabilità nella Chiesa, a Genova e in Italia:  a servizio leale e cordiale di quattro Papi, presidente della Commissione episcopale per l'alta direzione dell'Azione cattolica, primo presidente della Conferenza episcopale italiana, partecipò al concilio Vaticano ii fedelmente, fino a ripetere a noi seminaristi, una volta concluso, che dovevamo leggere i documenti del concilio integralmente e in ginocchio:  "Sono felice di avere sofferto e di avere sempre difeso la Chiesa e il Sommo Pontefice" (dal suo testamento).

Le diverse questioni di cui dovette occuparsi - e furono moltissime - le affrontò sempre da sacerdote e solo da sacerdote. Come amava raccomandare ai suoi preti usando un'immagine eloquente:  "Dovrete, nel vostro ministero occuparvi di molte cose anche non direttamente pastorali; ma dovrete trattarle sempre rimanendo sulla predella dell'altare". Cioè in quanto sacerdoti e pastori. Nient'altro! "Sono felice - scrive ancora nel suo testamento spirituale - di aver esercitato solo il sacerdozio e quello che anche casualmente ne diventava dovere".

Ed egli era sempre ministro di Dio, sempre riferito a Dio tanto da assumere il motto "Non nobis Domine":  non a noi, Signore, non a noi, ma a Te solo la gloria! Il senso della maestà di Dio, per il quale nulla era mai troppo di dignità, decoro, nobiltà, era sempre congiunto con il senso della vicinanza amorosa di Dio in Gesù, e quindi nella Santissima Eucaristia. L'amore alla divina liturgia era noto a tutti:  la viveva come "il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Poiché il lavoro apostolico - continua il concilio - è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del signore" (Sacrosanctum concilium, 10).

Il cardinale Siri, insieme con monsignor Moglia, partecipò all'opera del rinnovamento liturgico che vedrà nel Vaticano ii la sua espressione più compiuta. Tutto doveva essere nobile e il più possibile bello, sapendo che la bellezza, nel gesto e nella parola, nel canto e nella musica, nel parato e nelle suppellettili, è una via dell'anima a Dio.

Amava la storia e, il parlarne, non era sfoggio ma piuttosto saggezza e contemplazione della Provvidenza che guida la storia e la conduce misteriosamente verso il suo compimento:  da qui il suo lasciarsi andare all'onda di Dio comunque questa si presentasse, quieta o burrascosa, piena di luce o rivestita di oscurità.

In questo orizzonte di fede, entrando in Genova come arcivescovo, poté dire con serenità e semplicità:  "Non sono qui da me, e non sono qui per me", un programma di vita che lo condusse per l'intero suo episcopato, e che fu come un'ancora in momenti anche di grave difficoltà e di forte incomprensione, ma che visse nella pace interiore.

Riservato nei sentimenti, non nascondeva l'amore per i suoi preti, specialmente per chi si trovava in difficoltà, e tutti sapevano il particolare legame, immutato negli anni, per i suoi antichi studenti del liceo Doria che radunava periodicamente. Dal Cielo tutti noi guarda e per noi prega:  continuiamo a essere la sua famiglia! Un grazie speciale vorrei dirlo ai suoi ultimi due segretari:  sua eccellenza monsignor Giacomo Barabino e monsignor Mario Grone. Servendo lui con fedeltà e intelligenza, hanno servito anche noi.

Insieme con lui guardiamo a Maria, Regina di Genova, che egli ha imparato a venerare nella sua carissima parrocchia dell'Immacolata, da suo amato parroco.

E con rinnovato affetto ascoltiamo le sue ultime parole:  "L'ultima benedizione per coloro dei quali sono stato vescovo. L'ultimo atto:  Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam" (dal suo testamento).



(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2009)
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