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Intervista con mons. Brunero Gherardini

Ultimo Aggiornamento: 04/05/2010 22:38
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04/05/2010 22:38

Intervista con mons. Brunero Gherardini


Tradotto dal francese da Aletheia n° 153 – 20 marzo 2010

Se permette, Monsignore, l’anno 2009 è stato «l’anno Gherardini». Lei infatti ha fatto pubblicare uno dopo l’altro: Il Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, nel marzo 2009, Quale accordo tra Cristo e Beliar?, nell’aprile 2009, sui «problemi, gli equivoci e i compromessi» del dialogo interreligioso; Ecumene tradita, nel settembre 2009, sul «dialogo ecumenico tra equivoci e passi falsi». Si tratta di una semplice coincidenza o della volontà di attirare l’attenzione sulla necessità di una buona «ermeneutica» del Vaticano II?

Un caro amico, il prof. Roberto De Mattei, Direttore di Radici Cristiane, è riuscito, nell’ottobre 2009, a strapparmi un’intervista – genere da cui mi sono sempre tenuto lontano. Ed ecco che un altro amico riesce nell’impresa.
Ben lungi dal pensare ad un “anno Gherardini”, riconosco che le pubblicazioni alle quali Lei si riferisce - ed alle quali oggi si aggiunge Quod et tradidi vobis. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa – non sono una semplice coincidenza, ma un modesto tentativo di dare una risposta ed un contenuto oggettivo all’“ermeneutica della continuità” auspicata, come tutti sanno, dal Santo Padre.

Ritiene che Rapporto sulla fede, pubblicato nel 1985 dall’allora card. Ratzinger abbia segnato una svolta nella riflessione della Chiesa su se stessa? Era il segno di una presa di coscienza?

Forse più che nella realtà, nelle intenzioni dell’eminente autore e nelle speranze di diversi teologi, tra i quali io stesso. I pericoli e gli equivoci venivano intravisti, ma le cause non venivano discusse e ancor meno si notava la minima intenzione di eliminarle. Di conseguenza si era sempre al punto di partenza.

Si dice che Lei sia l’ultimo rappresentante della «teologia romana», già resa celebre dal card. Palazzini o dal caro e rimpianto Mons. Piolanti. La sua voce, in quanto teologo, è isolata in Italia o Lei vede, in certe università, in certe riviste, dei teologi che condividono le sue preoccupazioni e la sua analisi della situazione?

Io non so fino a che punto posso considerarmi come un epigono della gloriosa Scuola Romana. Già i nomi illustri a cui Lei si riferisce appartengono alla fase discendente di questa Scuola. Dopo il Concilio Vaticano II, la voce di questa Scuola, sempre più debole, poteva farsi sentire ancora attraverso due Accademie romane, (la Pontificia Accademia di Teologia e la Pontificia Accademia San Tommaso d’Aquino), le riviste Divinitas e Doctor Communis, e i congressi tomisti. Oggi, quando si riesce ancora a percepirla, si tratta solo di una voce isolata, ammirata da qualcuno, ma più spesso disdegnata e disprezzata. È quello che mi è capitato. Nondimeno, ascoltata o no, essa risuona sempre, e se nella mia voce si riconosce il timbro della Scuola Romana me ne rallegro. Sfortunatamente, questa gloriosa Scuola oggi è priva di cattedre universitarie ed episcopali. Tuttavia, anche da questo punto di vista, le cose cominciano a cambiare: il 25 di questo mese, per esempio, sono stato invitato dalle autorità accademiche a tenere, in Laterano, una conferenza su “Il tomismo e la Scuola Romana del XX secolo”, e L’Osservatore Romano mi ha già chiesto il testo di questa lezione.

Se non mi sbaglio, Lei è stato sollecitato dalla Santa Sede a partecipare ai «colloqui teologici» che, dall’autunno del 2009, sono iniziati con la Fraternità San Pio X. Perché non ha accettato questa proposta?

Sono desolato, ma la discrezione m’impedisce di rispondere a questa domanda.

È possibile un accordo dottrinale fra la Santa Sede e la FSSPX? E sotto quale forma?

Senza alcun dubbio, e io mi auguro – e anche la Chiesa se lo augura – che per il bene delle anime si giunga presto ad un accordo. Vorrei rispondere in maniera adeguata, ma non vorrei impantanarmi nei dettagli. Il Papa ha già fatto molto per trovare una soluzione, bisogna dargliene atto. Ma è necessario mettere sul tappeto la “cornice dottrinale” a cui lui stesso si riferisce. Questa cornice, nondimeno, non porterà ad alcun risultato se permette - come sembra – solo un’interminabile confronto punto per punto: le due parti hanno ciascuno delle frecce appropriate nel loro arco, e la dialettica – quando vuole – è capace di mettere in evidenza le ragioni di colui che ha torto.

Secondo me, vi è solo un argomento da mettere sul tappeto: e Giovanni Paolo II lo ha suggerito quando, infliggendo la famosa scomunica del 1988, rimproverò alla Fraternità San Pio X di avere “una incompleta e contraddittoria nozione della Tradizione”. Personalmente sono di tutt’altro avviso, ma è proprio per questo che io vedo nella Tradizione l’unico tema dottrinale da trattare a fondo. Se si riuscisse a chiarire il concetto di Tradizione, senza rifugiarsi nel sotterfugio della tradizione vivente, ma anche senza chiudere gli occhi sul movimento interno della tradizione apostolico-ecclesiale “eodem tamen sensu, eademque sententia” (conservando lo stesso senso e lo stesso pensiero), il problema cesserebbe d’esistere.

Oggettivamente la Fraternità San Pio X, per intanto, non dovrebbe cessare d’esistere; essa potrebbe essere, nel firmamento della Chiesa, una “società di vita sacerdotale”, una famiglia di “oblati” o francamente una “Prelatura nullius”, visto che ha già diversi vescovi; ma, per carità, rifuggiamo dai sogni.

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