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Aperti i lavori della plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici

Ultimo Aggiornamento: 20/05/2010 20:38
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20/05/2010 20:38

Aperti i lavori della plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici

Nel Vangelo una grammatica di laicità per la politica


Riaffermare i limiti della politica contro le tentazioni di assolutizzarla, operare da custodi e difensori della dimensione etica della democrazia, far riscoprire la carità alla politica:  sono i tre compiti che si prospettano oggi al laicato cattolico impegnato nella vita pubblica. Li ha indicati giovedì mattina, 20 maggio, il cardinale presidente Stanislaw Rylko, introducendo a Roma i lavori della xxiv plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici. L'assemblea, che si concluderà sabato 22, ha come tema:  "Testimoni di Cristo nella comunità politica". Come far nascere la "nuova generazione di cattolici impegnati" auspicata da Benedetto XVI? Come far ricuperare alla gestione della cosa pubblica la sua essenza di nobile arte e ai cittadini stima per l'impegno politico? A queste domande stanno cercando di rispondere i membri e i consultori del dicastero, nel dibattito che approfondisce la tavola rotonda e le cinque relazioni in programma. Tra i relatori il cardinale Camillo Ruini, il rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore Lorenzo Ornaghi, lo storico Andrea Riccardi, il sottosegretario del Pontificio Consiglio Guzmán Carriquiry e l'arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, del cui intervento pubblichiamo stralci.

di Rino Fisichella

In questo particolare frangente storico, spetta al politico dover cogliere la richiesta silenziosa che si muove da più settori, soprattutto da parte di genitori e formatori, perché si realizzi un'alleanza tra le diverse istanze educative con lo scopo di uscire dalla crisi e costruire una piattaforma su cui far scorrere i prossimi decenni. Ritengo che spetti alla politica creare le condizioni perché si formi una circolarità formativa in modo tale da rendere attive sia le diverse istituzioni sociali, culturali ed ecclesiali con la promozione del primato della famiglia. Ne deriverebbe un denominatore comune capace non solo di far dialogare le istanze formative tra di loro, ma soprattutto permetterebbe che il patrimonio di identità e cultura del passato di una comunità si trasmetta alle nuove generazioni in maniera viva e corrispondente alla maturazione raggiunta.

La domanda di una genuina formazione si fa così ogni giorno più pressante, ma pone con sé un ulteriore interrogativo:  l'individuazione di soggetti in grado di comporre questa sintesi. D'altra parte, non si può dimenticare che l'attività legislativa, soprattutto quando è indirizzata a tematiche peculiari, comporta sempre una dimensione culturale. La legge, per sua stessa natura, crea cultura e comportamenti consequenziali. La liceità o meno di alcuni comportamenti, la depenalizzazione di alcuni reati comportano, inevitabilmente, l'assunzione progressiva di una mentalità che fa giudicare la bontà o almeno la neutralità di un comportamento. Se vige la cultura che la legge proibisce quanto è male o dannoso ne deriva che quanto non è proibito sia inevitabilmente lecito se non perfino un bene. Penso in modo particolare alla mentalità che sarà presente nei prossimi decenni su alcune tematiche particolari quali:  la vita, l'affettività o il significato della corporeità.

Se il legislatore banalizza la vita con leggi che portano a un più facile utilizzo dell'aborto o all'uso di una sessualità senza regole, preoccupandosi solo di fornire strumenti preventivi, non potrà mai pensare di avere creato un reale progresso all'interno della società e tanto meno aver aiutato al raggiungimento di una libertà responsabile dei propri atti. A me sembra che la responsabilità per la formazione comporti, per il politico, la comprensione di una visione anche positiva e propositiva della legge tesa a progettare una cultura che sia ispirata a valori fondamentali che traggono la loro ragion d'essere da quella saggezza che sta alla base della cultura stessa e che abilita ognuno alla formazione di una coscienza chiara e coerente con i principi fondamentali dell'agire etico. Penso, in modo particolare, all'impegno che il politico dovrebbe immettere nella programmazione scolastica e nelle diverse forme in cui si esprime il contributo di solidarietà nei confronti degli altri cittadini.

Mi domando, ad esempio, quale responsabilità politica è assunta per preparare i cittadini a vivere di valori che sono patrimonio comune e partecipato oppure nell'educare a valori che sono basilari del vivere civile e sociale quali la lealtà, l'onestà, il rispetto per l'altro nella sua diversità, la verità storica. Non potrei dimenticare, in questo contesto, la dovuta chiarezza nel riconoscere il cristianesimo come patrimonio di ricchezza culturale che ha donato identità a interi popoli per millenni, agendo come fattore di aggregazione e socializzazione.

Le esemplificazioni potrebbero facilmente moltiplicarsi; ciò che rimane è il principio di fondo che costituisce l'apporto responsabile del politico nella preparazione e attuazione della sua attività parlamentare e legislativa. Rimanendo nell'ambito della formazione ritengo sia utile riflettere su un ulteriore tematica che tocca direttamente la classe politica:  la formazione richiesta a quanti si impegnano in politica. Si deve storicamente verificare che con il cosiddetto "crollo delle ideologie", e la seguente frantumazione generale dei partiti, è venuta a mancare la tradizionale formazione dei giovani da avviare alla vita politica. Insieme a questo fatto i partiti, sotto la pressione della crisi generalizzata, hanno rinunciato a quanto era loro di maggior urgenza:  pensare alla formazione della classe dirigente successiva.

Questa si può attuare nella misura in cui, all'interno dei partiti e non all'esterno come fosse un surrogato, si organizza una fascia giovanile a cui si provvede di fornire la formazione basilare e la progettualità futura. Di fatto, è venuta a mancare la presenza dei movimenti giovanili all'interno dei partiti con la conseguente atrofizzazione della presenza politica della stessa classe dirigente. Se non vi sarà una seria riflessione in proposito, temo che le giovani generazioni si staccheranno sempre più dall'interesse per la politica e questa diventerà, presto o tardi, un'attività lavorativa come tante altre senza alcuna idealità.

Non riuscirei a pensare, in questo contesto, a un politico che non viva in riferimento alla preghiera. Senza questi momenti e spazi di spiritualità, la vita di ogni cristiano si indebolisce; per il politico, però, diventa più forte la tentazione di puntare tutto sulle proprie capacità, perdendo inevitabilmente poco alla volta la dimensione vocazionale del suo operare. Si perderebbe nelle secche del facile compromesso e non riuscirebbe più ad avere autentica passione per la verità. Il testimone vive di un ideale che lo porta a progredire ogni giorno, senza timore alcuno di subire ricatti o cedere a facili compromessi. La sua vita diventa trasparente con il messaggio che porta con sé e viceversa. In una parola, la testimonianza del politico deve farsi forte della credibilità. Senza questa connotazione essa scade nella pura immagine e si dilegua immediatamente, perché diventa solo autoreferenziale e, quindi, effimera. Il politico che offre la sua testimonianza, invece, sa che non presenta la sua persona e il suo agire, ma si fa garante di un rimando a un contenuto ulteriore che lo ha coinvolto e attirato a tal punto da avergli consentito di cambiare vita e di mettersi alla sua sequela.

Ciò permette al politico di essere realmente forte e stabile, con una condotta irreprensibile, è la sua capacità di camminare ogni giorno nel sentiero della fede, sapendo di essere sostenuto dalla forza della grazia. Il linguaggio del testimone è realmente quello performativo; vale a dire, un linguaggio che trova la sua ragione d'essere nella vita. La verità di quanto si propone trova riscontro nell'agire coerente che coinvolge e compromette. Noi cristiani dovremmo ben conoscere questo linguaggio; il Vangelo che annunciamo ne è la grammatica costitutiva. Esso esprime un amore che non è stato solo proclamato, ma vissuto. A questo punto, probabilmente, acquista tutto il suo senso il rimando alla laicità del proprio comportamento per quanti sono direttamente coinvolti nelle istituzioni. Aver giurato sulla Costituzione non potrebbe mai impedire a un cristiano in politica di essere ugualmente fedele al Vangelo; questo, infatti, è all'origine di ogni espressione di genuina laicità. L'amore per la verità, comunque, non ha connotazione alcuna e spinge ognuno a porsi alla sua sequela con la consapevolezza che san Tommaso esprimeva con le famose parole:  omne verum a quoqumque dicatur a Spiritu Sancto est. Merita, forse, citare una bella espressione di don Luigi Sturzo che in questo contesto ha una particolare valenza:  "La politica è per sé un bene:  il far politica è, in genere, un atto di amore per la collettività; tante volte può essere anche un dovere per il cittadino. Il fare una buona o cattiva politica, dal punto di vista soggettivo di colui che la fa, dipende dalla rettitudine dell'intenzione, dalla bontà dei fini da raggiungere e dai mezzi onesti che si impiegano all'uopo. Il successo e il vantaggio reale possono anche mancare, ma la sostanza etica della bontà di una tale politica rimane. Così ragionano i cristiani di ogni tempo e di ogni paese. E con questo spirito, l'amore del prossimo in politica deve stare di casa, e non deve essere escluso come un estraneo:  né mandato via facendolo saltare dalla finestra, come un intruso. E l'amore del prossimo non consiste né nelle parole, né nelle moine:  ma nelle opere e nella verità".


(©L'Osservatore Romano - 21 maggio 2010)
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