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Dopo lo schiaffo di Vienna, qual è l’agenda Schönborn?

Ultimo Aggiornamento: 26/05/2010 20:05
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Inchiesta (parte I). Dopo lo schiaffo di Vienna, qual è l’agenda Schönborn? Che cattolicità vogliono? Inchiesta su un potere in crisi

Una drastica riforma dell’organizzazione del potere della curia romana in chiave collegiale. Rivedere l’obbligo del celibato per il clero. Più considerazione per le coppie omosessuali stabili. Rivisitare la dottrina sui divorziati risposati. Non si tratta dell’agenda che il teologo ribelle Hans Küng vorrebbe imporre alla chiesa di Ratzinger, quanto di alcune delle richieste di riforma avanzate in queste settimane dal cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn. Richieste molto simili a quelle che il cardinale Carlo Maria Martini espose nel 1999 in un suo celebre discorso intitolato “Verso l’indizione di un Concilio Vaticano III”. Martini fu più dettagliato di Schönborn. La sua agenda prevedeva anche gli ordini sacri per le donne, la partecipazione dei laici ai ministeri, una nuova morale sessuale, la rivisitazione del sacramento della penitenza e del concetto di ecumenismo. Ma anche per lui, alla base di tutto, prima d’ogni altra azione di rinnovamento, c’era la madre di tutte le riforme, quella dell’organizzazione del potere della chiesa: più collegialità meno monarchia, più orizzontalità meno assolutismo.

Che chiesa vuole Schönborn? Sta superando “a sinistra” il maestro Joseph Ratzinger spingendosi su una visione di fatto conciliante con le istanze del mondo? Oppure sta interpretando in profondità il pontificato di Benedetto XVI aprendo il dibattito su temi solitamente ad esclusivo appannaggio della sola ala progressista della chiesa? Il vaticanista Giancarlo Zizola non ha dubbi: “Schönborn è tra i cardinali più vicini a Ratzinger. La solidarietà teologica tra i due è evidente. E si è palesata in queste ore. Schönborn ha attaccato chi nella curia romana ha insabbiato i peccati carnali dei preti cattolici. E Ratzinger sull’aereo per Fatima ha elevato il tono dell’accusa, dicendo che oggi ‘in modo terrificante’ la persecuzione della chiesa viene ‘dall’interno’, ‘dai peccati che ci sono dentro la chiesa stessa e non dai nemici fuori’”. Anche se, poche ore dopo, nell’omelia nella piazza del Palazzo di Lisbona, ha detto che non è coi programmi e l’organizzazione che si risolvono le cose: “Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?”. E’ la Weltanschauung di Ratzinger: “Governare non è semplicemente un fare, ma è soprattutto pensare e pregare” ha detto il 10 marzo scorso prendendo in prestito parole di san Bonaventura. Parole che in parte risuonano in quanto dice Schönborn. Ma in parte no: quello di Ratzinger è un ritorno alle origini, alle radici della tradizione cattolica, più che un salto nelle braccia della modernità.

L’agenda progressista per il papato ha diversi estensori. Prima di Schönborn e dopo Martini, c’è stato il padre cappuccino Raniero Cantalamessa. Ma il “lodo Cantalamessa”, come lo definisce Alberto Melloni nel saggio del 2006 “L’inizio di Papa Ratzinger”, non ha avuto fortuna. Redatto per una meditazione pronunciata appena prima del Conclave del 2005, espone sette tesi sulle quali il Papa “chiamato da Dio” avrebbe dovuto lavorare. Il cuore del “lodo” sono il ritorno della chiesa a una minoranza esemplare, una chiesa che non imponga, soprattutto nel campo etico, i propri dettami ma che si limiti all’esempio, alla testimonianza. Perché questa chiesa possa predominare occorrono alcune riforme. La prima, la più importante, il riordino in chiave collegiale del governo. Scrive Cantalamessa: “Pietro esercita il suo ruolo in modo collegiale. La formula canonica attuale del rapporto tra il Papa e i vescovi è ‘cum Petro e sub Petro’. Finora, non si può negare, è stato accentuato soprattutto il ‘sub Petro’. I tempi forse sono maturi per ridare tutto il significato al ‘cum Petro’. Si tratta di creare organismi opportuni per attuare questo. Non possiamo più ragionare in termini di antichi patriarcati”. “Cosa chiedono in sintesi Schönborn, Martini, Cantalamessa?”, si chiede ancora Zizola. “La fine della solitudine del Papa in favore di un esercizio del potere più equilibrato”.

Cosa significa tutto ciò? Come si concretizza la proposta d’una maggiore collegialità? Per molti occorre tornare al 1978, al primo libro in cui un programma di riforma della chiesa in chiave progressista venne sintetizzato. S’intitola “L’officina bolognese, 1953-2003” ed è curato da Giuseppe Alberigo. Descrive i cinquant’anni di vita del “Centro di Documentazione” fondato a Bologna da Giuseppe Dossetti, l’uomo che ha messo in campo quell’“ermeneutica della riforma” del Vaticano II che ancora oggi gode di una fortuna universale. Tra i documenti spicca un lungo promemoria, datato agosto 1978, e “inviato ai partecipanti all’imminente Conclave”, quello da cui uscì eletto Giovanni Paolo I, seguito poco dopo dall’altro Conclave in cui fu eletto Giovanni Paolo II. Il promemoria s’intitola “Per un rinnovamento del servizio papale nella chiesa alla fine del XX secolo”. Dossetti chiede tante cose. Tra queste che il Papa incida sulla macchina di governo della chiesa fin dai primi “cento giorni” del suo pontificato, passando da una gestione monarchica a una più collegiale.

E cosa Dossetti intende per “gestione collegiale” è esplicitato in sette punti. Anzitutto il Papa deve fare il vescovo di Roma, “diffidando dalle formule vicariali che hanno ormai un significato di sgravio di responsabilità e di disimpegno”. Deve, in analogia con il concistoro medievale e con il sinodo permanente orientale, creare “un organo collegiale che, sotto la sua presidenza personale ed effettiva, tratti almeno bisettimanalmente i problemi che si pongono alla chiesa nel suo insieme, prendendo le decisioni relative”. Deve “riconoscere al sinodo dei vescovi una capacità legislativa vera e propria, sempre sotto la sua presidenza e direzione”. Deve snellire la curia romana “dislocandola in altre aree cristiane”. Deve valorizzare maggiormente le chiese locali interpretando fino in fondo il principio di sussidiarietà. Deve lasciare che i vescovi siano eletti in loco e non a Roma. Deve abolire le nunziature apostoliche: in questo modo, dice Dossetti, “si supererebbe una delle sopravvivenze più sconcertanti della concezione della chiesa come potenza tra le potenze e del papato come monarchia”. Infine deve abbandonare “il convincimento di dovere decidere da solo, di non potere rinunciare ai simboli monarchici del potere e dell’autorità”.

Dossetti parla della necessità di un sinodo permanente. Marco Politi, saggista, vaticanista e commentatore per il Fatto, ricorda che in questi anni né è stato rafforzato il ruolo del sinodo né è stata realmente valorizzata la funzione consultiva del collegio cardinalizio. Dice: “Il collegio cardinalizio, dove sono presenti i vescovi residenziali di tanta parte del mondo, è un luogo dove si potrebbero prendere insieme decisioni importanti. Cosa che non è avvenuta. Al contrario, quando Benedetto XVI qualche anno fa convocò a Roma i cardinali per esaminare i rapporti con il movimento lefebvriano, la maggioranza dei porporati chiese che prima gli scismatici dovevano accettare i documenti del Concilio. Poi, però, il Papa ha preso un’altra decisione, revocando senza condizioni la scomunica ai quattro vescovi. E adesso la trattativa si trascina senza un reale chiarimento da parte dei seguaci di Lefebvre. Certamente dopo la stagione di non-decisione di questo pontificato molti vescovi si aspettano in futuro un cantiere di vere riforme”.

Che si eserciti per mezzo del sinodo, tramite i cardinali, o attraverso un collegio di saggi come ha chiesto recentemente Küng, l’agenda progressista per la chiesa dell’oggi ha un nemico principale. Quello che gli stessi progressisti chiamano “l’assolutismo monarchico romano”. Ne ha parlato recentemente il sociologo cattolico Franco Garelli. Per lui la soluzione è la collegialità la quale, ricorda, “ha un valore teologico e sociale”. Dice: “Il cardinale Martini l’ha richiamata spesso come punto qualificante. E’ necessario creare le condizioni affinché nella chiesa vi sia circolarità di idee”.

La “riflessione assieme”, appunto la circolarità delle idee, è indicata come una terapia adeguata per risolvere i mali interni alla chiesa. Più parole, maggiore confronto, avrebbero permesso una migliore prevenzione dei peccati dei ministri di Dio. Massimo Faggioli, discepolo della dossettiana scuola bolognese e oggi docente di Storia del cristianesimo moderno all’Università San Tommaso nel Minnesota, afferma: “Se cambiasse il sistema con il quale la chiesa esercita il potere ci sarebbero meno guai. In fondo è quello che sta chiedendo la ‘mosca bianca’ Schönborn: che Roma ascolti quanto hanno da dire le chiese locali. Perché è dal basso che molti problemi possono emergere in modo più chiaro e essere risolti”. Certo, dice, “la stessa divisione del potere a Roma non aiuta. Con la riforma della curia voluta da Paolo VI nemmeno i cardinali capi congregazione vedono il Papa e parlano con lui. Tutto è accentrato nelle mani del segretario di stato. E’ lui il terminale di un cono di bottiglia sempre più stretto. Al contrario servirebbe più orizzontalità, più respiro, più dialogo. E’ questo che certi vescovi e molte conferenze episcopali chiedono: le chiese si svuotano, i fedeli lasciano e i presuli non sanno più che fare”.

Non c’è ovviamente soltanto Schönborn. Ci sono anche altri vescovi e cardinali a chiedere le medesime cose: più collegialità in scia a quella sinodalità già pienamente accettata dalle chiese ortodosse. In Germania ne ha parlato spesso il cardinale Karl Lehmann. Anche in Italia c’è chi insiste su questo punto. E finisce anche sull’Osservatore Romano. L’ultimo in ordine di tempo è il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, allievo del cardinal Lercaro a Bologna. Il 25 aprile scorso scrive sull’Osservatore che la Costituzione sulla chiesa del Vaticano II parla prima del “popolo di Dio” e poi “della gerarchia della chiesa”. Perché la gerarchia è al servizio del popolo, non il contrario. La gerarchia deve cogliere “sempre più l’invito conciliare alla collegialità che, se si esprime compiutamente nella collaborazione dei vescovi col Papa e dei vescovi tra di loro, si ritrova a ogni livello della chiesa nello spirito e nella prassi della comunione. La ‘Lumen gentium’ ci invita peraltro a considerare quanti ‘semi del Verbo’ ci sono nel mondo, quanta diffusione di grazia ci sia nel creato anche al di fuori delle strutture ecclesiali”.

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Dopo lo schiaffo da Vienna, anche i theocon vogliono la testa di Sodano

“Sodano deve essere rimosso e gli si deve dire di servire la chiesa con la preghiera. Tutti devono sapere che ci sono delle conseguenze per errori così scandalosi”. E’ nettissima e definitiva la presa di distanza dal decano del collegio cardinalizio, il cardinale Angelo Sodano, messa in campo da Joseph Bottum, direttore di First Things, la rivista punto di riferimento dell’area theocon americana fondata dall’ex luterano, poi sacerdote cattolico, Richard John Neuhaus. Dopo lo schiaffo a Sodano dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, perché a suo dire quindici anni fa insabbiò il “caso Hans Hermann Groër”, è la rivista attorno alla quale ruota uno dei gruppi di intellettuali più influenti d’America ad aprire il fuoco contro un principe della chiesa che per anni, nell’era Wojtyla, ha tenuto le redini del governo della curia romana. La colpa attribuita a Sodano è esplicita: ha coperto, ottenendo anche diversi favori finanziari, le malefatte di Marcial Maciel Degollado, “il corrotto truffatore che ha fondato la Legione di Cristo e l’associazione laica Regnum Christi”.

Attorno a First Things ci sono personalità ascoltate non solo nel mondo cattolico americano ma anche in Vaticano: c’è Michael Novak, il profeta del capitalismo democratico, e George Weigel, biografo di Papa Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, senior fellow all’Ethics and Public Policy Center di Washington. C’è Mary Ann Glendon, ex ambasciatore americana presso la Santa Sede e docente di legge nella facoltà di Giurisprudenza di Harvard. Insieme a loro, c’è Robert Royal, presidente del Faith & Reason Institute della capitale federale.

Nella critica veemente a come la curia romana ha gestito il “caso Maciel”, First Things si accoda al National Catholic Reporter, il settimanale leader dei cattolici progressisti degli Stati Uniti nel quale scrive la stella del vaticanismo americano John Allen. E’ stato il National Catholic Reporter qualche giorno fa a scrivere un articolo in due parti sulle spericolate operazioni finanziarie portate avanti dai Legionari sotto la guida Maciel. Ma, scrive Bottum, “l’articolo ha ricevuto scarsa attenzione forse perché i legami della Legione con Carlos Slim non sono stati dimostrati”. Il miliardario messicano Carlos Slim, assieme ad altri supporter di peso, è stato indicato in questi giorni da alcuni giornali tra i principali finanziatori della Legione. Si sono anche letti i nomi del produttore cinematografico Steve McEveety, di Thomas Monaghan, fondatore di Domino’s Pizza e dell’Ave Maria University in Florida, dell’ex governatore della Florida Jeb Bush e dell’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum.

Tra i finanziatori più volte si è anche fatto il nome di Neuhaus. Del resto fu lui nel 2002 a scrivere che le accuse contro Maciel erano “false e malevole”. Ma, spiega Bottum con tono amaro e malinconico, “Maciel ha ingannato molte persone, tra cui il fondatore di questa rivista”. Scrive ancora Bottum: “L’ironia della sorte fu che Neuhaus non fece questa difesa su richiesta di Maciel, che tra l’altro non conosceva bene, ma l’ha fatta perché giovani sacerdoti della Legione gli chiesero di farla e gli dissero che Maciel era sotto un attacco falso e sleale”.

Qualcuno per il caso Maciel deve pagare. Per Bottum è Sodano il capro espiatorio: “Deve andarsene” scrive. “E’ tutto molto triste. Una lunga carriera nella chiesa non sta finendo bene. Senz’altro sarebbe più gentile proteggere Sodano e lasciare che tutto scivoli via così. Ma è lo stesso Sodano che non sembra disposto a lasciare il campo in questo modo”. E una dimostrazione di ciò, secondo Bottum, si è vista nella difesa di Benedetto XVI che Sodano ha fatto il giorno di Pasqua: “E’ con lei il popolo di Dio, che non si lascia impressionare dal ‘chiacchiericcio’ del momento” ha detto il cardinale. E poi l’affondo più duro: “Stando così le cose (Dio non voglia) se Benedetto XVI dovesse morire, le esequie funebri sarebbero guidate dal cardinale Sodano e così i telegiornali, ora dopo ora, tirerebbero fuori tutto quello che adesso viene associato al suo nome”.

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22/05/2010 07:05

Inchiesta dopo lo “schiaffio di Vienna” (parte II). E’ dall’Austria del caso Groër che prende forma l’agenda progressista sui temi morali

L’area liberal, o se si vuole progressista, sta ai margini della chiesa. Ha pochi colloqui con le gerarchie. Anche se, a onor del vero, cardinali o vescovi a cui rifarsi e riferirsi ne ha, ma questi faticano ad ammetterlo esplicitamente. E’ oggi una frangia un po’ borderline, la cui agenda di riforme nelle scorse ore è stata messa al centro del dibattito ecclesiale grazie alla manovra del porporato boemo a capo della chiesa di Vienna, Christoph Schönborn. Il cardinale ha elencato molti dei punti sui quali la chiesa, a suo dire, dovrebbe ripensarsi e rinnovarsi: l’organizzazione del potere al proprio interno ma anche quei problemi che hanno a che fare più direttamente con la quotidiana vita di fede. E cioè l’abolizione dell’obbligo del celibato per i preti e quindi l’ammissione al sacerdozio dei laici sposati, donne comprese. Una nuova visione sulle coppie omosessuali stabili. La piena accettazione dei divorziati risposati (con le rispettive nuove famiglie). Temi sui quali più volte Benedetto XVI ha espresso pareri contrari e forse definitivi. E con lui il Vaticano.

“Che sia stato Schönborn a riportare certe tematiche all’attenzione di tutti non è un caso” racconta Vittorio Bellavite, leader della sezione italiana del movimento Noi siamo chiesa. “Il nostro movimento, infatti, è nato dalle ceneri del caso di Hans Hermann Groër, il predecessore di Schönborn a Vienna. Fu a seguito delle accuse di pedofilia contro Groër che a Innsbruck e a Vienna alcuni cattolici vollero reagire e stilare il celebre ‘Appello dal popolo di Dio’. Appunto un’agenda per le gerarchie della chiesa fatta di punti precisi. Un’agenda che ritengo Schönborn condivida. Altrimenti non si spiegherebbe perché, pochi giorni fa, l’arcivescovo di Vienna abbia tenuto una celebrazione penitenziale in cattedrale e al suo fianco abbia voluto Hans Peter Hurka e Martha Heizer, i leader del nostro movimento in Austria. La celebrazione era in diretta televisiva. Il gesto di Schönborn è stato un segnale voluto”.

Dal 1995 a oggi l’Appello è stato firmato da oltre due milioni e mezzo di persone. Inizialmente ci fu l’appoggio anche di molti vescovi austriaci. Poi i presuli vennero richiamati all’ordine dal Vaticano, e ritirarono l’adesione. Da quel giorno, con le gerarchie, almeno in forma ufficiale, nessun contatto. Dice Bellavite: “Un’eccezione è stata l’incontro del 2007 con il cardinale Angelo Bagnasco. Il presidente della Cei ci ha ascoltato ma ci ha anche detto che la strada della chiesa resta un’altra rispetto alla nostra”.

L’Austria è sempre stata un terreno fecondo per un episcopato conciliare con le istanze del mondo. E per questo motivo è stato più volte ripreso da Benedetto XVI. Eppure, ancora oggi, è in Austria che un certo leitmotiv va avanti. Pochi giorni fa è stato Paul Iby, vescovo di Eisenstadt nel Burgenland, a dirsi pubblicamente non solo per l’abolizione del celibato ma anche per l’apertura del sacerdozio alle donne. Dice: “Per i preti sarebbe sicuramente un sollievo se l’obbligo del celibato venisse revocato”. E ancora: “Roma è troppo timorosa, così non si va avanti”.

L’ala progressista chiede cose precise: il superamento della separazione strutturale tra chierici e laici per una corresponsabilità nella chiesa; un aperto confronto sulla sacra scrittura per raggiungere la piena partecipazione delle donne ai ministeri ecclesiali; la possibilità per le singole comunità di celebrare l’eucaristia e animare la propria fede in una pluralità non delimitata da regole e canoni storicamente condizionati; i preti devono essere lasciati liberi di aderire al celibato o meno; i divorziati devono poter accedere all’eucaristia; nel campo della regolazione delle nascite ci deve essere libertà di coscienza; ogni discriminazione nei confronti delle persone omosessuali deve essere superata. Dice il teologo Vito Mancuso: “In generale la partita è chiara. Si tratta di tornare alla leggerezza di fondo che caratterizzava Gesù e le prime comunità cristiane. Si tratta di tornare all’unico principio veramente non negoziabile per la chiesa: l’amore di Dio e per il mondo. Non c’è da avere paura, non c’è da temere nulla. C’è solo da ritrovarsi e dialogare. A mio avviso, l’indizione di un Concilio Vaticano III è quanto mai indispensabile. Il Vaticano II non basta più”.

Il celibato dei preti è un nodo sul quale ciclicamente i progressisti tornano a dire la loro. E quest’anno, in concomitanza con l’anno sacerdotale, l’attacco è stranamente più veemente. Sostengono che il celibato non abbia un fondamento teologico e sussista semplicemente in virtù di una legge canonica entrata in vigore col Concilio di Trento. Mentre il Papa e la maggioranza dei vescovi dicono altro, che abbia radici nel Vangelo, sostanzialmente nella scelta di Cristo dei dodici. Don Paolo Farinella, prete ligure che non ha mai nascosto un acerrimo antagonismo nei confronti delle gerarchie e di Roma, cita il cardinale Martini il quale “ha sempre detto che il celibato non è un obbligo”. Perché? “E’ semplice: i preti si scelgono tra coloro che preventivamente dichiarano di essere portati al celibato. Quindi il celibato è una condizione previa al sacerdozio ma non è collegata teologicamente con esso. Tant’è che nelle chiese orientali esistono i preti sposati. E adesso ne arrivano nella chiesa cattolica anche dalle comunità anglicane”. Secondo don Farinella tutto si gioca nella lettura che si fa del Vaticano II: “C’è poco da fare. Ratzinger con l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità ha svuotato di ogni contenuto il Concilio. Mentre invece il Vaticano II, al contrario di quanto sostiene il Papa, è del tutto incompatibile con i pontificati precedenti. Tutti i pontificati, da Gregorio XVI a Pio X, sono incompatibili col Concilio. Del resto Pio XII sosteneva che la chiesa deve tenere aperte le sue porte e il mondo deve entrarvi dentro. Che piaccia o no il Concilio ha detto l’opposto: la chiesa sta nel mondo. La visione del passato è morta”.

Tantissimi fedeli vivono situazioni familiari non facili. I divorziati risposati sono sempre più numerosi. Lo disse anche Ratzinger dialogando con Peter Seewald: “Non v’è dubbio che questo sia un grave problema per la nostra società in cui aumenta sempre più il numero dei matrimoni che si rompono”. Ma disse anche: “Occorre riconoscere che la sofferenza e la rinuncia all’eucaristia possono essere un qualcosa di positivo, con cui dobbiamo trovare un nuovo rapporto. Si può partecipare alla messa, all’eucaristia in modo significativo e fruttuoso senza che ogni volta si vada a fare la comunione”. Mentre l’ala liberal incalza portando altri contenuti: il Vaticano II ha sostenuto che il fine del matrimonio è l’amore dei due coniugi. Il Concilio di Trento ha invece detto che il fine del matrimonio è la procreazione. Occorre scegliere da che parte stare: con Trento o con il Vaticano II? Dice ancora don Farinella: “Se si sta col Vaticano II si supera una concezione preindustriale e contadina del matrimonio e si ammette che il matrimonio è altro. E’ amore. E l’amore può non essere sempre perfetto e può rinascere in altri luoghi. Del resto non capisco: ai divorziati risposati non si concede l’eucaristia, mentre invece i preti in stato di peccato mortale possono celebrarla. Mi sembra un enorme controsenso”.

Filippo Di Giacomo, canonista ed editorialista, esce dai casi singoli per guardare il problema in modo più ampio. Ha assistito da spettatore allo “schiaffo” di Schönborn alla curia romana. Dice: “E’ il segno che oggi c’è una chiesa di base che non ne può più di cardinali e vescovi ottantenni che decidono tutto e pensano soltanto alla carriera. Eppure i nodi toccati da Schönborn sono già stati oggetto di studio e di stesura di documenti in Vaticano. Da tempo dentro le mura leonine c’è chi ne parla. Magari il dibattito è a fari spenti, ma comunque c’è. Basterebbe riprendere le ipotesi di riforme già vagliate. Tra queste la riforma del processo matrimoniale. Il cardinale Mario Francesco Pompedda, oggi scomparso, aveva proposto una riforma che permetteva di abbreviare i tempi dei processi di annullamento ma poi non se ne fece nulla”.

I temi sono sempre gli stessi, da anni: il celibato dei preti, la dottrina circa i divorziati risposati, e poi l’ipotesi dell’ordinazione femminile. Il Vaticano su questo punto monitora ogni movimento e punisce. Per la Santa Sede non si tratta di chiusura preconcetta, ma di corretta interpretazione del dettato evangelico. Due sono le contromisure che il Vaticano ha preso negli ultimi anni. La prima è un decreto emesso dalla Congregazione per la dottrina della fede “circa il delitto di tentata ordinazione sacra di una donna”. La seconda è l’interdetto spiccato da Raymond Leo Burke, quando ancora era arcivescovo di Saint Louis, contro una suora della sua diocesi, Louise Lears, colpevole di aver assistito e dato sostegno all’ordinazione al sacerdozio di due donne.

Nella chiesa cattolica, una spinta all’ordinazione femminile venne soprattutto dopo la pubblicazione della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Ordinatio Sacerdotalis” del 1994. Quaranta vescovi degli Stati Uniti scrissero su Origins, la rivista della Conferenza episcopale, un articolo dove lamentavano che il testo di Wojtyla era stato emanato “senza alcuna previa discussione e consultazione”, quando invece riguardava una materia “che molti cattolici ritengono bisognosa di studi più approfonditi”. I quaranta chiedevano che le conferenze episcopali rispondessero colpo su colpo “ai testi di varia natura che vengono da Roma”, a cominciare da quello sull’ammissione delle donne al sacerdozio. Il principale promotore del documento era l’allora arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, già presidente dei benedettini confederati di tutto il mondo e star dei liberal americani, ora protagonista del caso Murphy-New York Times con le accuse di omesso controllo a Ratzinger e Bertone (al tempo del Sant’Uffizio).

Forse è soltanto una coincidenza. Ma molti osservatori qualche anno dopo annotarono stupiti come la chiamata alla rivolta di Weakland fosse stata messa in campo per la prima volta in Austria: ancora la terra di Groër e poi di Schönborn, la terra dove Noi siamo chiesa agisce con maggiore presa. Il primo vero atto di rottura, infatti, avvenne nel 2002 sul fiume Danubio, non lontano da Passau, al confine tra Austria e Germania. Lì, su un battello, un vescovo scismatico argentino, Romulo Braschi, ordinò al sacerdozio sette donne, le prime del movimento denominato Roman Catholic Womenpriests, che conta oggi diverse decine di ordinate prevalentemente degli Stati Uniti e del Canada, tra le quali quattro donne vescovo. Il 10 luglio 2002 il Vaticano reagì alle ordinazioni del Danubio con un decreto di scomunica.

Da Roma si teme che il numero delle donne ordinate cresca. E che vi sia qualche infedele: Patricia Fresen, l’ex suora che è una dei quattro vescovi del Roman Catholic Womenpriests, afferma d’essere stata ordinata all’episcopato nel 2005 da tre vescovi di cui tiene segreti i nomi.

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22/05/2010 07:06

Inchiesta dopo lo “schiaffo di Vienna” (III parte). La riforma della libera coscienza. La zona grigia dell’agenda progressista sui temi della scienza, della vita e della morte

Non c’è solo la richiesta di maggiore collegialità nell’esercizio del governo della chiesa. E nemmeno tutto è racchiuso nelle formule “no al celibato”, “sì alle donne prete”, “nuova dottrina cattolica per gli omosessuali”. L’agenda progressista per la chiesa dell’oggi è dettagliata anche nel settore più delicato quanto al rapporto tra chiesa e modernità: la bioetica. Aborto, scelte di fine vita, la nuova eugenetica, ingegneria genetica, trapianti, obiezione di coscienza, procreazione medicalmente assistita e sperimentazione sull’uomo sono i punti caldi. E sempre in evoluzione.

Da una parte c’è la chiesa che sostiene la non piena disponibilità e programmabilità della vita: la chiesa dei princìpi “non negoziabili”, come li ha definiti Benedetto XVI poco dopo essere salito al soglio di Pietro. Dall’altra chi anche nella chiesa pensa che la vita possa non essere indisponibile: c’è sempre un momento in cui è possibile fare un passo indietro, cedere, mediare. Beninteso: qui il cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn non c’entra nulla. La sua posizione in merito è chiara. Già nel celebre articolo del 2005 scritto per il New York Times nel quale elaborò una dura critica all’evoluzionismo darwiniano aprendo anche alla teoria del “disegno intelligente”, aveva messo in guardia dall’influenza che l’evoluzionismo come ideologia ha nei campi del neoliberalismo economico, in quello della pedagogia in Europa, e nelle questioni di bioetica dove rischia di dare vita a nuove teorie eugenetiche. E poi anche un anno dopo al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione tornò sull’argomento: “La chiesa cattolica oggi si trova spesso da sola a difendere la dignità assoluta dell’uomo dal concepimento sino alla morte naturale. Nonostante le critiche, la chiesa continua a credere fermamente che vi sia un linguaggio del Creatore e pertanto un ordine eticamente vincolante nella creazione che continua a rimanere criterio fondamentale”.

Ma, se non è Schönborn a rappresentare un problema, la stessa cosa non la si può dire degli altri vescovi del suo paese. E’, infatti, nell’episcopato austriaco, come anche in quello tedesco, che le idee circa la bioetica sono espresse sovente in modo scivoloso. Del resto l’ha spiegato, in tempi recenti, pure il cardinale Carlo Maria Martini. Nel libro del 2008 “Colloqui notturni a Gerusalemme” dove si definisce “un ante Papa”, ovvero “un precursore e preparatore per il Santo Padre”, Martini apre il fuoco contro l’enciclica di Paolo VI del 1968 sul matrimonio e la procreazione Humanae Vitae e, nel farlo, rivela le sue fonti. O meglio, i suoi ispiratori. Dice: “Dopo l’enciclica Humanae Vitae i vescovi austriaci e tedeschi, e molti altri vescovi, seguirono, con le loro dichiarazioni di preoccupazione, un orientamento che oggi potremmo portare avanti”. Un orientamento che esprime “una nuova cultura della tenerezza e un approccio alla sessualità più libero da pregiudizi”. Un orientamento, tuttavia, più volte sconfessato dai Pontefici. Tante le udienze ad limina nelle quali i due episcopati hanno subìto un richiamo all’ordine. Tra queste, una memorabile avvenuta nel 1987. Giovanni Paolo II disse ai vescovi dell’Austria che più volte si erano espressi in modo ambiguo sulla contraccezione: “L’invito alla contraccezione vista come una modalità di relazione tra i sessi che si suppone ‘innocua’ non costituisce soltanto un’insidiosa negazione della libertà morale dell’uomo. Incoraggia infatti un’interpretazione spersonalizzata della sessualità che viene ristretta principalmente al momento dell’unione fisica e promuove, in ultima analisi, quella mentalità dalla quale emerge l’idea dell’aborto e dalla quale viene continuamente nutrita”.

Da Paolo VI a oggi la battaglia è chiara: da una parte coloro che vogliono fare proprie le idee che, a detta di Martini, vennero inaugurate anni fa dagli episcopati austriaci e tedeschi contro l’Evangelium vitae dei pontificati da Pacelli a Wojtyla fino a Ratzinger. Dall’altra chi non vuole cedere. Scrive ancora Martini: dopo Paolo VI venne Giovanni Paolo II, che “seguì la via di una rigorosa applicazione” dei divieti dell’enciclica. “Non voleva che su questo punto sorgessero dubbi. Pare che avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse il privilegio dell’infallibilità papale”. E dopo Giovanni Paolo II è venuto Benedetto XVI. Da lui Martini scrive di aspettarsi non tanto un ritiro dell’Humanae Vitae, quanto la scrittura di un nuovo testo dove “i propri errori” e “la limitatezza delle proprie vedute di ieri” vengano ammesse.

Ratzinger pone alla base d’ogni discussione l’accettazione dei principi “non negoziabili”. In molti chiedono di partire da un altro approccio. Stefano Ceccanti si è formato nella Fuci (ne è stato presidente) e su queste tematiche riflette in qualche misura il pensiero di quel mondo. Dice: “Trattandosi di problemi obiettivamente aperti, che chiamano in causa sia la coerenza con princìpi e valori sia la valutazione puntuale di singole proposte, anche sperimentali, è impensabile una rigida distinzione di ruoli interni alla comunità ecclesiale, sia nel senso di richiedere ai sacerdoti, ai vescovi e allo stesso Papa un silenzio in materia con l’idea di un’autonomia assoluta dei laici cristiani, sia, all’opposto, una forma disciplinare così stringente che annulli il ruolo di questi ultimi. Come dice don Severino Dianich, animatore e presidente per lunghi anni dell’Associazione teologica italiana, tutti devono operare in quest’ambito consapevoli di muoversi ‘sul mobile terreno dei tentativi, contingenti e rischiosi, di vivere il vangelo nella situazione, con l’intenzione di rendere all’uomo il miglior servizio possibile, che poi la storia e non il dogma giudicherà’”.

Più esplicito è Giovanni Avena. Dirige l’agenzia di stampa Adista, punto di riferimento del cattolicesimo del dissenso. Dice: “La chiesa non può trattare il no all’aborto e all’eutanasia, il no ai contraccettivi, alla masturbazione etc., come se fossero dei dogmi. I dogmi sono altri. Sono l’esistenza di Dio, la santissima trinità, il mistero dell’incarnazione. Questi sì che devono essere messi come punti fermi la cui non accettazione porta all’esclusione dalla chiesa. Ma il resto no”. Perché? “Semplice: non si può fare fuori la libertà di coscienza in questo modo. Il credente deve essere lasciato libero di decidere in coscienza cosa fare. L’aveva detto benissimo padre Bernard Häring, tra i più grandi teologi morali del XX secolo, le cui tesi furono seriamente osteggiate dal Sant’Uffizio. Criticò apertamente l’Humanae Vitae per la condanna della contraccezione. Secondo lui la chiesa doveva salvaguardare la libertà del credente di scegliere la trasgressione, il peccato. E poi, eventualmente, la redenzione tramite la confessione”.

Problema serio quello della libertà di coscienza. Già il cardinale John Henry Newman ebbe a dire: “Brindo al Papa, ma prima alla coscienza”. E anche Ratzinger disse la sua in merito quando ancora era alla guida della Dottrina della fede. Si trovava per una conferenza a Siena. Disse: “Quanto avrebbe da guadagnare la chiesa dall’esistenza nel mondo cattolico di uomini liberi come erano nel medioevo santa Caterina, Dante o Antonio da Padova, veri figli di Dio i quali sanno che non si serve Dio con la menzogna, con l’omertà e col servile vassallaggio di un certo clericalismo. Quanti fatti orrendi sarebbero stati evitati, risparmiando alla chiesa la vergogna e l’onta”. Perché “al di sopra del Papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo”. Oggi molti tra coloro che ai “princìpi non negoziabili” in campo morale contrappongono il diritto alla libertà di coscienza si fanno forti di questa frase di Ratzinger. Anche se, a onore del vero, la libertà di coscienza evocata da Ratzinger presuppone la verità e soltanto in questo senso indica alla volontà il cammino che deve percorrere. Il richiamo alla coscienza di Ratzinger, insomma, non può giustificare qualsiasi scelta dell’uomo anche perché “extra ecclesiam nulla salus”.

Al contrario la pensano altre vulgate. Tra queste quella ravvisabile tra le righe di due testi che hanno fatto molto parlare di sé. Le interviste-confessioni del cardinale Martini: non solo “Conversazioni notturne a Gerusalemme” con Georg Sporschill, ma anche “Siamo tutti nella stessa barca” con don Luigi Verzé. Scrive Roberto de Mattei: “Sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la ‘morale debole’. Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compresi coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica”.

Stefano Semplici insegna Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata. Il suo pensiero in merito è articolato. Dice: “Il Papa ha ribadito nella sua ultima enciclica – e dunque proprio nel contesto di un’ampia riflessione sulle grandi questioni dell’economia, della giustizia sociale e del rispetto dell’ambiente – che il ‘campo primario e cruciale’ nel quale ‘si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale’ è quello della bioetica. Mentre si può discutere delle soluzioni migliori per affrontare il problema della povertà, qui ci si trova insomma di fronte a un aut aut decisivo, perché si tratta di decidere ‘se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio’. La chiesa fa bene a incalzare la versione semplificata e ridotta del valore della libertà che la fa coincidere con un’idea astratta di autodeterminazione. E’ condivisibile il richiamo anche insistente alla cura della relazione, alla responsabilità per i doveri che vengono insieme ai diritti e forse prima di essi, all’esperienza che la libertà non si produce, non si sostiene, non si rende felice da sé. Che non la si può volere e difendere senza volere, senza lasciare che la vita sia. Questa posizione ‘forte’ sarebbe tuttavia pienamente compatibile con la valorizzazione di due sensibilità che hanno radici profonde nella grande tradizione della Chiesa. La prima è quella che, seguendo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino, riconosce la specificità della ragione pratica nella ‘saggezza’ con la quale il principio si applica alla situazione concreta, mettendo in conto la possibilità dell’eccezione. La seconda suggerisce di non cedere alla tentazione di utilizzare l’argomento della ‘sacralità’ della vita come una sorta di passepartout. La bioetica corrisponde in realtà ad un fascio complesso e diversificato di problemi. Si pensi solo alla differenza radicale fra le questioni di inizio vita che implicano la scelta appunto su un’altra vita e quelle che coinvolgono solo il desiderio di una persona di decidere quando è arrivato per lei il momento di non resistere più alla morte. Non si chiede alla chiesa di ‘negoziare’, ma di riprendere la linea tracciata per esempio nella Dichiarazione sull’eutanasia del 1980, nella quale si riconosceva senz’altro che spesso ‘la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i princìpi della morale’. E che in questi casi ‘prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato’, naturalmente insieme alle persone che lo accompagnano e lo amano. Basterebbe questo ad orientare in modo diverso un confronto come quello in atto in Italia sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento”.

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Questo Trhend è strettamente collegato al Trhend Schoenborn, i vescovi austriaci e l'agenda progressista.
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[SM=g7497] è lampante che da anni si sia formata una schiera di MODERNISTI, un modernismo di cui san Pio X aveva già predetto, annunciato e condannato....

Oggi viene allo scoperto, diremo: i nodi vengono al pettine, e di questo DOBBIAMO RINGRAZIARE LA PROVVIDENZA perchè se da un lato questo ci fa male, dall'altra però è un BENE perchè finalmente si conoscono nomi e cognomi ed il fedele cattolico, se non è completamente cieco (nell'anima) comprenderà dove sta la verità e dove regna la menzogna...

Già nel 1300 san Tommaso d'Aquino aveva predetto anch'egli insieme ad altri profeti e Dottori della Chiesa, che il SISTEMA CULTURALE, ETICO E MORALE sarebbe decaduto spianando la strada all'Anticristo...
Ci sono e ci saranno eventi che NON ci sarà possibile eliminare, attenzione alle parole di Benedetto XVI a Fatima sul Terzo Segreto... [SM=g7182] egli ha rammentato LA GRAVITA' della situazione in cui vive la Chiesa e che i NEMICI SONO DAL SUO INTERNO....lo ha detto il Papa eh!
E' dunque fondamentale comprendere che ora l'importante è PERSEVERARE NELLA FEDE aprendo gli occhi del cuore sulla verità...

Quanto e quando leggiamo di questi associazionismi etici e morali votati all'INGANNO della sana dottrina biblica, compito nostro è NON DISPERARE!!! Il peggio dovrà ancora venire... [SM=g7364]
Gesù non ci chiede di salvare il mondo, ma di PERSEVERARE NELLA FEDE AUTENTICA che non è fatta solo di incontri della GMG di canti, di balli e di raduni...ma è fatta di CONCRETEZZA NEL SOSTEGNO ED AL SOSTEGNO DELLA VERITA'...

Chiunque ballando e cantando o andando ai raduni mega....coltivasse però una etica ed una morale contraria alla dottrina della Chiesa, HA PERDUTO DI FATTO LA VERA FEDE...non ha perseverato e non spetta a noi giudicarlo o condannarlo, ma ricordargli la VIA MAESTRA CHE E' QUELLA DELLA SANTA CHIESA... [SM=g7348]

Questo discorso si associa a quest'altro:
ffz.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9254169

[SM=g7255] [SM=g7427]

Buona Vigilia e Buona Pentecoste a tutti!

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26/05/2010 20:05

L'agenda dei controriformisti

Ecco un bell'articolo di Rodari. Rendiamogliene merito.

Il vaticanista Sandro Magister dice una cosa che vale la pena ricordare quanto si è di fronte alle richieste di riforma provenienti da una certa base del cattolicesimo, da coloro per i quali il dissenso è divenuto il centro della propria vita di fede: “Nei momenti cruciali, quando la chiesa è maggiormente in difficoltà anche a motivo dei peccati dei suoi componenti, i Pontefici hanno fatto sempre una cosa: rafforzare il celibato sacerdotale. La riforma gregoriana, ma anche quella tridentina, su questo caposaldo si sono affinate. Sulla ricerca di un clero scelto, una squadra di combattenti forti e virtuosi capaci di accettare la mortificazione del corpo a gloria di Dio e per il bene di tutta la chiesa. Preti celibi, preti sposi soltanto della chiesa. E anche Benedetto XVI sta facendo la medesima cosa. Altrimenti non si spiegherebbe perché la straordinaria indizione di un anno dedicato ai sacerdoti il cui testimone principe è il curato d’Ars, un prete che visse il celibato totalmente, spendendo ogni energia per i suoi fedeli attraverso la celebrazione dei sacramenti”.

Il fuoco contro il celibato sacerdotale, in questo anno dedicato ai preti, è particolarmente insistente. Gli attacchi fanno male perché vengono da dentro la chiesa, dal suo interno, dai suoi uomini. Non si tratta soltanto di dichiarazioni estemporanee di qualche vescovo della periferia dell’impero. Si tratta di uscite inaspettate di vescovi ritenuti vicini (anche idealmente) a Roma. A loro dire è impellente trovarsi a parlare, a confrontarsi e a discutere, del celibato. Che, fuori dall’ecclesialese, significa una cosa: eliminarlo. Perché soltanto riformando il cuore della vita della chiesa, appunto il sacerdozio, una vera rivoluzione in scia allo spirito dei tempi può avere luogo. Le dichiarazioni anti celibato di qualche giorno fa di monsignor Paul Iby, vescovo del Burgenland, sono soltanto ciò che emerge di una pressione sempre più intensa e sistematica. Una rivolta alimentata anche dall’evidente appoggio di alcuni cardinali. Tre giorni fa l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, ha detto di capire “le preoccupazioni” di Iby: “Le preoccupazioni sollevate dal vescovo Iby sono le preoccupazioni di tutti noi”. Parole ascoltate con gravità oltre il Tevere, soprattutto alla luce del fatto che il Papa, indicendo l’anno sacerdotale, ha proposto altri modelli. L’ha ricordato due giorni fa sull’Osservatore Romano, probabilmente non a caso, il segretario del Clero, monsignor Mauro Piacenza: “L’anno sacerdotale nasce da una ricorrenza ben precisa, il centocinquantesimo anniversario della nascita al cielo del curato d’Ars, e proprio per indicare un’autentica realizzazione del modello sacerdotale”. E poi l’affondo sul celibato, il cui fondamento è in Cristo: “Non basta dire che Cristo e la sua vita furono verginali, la verginità non è qualcosa di aggiunto all’esistenza terrena di Cristo, ma appartiene alla sua stessa essenza. Cristo è la verginità stessa e quindi ne è il modello. Certamente esistono molteplici ragioni di convenienza del celibato, sia sotto il profilo storico sia biblico, sia sotto quello spirituale e pastorale, tuttavia fondamentale è aderire alla fonte di tutto: Cristo stesso”.

C’è chi ricorda che la chiesa di fatto già ammette i preti sposati: diverse comunità anglicane sono state da poco riammesse alla piena comunione con Roma, sacerdoti sposati compresi. E poi si rammenta l’esperienza delle chiese cattoliche di rito orientale: anche qui ci sono sacerdoti coniugati. Don Nicola Bux, consultore della Dottrina della fede, ci tiene però a puntualizzare un po’ di cose. Dice: “Anzitutto vorrei domandare a questi cardinali che continuamente chiedono aperture e nuove discussioni: ha forse ragione Karl Ranher quando sostiene ne ‘I nuovi saggi’ che i cardinali conoscono a mala pena ciò che hanno imparato nelle lezioni di teologia mentre non sanno nulla della dottrina cattolica? Forse sì. Forse ha ragione Rahner. Tra l’altro vanno fatti alcuni chiarimenti sui preti sposati orientali. Questi propriamente non sono preti sposati nel senso che erano sposati già prima dell’ordinazione. Ai preti, infatti, non è concesso il matrimonio. Tecnicamente occorrerebbe chiamarli ‘sposati-ordinati preti’. E la cosa non è senza senso: è un sintomo evidente dell’antica tradizione comune con l’occidente che non ammette a chi è ordinato di accedere al matrimonio. Inoltre va ricordato quando e come l’oriente aprì ai preti sposati. Fu durante il Concilio di Trullo che si svolse a Costantinopoli nel 692. Di fatto questa apertura fu un cedimento. Perché occorre dirlo anche se forse è poco ecumenico: nella cristianità soltanto i cattolici di rito latino non hanno ceduto. Orientali, ortodossi e protestanti sono stati meno forti e decisi”.

Don Luigi Negri, vescovo di San Marino e voce ascoltata nella galassia ciellina, dice che “la situazione è grave”. Perché? “Ci sono vescovi che prendono posizioni direttamente contrarie alla dottrina. Aprono su questioni sulle quali il Papa ha già detto cose di fatto definitive. Vorrei ricordare che molte dichiarazioni di Giovanni Paolo II erano prossime all’essere considerate come pronunciate ex cathedra, e dunque infallibili. Invece ci sono alcune autorità della chiesa che chiamano in causa il magistero giustificandolo agli occhi della mentalità dominante. Dimenticano Jean Guitton de ‘Il Cristo dilacerato’. E’ un breve saggio che scrisse di getto durante il Concilio. Disse che l’eresia si verifica quando è il mondo che giudica la fede, che chiama la fede a giustificarsi. Io contesto questa mentalità smascherata da Guitton perché non è più cristiana. E mi sgomenta che siano autorità della chiesa a fare proprie queste posizioni”.

Il Papa ha parlato più volte del valore del celibato. Il 12 marzo si trovava a Castel Gandolfo. Qui ricevette i partecipanti a un convegno teologico. Parlò del “valore sacro del celibato”. E affondò il colpo contro le mode che vogliono far sì che anche il sacerdote si adegui, spirito e anima, al mondo. Disse: “Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire e amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale, dal suo essere profondo. Di conseguenza, deve porre ogni cura nel sottrarsi alla mentalità dominante, che tende ad associare il valore del ministro non al suo essere, ma alla sua funzione, misconoscendo, così, l’opera di Dio, che incide nell’identità profonda della persona del sacerdote, configurandolo a sé in modo definitivo”. Il richiamo all’abito non è senza senso. L’abito è un segno. Uno schiaffo in faccia al mondo. Ed è anche una forma di difesa dalle insidie e dalle tentazioni del mondo. Eppure, nel post Concilio, alcuni l’hanno abbandonato. E chi teorizza che sia giusto così, dimentica Giovanni Paolo II. Racconta un frequentatore dell’appartamento wojtyliano: “Un giorno arrivò al Papa l’annuario dei vescovi brasiliani. C’erano i loro nomi e cognomi, gli indirizzi, e anche le foto. Il Papa lo aprì e, pochi secondi dopo, lo scagliò contro il muro con violenza. Nelle foto molti vescovi erano in giacca e cravatta. Erano i tempi in cui la teologia della liberazione andava forte e faceva proseliti. Il Papa non sopportava un simile tradimento”.

Attacco al celibato, attacco al cuore della vocazione sacerdotale, fino agli attacchi alla liturgia, il luogo dove i fedeli, grazie ai ministri di Dio, appunto i sacerdoti, incontrano il mistero. Un Papa, Benedetto XVI, che indice l’anno sacerdotale per ritrovare il baricentro. Per ricordare qual è la giusta direzione. Anche se, a onor del vero, già molto aveva detto quando era cardinale e, ancora prima, vescovo e teologo. Per quanto riguarda la liturgia non si può non ricordare il suo “Introduzione allo spirito della liturgia”, un cult alla stessa stregua del libro a cui Ratzinger si rifà, quel “Lo spirito della liturgia” di Romano Guardini pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana “Ecclesia Orans” a cura dell’abate Herwegen: l’opera che, come scrive Ratzinger, “inaugurò il movimento liturgico in Germania. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera essenziale”. Per Ratzinger la riforma liturgica che ha portato il sacerdote a pregare versus populum ha introdotto “una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza. Ora infatti il sacerdote diviene il punto di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui. E’ lui che bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione”. Invece “l’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era celebrazione verso la parete, non significava che il sacerdote volgeva le spalle al popolo: egli non era poi considerato così importante”.

Alessandro Gnocchi dice che l’attacco al clero, al significato profondo del sacerdozio e quindi alla liturgia, ha le sue radici nell’immediato post concilio. “Anche se – spiega – già nella riforma dei riti della settimana santa del 1955-56 messa in campo, tra gli altri, da monsignor Annibale Bugnini ci furono dei prodromi di questo attacco: i cambiamenti stravolsero i riti secolari. Per la domenica delle Palme viene introdotta una ritualità verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell’altare, il Venerdì santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la venerazione della croce con il risultato di oscurare la natura sacrificale dell’ultima cena. Per il Lunedì santo si proibisce la preghiera contra persecutores ecclesiae e la preghiera per il Papa”. Perché queste riforme? Difficile rispondere. Secondo padre Carlo Braga – lavorò a stretto contatto con Bugnini – questa riforma fu la “testa d’ariete” che scardinò la liturgia romana dei giorni più santi dell’anno. Secondo Annibale Bugnini, invece, la prima occasione d’inaugurare un nuovo modo di concepire la liturgia. Allora furono alcuni episcopati, e anche vari liturgisti come Léon Gromier, consultore della Congregazione dei riti e membro dell’Accademia pontificia di liturgia, a lamentarsi. Ma con pochi risultati: Pio XII non aveva forse più la forza di reagire e la riforma passò. E a poco valse un segno lanciato qualche tempo da Giovanni XXIII: nel 1959, nella sua celebrazione del Venerdì santo a Santa Croce in Gerusalemme, celebrò seguendo le pratiche tradizionali.

Bugnini fu il principale protagonista della riforma liturgica. Una riforma che ha cambiato, di fatto, la vita dei fedeli e, insieme, quella dei preti. Dice Gnocchi: “Anzitutto il prete ha iniziato a celebrare ‘verso il popolo’ e non più ‘spalle al popolo’, ovvero volgendo il suo sguardo verso oriente, verso Cristo che viene. Questa è stata una svolta drammatica. Il prete è diventato un protagonista, quasi uno showman, al fondo il padrone della liturgia. In questo modo si è persa la dimensione verticale della celebrazione in favore di una dimensione circolare. Tutto è dentro un circolo chiuso composto dal prete e dai fedeli. Cristo resta fuori. Tant’è vero che il Santissimo è alle spalle del prete. Questa circolarità ha fatto sì che si perdesse il concetto di presenza reale di Cristo. Dell’eucaristia quasi ci si dimentica. Tutto è chiacchiera umana. Tutto è liturgia della parola. Prima del concilio il celebrante sedeva a lato dell’altare così tutti guardavano a Cristo. Oggi siede dietro l’altare. E tutti sono costretti a guardare lui”.


Fonte: blog di Rodari

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