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Dopo lo schiaffo di Vienna, qual è l’agenda Schönborn?

Ultimo Aggiornamento: 26/05/2010 20:05
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22/05/2010 07:06

Inchiesta dopo lo “schiaffo di Vienna” (III parte). La riforma della libera coscienza. La zona grigia dell’agenda progressista sui temi della scienza, della vita e della morte

Non c’è solo la richiesta di maggiore collegialità nell’esercizio del governo della chiesa. E nemmeno tutto è racchiuso nelle formule “no al celibato”, “sì alle donne prete”, “nuova dottrina cattolica per gli omosessuali”. L’agenda progressista per la chiesa dell’oggi è dettagliata anche nel settore più delicato quanto al rapporto tra chiesa e modernità: la bioetica. Aborto, scelte di fine vita, la nuova eugenetica, ingegneria genetica, trapianti, obiezione di coscienza, procreazione medicalmente assistita e sperimentazione sull’uomo sono i punti caldi. E sempre in evoluzione.

Da una parte c’è la chiesa che sostiene la non piena disponibilità e programmabilità della vita: la chiesa dei princìpi “non negoziabili”, come li ha definiti Benedetto XVI poco dopo essere salito al soglio di Pietro. Dall’altra chi anche nella chiesa pensa che la vita possa non essere indisponibile: c’è sempre un momento in cui è possibile fare un passo indietro, cedere, mediare. Beninteso: qui il cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn non c’entra nulla. La sua posizione in merito è chiara. Già nel celebre articolo del 2005 scritto per il New York Times nel quale elaborò una dura critica all’evoluzionismo darwiniano aprendo anche alla teoria del “disegno intelligente”, aveva messo in guardia dall’influenza che l’evoluzionismo come ideologia ha nei campi del neoliberalismo economico, in quello della pedagogia in Europa, e nelle questioni di bioetica dove rischia di dare vita a nuove teorie eugenetiche. E poi anche un anno dopo al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione tornò sull’argomento: “La chiesa cattolica oggi si trova spesso da sola a difendere la dignità assoluta dell’uomo dal concepimento sino alla morte naturale. Nonostante le critiche, la chiesa continua a credere fermamente che vi sia un linguaggio del Creatore e pertanto un ordine eticamente vincolante nella creazione che continua a rimanere criterio fondamentale”.

Ma, se non è Schönborn a rappresentare un problema, la stessa cosa non la si può dire degli altri vescovi del suo paese. E’, infatti, nell’episcopato austriaco, come anche in quello tedesco, che le idee circa la bioetica sono espresse sovente in modo scivoloso. Del resto l’ha spiegato, in tempi recenti, pure il cardinale Carlo Maria Martini. Nel libro del 2008 “Colloqui notturni a Gerusalemme” dove si definisce “un ante Papa”, ovvero “un precursore e preparatore per il Santo Padre”, Martini apre il fuoco contro l’enciclica di Paolo VI del 1968 sul matrimonio e la procreazione Humanae Vitae e, nel farlo, rivela le sue fonti. O meglio, i suoi ispiratori. Dice: “Dopo l’enciclica Humanae Vitae i vescovi austriaci e tedeschi, e molti altri vescovi, seguirono, con le loro dichiarazioni di preoccupazione, un orientamento che oggi potremmo portare avanti”. Un orientamento che esprime “una nuova cultura della tenerezza e un approccio alla sessualità più libero da pregiudizi”. Un orientamento, tuttavia, più volte sconfessato dai Pontefici. Tante le udienze ad limina nelle quali i due episcopati hanno subìto un richiamo all’ordine. Tra queste, una memorabile avvenuta nel 1987. Giovanni Paolo II disse ai vescovi dell’Austria che più volte si erano espressi in modo ambiguo sulla contraccezione: “L’invito alla contraccezione vista come una modalità di relazione tra i sessi che si suppone ‘innocua’ non costituisce soltanto un’insidiosa negazione della libertà morale dell’uomo. Incoraggia infatti un’interpretazione spersonalizzata della sessualità che viene ristretta principalmente al momento dell’unione fisica e promuove, in ultima analisi, quella mentalità dalla quale emerge l’idea dell’aborto e dalla quale viene continuamente nutrita”.

Da Paolo VI a oggi la battaglia è chiara: da una parte coloro che vogliono fare proprie le idee che, a detta di Martini, vennero inaugurate anni fa dagli episcopati austriaci e tedeschi contro l’Evangelium vitae dei pontificati da Pacelli a Wojtyla fino a Ratzinger. Dall’altra chi non vuole cedere. Scrive ancora Martini: dopo Paolo VI venne Giovanni Paolo II, che “seguì la via di una rigorosa applicazione” dei divieti dell’enciclica. “Non voleva che su questo punto sorgessero dubbi. Pare che avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse il privilegio dell’infallibilità papale”. E dopo Giovanni Paolo II è venuto Benedetto XVI. Da lui Martini scrive di aspettarsi non tanto un ritiro dell’Humanae Vitae, quanto la scrittura di un nuovo testo dove “i propri errori” e “la limitatezza delle proprie vedute di ieri” vengano ammesse.

Ratzinger pone alla base d’ogni discussione l’accettazione dei principi “non negoziabili”. In molti chiedono di partire da un altro approccio. Stefano Ceccanti si è formato nella Fuci (ne è stato presidente) e su queste tematiche riflette in qualche misura il pensiero di quel mondo. Dice: “Trattandosi di problemi obiettivamente aperti, che chiamano in causa sia la coerenza con princìpi e valori sia la valutazione puntuale di singole proposte, anche sperimentali, è impensabile una rigida distinzione di ruoli interni alla comunità ecclesiale, sia nel senso di richiedere ai sacerdoti, ai vescovi e allo stesso Papa un silenzio in materia con l’idea di un’autonomia assoluta dei laici cristiani, sia, all’opposto, una forma disciplinare così stringente che annulli il ruolo di questi ultimi. Come dice don Severino Dianich, animatore e presidente per lunghi anni dell’Associazione teologica italiana, tutti devono operare in quest’ambito consapevoli di muoversi ‘sul mobile terreno dei tentativi, contingenti e rischiosi, di vivere il vangelo nella situazione, con l’intenzione di rendere all’uomo il miglior servizio possibile, che poi la storia e non il dogma giudicherà’”.

Più esplicito è Giovanni Avena. Dirige l’agenzia di stampa Adista, punto di riferimento del cattolicesimo del dissenso. Dice: “La chiesa non può trattare il no all’aborto e all’eutanasia, il no ai contraccettivi, alla masturbazione etc., come se fossero dei dogmi. I dogmi sono altri. Sono l’esistenza di Dio, la santissima trinità, il mistero dell’incarnazione. Questi sì che devono essere messi come punti fermi la cui non accettazione porta all’esclusione dalla chiesa. Ma il resto no”. Perché? “Semplice: non si può fare fuori la libertà di coscienza in questo modo. Il credente deve essere lasciato libero di decidere in coscienza cosa fare. L’aveva detto benissimo padre Bernard Häring, tra i più grandi teologi morali del XX secolo, le cui tesi furono seriamente osteggiate dal Sant’Uffizio. Criticò apertamente l’Humanae Vitae per la condanna della contraccezione. Secondo lui la chiesa doveva salvaguardare la libertà del credente di scegliere la trasgressione, il peccato. E poi, eventualmente, la redenzione tramite la confessione”.

Problema serio quello della libertà di coscienza. Già il cardinale John Henry Newman ebbe a dire: “Brindo al Papa, ma prima alla coscienza”. E anche Ratzinger disse la sua in merito quando ancora era alla guida della Dottrina della fede. Si trovava per una conferenza a Siena. Disse: “Quanto avrebbe da guadagnare la chiesa dall’esistenza nel mondo cattolico di uomini liberi come erano nel medioevo santa Caterina, Dante o Antonio da Padova, veri figli di Dio i quali sanno che non si serve Dio con la menzogna, con l’omertà e col servile vassallaggio di un certo clericalismo. Quanti fatti orrendi sarebbero stati evitati, risparmiando alla chiesa la vergogna e l’onta”. Perché “al di sopra del Papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo”. Oggi molti tra coloro che ai “princìpi non negoziabili” in campo morale contrappongono il diritto alla libertà di coscienza si fanno forti di questa frase di Ratzinger. Anche se, a onore del vero, la libertà di coscienza evocata da Ratzinger presuppone la verità e soltanto in questo senso indica alla volontà il cammino che deve percorrere. Il richiamo alla coscienza di Ratzinger, insomma, non può giustificare qualsiasi scelta dell’uomo anche perché “extra ecclesiam nulla salus”.

Al contrario la pensano altre vulgate. Tra queste quella ravvisabile tra le righe di due testi che hanno fatto molto parlare di sé. Le interviste-confessioni del cardinale Martini: non solo “Conversazioni notturne a Gerusalemme” con Georg Sporschill, ma anche “Siamo tutti nella stessa barca” con don Luigi Verzé. Scrive Roberto de Mattei: “Sono di impronta rahneriana, per l’universalismo salvifico e la ‘morale debole’. Martini, come Rahner, ritiene che la missione della chiesa sia aprire le porte della salvezza a tutti, compresi coloro che si discostano dalla fede e dalla morale cattolica”.

Stefano Semplici insegna Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata. Il suo pensiero in merito è articolato. Dice: “Il Papa ha ribadito nella sua ultima enciclica – e dunque proprio nel contesto di un’ampia riflessione sulle grandi questioni dell’economia, della giustizia sociale e del rispetto dell’ambiente – che il ‘campo primario e cruciale’ nel quale ‘si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale’ è quello della bioetica. Mentre si può discutere delle soluzioni migliori per affrontare il problema della povertà, qui ci si trova insomma di fronte a un aut aut decisivo, perché si tratta di decidere ‘se l’uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio’. La chiesa fa bene a incalzare la versione semplificata e ridotta del valore della libertà che la fa coincidere con un’idea astratta di autodeterminazione. E’ condivisibile il richiamo anche insistente alla cura della relazione, alla responsabilità per i doveri che vengono insieme ai diritti e forse prima di essi, all’esperienza che la libertà non si produce, non si sostiene, non si rende felice da sé. Che non la si può volere e difendere senza volere, senza lasciare che la vita sia. Questa posizione ‘forte’ sarebbe tuttavia pienamente compatibile con la valorizzazione di due sensibilità che hanno radici profonde nella grande tradizione della Chiesa. La prima è quella che, seguendo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino, riconosce la specificità della ragione pratica nella ‘saggezza’ con la quale il principio si applica alla situazione concreta, mettendo in conto la possibilità dell’eccezione. La seconda suggerisce di non cedere alla tentazione di utilizzare l’argomento della ‘sacralità’ della vita come una sorta di passepartout. La bioetica corrisponde in realtà ad un fascio complesso e diversificato di problemi. Si pensi solo alla differenza radicale fra le questioni di inizio vita che implicano la scelta appunto su un’altra vita e quelle che coinvolgono solo il desiderio di una persona di decidere quando è arrivato per lei il momento di non resistere più alla morte. Non si chiede alla chiesa di ‘negoziare’, ma di riprendere la linea tracciata per esempio nella Dichiarazione sull’eutanasia del 1980, nella quale si riconosceva senz’altro che spesso ‘la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i princìpi della morale’. E che in questi casi ‘prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato’, naturalmente insieme alle persone che lo accompagnano e lo amano. Basterebbe questo ad orientare in modo diverso un confronto come quello in atto in Italia sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento”.

http://www.paolorodari.com/

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