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Libertà religiosa e dottrina cattolica

Ultimo Aggiornamento: 08/06/2010 18:23
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08/06/2010 18:22

Libertà religiosa: documenti per uno "status quaestionis"

Un'argine teologico

L’ultima esposizione completa della dottrina tradizionale della “tolleranza” prima della votazione sulla “libertà religiosa”

Il testo che segue, estratto dai Documenta Concilio œcumenico Vaticano II apparando, Constitutio De Ecclesia, c. 9, fa parte degli archivi pubblici del Vaticano II e della sua preparazione, esso è rimasto finora pressoché ignorato. Forse la maniera spesso ideologica con cui si tratta la storia conciliare ha contribuito al suo “seppellimento”.
Tra l’annuncio del concilio, il 15 gennaio 1959, e la sua apertura, l’11 ottobre 1962, un’intensa attività ebbe luogo in seno alle dodici commissioni e alle tre segreterie incaricate di preparare i testi che sarebbero stati discussi dai vescovi. L’elaborazione dei documenti dogmatici sulla Chiesa, il deposito della fede, le fonti della rivelazione, la morale sociale e individuale, fu affidata alla Commissione teologica presieduta dal Cardinal Alfredo Ottaviani, che all’epoca dirigeva il Sant’Uffizio. Si trattava della costituzioni destinate a formare la spina dorsale dell’assemblea in preparazione.
Man mano che i lavori avanzavano, fortissime tensioni si manifestarono tra la Commissione teologica e il Segretariato per l’unità dei cristiani, presieduta dal Cardinal Agostino Bea, questi aveva aggiunto al progetto sull’ecumenismo, di cui era incaricato, alcuni sviluppi sulla libertà religiosa. La questione teorica centrale dibattuta era quella dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato: essa era stata trattata tanto dallo schema sulla Chiesa, al capitolo 9, tanto da quello sulla libertà religiosa, originariamente sotto un titolo praticamente identico nei due testi, ma secondo ispirazioni diametralmente opposte.
Il testo del Segretariato per l’unità, derivante da quello che viene chiamato il Documento di Friburgo sostituiva la dottrina tradizionale della tolleranza possibile nei riguardi dell’errore con quella del diritto alla libertà. Quando fu presentato davanti alla Commissione preparatoria centrale, nel giugno 1962, un certo numero di membri lo dichiararono inaccettabile per la dottrina cattolica, in base ai pronunciamenti del magistero a partire dalla fine del XVIII secolo. La Commissione teologica aveva da parte sua precisato il contenuto del capitolo 9 del De Ecclesia per regolare il problema della libertà religiosa, partendo dai principi. Secondo una seria ipotesi questo testo non sarebbe stato altro che la ripresa da parte del Padre Gagnebet, incaricato della redazione, di un documento che aveva già preparato per il Sant’Uffizio nel 1958. Questo scritto doveva condannare le idee di Jacques Maritain e di John Courtney Murray. Solo la morte di Pio XII ne aveva impedito la pubblicazione [1]. Sarebbe stata l’ultima condanna della libertà religiosa prima del Vaticano II.
Si decise di riunire, nei tre mesi che restavano prima dell’apertura del Vaticano II, una commissione mista (membri della Commissione teologica e membri del Segretariato per l’unità) che, di fatto, non si riunì mai. Quale compromesso d’altronde avrebbe mai potuto elaborare?
Tutto dunque si sarebbe svolto durante il Concilio: o il capitolo 9 del De Ecclesia sarebbe stato approvato e allora avrebbe invalidato il testo sulla libertà religiosa, oppure quest’ultimo sarebbe stato votato e la dottrina del capitolo 9 sarebbe perita. Si può tranquillamente affermare che ciascuno di essi rappresentava rispettivamente la punta acuminata di due progetti opposti concernenti il concilio che stava per aprirsi. Come è noto, durante la prima sessione, nell’autunno 1962, “la scuola teologica romana”, secondo l’espressione all’epoca in voga, fu immediatamente messa in minoranza e, di conseguenza, l’insieme degli schemi preparati dalla Commissione teologica furono spazzati via senza essere esaminati. Il testo sulla libertà religiosa del Segretariato per l’unità restava quindi senza un concorrente. Esso fu adottato il 7 dicembre 1965.
Proponiamo qui la traduzione del capitolo 9 del De Ecclesia nella sua ultima redazione, cioè tale come fu messo nella mani dei Padri conciliari prima dell’apertura dell’assemblea, e che costituisce i tal modo una sorta di limite: con tutto il suo apparato di referenze, che ho stimato utile riprodurre integralmente, esso è l’ultima e certamente la miglior sintesi di ciò è stata la dottrina della Chiesa sulla questione fino al Concilio.


Abbé Claude Barthe




Le relazioni tra la Chiesa e lo Stato e la tolleranza religiosa


1.Il principio della distinzione tra la Chiesa e la società civile e della subordinazione del fine dello Stato al fine della Chiesa

L’uomo, destinato da Dio ad un fine soprannaturale, ha bisogno tanto della Chiesa che della società civile per giungere alla perfezione. E’ proprio della società civile, alla quale l’uomo appartiene in ragione della propria natura sociale, di pervenire, in quanto essa è diretta verso i beni terrestri, a quel fine grazie al quale i cittadini possono condurre sulla terra una vita “calma e tranquilla” (I Tim 2,2). Quanto alla Chiesa, alla quale l’uomo deve incorporarsi in virtù della sua vocazione soprannaturale, essa è stata fondata da Dio affinché, crescendo sempre più, possa condurre i fedeli al loro fine eterno attraverso la propria dottrina, i sacramenti, la preghiera e la proprie leggi[2]. Ciascuna di queste società è dotata dei mezzi necessari per compiere la sua missione: tanto l’una che l’altra sono perfette, ciò significa che ciascuna di esse, nel proprio ordine rispettivo, è sovrana, e di conseguenza non sottomessa ad un’altra, dal punto di vista del potere legislativo, del potere giudiziario e del potere esecutivo[3].
La distinzione fra queste due società riposa, come vuol la tradizione costante, sulle parole del Signore: “date a Cesare quel che è di Cesare date a Dio quel che è di Dio » (Mt 22,21). Ma quando queste due società esercitano i rispettivi poteri sulle medesime persone, oppure sullo stesso oggetto, non è permesso loro d’ignorarsi, e conviene sommamente che esse agiscano in concerto, per il più gran profitto di esse e dei membri che ad esse appartengono[4].
Il Santo concilio volendo insegnare quali relazioni debbano esistere tra i due poteri in ragione della loro natura, dichiara che anzitutto bisogna tenere fermamente che sia la Chiesa sia la società civile sono state stabilite a beneficio dell’uomo[5], benché all’uomo non serva a nulla il gioire della felicità temporale, che il potere civile deve assicurare, qualora dovesse perdere la sua anima (Mt 16, 26 ; Mc 8, 36 ; Lc 9, 25). Per questa ragione il fine della società temporale non deve mai essere ricercato ad esclusione o a detrimento del fine ultimo [6], che è l’eterna salvezza.


2. Il potere della Chiesa, i suoi limiti e le funzioni che la Chiesa adempie nei confronti del potere civile

Il potere della Chiesa si estende a tutto ciò per mezzo del quale gli uomini raggiungono l’eterna salvezza, ciò invece che riguarda solamente la felicità temporale rileva, in quanto tale, dal potere civile. Ne consegue che la Chiesa non si occupa delle realtà temporali, salvo in quanto esse sono ordinate al fine soprannaturale. Ma in ciò che è ordinato tanto al fine della Chiesa che a quello dello Stato, come per esempio il matrimonio e l’educazione dei figli, i diritti del potere civile debbono essere esercitati in maniera che i beni superiori dell’ordine soprannaturale non soffrano alcun danno, della qual cosa la Chiesa è giudice. Non per questo la Chiesa si immischia in alcun modo negli affari temporali, che, fatta salva la legge divina, possono legittimamente essere organizzati in differenti modi. Custode del suo proprio diritto, rispettosa di quello altrui, la Chiesa stima particolarmente che non è suo compito il determinare quale forma costituzionale conviene maggiormente al governo della nazioni cristiane: essa non dà la sua preferenza ad alcun tipo d’organizzazione dello Stato tra quelli esistenti, a partire dal momento in cui la religione e la morale sono preservate[7]. Essa non impedisce il potere civile di far uso liberamente dei propri diritti e delle proprie leggi, allo stesso modo rivendica per sé la libertà che le appartiene [8].
I governanti non devono ignorare quanto numerosi siano i benefici che la Chiesa procura alla società civile nel compimento della propria missione [9]. E’ la Chiesa stessa che contribuisce a far si che i cittadini siano dei buoni cittadini, inculcando loro la virtù e la pietà cristiana, in modo che il bene dello Stato sia solidamente assicurato, così come fa notare S. Agostino, nella misura in cui essi siano tali quali sono loro prescritti dalla dottrina cristiana [10]. Essa esige parimenti dai cittadini che obbediscano alle legittime prescrizioni che sono fatte loro “non solo per timore del castigo, ma in coscienza” (Rm 13, 5) [11]. Essa ingiunge d’altronde a coloro ai quali è affidato il governo dello Stato di non esercitare il loro ruolo per desiderio di potere, ma per il bene dei cittadini e come se dovessero rendere conto a Dio (Eb 13, 17) di questo potere che essi hanno ricevuto dalla Sua mano [12]. Essa inculca il rispetto religioso della legge naturale e della legge soprannaturale, per mezzo delle quali deve essere organizzato, nella pace e la giustizia l’insieme dell’ordine sociale, tanto fra i cittadini che fra le nazioni [13].

3. i doveri religiosi del potere civile

Il potere civile non può mostrarsi indifferente dinanzi alla religione. Poiché è stato istituito da Dio per aiutare gli uomini ad acquistare una perfezione che sia veramente umana, deve non solo offrire ai cittadini la facoltà di procurarsi i beni temporali, tanto materiali che culturali, ma deve fare in modo che possano avere agevolmente e in abbondanza i beni spirituali che sono loro necessari per condurre religiosamente la loro esistenza umana. Tra questi beni, nessuno è più importante di quello di poter conoscere Dio, di riconoscerlo come tale, e di adempiere i doveri che Gli sono dovuti: tale è, in effetti, il fondamento di ogni virtù privata e ancor più di ogni virtù pubblica [14].
Questi omaggi dovuti alla maestà divina devono essere resi non solo dai cittadini presi individualmente, ma ugualmente dai poteri pubblici che rappresentano la società civile negli atti pubblici. Dio, in effetti, è l’autore della società civile e la fonte di tutti i beni che sono distribuiti da essa sui suoi membri. La società civile deve dunque onorare e venerare Dio [15].
Quanto alla maniera secondo la quale Dio deve essere onorato, nella presente economia, essa non può essere che quella stessa di cui Dio a decretato di far uso nella vera Chiesa di Cristo. Di conseguenza, lo Stato deve associarsi al culto pubblico celebrato dalla Chiesa, non solo attraverso l’intermediario del cittadini, ma anche attraverso quello degli uomini che, preposti all’esercizio del potere, rappresentano la società civile [16].
E’ evidente dai segni manifesti dei quali la Chiesa è stata dotata dal suo divino fondatore, in relazione alla sua divina istituzione e la sua missione, che il potere civile ha la possibilità di conoscere la vera Chiesa di Cristo [17]. In maniera tale che il dovere di ricevere la rivelazione proposta dalla Chiesa non incombe solo ai cittadini in particolare, ma anche al potere civile. Così esso, nelle leggi che è suo compito dettare, deve conformarsi ai precetti della legge naturale e tenere nel giusto conto le leggi positive, tanto divine che ecclesiastiche, per mezzo delle quali gli uomini sono guidati alla beatitudine eterna [18].
Ma così come nessun uomo può onorare Dio nella maniera stabilita da Cristo se non riconosce che Egli ci ha parlato in Gesù Cristo [19], allo stesso modo la società civile non può farlo che nella misura in cui i cittadini, e il potere civile, in quanto esso rappresenta il popolo, siano assicurati del fatto della rivelazione.
Il potere civile deve garantire in maniera speciale alla Chiesa una piena e completa libertà e non impedirle in alcun modo di poter adempiere interamente la propria missione: esercitare il proprio magistero sacro, regolare e celebrare il culto divino, amministrare i sacramenti e prendersi cura dei fedeli. La libertà della Chiesa deve essere riconosciuta dal potere civile in tutto ciò che si riferisce alla sua missione, che si tratti in particolare del reclutamento e della formazione dei seminaristi, della nomine dei vescovi, della libera e mutua comunicazione tra il Romano Pontefice, i vescovi e i fedeli, che si tratti dell’istituzione e del governo della vita religiosa, della pubblicazione e della diffusione degli scritti, del possesso e dell’amministrazione dei beni materiali, e in maniera generale di tutte le attività che la Chiesa, tenendo conto dei diritti civili, stimi opportuni per condurre gli uomini verso la loro salvezza eterna, senza dimenticare l’insegnamento profano, le opere sociali, e l’insieme degli altri mezzi [20].
Infine incombe al potere civile il grave dovere di escludere dalla legislazione, dal governo dell’attività pubblica, tutto ciò che la Chiesa stima d’ostacolo al conseguimento del fine ultimo ; soprattutto, deve fare in modo che sia facilitata la vita che si fonda sui principi cristiani, l’esistenza più conforme a questo fine ultimo per il quale dio ha creato gli uomini [21].


4. Principio generale d’applicazione della dottrina esposta

La Chiesa ha sempre riconosciuto che il potere ecclesiastico e il potere civile hanno dei mutui rapporti differenti a seconda che il potere civile, agendo a nome del popolo, conosca o no Cristo, e per mezzo di Lui la Chiesa che ha fondato.


5. Applicazione per lo Stato cattolico

La dottrina sopra esposta dal santo concilio non può essere applicata nella sua integralità che nella Città nel seno della quale i cittadini, non solo sono battezzati, ma fanno anche professione di fede cattolica. In questa situazione, sono i cittadini stessi che decidono liberamente che la vita sociale sarà informata dai principi cattolici, in maniera tale che, come dice San Gregorio Magno, “ la via del cielo si apra più largamente” [22].
Ma, anche in queste condizioni favorevoli, nessun motivo autorizza il potere civile a costringere le coscienze ad accettare la fede divinamente rivelata. In effetti, la fede è libera per essenza, ed essa non può essere l’oggetto di nessuna costrizione, così come lo insegna la Chiesa dicendo: “Nessuno può essere costretto, malgrado la sua volontà, ad abbracciare la fede cattolica” [23].
Ma ciò non impedisce in nessun modo che il potere civile debba procurare le condizioni intellettuali, social e morali, grazie alle quali i fedeli, ivi compresi coloro che non hanno grandi conoscenze, possano facilmente perseverare nella fede che hanno ricevuto. Per questa ragione, così come il potere civile stima che sia suo compito di prendersi cura della moralità pubblica, allo stesso modo, alfine di preservare i cittadini dalle seduzioni dell’errore e perché lo Stato sia conservato nell’unità di fede, che è il bene supremo e la fonte di una moltitudine di benefici, anche nell’ordine temporale, il potere civile può esso stesso regolare le manifestazioni pubbliche degli altri culti, e difendere i propri cittadini dalla diffusione delle false dottrine a causa delle quali, a giudizio della Chiesa, la loro eterna salvezza è messa in pericolo [24].

6. La tolleranza religiosa nello Stato cattolico

Poiché si deve agire nel quadro della preservazione della vera fede secondo le esigenze della carità cristiana e della prudenza, bisogna fare in modo che i dissidenti non siano respinti, ma piuttosto attirati verso la Chiesa, e che né lo Stato, né la Chiesa soffrano danno. In maniera tale che si deve sempre aver presente il bene comune della Chiesa e quello dello Stato, per la realizzazione dei quali il potere civile, in funzione delle circostanze, può essere tenuto a mettere in atto una giusta tolleranza. Quest’ultima deve d’altronde essere consacrata dalla legge. Il potere civile vi sarà tenuto, o per evitare mali maggiori, come lo scandalo, i disordini civili, l’ostacolo alla conversione, e altri di questo tipo, oppure per procurare un maggior bene, come la collaborazione sociale, una vita comune pacifica tra concittadini che differiscono tra loro per religione, una più grande libertà della Chiesa, il compimento più facile della missione soprannaturale di quest’ultima e altri simili benefici [25]. In questo si deve tener conto non solo del bene concernente l’ordine nazionale, ma anche del bene della Chiesa universale e del bene comune internazionale [26]. Attraverso la tolleranza, il potere civile cattolico imita l’esempio della divina Provvidenza, che non impedisce i mali da cui essa può trarre beni maggiori [28]. Ciò deve essere particolarmente osservato laddove, da più secoli, vivono comunità non cattoliche [28].


7. Applicazione per lo Stato non cattolico

Negli Stati nei quali la maggior parte dei cittadini non professa la fede cattolica, oppure non conosce il fatto della rivelazione, il potere civile non cattolico, in materia religiosa, deve almeno conformarsi ai precetti della legge naturale [29].
In questo contesto, la libertà civile deve essere concessa dal potere non cattolico a tutti i culti non opposti alla religione naturale. Ma questa libertà non si oppone dunque ai principi cattolici, poiché, essa è conforme tanto al bene della Chiesa che a quello dello Stato. In tali Stati, nei quali il potere non professa la fede cattolica, incombe particolarmente ai cittadini cattolici d’ottenere, grazie alle virtù e alle attività civiche per mezzo delle quali essi promuovono, in unione coi loro concittadini, il bene comune dello Stato, che una piena libertà sia concessa alla Chiesa perchè compia la sua missione divina [30]. In effetti lo stesso Stato non cattolico non soffre alcun danno dalla libera attività della Chiesa e ne ricava al contrario numerosi e considerevoli vantaggi. I cittadini cattolici dunque devono fare in modo che la Chiesa, e il potere civile, sebbene ancora giuridicamente separati, si prestino volentieri una mutua assistenza.
Nella finalità che i cittadini cattolici, agendo nella difesa dei diritti della Chiesa, non nuocciano alla Chiesa, e ancor meno allo Stato, fosse in ragione della loro inerzia, oppure usando di uno zelo indiscreto, è necessario che si sottomettano al giudizio dell’autorità ecclesiastica, la quale ha competenza per giudicare, in funzione delle circostanze, di tutto ciò che concerne il bene della Chiesa [31] e per dirigere l’azione che i cittadini cattolici attuano per la difesa dell’altare [32].


8. Conclusione

Il Santo concilio, sapendo bene che i principi concernenti le mutue relazioni tra il potere ecclesiastico e il potere civile non devono essere applicati che se il governo risponde a ciò che è stato esposto più in alto, non può tuttavia permettere che essi siano velati dalle distorsioni di un laicismo erroneo, o addirittura sotto pretesto di salvaguardia del bene comune. Essi poggiano infatti sui diritti inattaccabili di Dio, sulla costituzione e la missione immutabile della Chiesa, così come sulla natura sociale dell’uomo che, restando identica in tutti i tempi, specifica il fine essenziale della società civile, nonostante le diversità dei regimi politici e la varietà delle situazioni storiche [33].




La dottrina conciliare della libertà religiosa

« Questo sinodo Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Detta libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni da coercizione da parte sia di individui, che di gruppi sociali che di qualsivoglia potestà umana, in maniera che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità con la sua coscienza, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Dichiara inoltre che il diritto alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità stessa della persona umana quale la si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia per mezzo della stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto nell’ordine giuridico della società e diventare diritto civile. » (Dignitatis humanae, n. 2 § 1).





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