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Verso la conclusione dell'Anno sacerdotale

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 21:14
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09/06/2010 17:01

Verso la conclusione dell'Anno sacerdotale

Il prete e le sfide pastorali


"L'Anno sacerdotale è stato veramente una preziosa grazia per la Chiesa. Dobbiamo ringraziare molto Dio per le tante iniziative in favore del bene spirituale dei presbiteri e del loro ministero che sono state realizzate dappertutto in quest'anno, che adesso si sta per concludere. Tuttavia, conclusione non significa termine ma nuovo inizio, con nuovo ardore e con nuove energie spirituali per i sacerdoti e per la Chiesa nel suo insieme". Con queste parole il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, ha tracciato un primo sintetico bilancio dell'Anno sacerdotale che si concluderà il 10 giugno prossimo. L'occasione è stata la messa celebrata al termine del convegno organizzato, nel pomeriggio di martedì 8, presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum, dal titolo "A immagine del Buon Pastore". Tra i relatori il cardinale prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Antonio Cañizares Llovera, e l'arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, del cui testo, sul tema "Sfide pastorali odierne nella vita di un sacerdote", presentiamo di seguito ampi stralci.

di Rino Fisichella

Quando si parla di sfide pastorali, normalmente, si pensa ad affrontare quanto il mondo pone dinanzi a noi come una provocazione. Questo è vero solo in parte. Le prime sfide che siamo chiamati a comprendere e a cui è necessario dare una risposta provengono direttamente all'interno della Chiesa e del nostro essere sacerdoti. Solo nella misura in cui saremo capaci di accettare e fare nostre queste sfide, solo allora saremo anche in grado di vedere come reali le sfide che il mondo pone e che la cultura di oggi rende sempre più manifeste come espressioni di grandi cambiamenti che richiedono il nostro apporto. La prima sfida, quindi, è nell'ordine della verifica del nostro essere sacerdoti nel mondo di oggi per comprendere a pieno la portata della vocazione di cui siamo stati fatti oggetto. Il sacerdozio, infatti, non è una conquista umana o un diritto individuale, come molti oggi pensano, ma dono che Dio compie a quanti ha deciso di chiamare per restare con lui nel servizio alla sua Chiesa. Perdere di vista questa dimensione vocazionale equivarrebbe a equivocare tutto e fare del sacerdote un impiegato e non un uomo che svolge un ministero nel segno della piena gratuità. Accogliere questa considerazione permette di mettere in relazione il sacerdote, in primo luogo, con la realtà che lo pone in essere:  l'eucaristia. La vera sfida consiste proprio nel comprendere noi stessi in relazione al mistero che celebriamo e che fa di ognuno di noi un sacerdote di Cristo. L'eucaristia permane come un dono inestinguibile che è stato fatto alla Chiesa e a ognuno di noi singolarmente; per questo è dovuto il rispetto e la devozione, senza mai pretendere che possiamo gestire il mistero di cui siamo servi come fossimo dei padroni. Tutto il nostro ministero deve essere caratterizzato dal mettere in primo piano non noi stessi e le nostre opinioni, ma Gesù Cristo. Se nell'azione liturgica - che è l'elemento peculiare del nostro ministero - noi diventassimo i protagonisti, contraddiremmo la nostra stessa identità sacerdotale e renderemmo vano il nostro ministero. Noi siamo "servi" e la nostra opera può essere efficace nella misura in cui rimanda a Cristo e noi veniamo percepiti come docili strumenti nelle sue mani per collaborare con lui alla salvezza.
Vivere del mistero eucaristico porta ad accogliere un'altra sfida, soprattutto se confrontata con il profondo individualismo del mondo contemporaneo, quella della communio che siamo chiamati a vivere tra noi. Formare l'unum presbyterium intorno al vescovo, per vivere di un amore vero e reale che sull'esempio del Maestro si realizza in una donazione piena e totale di sé a tutti, senza nulla chiedere in cambio. Lasciare tutto per vivere insieme al Maestro in un amore celibe che sa riconoscere quanti sono nel bisogno e nella solitudine per andare a tutti incontro. Ma questa comunione che siamo chiamati a vivere ci riporta di nuovo al tema precedente; è, in prima istanza, comunione con il "Corpo di Cristo". La "vita", per usare il termine pregnante dell'evangelista Giovanni (1 Giovanni, 1, 2), si è fatta visibile e ora è posta nelle nostre mani nel segno del pane eucaristico; noi sacerdoti diveniamo per questo capaci di atti che superano la nostra stessa esistenza personale, perché agiamo in persona Christi. In altre parole, deve essere forte in noi la convinzione di esserci "rivestiti di Cristo", e per questo capaci di uno stile di vita nuovo che rende evidente a tutti che viviamo per un Altro e lo vogliamo rendere visibile in noi.
A partire da qui emergono altre sfide, questa volta a livello culturale, che richiedono una preparazione corrispondente per non apparire come incapaci nel saper dare una risposta agli uomini del nostro tempo. L'icona dei discepoli di Emmaus può essere significativa. L'evangelista accenna al fatto che stavano discutendo di quanto era accaduto in quei giorni durante i quali la loro speranza nel compimento della promessa antica sembrava svanita. L'avvicinarsi di Gesù non destò particolare stupore; all'epoca era normale che i viandanti si accostassero per compiere il tragitto insieme e così scambiare qualche chiacchiera per rendere meno faticoso il cammino. I loro occhi, tuttavia, erano incapaci di riconoscere il Risorto e la domanda che questi pone loro su quanto stessero discutendo provoca nei discepoli la reazione conosciuta:  "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?" (Luca, 24, 18). L'espressione può essere facilmente applicabile a quanto si assiste spesso anche ai nostri giorni. La stessa domanda si potrebbe fare a tanti sacerdoti per chiedere loro se realmente sono consapevoli di quanto sta accadendo in questo frangente della storia nella quale siamo chiamati a svolgere il ministero in nome della Chiesa. Figli del nostro tempo, condividiamo le stesse aspirazioni e spesso le medesime forme di indifferenza. È necessario, per questo, avere una conoscenza profonda del proprio tempo e dei movimenti culturali che ne determinano gli stili di vita. Una cosa è costantemente verificabile nei duemila anni del cristianesimo:  l'attenzione permanente che la comunità cristiana ha avuto nei confronti del tempo in cui viveva e del contesto culturale in cui veniva a inserirsi. Una lettura dei testi degli apologeti, dei Padri della Chiesa e dei vari maestri e santi che si sono succeduti nel corso di questi duemila anni mostrerebbe con estrema facilità l'attenzione al mondo circostante e il desiderio di inserirsi in esso per comprenderlo e orientarlo alla verità del Vangelo. Alla base di questa attenzione vi era la convinzione che nessuna forma d'evangelizzazione sarebbe stata efficace se la Parola di Dio non fosse entrata nella vita delle persone, nel loro modo di pensare e d'agire per chiamarle alla conversione.
 Ritengo che una prima considerazione verta sul tema del profondo "cambiamento culturale" che stiamo vivendo. A livello d'analisi dei movimenti culturali sappiamo cosa stiamo lasciando alle nostre spalle, ma non sappiamo ancora con chiarezza verso dove stiamo andando. Se il passato si lascia descrivere con qualche sicurezza, anche se non senza difficoltà, il futuro, invece, rimane ancora avvolto nell'oscurità dell'ipotetico. Si conclude l'epoca della modernità che fino a oggi, nonostante tutto, non riusciamo ancora a definire con contorni chiari e stiamo andando verso la postmodernità, che già dal suo nascere porta con sé l'ambiguità del concetto proprio per avere assunto un termine che manca ancora di chiarezza. Ciò a cui stiamo assistendo, di fatto, è un cambiamento epocale che parte dalla trasformazione dei concetti paradigmatici su cui si è costruita un'intera civiltà per millenni. Si dovrebbe riflettere, infatti, sul cambiamento progressivo - che sembra possedere, purtroppo, i tratti dell'inarrestabilità - di alcuni concetti quali:  natura, uomo, diritto, giustizia, verità, bellezza, legge... e dobbiamo aggiungere anche quello di "dio". Perso il suo antico referente con l'intangibilità della natura, diventata ormai un laboratorio aperto a ogni forma di sperimentazione, l'uomo contemporaneo ha cambiato il suo modo di porsi dinanzi a essa, modificandone il concetto stesso. La natura viene sempre più interpretata come pura materia manipolabile, soggetta alla sola determinazione e volontà del ricercatore; essa non suscita più timore ma curiosità. La stessa cosa è per gli altri concetti a cui si è fatto riferimento. Se l'uomo stesso è soggetto alla manipolazione genetica e la sperimentazione sulla cellula umana continuerà con l'attuale rincorsa non solo nella giusta ricerca di evitare e poter debellare diverse patologie, ma in una clonazione o selezione eugenetica che già si applica sull'embrione, quale definizione dell'uomo daremo nei prossimi decenni? Il moltiplicarsi delle richieste di nuovi diritti individuali che si vogliono imporre alla società, anche contro la stessa legge naturale, a cosa condurrà nella comprensione del diritto e per conseguenza, della famiglia, della sessualità e della società? Non è escluso da questo processo neppure il concetto per noi intangibile di Dio. In un contesto come quello attuale spesso segnato da un confuso confronto con le religioni a cui, a volte, è sotteso un inevitabile sincretismo, a quale idea di "dio" si farà riferimento nel prossimo futuro?
Un'ulteriore sfida che ritengo debba essere presa in considerazione riguarda il grande tema della verità. Un ministro della Chiesa dovrebbe sempre avere sotto gli occhi l'espressione Romano Guardini:  "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza". La quaestio de veritate non è un trattato di altri tempi né un reperto archeologico da lasciare nei magazzini per la rincorsa a un politically correct che impone di evitare ogni chiarezza - sia essa di carattere teologico o dottrinale - e per appiattire il tutto nella superficialità dei luoghi comuni o dei sentimenti maggiormente diffusi. La verità permane certamente come una quaestio che chiede d'essere sottoposta al vaglio della ragione per portare ancora una ricchezza di sapienza all'interno del vivere personale e sociale. Un primo interrogativo a cui dare risposta, in ogni caso, può essere formulato così:  è proprio necessario, in questi tempi, parlare di verità? Di fatto facciamo esperienza di un tempo di povertà, di disagio, di mancanza di fiducia nella possibilità di accedere alla verità e, a farne le spese è in primo luogo la religione. Sempre meno troviamo forme tese a mostrare la fede come la risposta definitiva alla domanda di senso, mentre si moltiplicano le forme per evidenziare la non assurdità della fede; di rado vediamo presentare la fede come una radicale novità di vita che richiede la conversione, mentre ci si adagia sul fatto di un cristianesimo anonimo che tutti contiene senza nessuno disturbare; insomma, si preferisce sottacere le differenze, lasciare in ombra i conflitti, smussare gli spigoli. In breve, si ha paura di misurarsi fino in fondo con il problema della verità. La paura per la verità pervade spesso i nostri ragionamenti, obbligandoci a una sorta di strabismo:  nella sfera privata conveniamo sulla crisi del tempo presente, mentre in pubblico si preferisce vestire gli abiti più opportuni della tolleranza. Senza verità, però, la vita sarebbe relegata in uno spazio effimero e il rischio di un sopruso del violento sul debole sarebbe sempre all'erta. La verità si inserisce per sua stessa natura all'interno di uno spazio di umanizzazione che crea progresso e permette lo svolgimento coerente dell'esistenza personale. Se anche il sacerdote, malauguratamente, perdesse la passione per la verità, allora la sua azione pastorale come la sua predicazione sarebbero condannate all'insignificanza.



(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
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Quindicimila preti con il Papa alla veglia di giovedì e alla messa di venerdì

La chiusura dell'Anno sacerdotale con il calice del curato d'Ars


 Benedetto XVI celebrerà la messa di chiusura dell'Anno sacerdotale - in programma venerdì mattina, 11 giugno, in piazza San Pietro - con il calice usato da san Giovanni Maria Vianney, che si conserva nella parrocchia del curato d'Ars. Lo riferisce il maestro delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, monsignor Guido Marini, anticipando che sarà l'eucaristia con il maggior numero di concelebranti - ne sono attesi quindicimila - mai avvenuta a Roma.
A motivo della straordinarietà della circostanza, la celebrazione, prevede anche altre particolarità. Anzitutto il rito dell'aspersione con l'acqua benedetta, come atto penitenziale:  quattro cardinali concelebranti si uniranno al Papa per aspergere l'assemblea. Si è pensato a questo rito - spiega monsignor Marini - considerando la solennità del Sacro Cuore e il riferimento al sangue e all'acqua sgorgati dal cuore del Signore per la salvezza del mondo, ma anche per riprendere il tema della purificazione, sul quale in diverse circostanze il Pontefice è ritornato di recente.
In secondo luogo, dopo l'omelia i presbiteri rinnoveranno le promesse sacerdotali, come nel giorno del Giovedì Santo alla messa crismale. Inoltre, al termine della celebrazione, prima della benedizione conclusiva, il Papa rinnoverà l'atto di affidamento e di consacrazione dei sacerdoti alla Vergine Maria, secondo la formula usata in occasione del recente pellegrinaggio a Fátima. L'atto avverrà davanti all'originale della Madonna Salus populi Romani, a motivo del significato particolare che tale immagine mariana ha in Roma. Quarta e ultima particolarità:  un grande arazzo con l'immagine del santo curato d'Ars sarà collocato alla loggia centrale della Basilica. San Giovanni Maria Vianney è stato al centro dell'Anno sacerdotale e in questa occasione sarà proclamato da Benedetto XVI patrono di tutti i presbiteri.
In preparazione alla messa conclusiva, la sera di giovedì 10, con inizio alle 21.30, il Pontefice presiederà la veglia di preghiera, che sarà preceduta da un'ora di meditazioni e riflessioni curata dalla Congregazione per il Clero. Il programma prevede l'arrivo in papamobile di Benedetto XVI, accolto dal canto del Tu es Petrus e dal benvenuto del cardinale Hummes, prefetto del dicastero per il Clero. Il saluto liturgico del Papa con la successiva orazione e la lettura di una pagina evangelica introdurranno le domande da parte di cinque sacerdoti, alle quali si alterneranno le risposte di Benedetto XVI. Al canto del Pater noster seguirà poi la processione con il Santissimo Sacramento, che accederà in piazza dal portone di Bronzo della basilica Vaticana.
Il baldacchino processionale - preceduto da due guardie svizzere - viene retto da otto uomini dell'associazione Santi Pietro e Paolo, mentre dodici studenti universitari portano le torce. Il servizio liturgico è affidato al Pontificio Collegio Scozzese.
Dopo l'esposizione del Santissimo e un momento di adorazione silenziosa, il Papa reciterà la preghiera dell'Anno sacerdotale.
Infine l'inno Tantum ergo precederà la benedizione eucaristica seguita dal canto conclusivo Salve Regina che accompagnerà l'uscita del Pontefice, intorno alle 22.30, attraverso la porta centrale della basilica.
Venerdì mattina, alle 10, la messa, alla quale è prevista una partecipazione significativa anche da parte dei fedeli. Per questo si è disposto che circa quattrocento tra diaconi e sacerdoti, provvedano alla distribuzione della Comunione. In precedenza, dalle ore 9.10 alle ore 9.40, vengono eseguiti canti e brani musicali, al fine di disporre tutti a un clima di raccoglimento e di preghiera. Prima dell'inizio della celebrazione, in varie lingue saranno date indicazioni per aiutare i presenti a una partecipazione il più possibile dignitosa e attenta.
Benedetto XVI entrerà in piazza con la papamobile unendosi alla processione dei cardinali concelebranti e uscirà dalla piazza, al termine della messa, sempre in papamobile. Svolgeranno il servizio liturgico i seminaristi dei rogazionisti del Cuore di Gesù, considerando il loro specifico carisma vocazionale.


(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
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10/06/2010 21:09

Nel sacerdozio non c'è posto per una vita mediocre

Pubblichiamo stralci dell'intervento del cardinale prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti al convegno «A immagine del Buon Pastore», tenutosi martedì pomeriggio a Roma al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.


di Antonio Cañizares Llovera

Mi è stata chiesta una breve riflessione sulla santità sacerdotale, sulla quale tanto abbiamo meditato e che tanto abbiamo chiesto e hanno chiesto per noi.
Nell'affrontare la realtà, indubbiamente complessa, della vita del sacerdote nel mondo di oggi, si sta facendo ricorso, fino alla nausea, allo studio sociologico dell'ambiente nel quale si muove, all'analisi dei fattori culturali che influiscono su di lui, all'indagine psicologica dei suoi istinti e delle sue reazioni primarie. Tuttavia, diciamolo con coraggio ed evangelica sincerità, non si sta tenendo conto della portata cristologica di questa problematica e dell'irriducibile necessità che ogni forma di esistenza sacerdotale abbia un contenuto profondo, nitido, vibrante e non adulterato: Cristo conosciuto, Cristo vissuto, Cristo comunicato.
Per questo nel sacerdote non c'è posto per una vita mediocre. Non ci dovrebbe mai essere posto e tanto meno nel momento attuale in cui è così necessario mostrare l'identità di quello che siamo e dare così ragione della speranza che ci anima. «Il sacerdote deve essere come Cristo. Deve essere santo». La santità sacerdotale non è un imperativo esteriore, è l'esigenza di ciò che siamo.
Cari fratelli sacerdoti, cari aspiranti al sacerdozio, come ci diceva il santo arcivescovo che mi ha ordinato sacerdote, il servo di Dio don José María García Lahiguera: «Bisogna essere santi. Grandi santi. Subito santi. Essere santi, perché Dio lo vuole. Grandi santi perché così lo esige la dignità sacerdotale e cristiana. E subito santi, voi seminaristi, aspiranti al sacerdozio, perché dovendo esserlo, in quanto sacerdoti, è poco il tempo che avete a disposizione». «Se non sono santo, perché sono sacerdote? E se sono sacerdote, perché non sono santo?». «Guardate la vostra vocazione... Questa vocazione esige da voi che siate santi. Con meno non la rispettate». Con meno non possiamo accontentarci. Questo è il futuro. «Soluzione di tutto: Cristo-Vangelo-Sacerdote-Santo. Questo è il cammino. Questa è la soluzione».
Senza la santità sacerdotale, tutto crolla. «Siamo tutti chiamati alla santità. Che Dio ci conceda di trasmetterci la gioia immensa che ci fa sentire quando si vive una vita sacerdotale santa. La Santità è di tutti e per tutti».
Non nutro il minimo dubbio che questo Anno sia stato un grande dono, una benedizione di Dio, e che in futuro osserveremo i frutti dell'auspicato rinnovamento: la forza dello Spirito Santo rinnovatore e santificatore, impetrata con tanta preghiera e digiuno in ogni luogo, non resterà vana se si mostrerà in una testimonianza sacerdotale vigorosa e gioiosa, rinnovata ed evangelica, che contribuirà al tanto necessario rinnovamento dell'umanità del nostro tempo. Indubbiamente questo Anno è stato celebrato in mezzo a una tormenta mondiale in cui si è messa in evidenza la debolezza di sacerdoti, ma ciò non offusca affatto il riconoscimento dell'immenso «dono che i sacerdoti rappresentano».
I sacerdoti, presenza sacramentale di Cristo, Sacerdote e Buon Pastore della nostra vita, che «offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l'umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza» (Benedetto xvi), sono di per sé un dono di Dio agli uomini. Ci offrono Cristo in persona che è la Via, la Verità e la Vita, Luce che illumina i nostri passi, Amore che non ha limite e ama fino all'estremo; essi ci annunciano e ci offrono la sua parola, che è vita, forza di salvezza per quanti credono, buona novella che colma di speranza; essi ci concedono, da parte di Dio, il perdono e la grazia della riconciliazione. In modo particolare, essi ci donano Dio, senza il Quale nulla siamo e nulla possiamo sperare. Essi sono gesto e segnale dell'amore irrevocabile di Dio che non abbandona gli uomini. Cosa sarebbe di noi, cosa sarebbe del mondo senza di loro, ossia senza Cristo, senza Dio, senza il suo Amore e il suo perdono, senza la sua luce e la sua verità? Dove andremmo senza ciò che otteniamo da loro? I sacerdoti non sono solo qualcosa di conveniente perché la Chiesa «funzioni» bene; bisogna piuttosto riconoscere che i sacerdoti sono necessari perché la Chiesa semplicemente sia.
Desidero rivolgere il mio pensiero, con ammirazione, riconoscenza e gratitudine ai sacerdoti. Ringraziare di tutto cuore i sacerdoti che mi hanno aiutato a essere quello che sono e che non merito in alcun modo di essere: un sacerdote, semplicemente e gioiosamente un sacerdote. Ringrazio, per esempio, quel grande e santo sacerdote del mio paese, per quarantacinque anni, che, fra le tante manifestazioni della sua carità di buon pastore, fu capace di lasciare la sua casa agli appestati durante l'epidemia del 1919 — se non ricordo male — e che trasportò sulle sue spalle i morti per dare loro una degna sepoltura. Conservo sempre vivo il suo ricordo; egli fu per me un esempio di dedizione senza riserve al ministero sacerdotale. Ringrazio il sacerdote esemplare e apostolico che mi portò al seminario e mi indirizzò lungo quel cammino che ha colmato di gioia la mia vita.
Desidero ringraziare i tanti sacerdoti che stanno dedicando l'intera loro vita alle missioni, ai Paesi più poveri e al servizio dei più poveri, di cui nessuno si occupa. Desidero ringraziare i sacerdoti che tanto mi hanno aiutato e dai quali come vescovo ogni giorno ho ricevuto tantissimo, in quanto collaboratori imprescindibili e lavoratori instancabili del Vangelo, nelle diocesi di Avila, Granada, Cartagena, Toledo, o che mi hanno aiutato tanto nelle mie diocesi di origine: Cuenca, Segorbe, Valencia. Desidero ringraziare i tanti sacerdoti che lavorano nell'anonimato delle città, che devono confrontarsi con le difficoltà generate da una corrente di secolarizzazione fortissima e dai cambiamenti di mentalità dovuti a una nuova cultura. Desidero ringraziare i sacerdoti che svolgono il proprio compito e servizio pastorale nei borghi e nei paesi, che hanno spesso la sensazione di essere dimenticati e isolati, di non sapere cosa fare, ma che mostrano sempre che Dio è in ciò che è piccolo e non conta agli occhi del mondo. Desidero ringraziare quanti lavorano nei più diversi ambiti pastorali dell'educazione, della salute, dell'azione sociale e caritativa, della cultura. Tutti sono necessari e attraverso tutti ci giunge la presenza di Cristo; tutti lavorano per un'edificazione comune: la costruzione della Chiesa di Dio, segno efficace dell'unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano.
A tutti i sacerdoti oso dire: Grazie! Non vi tirate indietro dinanzi al duro lavoro del Vangelo. La nostra vita sacerdotale vale la pena; siamo necessari. Coraggio! Avanti! Con le parole di Giovanni Paolo ii nella sua autobiografia sacerdotale, Dono e mistero dico: «Fratelli, cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata e la scelta che Dio ha fatto di voi. Se farete questo non cadrete mai» (Seconda lettera di Pietro 1, 10). Amate il vostro sacerdozio! Siate fedeli fino alla fine! Sappiate vedere in esso quel tesoro evangelico per il quale vale la pena dare tutto (cfr. Vangelo secondo Matteo 13, 44). E a tutti gli altri chiedo riconoscenza, aiuto, comprensione, collaborazione e preghiera per i sacerdoti.

(©L'Osservatore Romano - 10 giugno 2010)
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10/06/2010 21:10

Una riflessione del cardinale Vanhoye sul sacerdozio

Docilità a Dio e misericordia verso gli uomini


Docilità verso Dio, solidarietà e misericordia verso gli uomini. Sono le due caratteristiche principali che devono contraddistinguere i sacerdoti secondo il cardinale Albert Vanhoye. Il porporato le ha illustrate durante un incontro organizzato in occasione dell'Anno sacerdotale presso il Pontificio Istituto Biblico. Ve ne sono sicuramente altre — ha riconosciuto Vanhoye — ma proprio dall'unione di queste due viene definito il cuore del sacerdote. Infatti, Gesù stesso ha voluto che i suoi apostoli fossero uniti a lui attraverso queste due relazioni fondamentali del cuore. «Li ha voluti unire — ha sottolineato — alla sua relazione al Padre. Lo vediamo specialmente nell'agonia, quando egli chiede agli apostoli di “vegliare con lui” e dice: “vegliate e pregate”. Prima aveva insistito spesso sulla necessità di fare la volontà del Padre; nel momento in cui si trova nella prova, chiede agli apostoli di condividere questa prova e questa disposizione».
Non solo Gesù ha voluto unire a sé gli apostoli nella sofferenza e nell'obbedienza al Padre, ma anche nella misericordia verso i peccatori. «Questo — ha detto il cardinale — si vede in particolare nella vocazione di Matteo. Matteo era considerato peccatore: era pubblicano. Gesù manifesta per lui la sua misericordia dicendogli: “Seguimi!”; un onore straordinario, non soltanto essere considerato da Gesù come qualcuno da salvare, ma come un possibile collaboratore».
Gli apostoli, poi, «sono associati al movimento di misericordia del cuore di Cristo, fin dalla loro vocazione. Non va dunque più ricercato il culto rituale esterno, di separazione: questo è il sacrificio antico. Il vero culto adesso deve attuarsi in un movimento di misericordia verso i fratelli. Infatti il sacrificio di Cristo fu un atto di misericordia estrema; non fu per niente un sacrificio alla maniera antica, non fu attuato in un luogo santo con riti speciali: fu un evento tragico, un'esecuzione di pena capitale, trasformata però dall'interno, dal cuore, in un atto di misericordia estrema».
Il porporato ha anche ricordato che il sacerdozio ordinato, come tutti i sacramenti, è «una creazione straordinaria di Cristo, un'espressione del suo amore. Naturalmente il sacramento più importante è l'Eucaristia, ma l'Eucaristia non è possibile senza il sacerdote. Nella celebrazione eucaristica, non c'è solo la carne di Cristo, ma anche la persona di Cristo, resa presente nel sacerdote».
Per questo, l'ordine sacro è «un motivo di meraviglia e di stupore continuo: vedere che Gesù ha creato questa sua presenza sacramentale non soltanto in oggetti e sostanze ma anche in una persona viva, quale è il prete. Questo è un dono straordinario di Cristo. Dobbiamo esserne consapevoli». Per essere sacramento di Cristo, il presbitero deve tuttavia essere unito al suo cuore nelle due disposizioni fondamentali della mediazione sacerdotale: avere cioè «un cuore filiale verso Dio Padre e un cuore fraterno verso le parole umane». Gesù ha avuto un «cuore mite e umile», cioè «un cuore umile, filiale, docile a Dio fino all'obbedienza della croce; un cuore mite, cioè fraterno, misericordioso. Quando Gesù definisce il proprio cuore con questi due aggettivi — mite e umile — tocca i due aspetti della mediazione».
Il porporato ha poi fatto riferimento alla definizione del sacerdote contenuta nella Lettera agli Ebrei, dove si «esprime il contenuto di queste due qualità essenziali: l'umiltà davanti a Dio, nella docilità profonda; e la mitezza verso gli uomini, nella misericordia». È proprio nell'agonia che «il cuore filiale di Cristo si è manifestato», perché «lì si vede fino a che punto Gesù è stato docile al Padre, umile. Il cuore fraterno di Cristo si è manifestato anzitutto nell'istituzione dell'Eucaristia, quando Gesù diede se stesso in cibo di comunione fraterna. Però non è possibile fare una separazione tra questi due aspetti. Nell'agonia Gesù si manifesta anche fratello nostro, perché prende su di sé tutta la nostra angoscia, la nostra situazione disperata: “diventato in tutto simile ai suoi fratelli” sofferenti».
Il cardinale ha infine analizzato il sacerdozio secondo le tre dimensioni che corrispondono ai tria munera di profeta, sacerdote e re. «Sono tre compiti — ha spiegato — che appartengono al sacerdozio di Cristo e che vengono comunicati al sacerdozio ordinato, il quale deve comunicare la parola di Dio, deve comunicare la vita di Cristo santificando i fedeli, deve anche assicurare l'unità, governando il popolo di Dio. Anche per l'attuazione di questi tre compiti sacerdotali si può vedere nel vangelo che Gesù ha voluto unire gli apostoli al suo cuore».

(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
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La meditazione del cardinale arcivescovo di Colonia per la chiusura dell'Anno sacerdotale

Penitenza e missione nella Chiesa


«I destinatari della nostra missione sono tutti, ma in modo particolare i poveri. Sono loro i prediletti di Dio e lo stesso Signore affermó che è venuto al mondo per evangelizzare i poveri»: sono parole dell'omelia della messa celebrata questa mattina, 9 giugno, dal cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, in occasione dell'incontro internazionale dei sacerdoti
a conclusione dell'Anno sacerdotale
. Un'altra messa, sempre stamani, è stata presieduta, nella basilica di San Giovanni in Laterano, dall'arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero, monsignor Mauro Piacenza, che ha esortato i sacerdoti «a implorare il dono di quel profondo rinnovamento spirituale che è la ragione stessa dell'Anno sacerdotale celebrato». Le concelebrazioni eucaristiche sono state precedute dalla meditazione del cardinale arcivescovo di Colonia nella basilica di San Paolo fuori le Mura sul tema «Conversione e missione». Della meditazione, trasmessa in diretta nella basilica di San Giovanni in Laterano, pubblichiamo qui di seguito ampi stralci.

di Joachim Meisner

Dobbiamo nuovamente diventare una «Chiesa in cammino verso gli uomini» (Geh-hin-Kirche), come amava dire il mio predecessore, l'allora arcivescovo di Colonia, il cardinale Joseph Höffner. Questo però non può accadere a comando. A ciò ci deve muovere lo Spirito Santo. Una delle perdite più tragiche, che la nostra Chiesa ha subito, nella seconda metà del xx secolo, è la perdita dello Spirito Santo nel sacramento della riconciliazione. Per noi sacerdoti ciò ha causato una tremenda perdita di profilo interiore. Quando dei fedeli cristiani mi chiedono: «Come possiamo aiutare i nostri sacerdoti?», allora sempre rispondo: «Andate a confessarvi da loro!». Laddove il sacerdote non è più confessore, diventa operatore sociale religioso. Nel confessionale il sacerdote può gettare lo sguardo nei cuori di molte persone e da ciò gli derivano impulsi, incoraggiamenti e ispirazioni per la propria sequela di Cristo. La Chiesa è la «Ecclesia semper reformanda», e in essa, sia il sacerdote come il vescovo sono un «semper reformandus» che, come Paolo a Damasco, devono essere sempre di nuovo gettati a terra da cavallo, per cadere nelle braccia di Dio misericordioso, il quale ci invia poi nel mondo. Perciò non è sufficiente che nel nostro lavoro pastorale vogliamo apportare correzioni solo alle strutture della nostra Chiesa, per poterla rendere di una evidenza più attrattiva. Non basta! Ciò di cui c'è bisogno è un cambiamento del cuore, del mio cuore. Solo un Paolo convertito ha potuto cambiare il mondo, non già un ingegnere di strutture ecclesiastiche. Il sacerdote, attraverso il suo essere preso nello stile di vita di Gesù, è così abitato da Lui che lo stesso Gesù, nel sacerdote, diventa percepibile dagli altri. L'ostacolo maggiore per consentire a Cristo di essere percepito, attraverso di noi, dagli altri, è il peccato. Esso impedisce la presenza del Signore nella nostra esistenza e, per questo, per noi non c'è niente di più necessario che la conversione; e questa, anche ai fini della missione. Si tratta, per dirlo in sintesi, del sacramento della penitenza. Un sacerdote che non si trova, con frequenza, sia da un lato che dall'altro della grata del confessionale subisce danni permanenti alla sua anima e alla sua missione. Qui scorgiamo certamente una delle cause principali della molteplice crisi in cui il sacerdozio si è venuto a trovare negli ultimi cinquant'anni. La grazia tutta particolare del sacerdozio è proprio quella che il sacerdote può sentirsi a «casa sua» in entrambi i lati della grata del confessionale: come penitente e come ministro del perdono. Quando il sacerdote si allontana dal confessionale, entra in una grave crisi di identità. Il sacramento della penitenza è il luogo privilegiato per l'approfondimento dell'identità del sacerdote, il quale è chiamato a far sì che egli stesso e i credenti si stringano alla pienezza di Cristo.
Spesso non amiamo questo esplicito perdono. E tuttavia Dio non si mostra mai così tanto come Dio, come quando perdona. Dio è amore! Lui è il donarsi in persona! Egli dà la grazia del perdono. Ma l'amore più forte è quell'amore che supera l'ostacolo principale all'amore, cioè il peccato. La più grande grazia è l'essere graziati (die Begnadigung), e il dono più prezioso è il darsi (die Vergabung), è il perdono. Se non ci fossero peccatori, che avessero più bisogno del perdono che del pane quotidiano, non potremmo proprio conoscere le profondità del Cuore divino. Come mai un sacramento, che evoca così grande gioia in Cielo, suscita così tanta antipatia sulla terra? Cosa preferiamo in realtà: essere peccatori, che Dio perdona, o sembrare di essere senza peccato, vivendo cioè nell'illusione di presumersi giusti facendo a meno della manifestazione dell'amore di Dio? Basta davvero essere soddisfatti di se stessi? Ma cosa siamo senza Dio? Solo l'umiltà di un bambino, come l'hanno avuta i santi, ci lascia sopportare con letizia la disparità tra la nostra indegnità e la magnificenza di Dio. Non è lo scopo della confessione che noi, dimenticando i peccati, non pensiamo più a Dio. Molto più la confessione ci consente l'accesso in una vita dove non si può pensare a nient'altro che a Dio. Andare a confessarsi significa: rendere l'amore a Dio un po' più cordiale, sentirsi dire e sperimentare efficacemente, una volta di più — perché la confessione non è incoraggiamento solo dall'esterno — che Dio ci ama. Confessarsi significa ricominciare a credere — e allo stesso tempo a scoprire — che fino a ora non ci siamo mai fidati abbastanza profondamente e che, per questo, si deve chiedere perdono. Davanti a Gesù ci si sente come peccatori, ci si scopre come peccatori, che vengono meno alle attese del Signore. Confessarsi significa lasciarsi elevare dal Signore al suo livello divino.
Per me, perciò, la maturità spirituale di un candidato al sacerdozio, a ricevere l'ordinazione sacerdotale, diventa evidente nel fatto che egli riceva regolarmente — almeno nella frequenza di una volta al mese — il sacramento della riconciliazione. Infatti è nel sacramento della penitenza che incontro il Padre misericordioso con i doni più preziosi che ha da dare, e cioè il donarsi (Vergabung), il perdono e il farci grazia. Ma quando qualcuno, a causa della sua mancanza di frequenza alla confessione, di fatto dice al Padre: «Tieni per te i tuoi preziosi doni! Io ho non bisogno di te e dei tuoi doni», allora smette di essere figlio, perché si esclude dalla paternità di Dio, perché non vuole più ricevere i suoi preziosi doni. E se uno non è più figlio del Padre celeste, allora non può diventare sacerdote, perché il sacerdote attraverso il battesimo è prima di tutto figlio del Padre, e poi, mediante l'ordinazione sacerdotale, è con Cristo figlio con il Figlio. Solo allora potrà davvero essere fratello degli uomini.
Il passaggio dalla conversione alla missione può in primo luogo mostrarsi nel fatto che io passo da un lato all'altro della grata del confessionale, dalla parte del penitente a quella del confessore. La perdita del sacramento della riconciliazione è la radice di molti mali nella vita della Chiesa e nella vita del sacerdote. E la cosiddetta crisi del sacramento della penitenza non è solo dovuta al fatto che la gente non viene più a confessarsi, ma che noi sacerdoti non siamo più presenti nel confessionale. Un confessionale in cui è presente un sacerdote, in una chiesa vuota, è il simbolo più toccante della pazienza di Dio che attende. Così è Dio. Egli ci attende tutta la vita. Se ci viene in gran parte a mancare questo essenziale ambito del servizio sacerdotale, allora noi sacerdoti cadiamo facilmente in una mentalità funzionalista o al livello di una mera tecnica pastorale. Il nostro esserci, da entrambi i lati della grata del confessionale, ci porta, attraverso la nostra testimonianza, a permettere che Cristo diventi percepibile per il popolo. Per poter perdonare veramente, abbiamo bisogno di tanto amore. L'unico perdono che possiamo realmente concedere, è quello che abbiamo ricevuto da Dio. Solo se abbiamo sperimentato il Padre misericordioso, possiamo diventare fratelli misericordiosi per gli altri. Colui che non perdona, non ama. Colui che perdona poco, ama poco. Chi perdona molto, ama molto. Quando lasciamo il confessionale, che è il punto di partenza della nostra missione, sia da un lato che dall'altro della grata, allora si vorrebbe proprio abbracciare tutti, per chieder loro perdono e questo avviene soprattutto dopo che ci siamo confessati. Con la confessione si ritorna dentro lo stesso movimento dell'amore di Dio e dell'amore fraterno, nell'unione con Dio e con la Chiesa, dal quale ci aveva escluso il peccato.

(©L'Osservatore Romano - 10 giugno 2010)
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10/06/2010 21:14

Prima di tutto autenticamente uomini

di Julián Carrón

Non dimenticherò mai il contraccolpo avuto durante il ritiro spirituale con alcuni sacerdoti in America latina. Avevo appena terminato di dire che spesso alla nostra fede manca l'umano, che un sacerdote mi avvicinò. Mi disse che all'epoca in cui era in seminario gli avevano insegnato che era meglio nascondere la sua umanità concreta, non averla davanti agli occhi «perché disturbava il cammino della fede». Questo episodio mi ha reso più consapevole di come può essere ridotto il cristianesimo e dello stato di confusione in cui siamo chiamati a vivere la nostra vocazione sacerdotale.
Una volta domandarono a don Giussani che cosa avrebbe raccomandato a un giovane prete: «Che sia innanzitutto un uomo», rispose, suscitando la reazione stupefatta dei presenti. Ci troviamo agli antipodi dell'indicazione data al seminarista: da una parte, il distogliere gli occhi dalla propria umanità, dall'altra, uno sguardo pieno di simpatia per se stessi. Che cosa risulta dunque decisivo per la nostra fede e la nostra vocazione? Di che cosa abbiamo bisogno? Don Giussani ha più volte indicato nella «trascuratezza dell'io», nell'assenza di un autentico interesse per la propria persona, «il supremo ostacolo al nostro cammino umano» (Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 9). Invece è il vero amore a se stessi, la vera affezione a sé quella che ci porta a riscoprire le nostre esigenze costitutive, i nostri bisogni originali nella loro nudità e vastità, così da riconoscerci rapporto col Mistero, domanda di infinito, attesa strutturale.
Solo un uomo così «ferito» dal reale, così seriamente impegnato con la propria umanità può aprirsi totalmente all'incontro con il Signore. «Cristo infatti — afferma don Giussani — si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (All'origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).
«Non c'è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone», ha scritto Reinhold Niebuhr. Può valere anche per noi quando acriticamente subiamo l'influsso della cultura in cui siamo immersi, che sembra favorire la riduzione dell'uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici. Ma se l'uomo è davvero ridotto a questo, quale è allora il nostro compito di sacerdoti? A che cosa serviamo? Quale è il senso della nostra vocazione? Come resistere a una fuga dal reale rifugiandoci nello spiritualismo, nel formalismo, cercando alternative che rendano sopportabile la vita? Oppure non sarebbe meglio, obbedendo al clima culturale, diventare assistente sociale, psicologo, operatore culturale o politico? Come ha ricordato Benedetto xvi a Lisbona, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
Tutto dipende dunque dalla percezione, innanzitutto per noi, di che cosa sia l'uomo e di che cosa corrisponda realmente al suo desiderio infinito. La decisione con cui viviamo la nostra vocazione deriva perciò dalla decisione con cui viviamo il nostro essere uomini. Solo dentro una vibrazione umana autentica possiamo conoscere Cristo e lasciarci affascinare da Lui, fino a darGli la vita per farLo incontrare agli altri. «Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?», si chiedeva pochi anni fa l'allora cardinale Ratzinger e rispondeva: «Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. (...) Nell'uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l'uomo» (Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 142-143).
Questa certezza che Benedetto xvi testimonia di continuo anche davanti a tutto il male che ci procuriamo o che causiamo agli altri — pensiamo alla vicenda della pedofilia — ci invita a un cammino per la riscoperta e l'approfondirsi della ragionevolezza della fede: «La nostra fede ha fondamento, ma c'è bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi (...): soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l'ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell'Aldilà» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
Solo se sperimentiamo la verità di Cristo nella nostra vita, avremo il coraggio di comunicarla e l'audacia di sfidare il cuore delle persone che incontriamo. Così il sacerdozio continuerà a essere un'avventura per ciascuno di noi e quindi l'occasione per testimoniare ai fratelli uomini la risposta che solo Cristo è al «misterio dell'esser nostro» (G. Leopardi).

(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
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