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Incendi e persecuzioni anticattoliche seguirono nel 1931 la nascita della Seconda Repubblica

Ultimo Aggiornamento: 14/06/2010 22:25
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14/06/2010 22:25

Incendi e persecuzioni anticattoliche seguirono nel 1931 la nascita della Seconda Repubblica

Quando in Spagna c'erano troppi conventi


La cronaca degli assalti nei rapporti inviati dal nunzio Federico Tedeschini al segretario di Stato Eugenio Pacelli
di Vicente Cárcel Ortí


Per capire i tragici avvenimenti della Spagna dopo lo scoppio della guerra civile (18 luglio 1936) è necessario conoscere la travagliata storia della Seconda Repubblica, riconosciuta dalla Santa Sede dopo la sua autoproclamazione (14 aprile 1931) - nonostante i dubbi sulla legittimità politica del governo provvisorio - al fine di rispettare l'ordine pubblico e garantire i diritti della Chiesa e dei cattolici. Tuttavia, appena un mese dopo, il 10 e 11 maggio, il nuovo regime mostrò il suo vero volto, con un triste biglietto da visita:  la violenza fu scatenata contro la Chiesa, con la complicità delle autorità.
"Non è certamente facile per chi le ha vissute fare la cronaca delle giornate incendiarie perpetrate nei primi giorni di questa settimana in questa Nazione. Gli occhi vedono tuttora le immense colonne di fumo che nei vari punti della Capitale si alzavano dalle enormi fiammate che avvolgevano chiese e case religiose fra l'imperversare di notizie sempre più gravi che sconvolgevano ogni concetto tradizionale di questa amata Nazione che si era sempre mostrata cattolica per eccellenza. La cronaca, oltre che difficile, sarebbe incompleta. Ma intanto, in attesa di raccogliere le notizie particolari di tutti i luttuosi fatti, mi permetto di unire al presente penosissimo Rapporto le cronache e le fotografie dei numeri di questi giorni dei giornali "Ahora" e "Nuevo Mundo" e che non possono essere tacciati di esagerare i fatti essendo repubblicani. Da esse appare la crudele tragicità dei fatti avvenuti. Ma che sarebbe, se si potesse raccogliere, la storia di tutti i patimenti personali dei poveri religiosi". Con queste parole iniziava il rapporto inviato dal nunzio Federico Tedeschini al cardinale Eugenio Pacelli il 15 maggio 1931.
Ma se per la storia ci si può ridurre alla cronaca riportata dai giornali dell'epoca, è necessario invece fare alcuni rilievi più importanti sull'atteggiamento avuto dal governo in quell'ora così infausta per la Chiesa.
Non si può certamente dire che le autorità avessero provocato il movimento anticattolico; ma è facile dimostrare che non fecero nulla per impedirlo. Quanti assistettero agli incendi della mattina del tragico lunedì 11 maggio, affermarono concordemente che si trattava di non numerosi gruppi di facinorosi per i quali sarebbe bastata una mezza dozzina di guardie che naturalmente avessero fatto il loro dovere. Invece non solo le guardie non fecero nulla per prevenire i disordini, ma rimasero spettatrici inerti degli incendi. I vigili del fuoco, una volta arrivati sul posto, non poterono intervenire perché si videro minacciati dai gruppi incendiari e non furono protetti dalla forza pubblica:  anche loro rimasero spettatori fino al momento in cui il fuoco cominciò a minacciare  le  case.  Solo  allora fu consentito il loro intervento.
 Il governo dichiarò che non poteva difendere tutti i conventi esistenti in Madrid perché troppo numerosi. Si poteva però rispondere molto facilmente a questa osservazione che se ne poteva difendere almeno uno. Inoltre è facile osservare che il movimento incendiario non si sviluppò simultaneamente in diversi luoghi:  cominciò la mattina alle 11 e si propagò solo successivamente ai diversi centri. Se  le  prime  manifestazioni  incendiarie  fossero  state  represse,  il  movimento probabilmente non sarebbe continuato.
Il governo accusò dell'accaduto i gruppi monarchici, perché nella sera di domenica 10 maggio un gruppo di loro aveva gridato "viva la monarchia", "viva il re", provocando un conflitto che presto dilagò in una dimostrazione contro il giornale monarchico "Abc". Ma non c'è nessun collegamento tra questi fatti e quelli successivi, tanto più che i conventi religiosi non avevano nulla a che fare né con i monarchici né con altri partiti, né è stato trovato alcun nesso fra il diverbio fra monarchici e repubblicani e la deflagrazione fanaticamente e antireligiosa scoppiata il lunedì 11 e il martedì 12 in altre città della Spagna.
Le autorità, inoltre, accusarono dell'accaduto gruppi estremisti di sinistra, specialmente anarchici e comunisti. La responsabilità però non erano solo loro, ma anche di chi non pose alcun ostacolo alle violenze. Il governo dichiarò poi che le disposizioni date non furono seguite dalla Pubblica Sicurezza. Ma vi erano altri corpi a cui ricorrere. Infatti gli incendi terminarono quando le autorità diedero ordini in proposito all'esercito. Va notato inoltre che dopo l'intervento dell'esercito e la proclamazione dello stato di assedio - alle 14,30 del lunedì 11 - si registrò l'assalto e l'incendio del convento delle Dame del Sacro Cuore nel quartiere madrileno di Chamartín.
 Per spiegare l'atteggiamento del governo furono dette molte cose. Alcuni osservarono che a Madrid furono assaltate solo chiese e conventi di religiosi. Questo potrebbe portare a pensare che le autorità avessero voluto preparare una giustificazione per la prevista soppressione di tutti o di alcuni degli ordini religiosi, per sostenere poi che la volontà del popolo si era manifestata in questo senso che a essa doveva dare soddisfazione.
Questo per Madrid. Ma per ciò che riguarda le provincie, la cosa fu di gran lunga peggiore. Dalla periferia giunsero notizie terrificanti. L'Andalucía portò disgraziatamente la palma. In Málaga e in Alicante tra chiese e case gli edifici incendiati furono una ventina, e fra essi il palazzo vescovile della diocesi malacitana, retta dal vescovo, oggi beato Manuel González García. Fatti simili si registrarono a Valencia, Sevilla, Granada, Cádiz, Cartagena, Córdoba e in altri centri minori.
Grande impressione produsse tra la popolazione la dispersione di religiose e religiosi:  in abito secolare andavano randagi per le loro provvisorie dimore; la maggior parte tornano alle loro case, con inevitabile pericolo per lo spirito della loro vocazione. Ma non furono solo i religiosi e le religiose a essere ridotti a dover portare abito civile. A Madrid e altrove, anche i sacerdoti furono costretti a togliersi l'abito talare, indossare il quale in luoghi pubblici sarebbe risultato molto pericoloso.
Inoltre il governo chiuse l'unico organo di stampa che poteva farsi portatore del dolore dei cattolici ed emettere qualche misurata protesta. Nell'ambito dei provvedimenti tesi a eliminare tutto ciò che potesse impedire il consolidamento della Repubblica, il governo soppresse il quotidiano cattolico di grande diffusione e autorevolezza "El Debate", diretto dal futuro cardinale Ángel Herrera Oria, il quale, a lode del vero, non aveva mai combattuto la Repubblica, e aveva sempre rettamente interpretato il pensiero della Chiesa, e specialmente le istruzioni della Santa Sede sulle elezioni politiche.
 Appena giunsero in Segreteria di Stato le prime notizie su questi gravi fatti, il cardinale Pacelli si affrettò a telegrafare al nunzio Tedeschini pregandolo, il 14 maggio, di comunicare al governo che la Santa Sede altamente deplorava le profanazioni e gli atti di fanatismo antireligiosi verificatisi in quei giorni, chiedendo che cosa le autorità intendessero fare per impedire che tali eccessi potessero ripetersi e esigendo il risarcimento dei danni arrecati a persone e cose sacre.
Ricevuto il messaggio, il nunzio chiese immediatamente udienza al presidente del governo provvisorio della Repubblica, Niceto Alcalá Zamora, che reggeva anche il dicastero degli Esteri, per l'assenza del titolare, Alessandro Lerroux, che si trovava a Ginevra. Al solo vedere il rappresentante pontificio, il presidente comprese che la sua presenza significava l'espressione non solo del suo dolore, ma, quel che più contava, del dolore della Santa Sede per gli orribili fatti che avevano funestato Madrid e altre città della Spagna, e avevano meravigliato e scandalizzato il mondo intero, il quale ben altro poteva e doveva aspettarsi dal governo di una nazione tradizionalmente cattolica.
Tedeschini consegnò al presidente la nota nella quale era contenuta l'energica protesta della Santa Sede. Durante la sua lunga conversazione, questi sostenne che disgraziatamente gli ordini del governo non erano stati eseguiti dalle forze di Pubblica Sicurezza. Il nunzio già aveva saputo da parte del ministro della Gobernación (Interno), Miguel Maura, che la Pubblica Sicurezza si era rifiutata di eseguire gli ordini impartiti dal governo:  cosa che motivò le dimissioni di Maura, fatte poi o ritirare o sospendere dai colleghi. Le autorità, fu spiegato, ritennero dunque di non intervenire per non spargere sangue. Ma certamente non c'era bisogno di particolare fermezza per far dileguare i gruppi di incendiari che non erano né numerosi, né valorosi. Infine, il presidente disse al nunzio che "i Conventi di Madrid sono tanti, che anche all'esercito sarebbe stato impossibile difenderli tutti".
 Quella del numero di conventi esistenti nella capitale e nelle provincie, osservò ancora il presidente, è una questione che si doveva trattare e risolvere nelle Cortes; ma è opportuno ricordare che parlare del numero eccessivo di fondazioni religiose, era lo stesso che parlare del numero dello opere di cultura e di carità esistenti in Spagna. E poi, nessuno ricordava o nessuno sapeva che se erano molte le fondazioni esistenti la ragione era che il popolo le voleva e le reclamava, e i politici le appoggiavano.
Quanto alla domanda su che cosa il governo intendesse fare per impedire il ripetersi dei deplorati disordini, il presidente sostenne che le misure prese mediante lo spiegamento della forza, e le punizioni inferte a governatori, al direttore generale di Pubblica Sicurezza e ad altri funzionari, oltreché i giudizi che disse essersi istruiti contro alcuni che furono colti in flagrante, provavano la volontà e il proposito del governo di impedire che si ripetessero tali eccessi.
Tedeschini riferì a Pacelli quanto Alcalá Zamora gli disse, ma aggiunse:  "Ma chi si fida di promesse per un domani che tutti qui temono come oltremodo minaccioso e fosco?".
Sui risarcimenti infine, il presidente sperava che la Santa Sede si rendesse conto della situazione della finanza spagnola. E poi, quando le Cortes avrebbero discusso la riduzione delle case e dei conventi religiosi, allora si sarebbe potuto affrontare anche il tema del risarcimento di danni e trovare la soluzione più conveniente.
"Ma se debbo dire la impressione mia e di non pochi altri - affermò Tedeschini - pare a me di vedere che la tendenza del governo cammina sempre più verso la vera sinistra:  un governo di sempre più marcato carattere radicale socialista mi pare il governo che va a delinearsi e ad affermarsi ogni giorno più, auspice il ministro di Giustizia che è il più settario e il più fanatico".
Nonostante la spiegazioni fornite dal presidente, una delle cause maggiori dei vandalismi incendiari di chiese e case religiose fu l'inattività del governo, riconosciuta pubblicamente dal ministro dell'Interno, Miguel Maura, in un discorso di propaganda elettorale tenuto a Zamora il 14 giugno. Egli, dopo aver deplorato con veementi parole i fatti di quei giorni, dopo accusato anche i cattolici, che non seppero difendere le loro chiese e non fecero altro che contemplare inerti il triste spettacolo, passò risolutamente ad attaccare l'esecutivo di cui faceva parte affermando che "negli ambienti governativi si credette che un regime venuto dal popolo doveva sopportare e consentire gli eccessi di una parte insignificante del popolo, che voleva manifestarsi in quella forma". "Gravissimo errore - disse il ministro - tutto quello che era autorità, rimase inattivo, perché si credeva che così si difendesse meglio la Repubblica. Che errore!".
Questo discorso dimostrò che la non mai abbastanza deplorata politica del governo del lasciar fare e lasciar passare ogni sorta di vandalismo sacrilego non era stata il frutto di un momento di incertezza o di sorpresa, ma era stata determinata da una decisione precisa. Ebbe il coraggio di dirlo il ministro degli Interno, il quale riferì al nunzio che, avuto sentore di quanto si tramava, cercò di impedirlo. Ma i colleghi non gli permisero reagire. Egli allora, alle 9 di mattina del lunedì 11 maggio, vedendosi nella impossibilità di fare il suo dovere, si dimise e rimase sollevato dall'incarico fino alle 11 di sera, quando il governo lo autorizzò a prendere misure di contenimento dei disordini. Solo allora riassunse il potere e nel primo Consiglio di ministri portò una lista di provvedimenti da assumere, come ad esempio la destituzione dei governatori implicati.
È molto importante fissare questo punto delle responsabilità governative negli incendi di maggio, perché l'esecutivo provvisorio dichiarò nella seduta inaugurale delle Corti costituenti:  "Noi veniamo colle mani monde; monde di sangue e monde di cupidigie". Ma, si domandava il rappresentante pontificio:  "E le chiese e conventi distrutti, e le povere Comunità disperse, e la coscienza nazionale ferita, e la Chiesa perseguitata, e la Spagna scattolicizzata, che cosa debbono rispondere?". Un anno dopo, al giungere il luttuoso anniversario dell'11 maggio 1931, il nunzio, debitamente autorizzato dal cardinale Pacelli, preparò la corrispondente protesta, e la consegnò al ministro degli Esteri dicendogli:  "Non le farà maraviglia che in questo tristissimo anniversario la Santa Sede, per la quale il tempo non passa e meno ancora la memoria, si creda nel doloroso dovere di reiterare la protesta, che per così nefandi delitti elevò l'anno scorso, e con la protesta di rinnovare quella domanda di indennizzo e di riparazione, che fece anche allora, e che non è stata soddisfatta neppure a parole".
Intanto, nel corso di quell'anno, da altre parti della Spagna venivano segnalati altri attentati contro chiese ed edifici sacri:  anzi, non passava giorno senza che i periodici riportassero simili vandalismi. In uno stesso giorno i quotidiani riferirono due attentati contro chiese:  il primo a Turón, nella diocesi di Oviedo, dove scoppiarono due bombe che causarono gravi danni; l'altro contro la chiesa della consolazione in Doña Mencía, presso Córdoba, che fu incendiata, e della quale rimase in piedi solo la torre campanaria e qualche muro. Si trattava di una chiesa artistica di stile mudéjar. Nella stessa Madrid si ebbe un tentativo di incendio della chiesa del Carmine, situata in una delle più centrali vie della capitale. Numerosi furono questi attentati in ogni parte della Spagna ed è impossibile riferirli tutti.
E non solo la malsana passione incendiaria si sfogava contro chiese e conventi, ma incominciò anche contro i palazzi vescovili. Si trattò insomma di una vera follia incendiaria che, se non sempre raggiungeva i suoi intenti, tuttavia eccitava gli elementi perturbatori che vedevano dinanzi a sé un campo aperto per le proprie tendenze delittuose e sacrileghe. Questo gravissimo pericolo fu compreso anche dalla stampa repubblicana, che fece apparire alcuni articoli di protesta. Gli stessi giornali richiamavano al loro compito di vigilanza e difesa le autorità repubblicane per il decoro della stessa Repubblica.
Il 20 ottobre 1932 ebbe luogo il primo processo contro un incendiario. L'accusato, Antonio Fernández Soto, era stato sorpreso il tragico giorno 11 maggio 1931 mentre dava fuoco alla porta del Convento de las Comendadoras de Santiago a Madrid. Il fatto era più che provato, perché l'accusato era stato colto in flagrante; malgrado questo i giurati non giudicarono l'imputato colpevole e questi fu assolto e scarcerato immediatamente.
Questo verdetto non solo era solo una offesa alla giustizia, al sentimento religioso e alla serietà dei procedimenti penali, ma un precedente per i seguenti processi che servì ad assicurare (non con la presunzione di reato, ma con una prova) l'immunità a incendiari e depredatori di chiese, che proseguirono con maggior tenacia nelle loro imprese. La prova di questo amaro risultato si ebbe a Sevilla dove fu incendiata un'altra chiesa, che oltre a essere un edificio sacro era anche un monumento artistico del XVI secolo. Altri casi del genere si registrarono alla fine del 1932.
I giornali non sempre erano in grado di riferire tutti gli incendi e tutte le devastazioni di chiese. Ma per la loro quotidiana ripetizione, come sottolineava il quotidiano "El Debate", questi fatti passavano alla categoria di abituali. Occorreva quindi elevare ancora una volta il grido d'allarme in nome della religione, dell'arte e della civiltà, e proclamare che era ora che si intervenisse perché non si fosse verificato neppure un altro incendio.
Ma mentre i governanti si mostravano tanto attenti quando si trattava di dettare disposizioni legali lesive dei diritti di proprietà della Chiesa, non si preoccupavano affatto di dettare misure energiche per salvare gli edifici sacri dall'ondata di furore sacrilego; anzi lo stesso potere giudiziario, ultimo baluardo della giustizia almeno sotto l'aspetto della pena da infliggere ai criminali, mostrava di decadere assolvendo e rimandando liberi colpevoli pronti a compiere altre sacrileghe imprese.
La follia incendiaria, che sinistramente illuminò gli inizi della Seconda Repubblica, non cessò negli anni successivi. Se gli incendi non divamparono più così numerosi come nel maggio 1931 - il che non sarebbe stato tollerato neppure dal mondo civile - una coda di violenze serpeggiò in diversi luoghi fra templi ed edifici sacri fino al 1936.


(©L'Osservatore Romano - 14-15 giugno 2010)
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