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Propaganda anti-motu proprio sul sito della diocesi di Milano

Ultimo Aggiornamento: 12/07/2010 16:14
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12/07/2010 16:14

Propaganda anti-motu proprio sul sito della diocesi di Milano

Dal sito ufficiale della "Chiesa di Milano" (chiamarsi solo diocesi sarebbe riduttivo), riportiamo un editoriale: la sagra delle frasi fatte. Possibile che, dopo 40 annni, non abbiano ancora trovato qualche argomento più solido per giustificare la demolizione della liturgia?


Introibo ad altare Dei


di Giuseppe Grampa

Ci sono parole apprese negli anni dell’infanzia e che restano vive nella memoria. Una di queste per me è: Introibo ad altare Dei... «Salirò all’altare di Dio», diceva il Celebrante, e io, chierichetto di sette anni, rispondevo: Ad Deum qui laetificat juventutem meam. Nel nome di Dio che rallegra la mia giovinezza cominciava la Messa secondo l’antico rituale fino alla riforma voluta dal Concilio giusto quarant’anni fa. Mi rivedo in ginocchio ai piedi dei gradini che portavano al monumentale altare della mia Basilica di San Giovanni a Busto Arsizio, pronto a sollevare le vesti del sacerdote perché, salendo, non inciampasse. E ricordo le acrobazie per portare all’altare le ampolline di vetro con l’acqua e il vino e soprattutto la difficoltà di trasportare il pesante messale con il suo leggio da un lato all’altro dell’altare, troppo alto per la mia statura di bambino. E che soddisfazione, diventato un po’ più grandicello, portare il turibolo e fare l’incensazione. Quante volte i carboni accesi sono finiti sul tappeto... Capisco certe persone che in preda a inguaribile nostalgia non hanno accettato la riforma della liturgia, continuano a usare la lingua latina, non tollerano di ricevere la comunione in piedi [purtroppo per l'articolista, la maggior parte di questi 'inguaribili nostalgici' non erano nemmeno nati quando lui smetteva di alzare le vesti al sacerdote]. L’antico rituale aveva il suo fascino, ma proprio non tornerei indietro. Sono felice di essere da quarant’anni prete di una Chiesa che si rivolge a Dio con le parole di tutti i giorni e di celebrare guardando in faccia i fedeli e non dando loro la schiena. Questi due semplici gesti che quarant’anni fa mutarono lo stile celebrativo della Chiesa esprimono efficacemente il volto della Chiesa rinnovato dal Concilio. Parlare a Dio con la lingua della nostra esistenza quotidiana e non con una lingua morta non è solo decisivo mezzo di partecipazione dei fedeli, di coinvolgimento nella celebrazione, ma vuol esprimere meglio la verità centrale della nostra fede: l’Incarnazione, gran balzo di Dio nei solchi della nostra umanità, a cominciare dal nostro linguaggio. È bello poter parlare a Dio con le parole che ho appreso sulle ginocchia di mia madre. Sono da quarant’anni felice di celebrare guardando negli occhi le persone che circondano l’altare. Uno sguardo che qualche volta diventa sorriso, quando riconosco nell’assemblea un volto amico. Guardarsi negli occhi per riconoscersi, prete e fedeli, appartenenti a un unico popolo che Dio convoca alla sua tavola. Ricordo con tristezza quelle liturgie in una lingua incomprensibile, con il celebrante isolato in cima ai gradini di altari monumentali che in nessun modo evocavano la tavola del convito fraterno. L’assemblea intenta alle proprie devozioni, quando non era distratta o assente. Il suono del campanello richiamava l’attenzione nel momento centrale della celebrazione.

La riforma della liturgia voluta quarant’anni fa dal Concilio non è stata una superficiale operazione di maquillage [su questo siamo d'accordo]. Riprendendo un modo di dire corrente - dimmi come preghi e ti dirò chi sei -, una Chiesa che parla e prega con le parole della gente e guardando negli occhi è una Chiesa profondamente solidale con la sua gente, una Chiesa coinvolta nelle gioie e nelle speranze, nelle tristezze e nelle angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono.

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