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Benedetto XVI e i margini di una possibile critica ai testi del Vaticano II.

Ultimo Aggiornamento: 18/08/2010 14:18
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18/08/2010 14:18

Benedetto XVI e i margini di una possibile critica ai testi del Vaticano II.

Benedetto XVI e i margini di una possibile critica ai testi del Vaticano II.

È noto che il Papa Benedetto XVI ha indicato nella cosiddetta ermeneutica della discontinuità e della rottura una delle cause della difficile recezione del Vaticano II [1].

In pieno accordo con quanto detto dal Papa, anche Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha recentemente affermato che “la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento”. Mons. Pozzo ha chiamato tale interpretazione una “ideologia para-conciliare, diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico” [2].

Proseguendo sulla scia di queste affermazioni, si potrebbe dunque paragonare il Vaticano II a un monumento storico, bello sì, ma gravemente imbrattato da dei piccioni (parte della teologia moderna e simpatia dei mass-media (Benedetto XVI [3]); gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e centri massmediatici del potere mondano secolaristico (Mons. Pozzo [4]).

Tutti i buoni cattolici non possono che prendere atto di questa situazione, per altro descritta anche troppo benevolmente.

Ma questa spiegazione, nella sua sostanza, potrebbe non offrire tutte le ragioni della grave crisi in atto.

Se infatti provassimo a ripulire il monumento dalle incrostazioni lasciate dai piccioni, se riuscissimo cioè a liberare il Concilio dall’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso (Mons. Pozzo [5]), cosa troveremmo sotto la suddetta coltre di errori? Troveremmo un capolavoro finalmente ripulito, oppure potremmo rinvenire, nello stesso monumento, qualche difetto (es.: espressioni per lo meno ambigue) e qualche lacuna (es.: la mancata condanna del comunismo, la mancanza di canoni definitori)?

In altre parole, può un cattolico, che deve necessariamente aderire “con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro Magistero autentico, sebbene non intendono proclamarli con atto definitivo” [6], rinvenire una qualche forma di difetto negli stessi testi conciliari? E se sì, quali sono i margini leciti di questa critica?

Per rispondere a questa domanda, può giovare la rilettura di un testo scritto da Joseph Ratzinger a metà degli anni 60 [7], circa la qualificazione teologica di alcuni testi conciliari. Il testo riguarda strettamente la qualifica teologica di alcuni paragrafi del cap. III di Lumen Gentium (riguardanti la collegialità episcopale), ma i principi e le conclusioni si possono applicare cum granu salis a tutti i testi del Vaticano II.

Riporto ora il testo dell’allora teologo Joseph Ratzinger, a cui posporrò alcune osservazioni conclusive.

Joseph Ratzinger: Il problema della qualificazione teologica [di Lumen Gentium]

Inizio dello stesso testo di J. Ratzinger:

1. Il problema

Durante tutto il tempo delle consultazioni e discussioni sullo schema De Ecclesia fu dai Padri e Teologi del Concilio sempre più sollevata la questione
della qualificazione teologica dei testi che sarebbero stati promulgati. Questi, 
infatti, rappresentano una novità nella storia dei Concili, in quanto mancano 
di canoni o anatematismi, che venivano finora impiegati come norma di interpretazione nella questione di ciò che è veramente definito e vincolante. Si aggiunga come aumento di difficoltà per una interpretazione che voglia conoscere
il valore dommatico dei testi conciliari, la insolita lunghezza di questi e il carattere pastorale sempre più accentuato del Concilio. D'altra parte, non si deve
neppure dimenticare che il tentativo fatto, di spingere le affermazioni del Concilio su un piano esclusivamente pastorale, cercando di cancellare dal titolo del testo
la parola «dogmatica» per parlare solo e semplicemente di una «Constitutio de 
Ecclesia», venne respinto. Il testo promulgato si intitola ora nuovamente «Constitutio dogmatica de Ecclesia» ed esprime con ciò una chiara esigenza dommatica.

Con questa chiarificazione del genere letterario, espressa dal Concilio, è anzitutto esclusa la tendenza a volerlo qualificare come un testo di pura edificazione.
 Ciò contrasterebbe, del resto, apertamente anche con la nozione positiva dell'idea pastorale, che si è formata nel Concilio sviluppando le richieste di Giovanni
XXIII. Questo carattere pastorale riprende l'idea che i Padri della Chiesa avevan o
della cura pastorale; esso non è affatto distaccato dalla verità dommatica, ma
 riposa proprio sulla piena riscoperta del carattere salvifico della verità biblica,
 che non è fatta soltanto per la scuola né è semplicemente teoretica. «Pastorale»
è, perciò, l'espressione adatta per indicare l'unione fraterna della verità e dell'amore, del Logos e dell'Ethos e dovrebbe essere anche la legge fondamentale
 che dirige e caratterizza ogni lavoro teologico.

2. La Dichiarazione della Commissione Teologica

Per quanto importanti siano tali conoscenze, esse non sopprimono, tuttavia,
la questione del valore esatto dei testi presentati e non sono sufficienti a risolverla. E necessario, del resto, riflettere, che anche nei testi dei Concili precedenti la questione della obbligatorietà è più difficile di quanto spesso si affermi, 
e che, in genere, una storia della nozione di definizione dommatica e dei testi
 dommatici resta ancora da scrivere, e vani e molto diffusi sono ancora i malintesi da eliminare [8].

Tra le notificazioni del 16 novembre 1964, che abbiamo menzionate, e di cui
la terza parte - la «Nota esplicativa previa» - è stata appena esaminata [9], la seconda parte si occupa del problema della qualificazione teologica [10]. Se ne parla 
ampiamente in altro articolo [11].

3. II risultato

Secondo il testo della Nota, è anzitutto chiaro che una vera «definizione dommatica» con la quale una proposizione viene dichiarata oggetto di fede divina e
cattolica, si ha solo quando ciò sia espressamente dichiarato. Questo non è mai il
caso nella parte del testo da noi analizzato ossia nei numeri 19-22 del cap. III 
della Costituzione sulla Chiesa. Dunque, essi non contengono alcun nuovo 
domma.

Per prima potrebbe ancora riecheggiare una definizione dommatica la proposizione con la quale, nel numero 21, viene pronunciata la sacramentalità
 dell'episcopato: «Insegna quindi il Santo Concilio che con la consacrazione 
episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'Ordine...». Ma poiché
 manca l'accenno al carattere rivelato di questa dottrina, neppure qui si ha da
vedere una vera definizione dommatica, ma solo l'espressione di una comune
 convinzione dottrinale del Concilio, nella quale, tuttavia, non si afferma l'appartenenza immediata della dottrina proposta al deposito della fede apostolica,
 né si propone questa all'assenso della fede.

Con questo che è stato detto si è raggiunta una chiarificazione negativa: non 
ci sono dommi, neppure nella proposizione della sacramentalità dell'episcopato.
 Rimane aperta la questione positiva: quale grado di certezza hanno, in realtà, 
i testi promulgati? Questo non è reso del tutto chiaro neppure dalle parole della
Commissione teologica, che suonano un po' come oracolo e offrono due specie
di criteri:

a) L'intero testo è espressione del supremo magistero della Chiesa. Ciò 
include, in ogni caso, una certa misura di obbligatorietà, sulla quale dovremo 
ancora riflettere un po'.

b) Valgono le regole ordinarie di interpretazione che trovano la loro norma 
nella natura della materia trattata e nel genere letterario del testo.

Anche da questo risulta necessariamente una non piccola forma di obbligatorietà del testo, la cui materia si trova nel campo della verità dommatica e la 
cui dizione è assolutamente magisteriale-autoritativa, soprattutto nei brani da 
noi considerati.

Nella determinazione del genere letterario si deve aggiungere che si tratta
 di un testo, intorno al quale, per tre anni, parola per parola, si è applicato intensamente l'episcopato del mondo intero, il collegio dei vescovi in comunione
 col Papa, dotato del supremo potere dottrinale; testo che il papa stesso ha meditato nel modo più radicale, alla cui maturazione ha contribuito con un non
 piccolo numero di proposte, e che, infine, ha solennemente confermato e promulgato:

Tutte e singole le cose stabilite in questa Costituzione dommatica piacquero ai Padri. E Noi, con la potestà Apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai Venerabili
 Padri, nello Spirito Santo le approviamo, decretiamo e stabiliamo; e ciò che è stato
sinodalmente decretato, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio.

Quando si rifletta a tutto questo, si rende indubbiamente chiaro che, per
quanto riguarda la misura della sua obbligatorietà teologica, il testo sta molto 
al di là delle espressioni ordinarie del magistero del papa, le stesse Encicliche 
comprese. E un documento cresciuto in anni della più intensa espressione della 
coscienza attuale della fede di tutta la Chiesa cattolica adunata in Concilio;
 Chiesa che ha formulato questo testo come professione della sua fede, come
 annunzio al mondo di oggi, come base del suo rinnovamento spirituale, che
 non può stare su piedi vacillanti. Questo non significa che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni, nelle linee direttrici del suo pensiero o nelle sue citazioni della Scrittura e dei SS. Padri. Ma significa che, nel
complesso dei testi emanati dal magistero della Chiesa, nei tempi moderni, la 
presente Costituzione occupa una posizione di preminente importanza che la fa
essere come una specie di centro di interpretazione.

Nei prossimi decenni e oltre la Costituzione dovrà, in larga misura, attirare 
su di sé l'attenzione dei teologi, ai quali spetta il compito di assimilarne il contenuto e di esprimerlo convenientemente perché sia messo al servizio della predicazione. Sarebbe falso, tuttavia, credere che tutto il lavoro dei teologi si debba 
ora esaurire nella interpretazione delle affermazioni conciliari. Il senso di questo 
testo non è precisamente quello di assorbire le forze dei teologi ma, piuttosto,
quello di condurli fuori da se stessi e di accompagnarli e guidarli alle sorgenti
 del perpetuo rinnovamento e ringiovanimento di tutta la teologia: alla S. Scrittura, cioè, ed ai ricchi tesori che, di generazione in generazione, si possono tirar 
fuori dagli scritti dei Padri.

Fine dello stesso testo di J. Ratzinger.

Osservazioni conclusive

Possiamo riassumere ora le osservazioni di J. Ratzinger: e siccome riguardano i testi conciliari che hanno la qualifica teologica più alta, quanto qui detto si può applicare, con molta prudenza, a tutto il resto del Vaticano II.

1) “Con questa chiarificazione del genere letterario [Costituzione dogmatica], espressa dal Concilio, è anzitutto esclusa la tendenza a volerlo qualificare come un testo di pura edificazione”.

2) Non esiste nel III capitolo di Lumen Gentium alcuna definizione dogmatica, né alcuna dottrina proposta come definitiva (e se non esiste qui, sarà molto difficile trovarne qualcuna nel resto del corpus dei documenti conciliari)

3) Ciò non toglie che i testi presi in esame non godano dell’infallibilità propria del magistero ordinario, né che non sia richiesta l’adesione con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto: infatti, “risulta necessariamente una non piccola forma di obbligatorietà del testo, la cui materia si trova nel campo della verità dommatica e la
cui dizione è assolutamente magisteriale-autoritativa, soprattutto nei brani da
noi considerati […] si deve aggiungere che si tratta
 di un testo, intorno al quale, per tre anni, parola per parola, si è applicato intensamente l'episcopato del mondo intero, il collegio dei vescovi in comunione 
col Papa, dotato del supremo potere dottrinale; testo che il papa stesso ha meditato nel modo più radicale, alla cui maturazione ha contribuito con un non
 piccolo numero di proposte, e che, infine, ha solennemente confermato e promulgato”.

4) “si rende indubbiamente chiaro che, per
 quanto riguarda la misura della sua obbligatorietà teologica, il testo sta molto 
al di là delle espressioni ordinarie del magistero del Papa, le stesse Encicliche 
comprese”.

5) “Questo non significa che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni, nelle linee direttrici del suo pensiero o nelle sue citazioni della Scrittura e dei SS. Padri. Ma significa che, nel
 complesso dei testi emanati dal magistero della Chiesa, nei tempi moderni, la
presente Costituzione occupa una posizione di preminente importanza che la fa 
essere come una specie di centro di interpretazione”.

Circa quest’ultimo punto, è molto importante la prima frase, questo non vuol dire che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni. Ciò significa che, vuoi perché l’ideologia para-conciliare ha ormai caricato certe espressioni in sé buone di un significato erroneo; vuoi perché infallibilità del magistero non significa che tutte le parti di un documento siano redatte sempre nel migliore dei modi; vuoi perché un testo ampio e discorsivo si presta di più di un’unica interpretazione e a fraintendimenti (pensiamo all’abuso che gli eretici hanno fatto di Sant’Agostino e della Scrittura stessa); vuoi perché l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, si è impadronita del Concilio fin dal principio (Mons. Pozzo [12]); insomma, per tutta una serie di motivi può essere lecito auspicare, nei punti più controversi - visto che il testo non è “irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni” - una migliore formulazione che renda impossibile l’ermeneutica della rottura e renda invece più evidente la vera ermeneutica della riforma e della continuità.

D'altra parte è vero che il Concilio è stato continuamente e rettamente interpretato da centinaia di discorsi e in altri documenti importantissimi, quali ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica. Ma visto che l'ideologia para-conciliare si richiama al Concilio, usando questa parola quasi come un mantra, non guasterebbero chiarificazioni ex-professo (come è stato fatto con la questione del subsistit).

Una nuova formulazione particolare dei punti più controversi potrebbe - oltre che arrecare tanti frutti positivi - senz’altro favorire il felice esito dei colloqui tra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X.

La piena riconciliazione infatti non potrà che passare attraverso l’accettazione sostanziale - da parte della FSSPX - di tutto il magistero, ordinario e straordinario: le suddette riformulazioni, che non sarebbero altro che chiarimenti autentici e autoritativi del Concilio stesso, potrebbero permettere di sciogliere le riserve che FSSPX tuttora mantiene nei confronti di alcuni testi del Vaticano II.


Don Alfredo M. Morselli, Stiatico di San Giorgio di Piano, 16 agosto 2010, festa di San Gioacchino, padre della Beata e Gloriosa sempre Vergine Maria, Madre di Dio.


NOTE

[1] cf. Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri Natalizi, 22 dicembre 2005, tinyurl.com/b8f72; sito visitato il 16 agosto 2010.

[2] Aspetti della ecclesiologia cattolica
nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza tenuta il 2 luglio 2010, presso il Seminario della Fraternità Sacerdotale di San Pietro a Wigratzbad: cf www.fssp.org/it/pozzo2010.htm; sito visitato il 16 agosto 2010.

[3] Discorso alla Curia Romana...

[4] Aspetti della ecclesiologia...

[5] Aspetti della ecclesiologia...

[6] Cf. Congregatio pro Doctrina Fidei, Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis in suscipiendo officio nomine Ecclesiae exercendo una cum nota doctrinali adnexa, 29 giugno 1998
 AAS 90 (1998) 542-551.

[7] Si tratta della terza e ultima parte di un interessantissimo scritto di J. RATZINGER, «La collegialità episcopale dal punto di vista teologico», pubblicato in G. BARAÚNA (a c. di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze: Vallecchi, 1965, pp. 733-760. Il sottotitolo originale della III parte (pp. 757-760) è Il problema della qualificazione teologica.

[8] Cfr. A. KOLPING, Qualifikationen, in «Lexikon für Theologie und Kirche» 8 (1963) 914-919 e gli importanti studi, ivi citati, di A. LANG, specialmente: Der Bedeutungswandel der 
Begriffe «fides» und «haeresis» und die dogmatische Wertung der Konzilsentscheidungen von
 Vienne und Trient, in «Münchener Theologische Zeitschrift» 4 (1953) 133-146 e il nuovo 
studio riassuntivo: Die theologische Prinzipienlehre der mittetalterlichen Scholastik, Friburgo
1964, specialmente le pp. 184-195. [Nell’edizione italiana di La Chiesa del Vaticano II, il n. della nota è 46. N. d. R.]

[9] Nelle prime due parti dello stesso scritto, qui non riportate.

[10] Riportiamo, per comodità del lettore, la II parte della suddetta notificazione:

NOTIFICATIO

Facta ab Exc.mo Secretario Generali Ss. Concilii in Congregatione Generali CLXXI diei XV nov. MCMLXV

Quaesitum est quaenam esse debeat qualificatio theologica doctrinae, quae in Schemate Constitutionis dogmaticae de Divina Revelatione exponitur et suffragationi subicitur.

Huic quaesito Commissio de doctrina fidei et morum hanc dedit responsionem iuxta suam Declarationem diei 6 martii 1964:

«Ratione habita moris conciliaris ac praesentis Concilii finis pastoralis, haec S. Synodus ea tantum de rebus fidei vel morum ab Ecclesia tenenda definit quae ut talia aperte ipsa declaraverit».

«Cetera autem, quae S. Synodus proponit, utpote Supremi Ecclesiae Magisterii doctrinam, omnes ac singuli christifideles excipere et amplecti debent iuxta ipsius S. Synodi mentem, quae sive ex subiecta materia sive ex dicendi ratione innotescit, secundum normas theologicae interpretationis».

Traduzione in italiano:

Notificazione fatta dall'Ecc.mo Segretario generale (Card. Pericle Felici) nella congregazione generale 123.a (16 novembre 1964)

“È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: «Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute». In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:

«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.

«Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica»”.

[N.d.R.].

[11] J. RATZINGER si riferisce qui all’articolo di U. BETTI, «Qualificazione teologica della Costituzione», nella stessa opera La Chiesa del Vaticano II, pp. 267-274. [N.d.R.].

[12] Aspetti della ecclesiologia...

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