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I Paolini fanno un bilancio del motu proprio.

Ultimo Aggiornamento: 06/09/2010 19:17
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06/09/2010 19:17

I Paolini fanno un bilancio del motu proprio.

Jesus, la rivista delle Paoline - progressiste le Paoline, e ancor più progressista Jesus - dedica al terzo anniversario del motu proprio un bilancio che pecca di miopia: tutta l'analisi sul motu proprio si riduce in realtà ad un esame dei rapporti tra Roma e i lefebvriani. Almeno il primo dei due articoli è, sul piano fattuale, accurato e insolitamente preciso, ad onore del suo autore; per contro, questo tradisce il fatto che non può essere involontario l'errore di prospettiva, di avere cioè omesso che il motu proprio concerne solo indirettamente la S. Pio X (la quale non ha certo bisogno di autorizzazione per celebrare la Messa di Sempre), mentre principalmente riguarda la Chiesa, diciamo, 'ufficiale', chiamata ad aprirsi ad un biritualismo che, nelle intenzioni del Papa, deve servire ad iniettare un po' di buon senso liturgico e dottrinale nel corpo ecclesiale ormai giunto al delirium tremens. Naturalmente, l'esistenza stessa di colloqui con i lefebvriani è vista da Jesus come un pericolo grave per "l'autorità apostolica" del Concilio: di qui il messaggio, per nulla celato, che è da giudicare dannosa, controproducente, insensata la ricerca di un accordo per riportare la Fraternità S. Pio X in comunione con Roma.



Il Concilio in gioco


Sono trascorsi tre anni dall’introduzione del motu proprio Summorum Pontificum, con cui Benedetto XVI ha liberalizzato la possibilità di celebrare l’Eucaristia secondo il messale preconciliare, in vista di una riconciliazione con la Fraternità San Pio X. Ma qual è la vera portata di una tale decisione? E quali i suoi risultati? In questo articolo un autorevole storico della Chiesa, docente dell’Università di Trieste, ci spiega che cosa hanno di mira i seguaci di monsignor Lefebvre. E perché il rischio sia quello di minare l’autorità apostolica del Vaticano II.

Il 14 settembre ricorrono i tre anni dall’entrata in vigore del motu proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum, che era stato pubblicato il 7 luglio 2007 insieme a una Lettera ai vescovi di tutto il mondo che ne spiegava le ragioni e le finalità. La scadenza è importante. Nella Lettera infatti Benedetto XVI aveva invitato i vescovi a inviare alla Santa Sede, tre anni dopo l’entrata in vigore del motu proprio, un resoconto delle «esperienze» seguite alla sua decisione: una decisione che, fin dal suo annuncio, aveva suscitato critiche, perplessità, timori e attese di diverso segno.

Non era la prima volta che un resoconto del genere veniva chiesto ai vescovi. Nel 1980 infatti essi erano stati invitati a riferire sull’accoglienza riservata dai fedeli al messale promulgato nel 1970 da Paolo VI in sostituzione di quello del 1962, che comprendeva la Messa detta di San Pio V. Dalle risposte era emerso che solo gruppi molto limitati di sacerdoti e laici erano rimasti «ancorati» al rito antico. Ciononostante Giovanni Paolo II, con la lettera Quattuor abhinc annos dell’ottobre 1984, «nel desiderio di venire incontro a tali gruppi», aveva ritenuto di offrire ai vescovi la possibilità di usufruire di un indulto in base al quale concedere ai sacerdoti e ai fedeli che lo richiedessero la facoltà di celebrare la Messa usando il messale del 1962. Tra le condizioni previste si stabiliva che in ogni caso doveva risultare «in tutta chiarezza» che tali gruppi non condividevano la posizione di quanti «mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale» del messale di Paolo VI.

Il motu proprio di Benedetto XVI stabilisce che a tale messale (che restava l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino) si affiancasse, come espressione straordinaria della stessa lex orandi, il messale promulgato da Pio V all’indomani del concilio di Trento, nell’edizione del 1962 promossa da Giovanni XXIII. Diveniva perciò pienamente lecita la celebrazione della Messa secondo tale messale, in abrogazione di tutti i limiti fino allora operanti. Benedetto XVI aveva cura di precisare: non si tratta di «due riti», ma «di un uso duplice dell’unico e medesimo rito». Non era una decisione da poco. Come notava la Rivista liturgica, mai era successo che «uno stesso rito fosse celebrato in due forme diverse».

Le disposizioni operative cercavano di facilitare in ogni modo l’applicazione di tale decisione. Si lasciava, tra l’altro, ai singoli sacerdoti piena libertà nell’uso dell’uno o dell’altro messale nelle celebrazioni della Messa sine populo, e si invitavano i parroci ad accogliere «volentieri» le richieste presentate da gruppi di fedeli per la celebrazione della Messa usando il messale del 1962. Il vescovo era chiamato a intervenire esaudendo le richieste di questi fedeli nel caso che il parroco non le avesse accolte. Veniva anche prevista l’erezione di una «parrocchia personale» per tali celebrazioni. Il parroco inoltre era autorizzato a usare il rituale antico anche nell’amministrazione dei sacramenti «se questo consiglia il bene delle anime». E a questa condizione anche gli Ordinari potevano celebrare il sacramento della Confermazione secondo l’antico Pontificale Romano. La commissione pontificia Ecclesia Dei, creata da Giovanni Paolo II nel 1988 per facilitare il rientro nell’obbedienza romana dei dissidenti dallo scisma di Lefebvre, era incaricata di vigilare «sull’osservanza e l’applicazione di queste disposizioni».

Nella Summorum Pontificum, papa Benedetto XVI, quasi a spiegare la genesi della sua decisione, aveva ricordato che «in talune regioni non pochi fedeli» avevano continuato ad aderire con «amore e affetto» alle antiche forme liturgiche, anche dopo la pubblicazione da parte di Paolo VI dei libri liturgici riformati secondo le indicazioni del Vaticano II; ciò che aveva sollecitato l’indulto emanato da Giovanni Paolo II nel 1984 e rinnovato nel 1988.

Tali richiami, ancora generici nel motu proprio, diventano più puntuali nella Lettera ai vescovi. Il problema di monsignor Lefebvre e della Fraternità San Pio X viene esplicitamente ricordato. La questione della «riconciliazione interna nel seno della Chiesa» si profila così come la ragione centrale della decisione assunta. Non a caso, osserva Benedetto, guardando alle lacerazioni del passato si ha l’impressione che da parte dei responsabili della Chiesa non sia stato fatto tutto il possibile «per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità». Da ciò l’«obbligo» di fare ogni sforzo per rendere «possibile» a chi ha «veramente il desiderio dell’unità» di «restare in quest’unità o di ritrovarla».

La liberalizzazione della Messa di San Pio V si situa chiaramente in questa prospettiva. Da tempo in effetti i responsabili della Fraternità avevano posto come condizione preliminare per l’avvio di un percorso di riconciliazione con Roma il pieno ristabilimento nella Chiesa dei diritti della Messa di San Pio V, liberalizzandone l’uso. Monsignor Bernard Fellay, successore di Lefebvre alla testa della Fraternità, l’aveva ripetuto a Benedetto XVI nell’udienza che questi gli aveva concesso a Castel Gandolfo a pochi mesi dalla sua elezione.

Nell’assumere una tale decisione Benedetto XVI aveva avuto cura di precisare due punti che intendevano evidentemente rispondere a timori e critiche che si stavano diffondendo. Stabilire «due espressioni della lex orandi della Chiesa» non porterà «in alcun modo a una divisione nella lex credendi», in quanto si tratta di «due usi dell’unico rito romano». Il timore che con tale decisione «venga intaccata l’autorità» del Vaticano II e sia «messa in dubbio» la riforma liturgica «è infondato».

Non erano in realtà due punti che si potevano considerare scontati. Infatti non erano pochi, su entrambi i versanti degli schieramenti, a pensare l’opposto. La stessa lunga vicenda che aveva contrapposto Lefebvre a Roma attesta che le cose erano e sono più complicate di quanto Benedetto XVI si sforzasse di mostrare.

Radicale era stato il rifiuto da parte di Lefebvre della riforma liturgica di Paolo VI. Per lui, essa era l’espressione di quella «Roma di tendenza neomodernista e neoprotestante che si è manifestata chiaramente nel concilio Vaticano II», come scrisse nella «professione di fede» letta il 2 dicembre 1974 a Ecône ai professori e agli studenti riuniti. Il suo giudizio sulla «nuova Messa» era stato senza remissione, assumendo una portata che investiva in un’unica condanna i modi di essere e le prospettive della Chiesa intera: «Non si può modificare profondamente la lex orandi senza modificare la lex credendi. A Messa nuova corrisponde catechismo nuovo, sacerdozio nuovo, seminari nuovi, università nuove (...), tutte cose opposte all’ortodossia e al magistero di sempre». Erano concetti che Lefebvre non si stancherà di ripetere. Nel sermone pronunciato il 29 giugno 1976, in occasione dell’ordinazione presbiterale compiuta malgrado il divieto romano, egli ribadirà che il «nuovo rito della Messa» che si è voluto imporre «esprime una nuova fede, una fede che non è la nostra, una fede che non è la fede cattolica». La Messa infatti era stata protestantizzata: scomparsa la nozione di sacrificio, sostituita dall’idea di agape, di memoriale fraterno; stravolto il ruolo del sacerdote, divenuto il presidente di un’assemblea; scomparso il senso del sacro, del mistero.

Per Lefebvre era il punto d’arrivo di un discorso che in realtà era un discorso globale. Il rifiuto della «nuova Messa» riassumeva in sé il rifiuto che da subito egli aveva espresso degli aspetti innovativi del Concilio: la collegialità, la libertà religiosa, l’ecumenismo e il dialogo con le altre religioni, l’apertura al mondo moderno. La fedeltà alla Messa preconciliare diventava il simbolo più eloquente di quel rifiuto.

Il suo successore, scrivendone ai fedeli il 2 aprile 1999, a trent’anni dall’emanazione del Novus Ordo Missae, non si esprimerà diversamente: «Sono trent’anni di vuoto. Un vuoto che ha fatto il vuoto (...). Non vi è dubbio che la causa principale della crisi spaventosa che attraversa la Chiesa dipende dalla perdita dello spirito di fede e dello spirito di sacrificio, provocati entrambi dalla nuova Messa». E in un’intervista a Le Figaro (23 marzo 2001), aveva parlato della «Messa tridentina» e della «Messa di Paolo VI» come di «due mondi differenti». Anche per lui come per Lefebvre, il Vaticano II aveva provocato conseguenze «disastrose», riducendo la Chiesa a un ammasso di rovine.

Formulando quei giudizi, Lefebvre era in buona compagnia. Non la pensavano diversamente cardinali di Curia come Ottaviani e Bacci, né importanti cardinali residenziali come Siri, pur non intendendo seguirlo nei suoi aperti atti di rottura. Senza arrivare a giudizi così radicali, non erano mancate altre voci che avevano espresso critiche e manifestato perplessità nei confronti delle riforme liturgiche quali erano venute configurandosi nel post-concilio. Il cardinale Ratzinger, sia nel Rapporto sulla fede, sia nella sua Autobiografia, era stato esplicito al riguardo. Non a caso, nella Lettera ai vescovi di tutto il mondo, il desiderio di molti di mantenere le forme antiche della liturgia è collegato alle deformazioni «fino al limite del sopportabile» che vi erano state introdotte.

Alle forzature con cui Lefebvre e i suoi seguaci avevano contrapposto e contrapponevano la Messa di Paolo VI a quella di San Pio V, il motu proprio di Benedetto XVI risponde rimuovendo il problema: la loro compresenza nel rito romano non porterà alcuna divisione nella lex credendi. È un’affermazione coerente a una lettura del Vaticano II che «porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa». Nelle preghiere proposte nei due messali non mancano peraltro vistose differenze, in particolare per i rapporti con le altre Chiese cristiane e le altre religioni, con evidenti ricadute negli atteggiamenti e nei rapporti ecumenici. È quanto è stato rilevato subito per la preghiera del Venerdì santo riguardante gli ebrei, ma lo stesso discorso vale per gli «eretici e scismatici», per i quali, nel messale di San Pio V, si chiede a Dio di strapparli dai loro errori, guardando con misericordia «alle loro anime ingannate da diabolica frode» («diabolica fraude deceptas»), ricorrendo cioè a termini e giudizi ben lontani dalla lettera e dallo spirito del Vaticano II.

D’altra parte, era proprio quell’insieme di giudizi e persuasioni che dava profondità e spessore alla ribellione di Lefebvre, così come dà consistenza e identità alla Fraternità San Pio X, nella volontà di continuare quella «Chiesa di sempre» alla quale anche Roma, rinunciando alla «Chiesa conciliare», dovrà prima o poi ritornare. Questa attesa e questa prospettiva spiegano perché Lefebvre, nonostante la durezza dei suoi giudizi, abbia continuato a cercare una qualche forma di composizione con le autorità romane, nel tentativo, si direbbe, di poter operare dall’interno, di guadagnarsi uno spazio per un’azione più incisiva nella Chiesa. Esprime efficacemente questo tentativo la formula con cui Lefebvre si rivolgerà a Paolo VI nel corso dell’udienza concessagli l’11 settembre 1976 a Castel Gandolfo: «Ci lasci fare, Santità, l’esperienza della Tradizione. Che ci sia, in mezzo a tutte le esperienze attuali, l’esperienza di ciò che è stato fatto per venti secoli».

Paolo VI aveva risposto un mese dopo con una lettera di 18 pagine in latino che confutava punto per punto i giudizi e le tesi di Lefebvre, metteva in luce la sua errata idea di tradizione, gli rinfacciava la pretesa di volersi erigere lui, singolo vescovo, a giudice del Concilio, dell’intero collegio episcopale e del Papa, e soprattutto gli spiegava perché la sua richiesta, in apparenza così minimale, di «poter fare l’esperienza della tradizione», con l’autorizzazione perciò a non adottare il nuovo Ordo missae conservando invece la Messa di San Pio V, non poteva essere accettata: il farlo avrebbe significato in realtà avallare implicitamente i suoi giudizi sul Concilio e sulle riforme del post-concilio.

Paolo VI in effetti coglie l’intenzione profonda di Lefebvre di far entrare a pieno diritto nella Chiesa le sue idee sul Concilio attraverso il ripristino della liturgia antica: rifiutando tale richiesta ne smaschera nello stesso tempo la portata. Egli l’aveva già detto al suo amico Jean Guitton che, sensibile agli argomenti di Lefebvre, gli aveva suggerito di autorizzare l’uso del messale di San Pio V in Francia: «Questo mai (...). Questa Messa detta di San Pio V, come la si vede a Ecône, diventa il simbolo della condanna del Concilio. E io non accetterò mai che si condanni il Concilio con un simbolo. Se venisse ammessa questa eccezione, il Concilio ne sarebbe intaccato. E di conseguenza l’autorità apostolica del Concilio» [sottol. ns.].

Il modo di vedere di Paolo VI non è stato quello di Giovanni Paolo II, né è quello di Benedetto XVI. Non pare tuttavia che la Fraternità abbia abbandonato le idee del suo fondatore sul Concilio e sul significato che la fedeltà alla Messa di San Pio V assume in tale contesto. Sta qui mi pare un nodo di fondo che il motu proprio e la Lettera che l’ha accompagnato hanno reso evidente.

Giovanni Miccoli

***

Lefebvriani, il dossier che tiene sveglio il Papa

«La storia con i lefebvriani – lo so da colloqui personali – gli toglie il sonno». Wolfang Beinert, ex studente di teologia di Joseph Ratzinger, ha sorpreso tutti, alcuni mesi fa, con questa rivelazione. La Chiesa cattolica era nel pieno dello scandalo pedofilia, che pure non ha risparmiato cattive notizie a Benedetto XVI, ma il lento rientro dello scisma tradizionalista è rimasto, secondo il suo confidente, un rovello da togliere il sonno a Joseph Ratzinger. «Il Papa forse non ha valutato correttamente il rapporto tra costi e benefici», secondo Beinert. Laddove il beneficio è l’unità dei cattolici e per costi bisogna intendere gli strappi, le polemiche, le resistenze che Benedetto XVI ha incontrato sulla strada intrapresa, tre anni fa, con la promulgazione di Summorum Pontificum, il motu proprio che ha liberalizzato il messale pre-conciliare e che doveva, nelle intenzioni della Santa Sede, spianare la strada a un pieno reintegro dei seguaci di monsignor Lefebvre nell’alveo della Chiesa cattolica.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma il nodo della vicenda è rimasto irrisolto. Anzi, si è intrecciato ancora di più. Ma, dopo un periodo di polemiche aperte all’interno e all’esterno della Chiesa per la revoca della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità sacerdotale San Pio X, nel gennaio 2009, la vicenda lefebvriana – e le frizioni connesse – sono entrate in una fase carsica.

I colloqui dottrinali iniziati a ottobre 2009 tra la Pontificia commissione Ecclesia Dei, guidata da monsignor Guido Pozzo (nella foto), e una delegazione dei lefebvriani, dovevano portare a un chiarimento sul Concilio Vaticano II. La quadratura del cerchio è ardua. «Non ci sono grandi passi avanti, né grandi prospettive», commentano ora in Vaticano. I quattro vescovi lefebvriani, del resto, non hanno usato parole tenere nel corso del tempo: il Concilio, ha detto Tissier de Mallerais, va «cancellato». Per Williamson, si tratta di una «torta avvelenata» da buttare nella «pattumiera».

Espressioni che Benedetto XVI non sottoscriverebbe mai. Certo, Ratzinger ha tenuto a distinguere tra una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» e una «ermeneutica della riforma», sottolineando come il Vaticano II vada interpretato in linea con la secolare storia della Chiesa. Al tema ha deciso di dedicare anche il prossimo incontro dei suoi ex allievi, quel Ratzinger Schuelerkreis che, con riunioni a porte chiuse a Castel Gandolfo sul finire dell’estate, rappresenta una sorta di pensatoio del Papa. Le idee di Ratzinger, del resto, sono ormai un leit motiv della Santa Sede. Monsignor Pozzo, per esempio, ha denunciato di recente il fatto che «dall’ideologia para-conciliare, diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico, il termine "aggiornamento" venne inteso e proposto come il rovesciamento della Chiesa di fronte al mondo moderno: dall’antagonismo alla recettività». La divergenza con i lefebvriani è tuttavia sensibile, se non inconciliabile. Tanto che proprio dal quartier generale degli scismatici [!] è partita la bocciatura dell’incontro degli allievi di Ratzinger, definito uno sforzo «superfluo» perché il Concilio non può essere la «bussola» per il cristianesimo del nostro tempo.

La battaglia è aperta e non esclude i colpi bassi. A giugno scorso, per il secondo anno consecutivo, i lefebvriani hanno ordinato nuovi sacerdoti nonostante il divieto Vaticano. Monsignor Fellay, da parte sua, ha approfittato di alcune immagini che ritraevano il Papa che diceva messa "spalle al popolo" per affermare che Benedetto XVI adotta il messale antico. Netta la smentita vaticana: «Il Papa celebra secondo il rito ordinario in italiano o, a volte, in latino», ha ribattuto il portavoce Federico Lombardi. «Non mi consta che abbia mai celebrato col rito straordinario». L’orientamento verso l’altare? «Dipende dalla disposizione della cappella in cui celebra». [NO, qui l'articolista si sbaglia di grosso, si è perso evidentemente questo
nostro post - vedete che cosa succede se non si legge assiduamente Messainlatino.it? - con cui davamo la notizia che l'apparente smentita di Lombardi a Fellay era in realtà anteriore di 3 anni alle dichiarazioni di quest'ultimo, ad oggi rimaste non smentite].

Dopo tre anni dall’entrata in vigore del motu proprio, intanto, alcune conferenze episcopali stanno compilando le osservazioni che il Papa aveva chiesto loro per verificare le eventuali «difficoltà» della sua applicazione. Anche nei Sacri palazzi, poi, non tutto fila liscio. La Libreria editrice vaticana ha mandato alle stampe a febbraio una nuova edizione del messale antico che – contrariamente a quanto disposto dal Papa – contiene una preghiera intitolata Per la conversione degli ebrei (Oratio pro conversione iudaeorum) [Altra grave inesattezza dell'articolista. Leggete in quest'altro nostro post la ricostruzione storica dell'oratio pro iudaeis: il titolo 'pro conversione iudaeorum' non è stato in alcun modo toccato dall'intervento del 2008 di Benedetto XVI, il quale ha modificato il testo liturgico ma non la titolazione, che resta quindi quella del Messale del 1962, edizione da applicarsi a' termini del motu proprio. Per inciso: quel titolo non è un relitto di bui secoli antisemiti, bensì fu inserito ex novo (in precedenza la preghiera non ne aveva alcuno) da Giovanni XXIII nel 1959; sopravvisse poi alcuni anni, fino al 1965, allorché Paolo VI pensò bene di toglier dal titolo ogni riferimento alla conversione]. «Come e perché la riedizione della preghiera del venerdì santo appare senza una correzione del problematico titolo?», si è domandato il Jerusalem Post [la risposta, come detto, è in questo post].

Iacopo Scaramuzzi

Messainlatino

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