Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Il Papa e i Sacerdoti

Ultimo Aggiornamento: 02/11/2008 19:00
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:51

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AL CLERO DI ROMA

Basilica di San Giovanni in Laterano
Venerdì, 13 maggio 2005

Cari sacerdoti e diaconi, che prestate il vostro servizio pastorale alla Diocesi di Roma, sono felice di incontrarvi agli inizi del mio ministero di Vescovo di questa Chiesa, “che presiede nell’amore”. Saluto con affetto il Cardinale Vicario, che ringrazio per le gentili parole rivoltemi, il Vicegerente e i Vescovi Ausiliari. Saluto con animo amico ciascuno di voi e desidero esprimervi fin da questo primo incontro la mia gratitudine per la vostra fatica quotidiana nella vigna del Signore.

La straordinaria esperienza di fede, che abbiamo vissuto in occasione della morte del nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II, ci ha mostrato una Chiesa di Roma profondamente unita, piena di vita e ricca di fervore: tutto ciò è anche frutto della vostra preghiera e del vostro apostolato. Così, nell’umile adesione a Cristo unico Signore, possiamo e dobbiamo promuovere insieme quella “esemplarità” della Chiesa di Roma che è genuino servizio alle Chiese sorelle presenti nel mondo intero. Il legame indissolubile tra romanum e petrinum implica e richiede infatti la partecipazione della Chiesa di Roma alla sollecitudine universale del suo Vescovo. Ma la responsabilità di una tale partecipazione riguarda a titolo speciale voi, cari sacerdoti, uniti al vostro Vescovo dal vincolo sacramentale e costituiti suoi preziosi collaboratori. Conto dunque su di voi, sulla vostra preghiera, sulla vostra accoglienza e dedizione, perché questa nostra amata Diocesi corrisponda sempre più generosamente alla vocazione che il Signore le ha affidato. E da parte mia vi dico: potete contare, nonostante i miei limiti, sulla sincerità del mio paterno affetto.

Cari sacerdoti, la qualità della vostra vita e del vostro servizio pastorale sembra indicare che, in questa come in numerose altre Diocesi del mondo, abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle il tempo di quella crisi di identità che ha travagliato tanti sacerdoti. Rimangono però ben presenti quelle cause di “deserto spirituale” che affliggono l’umanità del nostro tempo e conseguentemente minano anche la Chiesa che vive in questa umanità. Come non temere che esse possano insidiare anche la vita dei sacerdoti? È indispensabile, dunque, ritornare sempre di nuovo alla radice del nostro sacerdozio. Questa radice, come ben sappiamo, è una sola: Gesù Cristo Signore. È Lui che il Padre ha mandato, è Lui la pietra angolare (1Pt 2,7). In Lui, nel mistero della sua morte e risurrezione il regno di Dio viene, e si compie la salvezza del genere umano. Ma questo Gesù non ha nulla che gli appartenga in proprio, è tutto interamente del Padre e per il Padre. Perciò Egli dice che la sua dottrina non è sua, ma di colui che lo ha mandato (cfr Gv 7,16): il Figlio da solo non può fare nulla (cfr Gv 5,19.30).

Questa, cari amici, è anche la vera natura del nostro sacerdozio. In realtà, tutto ciò che è costitutivo del nostro ministero non può essere il prodotto delle nostre capacità personali. Questo vale per l’amministrazione dei Sacramenti, ma vale anche per il servizio della Parola: siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni, ma il mistero di Cristo e, in Lui, la misura del vero umanesimo. Siamo incaricati non di dire molte parole, ma di farci eco e portatori di una sola “Parola”, che è il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Vale dunque anche per noi la parola di Gesù: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato” (Gv 7,16). Cari sacerdoti di Roma, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, si affida a noi, ci affida il suo corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere con Lui un solo sentire, volere quello che Egli vuole e non volere quello che Egli non vuole. Gesù stesso ci dice: “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando” (Gv 15,14). Sia questo il nostro comune proposito: fare, tutti insieme, la sua santa volontà, nella quale è la nostra libertà e la nostra gioia.

Poiché ha in Cristo la sua radice, il sacerdozio è, per sua natura, nella Chiesa e per la Chiesa. La fede cristiana infatti non è qualcosa di puramente spirituale e interiore e la nostra stessa relazione con Cristo non è soltanto soggettiva e privata. È invece una relazione del tutto concreta ed ecclesiale. A sua volta, il sacerdozio ministeriale ha un rapporto costitutivo con il corpo di Cristo, nella sua duplice e inseparabile dimensione di Eucaristia e di Chiesa, di corpo eucaristico e di corpo ecclesiale. Perciò il nostro ministero è amoris officium (S. Agostino, In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5), è l’ufficio del buon pastore, che offre la vita per le pecore (cfr Gv 10,14-15). Nel mistero eucaristico Cristo si dona sempre di nuovo e proprio nell’Eucaristia noi impariamo l’amore di Cristo e quindi l’amore per la Chiesa. Ripeto pertanto con voi, cari fratelli nel sacerdozio, le indimenticabili parole di Giovanni Paolo II: “La Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata” (Discorso del 27 ottobre 1995 nel trentennale del Decreto Presbyterorum ordinis). Nello stesso modo, l’ubbidienza a Cristo, che corregge la disubbidienza di Adamo, si concretizza nell’ubbidienza ecclesiale, che per il sacerdote è, nella pratica quotidiana, anzitutto ubbidienza al suo Vescovo. Nella Chiesa però l’ubbidienza non è qualcosa di formalistico; è ubbidienza a colui che è a sua volta ubbidiente e impersona il Cristo ubbidiente. Tutto ciò non vanifica e nemmeno attenua le esigenze concrete dell’ubbidienza, ma assicura la sua profondità teologale e il suo respiro cattolico: nel Vescovo ubbidiamo a Cristo e alla Chiesa intera, che egli rappresenta in questo luogo.

Gesù Cristo è stato mandato dal Padre, nella potenza dello Spirito, per la salvezza dell’intera famiglia umana e noi sacerdoti, attraverso la grazia del sacramento, siamo resi partecipi di questa sua missione. Come scrive l’Apostolo Paolo, “Dio… ha affidato a noi il ministero della riconciliazione… Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,18-20). Perciò, nell’omelia che ha preceduto il Conclave, ho parlato di una “santa inquietudine” che deve animarci, l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, di offrire a tutti quella salvezza che, sola, rimane in eterno. Cari fratelli sacerdoti di Roma, Cristo risorto ci chiama a essere suoi testimoni e ci dona la forza del suo Spirito, per esserlo davvero. È necessario dunque stare con Lui (cfr Mc 3,14; At 1, 21-23) per potergli rendere testimonianza con tutta la nostra vita. Valgono per noi le parole dell’Apostolo Paolo: “Non è… per me un vanto predicare il Vangelo: è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!… Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9, 16-22). Questo “farsi tutto a tutti” si esprime nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia: voi sacerdoti di Roma avete al riguardo una grande tradizione e la state onorando anche oggi, quando la città si è tanto dilatata ed è profondamente cambiata. È decisivo, come sapete bene, che la vicinanza e l’attenzione a tutti avvenga sempre nel nome di Cristo e sia costantemente protesa a condurre a Lui.

Naturalmente una tale vicinanza e dedizione ha per ciascuno di voi un costo personale, significa tempo, preoccupazioni, dispendio di energie. Conosco questa vostra fatica quotidiana e voglio ringraziarvi, da parte del Signore. Ma vorrei anche aiutarvi a non cedere sotto questa fatica. Per poter resistere, e anzi crescere, come persone e come sacerdoti, è fondamentale anzitutto l’intima comunione con Cristo, il cui cibo era fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34): tutto ciò che facciamo, lo facciamo in comunione con Lui e ritroviamo così sempre di nuovo l’unità della nostra vita. Dal Signore Gesù Cristo, che ha sacrificato se stesso per fare la volontà del Padre, impariamo inoltre l’arte dell’ascesi sacerdotale: essa non va collocata accanto all’azione pastorale, come un peso aggiuntivo che rende ancora più gravosa la nostra giornata. Al contrario, nell’azione stessa dobbiamo imparare a superarci, a lasciare e donare la nostra vita. Ma, perché tutto questo avvenga realmente in noi e non rimanga un vuoto desiderio, abbiamo bisogno di momenti per ritemprare le nostre energie, e soprattutto per pregare e meditare, rientrando nella nostra interiorità e trovando dentro di noi il Signore. Perciò il tempo per stare alla presenza di Dio è una vera priorità pastorale, in ultima analisi la più importante. Ce lo ha mostrato nel modo più concreto e luminoso Giovanni Paolo II, in ogni circostanza della sua vita e del suo ministero.

Cari sacerdoti, non sottolineeremo mai abbastanza quanto la nostra personale risposta alla chiamata alla santità sia fondamentale e decisiva. È questa la condizione non solo perché il nostro personale apostolato sia fruttuoso ma anche, e più ampiamente, perché il volto della Chiesa rifletta la luce di Cristo (cfr Lumen gentium, 1), inducendo così gli uomini a riconoscere e ad adorare il Signore. La supplica dell’Apostolo Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2Cor 5,20) dobbiamo accoglierla anzitutto in  noi stessi, chiedendo al Signore con cuore sincero e con animo determinato e coraggioso di allontanare da noi tutto ciò che ci separa da Lui ed è in contrasto con la missione che abbiamo ricevuto. Il Signore è misericordioso e saprà esaudirci.

Il mio ministero di Vescovo di Roma si colloca nel solco di quello dei miei Predecessori, accogliendo in particolare l’eredità preziosa che ha lasciato Giovanni Paolo II: per questa via, cari sacerdoti e diaconi, camminiamo insieme con serenità e fiducia. Continueremo a cercare di far crescere la comunione all’interno della grande famiglia della Chiesa diocesana e a collaborare per incrementare l’orientamento missionario della nostra pastorale, in conformità alle linee di fondo del Sinodo romano, tradotte in atto con particolare efficacia nell’esperienza della Missione cittadina. Roma è una Diocesi assai grande ed è una Diocesi davvero speciale, per la sollecitudine universale che il Signore ha affidato al suo Vescovo. Perciò il vostro rapporto, cari sacerdoti, con il Vescovo diocesano non può avere quell’immediatezza quotidiana che è possibile in altre situazioni.

Attraverso l’opera del Cardinale Vicario e dei Vescovi Ausiliari, ai quali esprimo la mia viva gratitudine, mi è possibile però essere concretamente vicino a ciascuno di voi, nelle gioie e nelle difficoltà che accompagnano il cammino di ogni sacerdote. E soprattutto desidero assicurarvi quella vicinanza più profonda e decisiva che unisce il Vescovo ai suoi sacerdoti e ai suoi diaconi, nella preghiera quotidiana, nella fede e nell’amore di Cristo e nell’affidamento a Maria, Madre dell’unico e Sommo Sacerdote. Proprio dalla nostra unione a Cristo e alla Vergine traggono alimento quella serenità e quella fiducia di cui tutti sentiamo il bisogno, sia per il lavoro apostolico sia per la nostra esistenza personale.

Cari sacerdoti e diaconi, ecco alcune considerazioni che desideravo proporre alla vostra attenzione. Attendo ora le vostre domande e riflessioni e, al termine, cercherò volentieri di rispondervi. Intanto vi benedico tutti di cuore!

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:51

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

PRESENTAZIONE DELLA LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI "MOTU PROPRIO" MISERICORDIA DEI
SU ALCUNI ASPETTI DELLA CELEBRAZIONE
DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

INTERVENTO DELL’EM.MO CARD. JOSEPH RATZINGER

Giovedì, 2 maggio 2002

Che l'umanità abbia bisogno di purificazione e di perdono, è del tutto evidente in questa nostra ora storica. Proprio per questo il Santo Padre nella sua Lettera Apostolica Novo millennio ineunte ha auspicato fra le priorità della missione della Chiesa per il nuovo millennio "un rinnovato coraggio pastorale per proporre in modo suadente ed efficace la pratica del sacramento della Riconciliazione" (n. 37).

A questo invito si riallaccia il nuovo Motu proprio Misericordia Dei e concretizza teologicamente, pastoralmente e giuridicamente alcuni importanti aspetti della prassi di questo Sacramento. Il Motu proprio sottolinea innanzitutto il carattere personalistico del Sacramento della Penitenza: come la colpa malgrado tutti i nostri legami con la comunità umana è ultimamente qualcosa di totalmente personale, così anche la nostra guarigione, il perdono deve essere totalmente personale. Dio non ci tratta come parti di un collettivo - egli conosce ogni singolo per nome, lo chiama personalmente e lo salva, se è caduto nella colpa. Anche se in tutti i sacramenti il Signore si rivolge direttamente al singolo, il carattere personalistico dell'essere cristiani si manifesta in modo particolarmente chiaro nel sacramento della penitenza. Ciò significa che sono parti costitutive del sacramento la confessione personale e il perdono rivolto a questa persona. L'assoluzione collettiva è una forma straordinaria e possibile solo in ben determinati casi di necessità; essa presuppone inoltre - proprio a partire dall'essenza del sacramento - la volontà di provvedere alla confessione personale dei peccati, non appena ciò sarà possibile. Questo carattere fortemente personalistico del Sacramento della Penitenza era stato un po' messo in ombra negli ultimi decenni a motivo di un sempre più frequente ricorso all'assoluzione collettiva, che era considerata sempre più come una forma normale del sacramento della Penitenza - un abuso, che ha contribuito alla progressiva scomparsa di questo sacramento in alcune parti della Chiesa.

Se il Papa ora riduce nuovamente i confini di questa possibilità, potrebbe insorgere l'obiezione: ma il sacramento della penitenza ha pur subito nella storia molte trasformazioni, e perché non anche questa? Al riguardo occorre dire che la forma del sacramento manifesta in realtà nel corso della storia notevoli variazioni, ma la componente personalistica gli era sempre essenziale.

La Chiesa ha avuto coscienza ed ha coscienza che solo Dio può perdonare i peccati (cfr Mc 2,7). Perciò doveva imparare a discernere con attenzione, quasi con timore, quali poteri il Signore le aveva trasmesso e quali no. Dopo un lungo cammino di maturazione storica il Concilio di Trento ha esposto in una forma organica la dottrina ecclesiale sul sacramento della penitenza (DS 1667-1693; 1701-1715).

I Padri del Concilio di Trento hanno compreso le parole del Risorto ai suoi discepoli in Giov. 20, 22s come le specifiche parole dell'istituzione del sacramento: "Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (DS 1670; 1703; 1710). A partire da Giov. 20 essi hanno interpretato Mt 16, 19 e 18, 18 e compreso il potere delle chiavi della Chiesa come potere di remissione dei peccati (DS 1692; 1710). Erano pienamente consapevoli dei problemi di interpretazione di questi testi ed hanno fondato pertanto l'interpretazione nel senso del sacramento della penitenza con l'ausilio dell' "intelligenza della Chiesa", che si esprime nel consenso universale dei Padri (1670; 1679; 1683; importante 1703). Il punto decisivo in queste parole di istituzione consiste nel fatto che il Signore affida ai discepoli la scelta fra remittere et ligare, retinere et solvere: i discepoli non sono semplicemente uno strumento neutrale del perdono divino, piuttosto è loro affidato un potere di discernere e così un dovere di discernere nei singoli casi. I Padri hanno visto qui il carattere giudiziale del sacramento. Al sacramento della penitenza appartengono pertanto essenzialmente due aspetti: da una parte quello sacramentale, cioè il mandato del Signore, che va al di là del potere proprio dei discepoli, ed anche della comunità dei discepoli della Chiesa; dall'altra l'incarico della decisione, che deve essere fondata oggettivamente, quindi deve essere giusta ed in questo senso ha carattere giudiziale.

Appartiene così al sacramento stesso la "iurisdictio", che esige un ordinamento giuridico da parte della Chiesa, ma naturalmente deve essere sempre orientata all'essenza del sacramento, alla volontà salvifica di Dio (1686s). Trento si differenzia così chiaramente dalla posizione riformata, secondo cui il sacramento della penitenza significa solo una manifestazione di un perdono già concesso nella fede, quindi non pone nulla di nuovo, ma solo annuncia, ciò che nella fede sempre già esiste.

Questo carattere sacramentale-giuridico del sacramento ha due importanti implicazioni: si tratta, se le cose stanno così, di un sacramento diverso dal battesimo, di un sacramento specifico, che presuppone un particolare potere sacramentale, quindi che è legato all'ordine (1684). Se però deve esserci una valutazione giudiziale, allora è chiaro che il giudice deve conoscere la fattispecie da giudicare. Nell'aspetto giuridico è implicita la necessità della confessione personale con la comunicazione dei peccati, per i quali deve essere chiesto il perdono a Dio e alla Chiesa, perché essi hanno infranto quell'unità di amore con Dio donata nel battesimo. A partire di qui il Concilio può dire che è necessario "iure divino" confessare tutti e singoli i peccati mortali (can. 7, 1707). Il dovere della confessione è istituito - così ci dice il Concilio - dal Signore stesso e costitutivo del sacramento, non lasciato quindi alla disposizione della Chiesa.

Non è dunque nel potere della Chiesa sostituire la confessione personale con l'assoluzione generale: questo ci ricorda il Papa nel nuovo Motu proprio, che è così espressione della coscienza della Chiesa a riguardo dei limiti del suo potere - esprime il legame con la parola del Signore, che obbliga anche il Papa. Solo nella situazione di necessità, nella quale la salvezza ultima dell'uomo è in gioco, l'assoluzione può essere anticipata e la confessione rimandata ad un momento, in cui per questo sarà data la possibilità: questo è il vero senso di ciò che in modo piuttosto oscuro viene reso con la parola assoluzione collettiva. Qui è ora nondimeno compito della Chiesa definire quando si è in presenza di una tale situazione di necessità. Dopo che negli ultimi decenni - come già accennato - si erano diffuse interpretazioni estensive per molti motivi insostenibili del concetto di necessità, il Papa in questo documento dà precise determinazioni, che devono essere applicate nei particolari da parte dei Vescovi.

E' allora questo un testo, che pone nuovi pesi sulle spalle dei cristiani? E' proprio il contrario: il carattere totalmente personale dell'esistenza cristiana viene difeso. Certamente, la confessione della propria colpa può apparire spesso pesante alla persona, perché umilia il suo orgoglio e lo confronta con la sua povertà. Ma è proprio di questo che abbiamo bisogno; proprio di questo soffriamo, che ci rinchiudiamo nel nostro delirio di incolpevolezza e così ci chiudiamo anche davanti agli altri e nei confronti degli altri. Nelle cure psicoterapeutiche si esige dalle persone di portare il peso di profonde e spesso pericolose rivelazioni circa la loro interiorità. Nel sacramento della Penitenza si depone con fiducia nella bontà misericordiosa di Dio la semplice confessione della propria colpa. E' importante fare questo senza cadere nello scrupulo, nello spirito di confidenza proprio dei figli di Dio. Così la confessione può divenire un'esperienza di liberazione, nella quale il peso del passato ci abbandona e noi possiamo sentirci ringiovaniti per merito della grazia di Dio, che ci ridona ogni volta la giovinezza del cuore.

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:52



Nella mattina di lunedì 25, nella chiesa parrocchiale di Introd

Il Papa incontra i sacerdoti valdostani




Nella mattina di lunedì 25 luglio Benedetto XVI ha incontrato i sacerdoti ed i diaconi della Valle d'Aosta nella chiesa parrocchiale di Introd. All'inizio il Santo Padre è stato salutato dal Sindaco Osvaldo Naudin e dal Vescovo di Aosta, Mons. Giuseppe Anfossi. Quindi è stato intonato il canto dell'Ora Terza. L'incontro è proseguito con un inno mariano e con una significativa riflessione del Santo Padre.
Nell'edizione di domani daremo ampio conto dell'avvenimento.

(©L'Osservatore Romano - 25-26 Luglio 2005)

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:53

INCONTRO CON IL CLERO DELLA DIOCESI DI AOSTA

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Chiesa parrocchiale di Introd (Valle d'Aosta)
Lunedì, 25 luglio 2005

Benedetto XVI ha incontrato in mattinata il clero della diocesi di Aosta. Dopo il saluto iniziale del Vescovo diocesano Mons. Giuseppe Anfossi l'incontro è proseguito con il canto dell'Ora Terza. Al termine della preghiera il Santo Padre ha affrontato alcuni temi proposti dal Vescovo Anfossi e dai sacerdoti presenti. Ecco il testo pronunciato a braccio da Benedetto XVI:

Eccellenza,
Cari fratelli!

Innanzitutto vorrei esprimere la mia gioia e la mia gratitudine per questa possibilità di incontrarvi. Da Papa vi è il pericolo che si sia un po' lontano dalla vita reale, di ogni giorno, soprattutto anche dai sacerdoti che lavorano in prima linea, proprio nella Valle, in tante parrocchie e adesso, come ha detto Sua Eccellenza, con la mancanza di vocazioni, anche in condizioni di impegno fisico particolarmente forte.

Così per me è una grazia poter incontrare in questa bella chiesa i sacerdoti e il presbiterio di questa Valle. E vorrei dire grazie perché siete venuti; anche per voi è tempo di vacanza.

Vedervi riuniti, e così vedermi unito a voi, essere vicino ai sacerdoti che lavorano giorno dopo giorno per il Signore come seminatori della Parola, è per me un conforto e una gioia.

Nella settimana scorsa abbiamo sentito due volte, tre volte, mi sembra, questa parabola del seminatore che è già una parabola di consolazione in una situazione diversa, ma in un certo senso anche simile alla nostra.

Il lavoro del Signore era cominciato con grande entusiasmo. Si vedeva che i malati erano guariti, tutti ascoltavano con gioia la parola: "Il Regno di Dio è vicino". Sembrava che, veramente, il cambiamento del mondo e l'avvento del Regno di Dio sarebbe stato imminente; che, finalmente, la tristezza del popolo di Dio si sarebbe cambiata in gioia. Si era in attesa di un messaggero di Dio che avrebbe preso in mano il timone della storia. Ma poi vedevano che, sì, gli ammalati erano guariti, i demoni espulsi, il Vangelo annunciato ma, per il resto, il mondo rimaneva come era. Niente cambiava. I romani dominavano ancora. La vita era difficile ogni giorno, nonostante questi segni, queste belle parole. E così l'entusiasmo si spegneva e, alla fine, come sappiamo dal sesto capitolo di Giovanni, anche i discepoli abbandonarono questo Predicatore che predicava, ma non cambiava il mondo.

Che cosa è questo messaggio? Che cosa porta questo Profeta di Dio?, si domandano finalmente tutti. Il Signore parla del seminatore che semina nel campo del mondo. E il seme sembra come la sua Parola, come quelle guarigioni, una cosa veramente piccola in confronto con la realtà storica e politica. Come il seme è piccolo, trascurabile, così anche la Parola.

Tuttavia, dice, nel seme è presente il futuro perché il seme porta in sé il pane di domani, la vita di domani. Il seme appare quasi niente, tuttavia il seme è la presenza del futuro, è promessa già presente oggi. E così con questa parabola dice: siamo nel tempo della seminagione, la Parola di Dio sembra solo parola, quasi niente. Ma abbiate coraggio, questa Parola porta in sé la vita! E porta frutto! La parabola dice anche che tanta parte del seme non porta frutto perché è caduto sulla strada, sulla terra sassosa, eccetera. Ma la parte caduta su terra buona frutta trenta, sessanta, cento volte tanto.

Ciò fa capire che dobbiamo essere coraggiosi anche se la Parola di Dio, il Regno di Dio, sembra senza importanza storico-politica. Alla fine Gesù, nella Domenica delle Palme, ha come sintetizzato tutti questi insegnamenti sul seme della parola: Se il chicco di grano non cade in terra e muore rimane solo, se cade in terra e muore porta grande frutto. E così ha fatto capire che Egli stesso è il chicco di grano che cade in terra e muore. Nella crocifissione tutto sembra fallito, ma proprio così, cadendo in terra, morendo, sulla Via della Croce, porta frutto per ogni tempo, per tutti i tempi. Qui abbiamo anche sia la finalizzazione cristologica secondo cui Cristo stesso è il seme, è il Regno presente, sia anche la dimensione eucaristica: questo chicco di grano cade in terra e così cresce il nuovo Pane, il Pane della vita futura, la Sacra Eucaristia che ci nutre e che si apre ai misteri divini, per la vita nuova.

Mi sembra che nella storia della Chiesa, in forme diverse, ci sono sempre queste questioni che ci tormentano realmente: che cosa fare? La gente sembra non aver bisogno di noi, sembra inutile tutto quanto facciamo. Tuttavia impariamo dalla Parola del Signore che solo questo seme trasforma sempre di nuovo la terra e la apre alla vera vita.

Vorrei, brevemente in quanto posso, rispondere alle parole di Sua Eccellenza, ma vorrei anche dire che il Papa non è un oracolo, è infallibile in situazioni rarissime, come sappiamo. Quindi condivido con voi queste domande, queste questioni. Soffro anch'io. Ma tutti insieme vogliamo, da una parte, soffrire su questi problemi e anche soffrendo trasformare i problemi, perché proprio la sofferenza è la via della trasformazione e senza sofferenza non si trasforma niente.

Questo è anche il senso della parabola del chicco di grano caduto in terra: solo in un processo di sofferta trasformazione si giunge al frutto e si apre la soluzione. E se non fosse per noi una sofferenza l'apparente inefficacia della nostra predicazione sarebbe un segno di una mancanza di fede, di impegno vero. Dobbiamo prendere a cuore queste difficoltà del nostro tempo e trasformarle soffrendo con Cristo e così trasformare noi stessi. E nella misura nella quale noi stessi siamo trasformati, possiamo anche rispondere alla domanda posta sopra, possiamo anche vedere la presenza del Regno di Dio e farla vedere agli altri.

Il primo punto è un problema che si pone in tutto il mondo occidentale: la mancanza delle vocazioni. Ho avuto, nelle ultime settimane, le Visite "ad limina" dei Vescovi dello Sri Lanka e della parte Sud dell'Africa. Qui crescono le vocazioni, anzi sono così tante che non possono costruire sufficienti Seminari per accogliere questi giovani che vogliono farsi sacerdoti.

Naturalmente anche questa gioia porta con sé una certa amarezza perché una parte almeno viene nella speranza di una promozione sociale. Facendosi sacerdoti diventano quasi capi della tribù, sono naturalmente privilegiati, hanno un'altra forma di vita, eccetera. Quindi zizzania e grano vanno insieme in questa bella crescita delle vocazioni e i Vescovi devono essere molto attenti nel discernimento e non essere semplicemente contenti di avere molti sacerdoti futuri, ma vedere quali sono realmente le vere vocazioni, discernere tra zizzania e buon grano.

Tuttavia c'è un certo entusiasmo della fede perché stanno in un'ora determinata della storia, cioè nell'ora nella quale le religioni tradizionali ovviamente si rivelano non più sufficienti. E si capisce, si vede, che queste religioni tradizionali portano in sé una promessa, ma aspettano qualcosa. Aspettano una nuova risposta che purifica e, diciamo, assume in sé tutto il bello e libera tali aspetti insufficienti e negativi. In questo momento di passaggio dove realmente la loro cultura si protende verso un'ora nuova della storia, le due offerte - cristianesimo e islam - sono le possibili risposte storiche.

Perciò in quei Paesi c'è, in un certo senso, una primavera della fede, ma naturalmente nel contesto della concorrenza tra queste due risposte, soprattutto anche nel contesto della sofferenza delle sette, che si presentano come la risposta cristiana migliore, più facile, più accomodante. Quindi anche così in una storia di promessa, in un momento di primavera, rimane difficile l'impegno di quello che deve con Cristo seminare la Parola e, diciamo, costruire la Chiesa.

Diversa è la situazione nel mondo occidentale, che è un mondo stanco della sua propria cultura, un mondo arrivato al momento nel quale non c'è più evidenza della necessità di Dio, tantomeno di Cristo, e nel quale quindi sembra che l'uomo stesso potrebbe costruirsi da se stesso. In questo clima di un razionalismo che si chiude in sé, che considera il modello delle scienze l'unico modello di conoscenza, tutto il resto è soggettivo. Anche, naturalmente, la vita cristiana diventa una scelta soggettiva, quindi arbitraria e non più la strada della vita. E perciò, naturalmente, diventa difficile credere e se è difficile credere tanto più è difficile offrire la vita al Signore per essere suo servo.

Questa certamente è una sofferenza collocata direi nella nostra ora storica, nella quale generalmente si vede che le cosiddette grandi Chiese appaiono morenti. Così in Australia soprattutto, anche in Europa, non tanto negli Stati Uniti.

Crescono, invece, le sette che si presentano con la certezza di un minimo di fede e l'uomo cerca certezze. E quindi le grandi Chiese, soprattutto le grandi Chiese tradizionali protestanti, si trovano realmente in una crisi profondissima. Le sette hanno il sopravvento perché appaiono con certezze semplici, poche, e dicono: questo è sufficiente.

La Chiesa cattolica non sta così male come le grandi Chiese protestanti storiche, ma condivide naturalmente il problema del nostro momento storico. Io penso che non c'è un sistema per un cambiamento rapido. Dobbiamo andare, oltrepassare questa galleria, questo tunnel, con pazienza, nella certezza che Cristo è la risposta e che alla fine apparirà di nuovo la sua luce.

Allora la prima risposta è la pazienza, nella certezza che senza Dio il mondo non può vivere, il Dio della Rivelazione - e non qualunque Dio: vediamo come può essere pericoloso un Dio crudele, un Dio non vero - il Dio che ha mostrato in Gesù Cristo il suo Volto. Questo Volto che ha sofferto per noi, questo Volto di amore che trasforma il mondo nel modo del chicco di grano caduto in terra.

Quindi avere noi stessi questa profondissima certezza che Cristo è la risposta e senza il Dio concreto, il Dio col Volto di Cristo, il mondo si autodistrugge e cresce anche l'evidenza che un razionalismo chiuso, che pensa che da solo l'uomo potrebbe ricostruire il vero mondo migliore, non è vero. Al contrario, se non c'è la misura del Dio vero, l'uomo si autodistrugge. Lo vediamo con i nostri occhi.

Dobbiamo avere noi stessi una rinnovata certezza: Egli è la Verità e solo camminando sulle sue orme andiamo nella direzione giusta e dobbiamo camminare e guidare gli altri in questa direzione.

Il primo punto della mia risposta è: in tutta questa sofferenza non solo non perdere la certezza che Cristo è realmente il Volto di Dio, ma approfondire questa certezza e la gioia di conoscerLa e di essere così realmente ministri del futuro del mondo, del futuro di ogni uomo. E approfondire questa certezza in una relazione personale e profonda con il Signore. Perché la certezza può crescere anche con considerazioni razionali. Veramente mi sembra molto importante una riflessione sincera che convince anche razionalmente, ma diventa personale, forte e esigente in virtù di un'amicizia vissuta personalmente ogni giorno con Cristo.

La certezza, quindi, esige questa personalizzazione della nostra fede, della nostra amicizia col Signore e così crescono anche nuove vocazioni. Lo vediamo nella nuova generazione dopo la grande crisi di questa lotta culturale scatenata nel '68 dove realmente sembrava passata l'era storica del cristianesimo. Vediamo le promesse del '68 non tengono e rinasce, diciamo, la consapevolezza che c'è un altro modo più complesso perché esige queste trasformazioni del nostro cuore, ma più vero, e così nascono anche nuove vocazioni. E noi stessi dobbiamo anche trovare la fantasia per come aiutare i giovani a trovare questa strada anche per il futuro. Anche questo nel dialogo con i Vescovi africani era evidente. Nonostante il numero di sacerdoti molti sono condannati ad una solitudine terribile e moralmente molti non sopravvivono.

E, dunque, è importante avere intorno a sé la realtà del presbiterio, della comunità di sacerdoti che si aiutano, che stanno insieme in un cammino comune, in una solidarietà nella fede comune. Anche questo mi sembra importante perché se i giovani vedono sacerdoti molto isolati, tristi, stanchi, pensano: se questo è il mio futuro allora non ce la faccio. Si deve creare realmente questa comunione di vita che dimostra ai giovani: sì, questo può essere un futuro anche per me, così si può vivere.

Sono stato troppo lungo. Sul secondo punto, anche se in parte, mi sembra, ho già detto qualcosa. È vero: alla gente, soprattutto ai responsabili del mondo, la Chiesa appare una cosa antiquata, le nostre proposte non necessarie. Si comportano come se potessero, volessero vivere senza la nostra parola e sempre pensano di non aver bisogno di noi. Non cercano la nostra parola.

Questo è vero e ci fa soffrire, ma fa anche parte di questa situazione storica di una certa visione antropologica, secondo la quale l'uomo deve fare le cose come Karl Marx aveva detto: la Chiesa ha avuto 1800 anni per mostrare che avrebbe cambiato il mondo e non ha fatto niente, adesso lo facciamo noi da soli.

Questa è una idea molto diffusa e appoggiata anche con filosofie e così si capisce l'impressione di tanta gente che si possa vivere senza la Chiesa, la quale appare come una cosa del passato. Ma appare anche sempre più che solo i valori morali e le convinzioni forti danno la possibilità anche con sacrifici di vivere e di costruire il mondo. Non si può costruire in modo meccanico come aveva proposto Karl Marx con la teoria del capitale e della proprietà, eccetera.

Se non ci sono le forze morali negli animi e non c'è la disponibilità a soffrire anche per questi valori non si costruisce un mondo migliore, anzi al contrario il mondo peggiora ogni giorno, l'egoismo domina e distrugge tutto. E vedendo questo nasce di nuovo la domanda: ma da dove vengono le forze che rendono capaci di soffrire anche per il bene, di soffrire per il bene che fa male innanzitutto a me, che non ha una utilità immediata? Dove sono le risorse, le sorgenti? Da dove viene la forza di portare avanti questi valori?

Si vede che la moralità come tale non vive, non è efficiente se non ha un fondamento più profondo in convinzioni che realmente danno certezza e danno anche forza di soffrire perché, nello stesso tempo, fanno parte di un amore, un amore che nella sofferenza cresce ed è sostanza della vita. Alla fine, infatti, solo l'amore ci fa vivere e l'amore è sempre anche sofferenza: matura nella sofferenza e dà la forza di soffrire per il bene senza tener conto di me in questo mio momento attuale.

Mi sembra che questa consapevolezza cresce perché si vedono già gli effetti di una condizione in cui non ci sono le forze che provengono da un amore che è sostanza della mia vita e che mi dà la forza di portare avanti la lotta per il bene. Anche qui, naturalmente, abbiamo bisogno di pazienza, ma anche di una pazienza attiva nel senso di far capire alla gente: avete bisogno di questo.

E anche se non si convertono subito, almeno si avvicinano al cerchio di coloro che, nella Chiesa, hanno questa forza interiore. La Chiesa sempre ha conosciuto questo gruppo forte interiormente che porta realmente la forza della fede e persone che quasi si attaccano e si lasciano portare e così partecipano.

Io penso alla parabola del Signore circa il grano di senape così piccolo che poi diventa un albero così grande che anche gli uccelli del cielo vi trovano posto. E direi che questi uccelli possono essere le persone che non si convertono ancora, ma almeno si posano sull'albero della Chiesa. Ho fatto questa riflessione: nel tempo dell'illuminismo, l'ora dove la fede era divisa tra cattolici e protestanti, si pensò che occorresse conservare i valori morali comuni dando loro un fondamento sufficiente. Si pensò: dobbiamo rendere i valori morali indipendenti dalle confessioni religiose, così che essi reggano "etsi Deus non daretur".

(continua....... si invita a non separare il testo)

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:53

Oggi siamo nella situazione contraria, si è invertita la situazione. Non c'è più evidenza per i valori morali. Diventano evidenti solo se Dio esiste. Io pertanto ho suggerito che i laici, i cosiddetti laici, dovrebbero riflettere se per loro non valga oggi il contrario: dobbiamo vivere "quasi Deus daretur", anche se non abbiamo la forza di credere dobbiamo vivere su questa ipotesi altrimenti il mondo non funziona. E sarebbe questo, mi sembra, un primo passo per avvicinarsi alla fede. E vedo in tanti contatti che, grazie a Dio, cresce il dialogo con almeno parte del laicismo.

Terzo punto: la situazione dei sacerdoti che sono divenuti pochi e devono lavorare fino a tre, quattro e a volte fino a cinque parrocchie e sono esausti. Penso che il Vescovo insieme con il suo presbiterio ricerca quali sarebbero i mezzi migliori. Quando io sono stato Arcivescovo di Monaco avevano creato questo modello di funzioni solo della Parola senza sacerdote per, diciamo, tenere la comunità presente nella propria chiesa. E hanno detto: ogni comunità rimane e dove non c'è sacerdote facciamo questa Liturgia della Parola.

I francesi hanno trovato la parola adatta a queste Assemblée domenical "en absence du prêtre" e dopo un certo tempo hanno capito che questo può andare anche male perché si perde il senso del Sacramento, c'è una protestantizzazione e, alla fine, se c'è solo la Parola posso celebrarla anch'io a casa mia.

Ricordo quando ero professore a Tubinga, il grande esegeta Kelemann, non so se conoscete il nome, allievo di Bultmann, che era un grande teologo. Anche se protestante convinto, non è mai andato in chiesa. Diceva: io posso anche a casa meditare le Sacre Scritture.

I francesi hanno un po' trasformato questa formula Assemblée domenical "en absence du prêtre" nella formula Assemblée domenical "en attente du prêtre". Cioè deve essere una attesa del sacerdote e direi normalmente dovrebbe la Liturgia della Parola essere un'eccezione di domenica, perché il Signore vuole venire corporalmente. Questa perciò non deve essere la soluzione.

Si è creata la domenica, perché il Signore è risorto ed è entrato nella comunità degli apostoli per essere con loro. E così hanno anche capito che non è più il sabato il giorno liturgico, ma la domenica nella quale sempre di nuovo il Signore vuole essere corporalmente con noi e nutrirci del suo Corpo, perché diventiamo noi stessi il suo corpo nel mondo.

Trovare il modo per offrire a molte persone di buona volontà questa possibilità: adesso non oso dare ricette. A Monaco ho sempre detto, ma non so la situazione qui che è certamente un po' diversa, che la nostra popolazione è incredibilmente mobile, flessibile. I giovani fanno cinquanta e più chilometri per andare in una discoteca, perché non possono fare anche cinque chilometri per andare in una chiesa comune? Ma, ecco, questa è un cosa molto concreta, pratica, e non oso dare delle ricette. Ma si deve cercare di dare al popolo un sentimento: ho bisogno di essere insieme con la Chiesa, di essere insieme con la Chiesa viva e col Signore!

E così dare questa impressione di importanza e se io lo considero importante, questo crea anche le premesse per una soluzione. Ma devo poi in concreto lasciare aperta la questione, Eccellenza.

Successivamente hanno preso la parola alcuni sacerdoti. Alle domande riguardanti i temi dell'educazione dei giovani, del ruolo della scuola cattolica e della vita consacrata il Santo Padre ha così risposto:

Sono domande molto concrete, alle quali non è facile dare risposte altrettanto concrete.

Vorrei innanzitutto ringraziare per aver richiamato la nostra attenzione sulla necessità di attirare alla Chiesa i giovani, che si sentono invece facilmente attratti da altre cose, da uno stile di vita abbastanza lontano dalle nostre convinzioni. La Chiesa antica ha scelto la strada di creare comunità di vita alternative, senza fratture necessarie. Allora io direi che è importante che i giovani possano scoprire la bellezza della fede, che è bello avere un orientamento, che è bello avere un Dio amico che ci sa dire realmente le cose essenziali della vita.

Questo fattore intellettuale deve essere poi accompagnato da un fattore affettivo e sociale, cioè da una socializzazione nella fede. Perché la fede può realizzarsi solo se ha anche un corpo e ciò implica l'uomo nelle sue modalità di vivere. Perciò in passato quando la fede era determinante per la vita comune poteva essere sufficiente insegnare il catechismo, che rimane anche oggi importante.

Ma dato che la vita sociale si è allontanata dalla fede, noi dobbiamo - visto che anche le famiglie spesso non offrono una socializzazione della fede - offrire modi di una socializzazione della fede, affinché la fede formi comunità, offra luoghi di vita e convinca in un insieme di pensiero, di affetto, di amicizia della vita.

Mi sembra che questi livelli debbano camminare insieme, perché l'uomo ha un corpo, è un essere sociale. In questo senso, per esempio, è una bella cosa poter vedere qui che tanti parroci si trovano con gruppi di giovani per trascorrere le vacanze insieme. In questo modo i giovani condividono la gioia della vacanza e la vivono insieme con Dio e con la Chiesa, nella persona del parroco o del viceparroco. Mi sembra che la Chiesa di oggi, anche in Italia, offra alternative e possibilità di una socializzazione, dove i giovani, insieme, possano camminare con Cristo e formare Chiesa. E per questo devono essere accompagnati con risposte intelligenti alle questioni del nostro tempo: c'è ancora bisogno di Dio? È ancora una cosa ragionevole credere in Dio? Cristo è solamente una figura della storia delle religioni o è realmente il Volto di Dio del quale abbiamo bisogno tutti? Possiamo vivere bene senza conoscere Cristo?

Occorre capire che costruire la vita, il futuro, esige anche la pazienza e la sofferenza. La Croce non può mancare anche nella vita dei giovani e far capire questo non è facile. Il montanaro sa che per fare una bella esperienza di scalata dovrà affrontare dei sacrifici ed allenarsi, così anche il giovane deve capire che nella salita al futuro della vita è necessario l'esercizio di una vita interiore.

Dunque personalizzazione e socializzazione sono le due indicazioni che devono compenetrare le situazioni concrete delle sfide di oggi: le sfide dell'affetto e quelle della comunione. Queste due dimensioni, infatti, permettono di aprirsi al futuro ed anche di insegnare che il Dio a volte difficile della fede è anche per il mio bene in futuro.

Riguardo alla scuola cattolica posso dire che molti Vescovi venuti in Visita "ad Limina" hanno più volte sottolineato la sua importanza. La scuola cattolica, in situazioni come quella africana, diviene strumento indispensabile per la promozione culturale, per i primi passi della alfabetizzazione e per un elevamento del livello culturale nel quale si forma una nuova cultura. Grazie ad essa è possibile rispondere anche alle sfide della tecnica che si impegnano ad una cultura pre-tecnica distruggendo antiche forme di vita tribale con il loro contenuto morale.

Da noi la situazione è diversa, ma ciò che qui mi sembra importante è l'insieme di una formazione intellettuale, che faccia capire bene anche come oggi il cristianesimo non sia separato dalla realtà.

Come abbiamo detto nella prima parte, sulla scia dell'illuminismo e del "secondo illuminismo" del '68 molti hanno pensato che il tempo storico della Chiesa e della fede fosse finito e che si fosse entrati in una nuova era, dove queste cose si sarebbero potute studiare come la mitologia classica. Al contrario occorre far capire che la fede è di un'attualità permanente e di una grande ragionevolezza. Quindi un'affermazione intellettuale nella quale si comprende anche la bellezza e la struttura organica della fede.

Questa era una delle intenzioni fondamentali del Catechismo della Chiesa Cattolica, adesso condensato nel Compendio. Non dobbiamo pensare ad un pacchetto di regole che ci carichiamo sulle spalle come uno zaino pesante nel cammino della vita. Alla fine la fede è semplice e ricca: noi crediamo che Dio c'è, che Dio c'entra. Ma quale Dio? Un Dio con un Volto, un Volto umano, un Dio che riconcilia, che vince l'odio e dà la forza della pace che nessun altro può dare. Bisogna far capire che in realtà il cristianesimo è molto semplice e di conseguenza molto ricco.

La scuola è un'istituzione culturale, di formazione intellettuale e professionale: quindi occorre far capire l'organicità, la logicità della fede e conoscere quindi i grandi elementi essenziali, capire che cosa è Eucaristia, che cosa succede nella Domenica, nel matrimonio cristiano. Naturalmente occorre far capire, tuttavia, che la disciplina della religione non è una ideologia puramente intellettuale e individualistica, come forse accade in altre discipline: in matematica ad esempio so come fare un determinato calcolo. Ma anche altre discipline alla fine hanno una tendenza pratica, una tendenza alla professionalità, alla applicabilità nella vita. Così occorre capire che la fede essenzialmente crea assemblea, unisce.

È proprio questa essenza della fede che ci libera dall'isolamento dell'io e ci unisce in una grande comunità, una comunità molto completa - in parrocchia, nell'assemblea domenicale - ed universale nella quale io divento un parente di tutti nel mondo.

Bisogna capire questa dimensione cattolica della comunità che si riunisce ogni domenica nella parrocchia. Quindi se, da una parte, conoscere la fede è uno scopo, dall'altra parte socializzare nella Chiesa o "ecclesializzare" significa introdursi nella grande comunità della Chiesa, luogo di vita, dove so che anche nei grandi momenti della mia vita - soprattutto nella sofferenza e nella morte - non sono solo.

(continua....... si invita a non separare il testo)

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:54

Sua Eccellenza ha detto che tanta gente non sembra aver bisogno di noi, ma i malati ed i sofferenti sì. E questo si dovrebbe capire dall'inizio, che mai sarò più solo nella vita. La fede mi redime dalla solitudine. Sarò sempre portato da una comunità, ma nel contempo devo essere io portatore della comunità ed insegnare dall'inizio anche la responsabilità per gli ammalati, per gli isolati, per i sofferenti e così ritorna il dono che io faccio. Quindi bisogna risvegliare nell'uomo, nel quale si nasconde questa disponibilità all'amore e al dono di sé, questo grande dono e così dare la garanzia che anche io avrò fratelli e sorelle che mi sostengono in queste situazioni di difficoltà, dove ho bisogno di una comunità che non mi abbandona.

Riguardo all'importanza della vita religiosa, noi sappiamo che la vita monastica e contemplativa attira di fronte allo stress di questo mondo, apparendo come un'oasi nella quale vivere realmente. Anche qui si tratta di una visione romantica: per questo occorre il discernimento delle vocazioni. Tuttavia la situazione storica conferisce una certa attrazione alla vita contemplativa, ma non tanto alla vita religiosa attiva.

Questo si vede meglio nel ramo maschile, dove si vedono religiosi, anche sacerdoti che fanno un apostolato importante nell'educazione, con gli ammalati ecc... Si vede meno, purtroppo, per le vocazioni femminili, dove la professionalità sembra rendere superflua la vocazione religiosa. Ci sono delle infermiere diplomate, ci sono le maestre di scuola diplomate, quindi non appare più come una vocazione religiosa e quella certa attività sarà difficile ricominciare se la catena delle vocazioni viene interrotta.

Tuttavia vediamo sempre più che la professionalità per essere una buona infermiera non è sufficiente. È necessario il cuore. È necessario l'amore per la persona sofferente. Questo ha una profonda dimensione religiosa. Così anche nell'insegnamento. Abbiamo adesso nuove forme come gli istituti secolari, le cui comunità dimostrano con la loro vita che c'è un modo di vivere buono per la persona, ma soprattutto necessario per la comunità, per la fede, e per la comunità umana. Quindi io penso che pur cambiando le forme - gran parte delle nostre comunità attive femminili viene dall'Ottocento, con la precisa sfida sociale di quel periodo e oggi le sfide sono un po' diverse - la Chiesa fa capire che servire i sofferenti e difendere la vita sono vocazioni con una profonda dimensione religiosa e che ci sono forme per vivere tali vocazioni. Crescono nuovi modi tanto da poter sperare che anche oggi il Signore conceda vocazioni necessarie per la vita della Chiesa e del mondo.

All'intervento del cappellano presso la locale Casa Circondariale, dove vivono 260 persone di oltre 30 nazionalità, Benedetto XVI ha così risposto:

Grazie per le sue parole molto importanti e anche molto commoventi. Poco prima della mia partenza ho avuto modo di parlare con il Cardinale Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che sta elaborando un documento sul problema dei nostri fratelli e delle nostre sorelle reclusi, i quali soffrono, a volte si sentono poco rispettati nei loro diritti umani, si sentono persino disprezzati e vivono in una situazione nella quale c'è veramente bisogno della presenza di Cristo. E Gesù, nel Vangelo di Matteo 25, nella anticipazione dell'ultimo giudizio parla esplicitamente di questa situazione: sono stato in carcere e non mi hai visitato; sono stato in carcere e mi hai visitato.

Quindi le sono grato di aver parlato di queste minacce alla dignità umana in tali circostanze, per imparare che dobbiamo essere anche da sacerdoti fratelli di questi "minimi" e veder anche in essi il Signore che ci aspetta è di grandissima importanza. Ho l'intenzione, insieme con il Cardinale Martino, di dire una parola anche pubblica su queste situazioni particolari, che sono un mandato per la Chiesa, per la fede, per il suo amore. Infine sono grato che abbia detto che non è tanto importante che cosa fai, ma è importante che cosa sei nel nostro impegno sacerdotale. Senza dubbio dobbiamo fare tante cose e non cedere alla pigrizia, ma tutto il nostro impegno porta frutto soltanto se è espressione di quanto siamo.

Se appare nei nostri fatti il nostro essere profondamente uniti con Cristo: essere strumenti di Cristo, bocca per la quale parla Cristo, mano attraverso la quale agisce Cristo. L'essere convince e il fare convince solo in quanto è realmente frutto ed espressione dell'essere.

Un altro sacerdote ha sollevato il tema della comunione ai fedeli divorziati e risposati. Ecco la risposta del Santo Padre:

Sappiamo tutti che questo è un problema particolarmente doloroso per le persone che vivono in situazioni dove sono esclusi dalla comunione eucaristica e naturalmente per i sacerdoti che vogliono aiutare queste persone ad amare la Chiesa, ad amare Cristo. Questo pone un problema.

Nessuno di noi ha una ricetta fatta, anche perché le situazioni sono sempre diverse. Direi particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito. Ma data la situazione di sofferenza di queste persone, è da approfondire.

Non oso dare adesso una risposta, in ogni caso mi sembrano molto importanti due aspetti. Il primo: anche se non possono andare alla comunione sacramentale non sono esclusi dall'amore della Chiesa e dall'amore di Cristo. Una Eucaristia senza la comunione sacramentale immediata non è certamente completa, manca una cosa essenziale. Tuttavia è anche vero che partecipare all'Eucaristia senza comunione eucaristica non è uguale a niente, è sempre essere coinvolti nel mistero della Croce e della risurrezione di Cristo. È sempre partecipazione al grande Sacramento nella dimensione spirituale e pneumatica; nella dimensione anche ecclesiale se non strettamente sacramentale.

E dato che è il Sacramento della Passione di Cristo, il Cristo sofferente abbraccia in un modo particolare queste persone e comunica con loro in un altro modo e possono quindi sentirsi abbracciate dal Signore crocifisso che cade in terra e muore e soffre per loro, con loro. Occorre, dunque, fare capire che anche se purtroppo manca una dimensione fondamentale tuttavia essi non sono esclusi dal grande mistero dell'Eucaristia, dall'amore di Cristo qui presente. Questo mi sembra importante, come è importante che il parroco e la comunità parrocchiale facciano sentire a queste persone che, da una parte, dobbiamo rispettare l'inscindibilità del Sacramento e, dall'altra parte, che amiamo queste persone che soffrono anche per noi. E dobbiamo anche soffrire con loro, perché danno una testimonianza importante, perché sappiamo che nel momento in cui si cede per amore si fa torto al Sacramento stesso e l'indissolubilità appare sempre meno vera.

Conosciamo il problema non solo delle Comunità protestanti ma anche delle Chiese ortodosse che vengono spesso presentate come modello in cui si ha la possibilità di risposarsi. Ma solo il primo matrimonio è sacramentale: anche loro riconoscono che gli altri non sono Sacramento, sono matrimoni in modo ridotto, ridimensionato, in una situazione penitenziale, in un certo senso possono andare alla comunione ma sapendo che questo è concesso "in economia" - come dicono - per una misericordia che tuttavia non toglie il fatto che il loro matrimonio non è un Sacramento. L'altro punto nelle Chiese orientali è che per questi matrimoni hanno concesso possibilità di divorzio con grande leggerezza e che quindi il principio della indissolubilità, vera sacramentalità del matrimonio, è gravemente ferito.

Da una parte, dunque, c'è il bene della comunità e il bene del Sacramento che dobbiamo rispettare e dall'altra la sofferenza delle persone che dobbiamo aiutare.

Il secondo punto che dobbiamo insegnare e rendere credibile anche per la nostra stessa vita è che la sofferenza, in diverse forme, fa necessariamente parte della nostra vita. E questa è una sofferenza nobile, direi. Di nuovo occorre far capire che il piacere non è tutto. Che il cristianesimo ci dà gioia, come l'amore dà gioia. Ma l'amore è anche sempre rinuncia a se stesso. Il Signore stesso ci ha dato la formula di che cosa è amore: chi perde se stesso si trova; chi guadagna e conserva se stesso si perde.

È sempre un Esodo e quindi anche una sofferenza. La vera gioia è una cosa distinta dal piacere, la gioia cresce, matura sempre nella sofferenza in comunione con la Croce di Cristo. Solo qui nasce la vera gioia della fede, dalla quale anche loro non sono esclusi se imparano ad accettare la loro sofferenza in comunione con quella di Cristo.

A sacerdoti che chiedevano chiarimenti circa l'amministrazione del Sacramento del Battesimo in situazioni particolari e sul Compendio del Catechismo il Santo Padre ha così risposto:

La prima questione è molto difficile ed ho già avuto modo di lavorarci quando sono stato Arcivescovo di Monaco, perché abbiamo avuto questi casi.

Anzitutto si deve chiarire ogni singolo caso: se l'ostacolo contro il Battesimo è tale che non si potrebbe dare senza spreco del Sacramento o se la situazione permette di dire, pur in un contesto di problemi, quest'uomo si è convertito realmente, ha tutta la fede, vuol vivere la fede della Chiesa, vuol essere battezzato. Io penso che adesso dare una formula generale non risponderebbe alla diversità delle situazioni reali: cerchiamo naturalmente di fare tutto il possibile per dare il Battesimo a una persona che lo chiede con piena fede, ma diciamo che i dettagli devono essere studiati in ogni singolo caso.

Il desiderio della Chiesa deve essere, se una persona si mostra realmente convertita e vuol accedere al Battesimo, lasciarsi incorporare nella comunione di Cristo e della Chiesa, di assecondarla. La Chiesa dovrebbe essere aperta se non ci sono ostacoli che realmente renderebbero contraddittorio il Battesimo. Quindi cercare la possibilità e se la persona è realmente convinta, crede con tutto il cuore, non siamo nel relativismo.

Secondo punto: sappiamo tutti che nella situazione culturale ed intellettuale di cui inizialmente abbiamo parlato la catechesi è divenuta molto più difficile. Da una parte ha bisogno di nuovi contesti per essere capita ed essere contestualizzata perché si possa vedere che questo è vero e concerne l'oggi e il domani e, dall'altra, quindi, una contestualizzazione necessaria è stata fatta nei Catechismi delle diverse Conferenze Episcopali.

D'altra parte però risposte chiare sono necessarie perché si possa vedere che questa è la fede e le altre sono contestualizzazioni, semplice modo di far capire. Così è nata una "querelle" all'interno del mondo catechistico, tra catechismo nel senso classico ed i nuovi strumenti di catechesi. È vero da una parte - adesso parlo solo dell'esperienza tedesca - che molti di questi libri non sono arrivati fino alla meta: hanno sempre preparato il terreno, ma erano così occupati con il preparare il terreno con il cammino sul quale avanza la persona, che alla fine non sono arrivati alla risposta da dare. Dall'altra parte i catechismi classici apparivano così chiusi in sé che la risposta vera non toccava più la mente del catecumeno di oggi.

Finalmente abbiamo preso questo impegno pluridimensionale: abbiamo elaborato il Catechismo della Chiesa Cattolica che, da una parte, dà le necessarie contestualizzazioni culturali, ma dà anche risposte precise. Lo abbiamo scritto nella consapevolezza che poi da questo Catechismo fino alla catechesi concreta vi è ancora un cammino non facile da fare. Ma abbiamo anche capito che le situazioni, sia linguistiche, sia culturali, sia sociali, sono così diverse nei vari Paesi e anche negli stessi Paesi nei diversi ceti sociali, che qui è compito del Vescovo o della Conferenza episcopale e del catechista stesso di fare proprio questo ultimo cammino e perciò la nostra posizione è stata: questo è il punto di riferimento per tutti, qui si vede come crede la Chiesa. Poi le Conferenze Episcopali creino gli strumenti che applicano alla situazione culturale e fanno la strada che manca ancora. E finalmente il catechista stesso deve fare gli ultimi passi e forse si offrono anche per questi ultimi passi gli strumenti adatti.

Dopo alcuni anni abbiamo avuto una riunione in cui i catechisti di tutto il mondo ci hanno detto che il Catechismo andava bene, che era un libro necessario, che aiuta dando la bellezza, l'organicità e la completezza della fede, ma che avevano bisogno di una sintesi. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, preso atto del voto di quella riunione, ha incaricato una Commissione di fare questo Compendio, cioè una sintesi del Catechismo grande, al quale esso si riferisse, estraendone l'essenziale. Inizialmente nella redazione del Compendio volevamo essere ancora più brevi, ma alla fine abbiamo capito che per dire realmente, nell'ora nostra, l'essenziale, il materiale necessario che serviva ad ogni catechista era quanto abbiamo detto. Abbiamo anche aggiunto delle preghiere. E penso che sia un libro realmente molto utile, dove si ha la "summa" di quanto è contenuto nel grande Catechismo e in questo senso mi sembra possa corrispondere oggi al Catechismo di Pio X.

Resta sempre l'impegno dei singoli Vescovi e delle Conferenze Episcopali di aiutare i sacerdoti e tutti i catechisti nel lavoro con questo libro e nel fare da ponte a un determinato gruppo, perché il modo di parlare, di pensare e di capire è molto diverso non solo tra l'Italia, la Francia e la Germania, l'Africa, ma anche all'interno di un Paese viene recepito in maniera molto diversa. Quindi rimangono come strumenti per la Chiesa universale il Catechismo della Chiesa Cattolica e il Compendio con la sostanza del Catechismo.

Inoltre abbiamo sempre anche bisogno del lavoro dei Vescovi che aiutano, in contatto con i sacerdoti e i catechisti, a trovare tutti gli strumenti necessari per poter lavorare bene in questa semina della Parola.

Infine il Santo Padre si è così rivolto a tutti i presenti:

Vorrei ringraziare per queste vostre domande che mi aiutano a riflettere sul futuro e soprattutto per questa esperienza di comunione con un grande presbiterio di una bellissima diocesi. Grazie.

L'incontro si è concluso con il canto "Je te salue, Marie".

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:54

Discorso del Santo Padre BENEDETTO XVI ai Seminaristi

Cari seminaristi!

Vi saluto tutti con grande affetto, ringraziandovi per la vostra festosa accoglienza e soprattutto per essere venuti a questo appuntamento da numerosi Paesi dei cinque continenti. Il mio pensiero va innanzitutto al Seminarista, al Sacerdote e al Vescovo che ci hanno offerto la loro personale testimonianza. Grazie di cuore. Sono lieto di questo incontro con voi. Ho voluto che, nel programma di queste giornate di Colonia, ci fosse uno speciale incontro con i giovani seminaristi, perché emergesse in modo esplicito e più forte la dimensione vocazionale, che è sempre presente nelle Giornate Mondiali della Gioventù. Sicuramente voi state vivendo questa esperienza con intensità tutta particolare, proprio perché siete seminaristi, cioè giovani che si trovano in un tempo forte di ricerca di Cristo e di incontro con Lui, in vista di un’importante missione nella Chiesa. Questo è il seminario: non tanto un luogo, ma, appunto, un significativo tempo della vita di un discepolo di Gesù. Immagino l’eco che possono avere dentro di voi le parole del tema di questa ventesima Giornata mondiale - "Siamo venuti per adorarlo" - e l’intero racconto evangelico dei Magi, da cui il tema è tratto. Questa pagina riveste per voi un valore singolare, proprio perché state compiendo il percorso di discernimento e di verifica della chiamata al sacerdozio. Su questo vorrei soffermarmi a riflettere con voi.

Perché i Magi da paesi lontani andarono a Betlemme? La risposta è legata al mistero della "stella" che essi videro "sorgere" e che identificarono come la stella del "re dei Giudei", cioè come il segno della nascita del Messia (cfr Mt 2,2). Quindi il loro viaggio fu mosso dalla forza di una speranza, che nella stella ottenne poi la sua conferma e ricevette la sua guida verso il "re dei Giudei", verso la regalità di Dio stesso. I Magi partirono perché nutrivano un desiderio grande, che li spingeva a lasciare tutto e a mettersi in cammino. Era come se aspettassero da sempre quella stella. Come se quel viaggio fosse da sempre inscritto nel loro destino, che ora finalmente si realizzava. Cari amici, è questo il mistero della chiamata, della vocazione; mistero che coinvolge la vita di ogni cristiano, ma che si manifesta con maggiore evidenza in coloro che Cristo invita a lasciare tutto per seguirlo più da vicino. Il seminarista vive la bellezza della chiamata nel momento che potremmo definire di "innamoramento". Il suo animo è colmo di stupore, che gli fa dire nella preghiera: Signore, perché proprio a me? Ma l’amore non ha "perché", è dono gratuito, a cui si risponde con il dono di sé.

Il seminario è tempo destinato alla formazione e al discernimento. La formazione, come ben sapete, ha diverse dimensioni, che convergono nell’unità della persona: essa comprende l’ambito umano, spirituale e culturale. Il suo scopo più profondo è di far conoscere intimamente quel Dio che in Gesù Cristo ci ha mostrato il suo volto. Per questo è necessario uno studio approfondito della Sacra Scrittura come anche della fede e della vita della Chiesa, nella quale la Scrittura permane come parola vivente. Tutto ciò deve collegarsi con le domande della nostra ragione e quindi con il contesto della vita umana di oggi. Questo studio, a volte, può sembrare faticoso, ma esso costituisce una parte insostituibile del nostro incontro con Cristo e della nostra chiamata ad annunciarlo. Tutto concorre a sviluppare una personalità coerente ed equilibrata, in grado di assumere validamente, per poi compiere responsabilmente la missione presbiterale. Decisivo è il ruolo dei formatori: la qualità del presbiterio in una Chiesa particolare dipende in buona parte da quella del seminario, e perciò dalla qualità dei responsabili della formazione. Cari seminaristi, proprio per questo con viva riconoscenza oggi preghiamo per tutti i vostri superiori, professori ed educatori, che sentiamo spiritualmente presenti a questo incontro. Chiediamo al Signore che possano assolvere nel modo migliore il compito così importante a loro affidato. Il seminario è tempo di cammino, di ricerca, ma soprattutto di scoperta di Cristo. Infatti, solo nella misura in cui fa una personale esperienza di Cristo, il giovane può comprendere in verità la sua volontà e quindi la propria vocazione. Più conosci Gesù e più il suo mistero ti attrae; più lo incontri e più sei spinto a cercarlo. E’ un movimento dello spirito che dura per tutta la vita, e che trova nel seminario una stagione carica di promesse, la sua "primavera".

Giunti a Betlemme, i Magi, "entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono" (Mt 2,11). Ecco finalmente il momento tanto atteso: l’incontro con Gesù. "Entrati nella casa": questa casa rappresenta in un certo modo la Chiesa. Per incontrare il Salvatore, bisogna entrare nella casa che è la Chiesa. Durante il tempo del seminario nella coscienza del giovane seminarista avviene una maturazione particolarmente significativa: egli non vede più la Chiesa "dall’esterno", ma la sente per così dire "dall’interno" come la sua "casa", perché casa di Cristo, dove abita "Maria sua madre". Ed è proprio la Madre a mostrargli Gesù, suo Figlio, a presentarglielo, a farglielo in un certo modo vedere, toccare, prendere tra le braccia. Maria gli insegna a contemplarlo con gli occhi del cuore e a vivere di Lui. In ogni momento della vita di seminario si può sperimentare questa amorevole presenza della Madonna, che introduce ciascuno all’incontro con Cristo, nel silenzio della meditazione, nella preghiera e nella fraternità. Maria aiuta ad incontrare il Signore soprattutto nella Celebrazione eucaristica, quando nella Parola e nel Pane consacrato Egli si fa nostro quotidiano nutrimento spirituale.

"E prostratisi lo adorarono … e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra" (Mt 2,11-12). E’ questo il culmine di tutto l’itinerario: l’incontro si fa adorazione, sboccia in un atto di fede e d’amore che riconosce in Gesù, nato da Maria, il Figlio di Dio fatto uomo. Come non vedere prefigurata nel gesto dei Magi la fede di Simon Pietro e degli altri Apostoli, la fede di Paolo e di tutti i santi, in particolare dei santi seminaristi e sacerdoti che hanno segnato i duemila anni di storia della Chiesa? Il segreto della santità è l’amicizia con Cristo e l’adesione fedele alla sua volontà. "Cristo è tutto per noi", diceva Sant’Ambrogio; e San Benedetto esortava a nulla anteporre all’amore di Cristo. Cristo sia tutto per voi. A Lui, soprattutto voi, cari seminaristi, offrite ciò che avete di più prezioso, come suggeriva il venerato Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per questa Giornata Mondiale: l’oro della vostra libertà, l’incenso della vostra preghiera ardente, la mirra del vostro affetto più profondo (cfr n. 4).

Il seminario è tempo di preparazione alla missione. I Magi "fecero ritorno" al loro Paese e certamente resero testimonianza dell’incontro con il Re dei Giudei. Anche voi, dopo il lungo e necessario itinerario formativo del seminario, sarete inviati per essere i ministri del Cristo; ciascuno di voi tornerà tra la gente come alter Christus. Nel viaggio di ritorno, i Magi dovettero affrontare certamente pericoli, fatiche, smarrimenti, dubbi… Non c’era più la stella a guidarli! Ormai la luce era dentro di loro. Ad essi spettava ormai custodirla e alimentarla nella costante memoria di Cristo, del suo Volto santo, del suo Amore ineffabile. Cari seminaristi! Se Dio vorrà, un giorno anche voi, consacrati dallo Spirito Santo, inizierete la vostra missione. Ricordatevi sempre le parole di Gesù: "Rimanete nel mio amore" (Gv 15,9). Se rimarrete in Cristo, porterete molto frutto. Non voi avete scelto lui, ma lui ha scelto voi (cfr Gv 15,16). Ecco il segreto della vostra vocazione e della vostra missione! Esso è conservato nel cuore immacolato di Maria, che veglia con amore materno su ognuno di voi. A Lei ricorrete sovente e con fiducia. Io vi assicuro il mio affetto e la mia preghiera quotidiana, mentre di cuore vi benedico.


fonte:
www.avvenire.it
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:55

 
 

SANTA MESSA CON ORDINAZIONI PRESBITERALI

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Pietro
Domenica di Pentecoste, 15 maggio 2005

La prima lettura ed il Vangelo della Domenica di Pentecoste ci presentano due grandi immagini della missione dello Spirito Santo. La lettura degli Atti degli Apostoli narra come, il giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo, sotto i segni di un vento potente e del fuoco, irrompe nella comunità orante dei discepoli di Gesù e dà così origine alla Chiesa. Per Israele, la Pentecoste, da festa della mietitura, era divenuta la festa che faceva memoria della conclusione dell’alleanza al Sinai. Dio aveva mostrato la sua presenza al popolo attraverso il vento e il fuoco e gli aveva poi fatto dono della sua legge, dei 10 Comandamenti. Soltanto così l’opera di liberazione, cominciata con l’esodo dall’Egitto, si era pienamente compiuta: la libertà umana è sempre una libertà condivisa, un insieme di libertà. Soltanto in un’ordinata armonia delle libertà, che dischiude a ciascuno il proprio ambito, può reggersi una libertà comune. Perciò il dono della legge sul Sinai non fu una restrizione o un’abolizione della libertà ma il fondamento della vera libertà. E poiché un giusto ordinamento umano può reggersi soltanto se proviene da Dio e se unisce gli uomini nella prospettiva di Dio, ad un ordinato assetto delle libertà umane non possono mancare i comandamenti che Dio stesso dona. Così Israele è divenuto pienamente popolo proprio attraverso l’alleanza con Dio al Sinai. L’incontro con Dio al Sinai potrebbe essere considerato come il fondamento e la garanzia della sua esistenza come popolo. Il vento ed il fuoco, che investirono la comunità dei discepoli di Cristo radunata nel cenacolo, costituirono un ulteriore sviluppo dell’evento del Sinai e gli diedero nuova ampiezza. Si trovavano in quel giorno a Gerusalemme, secondo quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli, “Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2, 5). Ed ecco che si manifesta il dono caratteristico dello Spirito Santo: tutti costoro comprendono le parole degli apostoli: “Ciascuno li sentiva parlare la propria lingua” (At 2, 6). Lo Spirito Santo dona di comprendere. Supera la rottura iniziata a Babele - la confusione dei cuori, che ci mette gli uni contro gli altri - e apre le frontiere. Il popolo di Dio che aveva trovato al Sinai la sua prima configurazione, viene ora ampliato fino a non conoscere più alcuna frontiera. Il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, è un popolo che proviene da tutti i popoli. La Chiesa fin dall’inizio è cattolica, questa è la sua essenza più profonda. San Paolo spiega e sottolinea questo nella seconda lettura, quando dice: “Ed in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito” (1 Cor 12, 13). La Chiesa deve sempre nuovamente divenire ciò che essa già è: deve aprire le frontiere fra i popoli e infrangere le barriere fra le classi e le razze. In essa non vi possono essere né dimenticati né disprezzati. Nella Chiesa vi sono soltanto liberi fratelli e sorelle di Gesù Cristo. Vento e fuoco dello Spirito Santo devono senza sosta aprire quelle frontiere che noi uomini continuiamo ad innalzare fra di noi; dobbiamo sempre di nuovo passare da Babele, dalla chiusura in noi stessi, a Pentecoste. Dobbiamo perciò continuamente pregare che lo Spirito Santo ci apra, ci doni la grazia della comprensione, così da divenire il popolo di Dio proveniente da tutti i popoli – ancor più, ci dice San Paolo: in Cristo, che come unico pane nutre tutti noi nell’Eucaristia e ci attira a sé nel suo corpo straziato sulla croce, noi dobbiamo divenire un solo corpo e un solo spirito.

La seconda immagine dell’invio dello Spirito, che troviamo nel Vangelo, è molto più discreta. Ma proprio così fa percepire tutta la grandezza dell’evento della Pentecoste. Il Signore Risorto attraverso le porte chiuse entra nel luogo dove si trovavano i discepoli e li saluta due volte dicendo: la pace sia con voi! Noi, continuamente, chiudiamo le nostre porte; continuamente, vogliamo metterci al sicuro e non essere disturbati dagli altri e da Dio. Perciò possiamo continuamente supplicare il Signore soltanto per questo, perché egli venga a noi superando le nostre chiusure e ci porti il suo saluto. “La pace sia con voi”: questo saluto del Signore è un ponte, che egli getta fra cielo e terra. Egli discende su questo ponte fino a noi e noi possiamo salire, su questo ponte di pace, fino a lui. Su questo ponte, sempre insieme a Lui, anche noi dobbiamo arrivare fino al prossimo, fino a colui che ha bisogno di noi. Proprio abbassandoci insieme a Cristo, noi ci innalziamo fino a lui e fino a Dio: Dio è Amore e perciò la discesa, l’abbassamento, che l’amore ci chiede, è allo stesso tempo la vera ascesa. Proprio così, abbassandoci, noi raggiungiamo l’altezza di Gesù Cristo, la vera altezza dell’essere umano.

Al saluto di pace del Signore seguono due gesti decisivi per la Pentecoste: il Signore vuole che la sua missione continui nei discepoli: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20, 21). Dopo di che egli alita su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20, 23). Il Signore alita sui discepoli, e così dona loro lo Spirito Santo, il suo Spirito. Il soffio di Gesù è lo Spirito Santo. Riconosciamo qui, anzitutto, un’allusione al racconto della creazione dell’uomo nella Genesi: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita” (Gn 2, 7). L’uomo è questa creatura misteriosa, che proviene tutta dalla terra, ma in cui è stato posto il soffio di Dio. Gesù alita sugli apostoli e dona loro in modo nuovo, più grande, il soffio di Dio. Negli uomini, pur con tutti i loro limiti, vi è ora qualcosa di assolutamente nuovo – il soffio di Dio. La vita di Dio abita in noi. Il soffio del suo amore, della sua verità e della sua bontà. Così possiamo vedere qui anche un’allusione al battesimo ed alla cresima – a questa nuova appartenenza a Dio, che il Signore ci dona. Il testo del Vangelo ci invita a questo: a vivere sempre nello spazio del soffio di Gesù Cristo, a ricevere vita da Lui, così che egli inspiri in noi la vita autentica – la vita che nessuna morte può più togliere. Al suo soffio, al dono dello Spirito Santo, il Signore collega il potere di perdonare. Abbiamo udito in precedenza che lo Spirito Santo unisce, infrange le frontiere, conduce gli uni verso gli altri. La forza, che apre e fa superare Babele, è la forza del perdono. Gesù può donare il perdono ed il potere di perdonare, perché egli stesso ha sofferto le conseguenze della colpa e le ha dissolte nella fiamma del suo amore. Il perdono viene dalla croce; egli trasforma il mondo con l’amore che si dona. Il suo cuore aperto sulla croce è la porta attraverso cui entra nel mondo la grazia del perdono. E soltanto questa grazia può trasformare il mondo ed edificare la pace.

Se paragoniamo i due eventi di Pentecoste, il vento potente del 50° giorno e il lieve alitare di Gesù nella sera di Pasqua, ci può tornare in mente il contrasto fra due episodi, accaduti al Sinai, di cui ci parla l’Antico Testamento. Da una parte c’è il racconto del fuoco, del tuono e del vento, che precedono la promulgazione dei 10 Comandamenti e la conclusione dell’alleanza (Es 19 ss); dall’altra, il misterioso racconto di Elia sull’Oreb. Dopo i drammatici avvenimenti del Monte Carmelo, Elia era fuggito dall’ira di Acab e Gezabele. Quindi, seguendo il comando di Dio, aveva pellegrinato fino al Monte Oreb. Il dono dell’alleanza divina, della fede nel Dio unico, sembrava scomparso in Israele. Elia, in un certo qual modo, deve riaccendere la fiamma della fede sul monte di Dio e riportarla ad Israele. Egli sperimenta, in quel luogo, vento, terremoto e fuoco. Ma Dio non è presente in tutto questo. Allora egli percepisce un mormorio dolce e leggero. E Dio gli parla da questo soffio leggero (1 Re 19, 11 – 18). Non è forse proprio quel che accade la sera di Pasqua, quando Gesù compare ai suoi Apostoli ad insegnarci cosa qui si vuol dire? Non possiamo forse vedere qui una prefigurazione del servitore di Jahwé, del quale Isaia dice: “Egli non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” (42, 2)? Non appare forse così l’umile figura di Gesù come la vera rivelazione nella quale Dio si manifesta a noi e ci parla? Non sono forse l’umiltà e la bontà di Gesù la vera epifania di Dio? Elia, sul Monte Carmelo, aveva cercato di combattere l’allontanamento da Dio con il fuoco e con la spada, uccidendo i profeti di Baal. Ma in questo modo non aveva potuto ristabilire la fede. Sull’Oreb egli deve apprendere che Dio non è nel vento, nel terremoto, nel fuoco; Elia deve imparare a percepire la voce leggera di Dio e, così, a riconoscere in anticipo colui che ha vinto il peccato non con la forza ma con la sua Passione; colui che, con il suo patire, ci ha donato il potere del perdono. Questo è il modo con cui Dio vince.

Cari ordinandi! In questo modo il messaggio di Pentecoste si rivolge ora direttamente a voi. La scena pentecostale del Vangelo di Giovanni parla di voi ed a voi. A ciascuno di voi, in modo personalissimo, il Signore dice: pace a voi – pace a te! Quando il Signore dice questo, non dona qualcosa ma dona se stesso. Infatti egli stesso è la pace (Ef 2, 14). In questo saluto del Signore, possiamo intravedere anche un richiamo al grande mistero della fede, alla Santa Eucaristia, nella quale egli continuamente ci dona se stesso e, in tal modo, la vera pace. Questo saluto si colloca così al centro della vostra missione sacerdotale: il Signore affida a voi il mistero di questo sacramento. Nel suo nome voi potete dire: questo è il mio corpo – questo è il mio sangue. Lasciatevi attirare sempre di nuovo nella Santa Eucaristia, nella comunione di vita con Cristo. Considerate come centro di ogni giornata il poterla celebrare in modo degno. Conducete gli uomini sempre di nuovo a questo mistero. Aiutateli, a partire da essa, a portare la pace di Cristo nel mondo.

Risuona poi, nel Vangelo appena udito, una seconda parola del Risorto: “come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20, 21). Cristo dice questo, in modo molto personale, a ciascuno di voi. Con l’ordinazione sacerdotale voi vi inserite nella missione degli apostoli. Lo Spirito Santo è vento, ma non è amorfo. E’ uno Spirito ordinato. E si manifesta proprio ordinando la missione, nel sacramento del sacerdozio, con cui continua il ministero degli apostoli. Attraverso questo ministero, voi siete inseriti nella grande schiera di coloro che, a partire dalla Pentecoste, hanno ricevuto la missione apostolica. Voi siete inseriti nella comunione del presbiterio, nella comunione con il vescovo e con il Successore di San Pietro, che qui in Roma è anche il vostro vescovo. Tutti noi siamo inseriti nella rete dell’obbedienza alla parola di Cristo, alla parola di colui che ci dà la vera libertà, perché ci conduce negli spazi liberi e negli ampi orizzonti della verità. Proprio in questo comune legame col Signore noi possiamo e dobbiamo vivere il dinamismo dello Spirito. Come il Signore è uscito dal Padre e ci ha donato luce, vita ed amore, così la missione deve continuamente rimetterci in movimento, renderci inquieti, per portare a chi soffre, a chi è nel dubbio, ed anche a chi è riluttante, la gioia di Cristo.

Infine, vi è il potere del perdono. Il sacramento della penitenza è uno dei tesori preziosi della Chiesa, perché solo nel perdono si compie il vero rinnovamento del mondo. Nulla può migliorare nel mondo, se il male non è superato. E il male può essere superato solo con il perdono. Certamente, deve essere un perdono efficace. Ma questo perdono può darcelo solo il Signore. Un perdono che non allontana il male solo a parole, ma realmente lo distrugge. Ciò può avvenire solo con la sofferenza ed è realmente avvenuto con l’amore sofferente di Cristo, dal quale noi attingiamo il potere del perdono.

Infine, cari ordinandi, vi raccomando l’amore alla Madre del Signore. Fate come San Giovanni, che l’accolse nell’intimo del proprio cuore. Lasciatevi rinnovare continuamente dal suo amore materno. Imparate da lei ad amare Cristo. Il Signore benedica il vostro cammino sacerdotale! Amen.



 

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:56

 
Arrow VOCAZIONI: PAPA, NO A “PESSIMISMO E STANCHEZZA”, SÌ AL “RILANCIO” DELLA VITA CONSACRATA A PARTIRE DALLA “COERENZA” COL VANGELO

Un'autentica ripresa della vita religiosa
sgorga da un'esistenza pienamente evangelica


"Un'autentica ripresa della vita religiosa non si può avere se non cercando di condurre un'esistenza pienamente evangelica". È quanto scrive Benedetto XVI nel Messaggio inviato all'Arcivescovo Franc Rodé, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, in occasione della Plenaria del Dicastero, che si svolge nella cornice della celebrazione del 40° anniversario del Decreto conciliare "Perfectae caritatis". "Auspico - scrive tra l'altro il Papa - che le fondamentali indicazioni offerte allora dai Padri conciliari per il cammino della vita consacrata continuino ad essere anche oggi fonte di ispirazione per quanti impegnano la loro esistenza al servizio del Regno di Dio". "Un'indicazione di fondo che il Concilio ha dato - ricorda - è quella del generoso e creativo dono di sé ai fratelli, senza mai cedere alla tentazione del ripiegamento su se stessi, senza mai adagiarsi sul già fatto, senza mai indulgere al pessimismo e alla stanchezza. Il fuoco dell'amore, che lo Spirito infonde nei cuori, spinge a interrogarsi costantemente sui bisogni dell'umanità e su come rispondervi".


(©L'Osservatore Romano - 30 Settembre 2005)
Il testo della Lettera di Benedetto XVI
Venerato Fratello
Mons. FRANC RODÉ
Prefetto della Congregazione per gli
Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica

In occasione della Plenaria di codesta Congregazione ben volentieri rivolgo a tutti coloro che vi prendono parte il mio saluto cordiale. Saluto in particolare Lei, il Segretario e quanti lavorano nel Dicastero che Ella presiede. Unisco ai miei saluti l’espressione della mia gratitudine e della mia gioia: la gratitudine, perché con me voi condividete l'attenzione e il servizio alle persone consacrate; la gioia, perché attraverso di voi so di rivolgermi al mondo delle donne e degli uomini consacrati che seguono Cristo sulla via dei consigli evangelici e del rispettivo particolare carisma suggerito dallo Spirito.

La storia della Chiesa è segnata dagli interventi dello Spirito Santo, che non l’ha soltanto arricchita con i doni della sapienza, della profezia, della santità, ma l’ha dotata di forme sempre nuove di vita evangelica attraverso l’opera di fondatori e di fondatrici che hanno trasmesso ad una famiglia di figli e figlie spirituali il loro carisma. Grazie a ciò, oggi, nei monasteri e nei centri di spiritualità, monaci, religiosi e persone consacrate offrono ai fedeli oasi di contemplazione e scuole di preghiera, di educazione alla fede e di accompagnamento spirituale. Soprattutto, però, essi continuano la grande opera di evangelizzazione e di testimonianza in tutti i continenti, fino agli avamposti della fede, con generosità e spesso con sacrificio della vita fino al martirio. Molti di loro si dedicano interamente alla catechesi, all'educazione, all'insegnamento, alla promozione della cultura, al ministero della comunicazione. Sono accanto ai giovani e alle loro famiglie, ai poveri, agli anziani, agli ammalati, alle persone sole. Non c'è ambito umano ed ecclesiale dove essi non siano presenti in modo spesso silenzioso, ma sempre fattivo e creativo, quasi una continuazione della presenza di Gesù che passò facendo del bene a tutti (cfr At 10, 38). La Chiesa è riconoscente per la testimonianza di fedeltà e di santità data da tanti membri degli Istituti di vita consacrata, per l'incessante preghiera di lode e di intercessione che si innalza dalle loro comunità, per la loro vita spesa a servizio del Popolo di Dio.

Non mancano certamente prove e difficoltà nella vita consacrata di oggi, così come negli altri settori della vita della Chiesa. «Il grande tesoro del dono di Dio - avete ricordato a conclusione della precedente Plenaria - è custodito in fragili vasi di creta (cfr 2 Cor 4, 7) e il mistero del male insidia anche coloro che dedicano a Dio tutta la loro vita» (CIVCSVA, Istruzione Ripartire da Cristo n. 11). Piuttosto che enumerare le difficoltà che incontra oggi la vita consacrata, vorrei piuttosto confermare a tutti i consacrati e consacrate la vicinanza, la sollecitudine, l'amore della Chiesa intera. La vita consacrata, all'inizio del nuovo millennio, ha davanti a sé sfide formidabili, che può affrontare soltanto in comunione con tutto il Popolo di Dio, con i suoi Pastori e con il popolo dei fedeli. In questo contesto si inserisce l’attenzione della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, nella vostra Plenaria che affronta tre tematiche ben precise.

La prima riguarda l'esercizio dell'autorità. Si tratta di un servizio necessario e prezioso, per assicurare una vita autenticamente fraterna, alla ricerca della volontà di Dio. In realtà è lo stesso Signore risorto, nuovamente presente tra i fratelli e le sorelle riuniti nel suo nome (cfr Perfectae caritatis, 15), che addita il cammino da percorrere. Soltanto se il Superiore da parte sua vive nell’obbedienza a Cristo ed in sincera osservanza della regola, i membri della comunità possono chiaramente vedere che la loro obbedienza al Superiore non solo non è contraria alla libertà dei figli di Dio, ma la fa maturare nella conformità con Cristo obbediente al Padre (cfr ibid., 14).

L'altro tema scelto per la Plenaria riguarda i criteri per il discernimento e l'approvazione di nuove forme di vita consacrata. «Il giudizio sulla loro genuinità e sul loro uso ordinato - ricorda la Costituzione dogmatica Lumen gentium, parlando dei carismi in generale - appartiene a coloro che detengono l'autorità nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono» (n. 12). È quanto cercate di fare anche voi in questi giorni, non dimenticando che il vostro lavoro prezioso e delicato deve svolgersi in un contesto di gratitudine a Dio, il quale anche oggi continua ad arricchire di sempre nuovi carismi la sua Chiesa con la creatività e la generosità del suo Spirito.

Il terzo tema da voi affrontato riguarda la vita monastica. Partendo da situazioni contingenti, che pure richiedono concreti interventi saggi ed incisivi, il vostro sguardo intende spaziare sul vasto orizzonte di questa realtà, che tanto significato ha avuto e conserva nella storia della Chiesa. Voi cercate le vie opportune per rilanciare nel nuovo millennio l’esperienza monastica, di cui la Chiesa ha anche oggi bisogno, perché riconosce in essa la testimonianza eloquente del primato di Dio, costantemente lodato, adorato, servito, amato con tutta la mente, con tutta l’anima, con tutto il cuore (cfr Mt 22,37).

Infine, mi è grato rilevare che la Plenaria si colloca nella cornice della solenne celebrazione, che il Dicastero ha promosso nel 40° anniversario della promulgazione del Decreto conciliare Perfectae caritatis sul rinnovamento della vita religiosa. Auspico che le fondamentali indicazioni offerte allora dai Padri conciliari per il cammino della vita consacrata continuino ad essere anche oggi fonte di ispirazione per quanti impegnano la loro esistenza al servizio del Regno di Dio. Mi riferisco innanzitutto a quella che il Decreto Perfectae caritatis qualifica come "vitae religiosae ultima norma", "norma suprema della vita religiosa", e cioè la "sequela di Cristo". Un’autentica ripresa della vita religiosa non si può avere se non cercando di condurre una esistenza pienamente evangelica, senza nulla anteporre all'unico Amore, ma trovando in Cristo e nella sua parola l'essenza più profonda di ogni carisma del Fondatore o della Fondatrice.

Un’altra indicazione di fondo che il Concilio ha dato è quella del generoso e creativo dono di sé ai fratelli, senza mai cedere alla tentazione del ripiegamento su se stessi, senza mai adagiarsi sul già fatto, senza mai indulgere al pessimismo e alla stanchezza. Il fuoco dell'amore, che lo Spirito infonde nei cuori, spinge a interrogarsi costantemente sui bisogni dell'umanità e su come rispondervi, sapendo bene che solo chi riconosce e vive il primato di Dio può realmente rispondere ai veri bisogni dell’uomo, immagine di Dio. Ancora un’indicazione vorrei raccogliere tra le molte significative consegnate dai Padri conciliari nel Decreto Perfectae caritatis: è l’impegno che la persona consacrata deve porre nel coltivare una sincera vita di comunione (cfr n. 15), non soltanto all'interno delle singole fraternità, ma con tutta la Chiesa, perché i carismi vanno custoditi, approfonditi e costantemente sviluppati «in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita» (Mutuae relationes, n. 11).

Ecco i pensieri che mi preme affidare alla vostra riflessione sulle tematiche affrontate dai lavori della Plenaria. Io vi accompagno con la preghiera e, mentre su di voi e sulla vostra attività invoco l'aiuto di Dio e la protezione della Vergine Santissima, quale pegno del mio affetto, a ciascuno invio la mia Benedizione.

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:57

 


L'udienza di Benedetto XVI ai religiosi, alle religiose, ai membri di Istituti secolari e di Società di vita apostolica
della Diocesi di Roma raccolti nell'Aula Paolo VI

Fedeltà agli impegni assunti, al carisma
del vostro Istituto e agli orientamenti della Chiesa locale


"Proseguite su questo cammino rinsaldando la vostra fedeltà agli impegni assunti, al carisma di ogni vostro Istituto e agli orientamenti della Chiesa locale". È l'esortazione rivolta da Benedetto XVI ai religiosi, alle religiose, ai membri di Istituti secolari e di Società di vita apostolica della Diocesi di Roma, ricevuti in udienza nella mattina di sabato 10 dicembre, nell'Aula Paolo VI. "Il complesso contesto sociale e culturale della nostra Città nel quale vi trovate ad agire - ha sottolineato il Papa - domanda da parte vostra, oltre una costante attenzione alle problematiche locali, una coraggiosa fedeltà al carisma che vi contraddistingue". "Non abbiate paura - ha esortato - di presentarvi, anche visibilmente, come persone consacrate, e cercate in ogni modo di manifestare la vostra appartenenza a Cristo, il tesoro nascosto per il quale avete lasciato tutto. Fate vostro il ben noto motto programmatico di san Benedetto: "Niente sia anteposto all'amore di Cristo"". "Parte costitutiva della vostra missione - ha ricordato ancora - è poi la vita comunitaria. Impegnandovi a realizzare comunità fraterne, voi mostrate che grazie al Vangelo anche i rapporti umani possono cambiare, che l'amore non è un'utopia, ma anzi il segreto per costruire un mondo più fraterno". "Grazie - ha concluso - per il servizio che rendete al Vangelo, per il vostro amore ai poveri e ai sofferenti, per il vostro sforzo nel campo dell'educazione e della cultura, per l'incessante preghiera che si innalza dai monasteri, per la multiforme attività che voi svolgete. La Vergine Santa, modello di vita consacrata, vi accompagni e vi sostenga perché possiate essere per tutti "segno profetico" del regno dei cieli".


(©L'Osservatore Romano - 11 Dicembre 2005)
DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signor Cardinale,

venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,

cari fratelli e care sorelle!

E’ una grande gioia per me incontrarvi quest’oggi nel clima spirituale dell’Avvento, mentre ci prepariamo al Santo Natale. Saluto con affetto ciascuno di voi, religiosi e religiose, membri di Istituti secolari e di nuove forme di vita consacrata, presenti nella Diocesi di Roma, dove svolgete un servizio quanto mai apprezzato, ben inserendovi nelle varie realtà sociali e pastorali. Un pensiero particolare rivolgo a quanti vivono nei monasteri di vita contemplativa e che sono a noi spiritualmente uniti, come pure alle persone di vita consacrata provenienti dall’Africa, dall’America Latina e dell’Asia che studiano a Roma o qui trascorrono un tratto della loro esistenza, partecipando essi pure attivamente alla missione della Chiesa che è nella Città.

Un saluto fraterno rivolgo al Cardinale Camillo Ruini, che ringrazio per le parole rivoltemi a nome di tutti. Da sempre i consacrati e le consacrate costituiscono nella Chiesa di Roma una preziosa presenza, anche perché offrono una peculiare testimonianza dell’unità e dell’universalità del Popolo di Dio. Vi ringrazio per il lavoro che svolgete nella vigna del Signore, per l’impegno che ponete nell’affrontare le sfide che l’odierna cultura pone all’evangelizzazione in una metropoli ormai cosmopolita com’è la nostra.

Il complesso contesto sociale e culturale della nostra Città nel quale vi trovate ad agire domanda da parte vostra, oltre una costante attenzione alle problematiche locali, una coraggiosa fedeltà al carisma che vi contraddistingue. Sin dalle origini, in effetti, la vita consacrata si è caratterizzata per la sua sete di Dio: quaerere Deum. Vostro primo e supremo anelito sia, pertanto, testimoniare che Dio va ascoltato e amato con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, prima di ogni altra persona e cosa. Non abbiate paura di presentarvi, anche visibilmente, come persone consacrate, e cercate in ogni modo di manifestare la vostra appartenenza a Cristo, il tesoro nascosto per il quale avete lasciato tutto. Fate vostro il ben noto motto programmatico di San Benedetto: "Niente sia anteposto all'amore di Cristo".

Certo, tante sono le sfide e le difficoltà che voi oggi incontrate, impegnati come siete su vari fronti. Nelle vostre residenze e nelle opere apostoliche voi siete ben inseriti nei programmi della Diocesi collaborando nei vari rami dell’azione pastorale, grazie anche al collegamento che svolgono gli organismi di rappresentanza della vita consacrata come la Conferenza Italiana Superiori Maggiori e l’Unione delle Superiore Maggiori d’Italia, il Gruppo Istituti Secolari e l’Ordo Virginum. Proseguite su questo cammino rinsaldando la vostra fedeltà agli impegni assunti, al carisma di ogni vostro Istituto e agli orientamenti della Chiesa locale. Tale fedeltà, lo sapete, è possibile quando ci si mantiene fermi nelle piccole, ma insostituibili fedeltà quotidiane: anzitutto fedeltà alla preghiera e all’ascolto della Parola di Dio; fedeltà al servizio degli uomini e delle donne del nostro tempo, secondo il proprio carisma; fedeltà all'insegnamento della Chiesa, a partire da quello sulla vita consacrata; fedeltà ai sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, che ci sostengono nelle situazioni difficili della vita.

Parte costitutiva della vostra missione è poi la vita comunitaria. Impegnandovi a realizzare comunità fraterne, voi mostrate che grazie al Vangelo anche i rapporti umani possono cambiare, che l’amore non è un'utopia, ma anzi il segreto per costruire un mondo più fraterno. Il Libro degli Atti degli Apostoli, dopo la descrizione della fraternità realizzata nella comunità dei cristiani, rileva, quasi come logica conseguenza, che "la Parola si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli" (At 6,7). La diffusione della Parola è la benedizione che il Padrone della messe dà alla comunità che prende sul serio l'impegno di far crescere la carità nella fraternità.

Cari fratelli e sorelle, la Chiesa ha bisogno della vostra testimonianza, ha bisogno di una vita consacrata che affronti con coraggio e creatività le sfide del tempo presente. Di fronte all'avanzata dell'edonismo, a voi è richiesta la coraggiosa testimonianza della castità, come espressione di un cuore che conosce la bellezza e il prezzo dell'amore di Dio. Di fronte alla sete di denaro, la vostra vita sobria e pronta al servizio dei più bisognosi ricorda che Dio è la ricchezza vera che non perisce. Di fronte all'individualismo e al relativismo, che inducono le persone ad essere unica norma a se stesse, la vostra vita fraterna, capace di lasciarsi coordinare e quindi capace di obbedienza, conferma che voi ponete in Dio la vostra realizzazione. Come non auspicare che la cultura dei consigli evangelici, che è la cultura delle Beatitudini, possa crescere nella Chiesa, per sostenere la vita e la testimonianza del popolo cristiano?

Il Decreto conciliare Perfectae caritatis, di cui commemoriamo quest'anno il quarantesimo anniversario di promulgazione, afferma che le persone consacrate "davanti a tutti i fedeli sono un richiamo di quella mirabile unione operata da Dio e che si manifesterà nel secolo futuro, mediante la quale la Chiesa ha Cristo come unico suo Sposo" (n. 12). La persona consacrata vive nel tempo, ma il suo cuore è proiettato oltre il tempo e all’uomo contemporaneo spesso assorbito dalle cose del mondo testimonia che il suo vero destino è Dio stesso.

Grazie, cari fratelli e sorelle, per il servizio che rendete al Vangelo, per il vostro amore ai poveri e ai sofferenti, per il vostro sforzo nel campo dell'educazione e della cultura, per l'incessante preghiera che si innalza dai monasteri, per la multiforme attività che voi svolgete. La Vergine Santa, modello di vita consacrata, vi accompagni e vi sostenga perché possiate essere per tutti "segno profetico" del regno dei cieli. Io vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e di cuore tutti vi benedico.

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:57

Il papa ai seminaristi di Roma: il dono di santità di don Andrea Santoro

di Simona Santi/ 25/02/2006

Benedetto XVI visita il Seminario romano maggiore, per la festa della Madonna della Fiducia. Nel suo discorso, l'invito ai seminaristi a seguire l'esempio di san Giuseppe. Il ricordo del sacerdote ucciso in Turchia, anche lui seminarista a Roma.

"L'esempio di san Giuseppe 'uomo giusto', pienamente responsabile di fonte a Dio e di fronte a Maria, costituisce per tutti un incoraggiamento nel cammino verso il sacerdozio". E' la strada indicata da Benedetto XVI ai seminaristi di Roma, che il papa ha voluto incontrare nel seminario maggiore, nel giorno della festa della Madonna della Fiducia. "San Giuseppe, ha detto il pontefice, è "sempre attento alla voce del Signore", sempre "fedele, generoso e distaccato nel servizio, maestro efficace di preghiera e di lavoro". Il papa ha così ricordato quanto sia "bello e appropriato" che, insieme alla Madonna della Fiducia, quest'oggi venga venerato "in modo speciale il suo sposo, san Giuseppe, al quale monsignor Marco Frisina - ha proseguito - si è ispirato quest'anno per il suo oratorio. Lo ringrazio per la sua delicatezza - ha aggiunto - avendo scelto di onorare il mio santo Patrono, e mi congratulo per questa composizione, mentre ringazio di cuore i solisti, i coristi, l'organista e tutti i membri dell'orchestra".

E' la prima volta che Benedetto XVI si reca in visita al Seminario Romano Maggiore. "Attendevo da tempo l'occasione per venire di persona a far visita a voi - ha spiegato il pontefice - che formate la comunità del Seminario, uno dei luoghi più importanti della diocesi. A Roma vi sono più seminari - ha proseguito - ma questo è in senso proprio il Seminario diocesano, come richiama anche la sua collocazione qui in Laterano, accanto alla cattedrale di San Giovanni".

Il papa è stato accolto dal cardinale Camillo Ruini, dal Rettore del Seminario, monsignor Giovanni Tani, e salutato con grande affetto dai seminaristi e dai numerosi fedeli che lo hanno acclamato al coro "Benedetto, Benedetto, viva il Papa, viva il Papa". Il Rettore ha ringraziato Benedetto XVI per la sua prima Enciclica "Dio è amore". "Nel nostro programma formativo - ha detto monsignor Tani - abbiamo preso in esame per quest'anno il brano del Vangelo che termina con l'invito "al di sopra di tutto via sia la carità". Dunque, la sua Enciclica - ha aggiunto - è una conferma ulteriore del nostro cammino". Con la visita di oggi, il pontefice prosegue così una tradizione cara a Giovanni Paolo II che, nella festa della Madonna della Fiducia, era solito recarsi al Seminario maggiore per incontrare i seminaristi. Non lo aveva fatto negli ultimi tre anni a causa delle gravi condizioni di salute.

Tra i momenti più intensi della visita, il ricordo di don Andrea Santoro, il sacerdote ucciso il 5 febbraio scorso a Trebisonda, in Turchia. "Aveva il dono della santità", ha spiegato Benedetto XVI, che si è anche raccolto in preghiera dinanzi all'immagine della Madonna della Fiducia. ''Ripensavo - ha poi detto nel suo discorso - ai molti seminaristi che sono passati nel Seminario Romano e che poi hanno servito con amore la Chiesa di Cristo: penso, tra gli altri, a don Andrea Santoro, ucciso recentemente in Turchia mentre pregava''. ''E così - ha aggiunto - ho invocato la Madre del Redentore perché ottenga anche a voi il dono della santita'''. Dopo essere stato allievo del Seminario Romano Maggiore, don Andrea vi era stato ordinato diacono 36 anni fa.

fonte: Korazym

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:58

 

Discorso imrpovvisato da Benedetto XVI al Clero romano

I temi dell'incontro: vita, famiglia e formazione dei sacerdoti

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 3 marzo 2006 (ZENIT.org).- Il 2 marzo 2006, nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico Vaticano, Benedetto XVI ha incontrato il Clero della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.

Di seguito riportiamo il testo improvvisato - in due tempi - dal Papa in risposta alle considerazioni dei sacerdoti romani intervenuti.

* * *

image


Parlo subito, altrimenti il mio monologo diventa troppo lungo, se aspetto che si concludano tutti gli interventi. Vorrei innanzitutto esprimere la mia gioia di essere qui con voi, cari Sacerdoti di Roma. È una gioia reale: quella di vedere tanti buoni pastori a servizio del «Buon Pastore» qui, nella prima Sede della Cristianità, nella Chiesa che «presiede alla carità» e che deve essere modello delle altre Chiese locali. Grazie per il vostro servizio!

Abbiamo il luminoso esempio di Don Andrea, che ci mostra l'«essere» sacerdote sino in fondo: morire per Cristo nel momento della preghiera e così testimoniare, da una parte, l'interiorità della propria vita con Cristo e, dall'altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente «panperiferico» del mondo, circondato dall'odio e dal fanatismo di altri. È una testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e a trovare proprio così la Vita.

Riguardo al primo intervento, rivolgo, innanzitutto un grande grazie per questa meravigliosa poesia! Ci sono anche poeti ed artisti nella Chiesa di Roma, nel presbiterio di Roma, e avrò ancora la possibilità di meditare, di interiorizzare queste belle parole e di tener presente che questa «finestra» è sempre «aperta». Forse è questa l'occasione per ricordare l'eredità fondamentale del grande Papa Giovanni Paolo II, per continuare ad assimilare sempre più questa eredità.

Ieri abbiamo dato inizio alla Quaresima. La Liturgia di oggi ci offre una profonda indicazione del significato essenziale della Quaresima: è un indicatore di strada per la nostra vita. Perciò mi sembra — parlo riferendomi a Papa Giovanni Paolo II — che dobbiamo insistere un po' sulla prima Lettura della giornata di oggi. Il grande discorso di Mosè sulla soglia della Terra Santa, dopo i quarant'anni del pellegrinaggio nel deserto, è un riassunto di tutta la Torah, di tutta la Legge. Troviamo qui l'essenziale non solo per il popolo ebraico ma anche per noi. Questo essenziale è la parola di Dio: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita» (Dt 30,19). Questa parola fondamentale della Quaresima è anche la parola fondamentale dell'eredità del nostro grande Papa Giovanni Paolo II: scegliere la vita. Questa è la nostra vocazione sacerdotale: scegliere noi stessi la vita e aiutare gli altri a scegliere la vita. Si tratta di rinnovare nella Quaresima la nostra, per così dire, «opzione fondamentale», l'opzione per la vita.

Ma, nasce subito la questione: come si sceglie la vita? come si fa? Riflettendo, mi è venuto in mente che la grande defezione dal Cristianesimo realizzatasi nell'Occidente negli ultimi cento anni, è stata attuata proprio in nome dell'opzione per la vita. È stato detto — penso a Nietzsche ma anche a tanti altri — che il Cristianesimo è una opzione contro la vita. Con la Croce, con tutti i Comandamenti, con tutti i «No» che ci propone, ci chiude la porta della vita. Ma noi, vogliamo avere la vita, e scegliamo, optiamo, finalmente, per la vita liberandoci dalla Croce, liberandoci da tutti questi Comandamenti e da tutti questi «No». Vogliamo avere la vita in abbondanza, nient'altro che la vita. Qui subito viene in mente la parola del Vangelo di oggi: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» ( Lc 9, 24). Questo è il paradosso che dobbiamo innanzitutto tener presente nell'opzione per la vita. Non arrogandoci la vita per noi ma solo dando la vita, non avendola e prendendola, ma dandola, possiamo trovarla. Questo è il senso ultimo della Croce: non prendere per sé ma dare la vita.

Così, Nuovo e Vecchio Testamento vanno insieme. Nella prima Lettura del Deuteronomio la risposta di Dio è: «Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva» (30, 16). Questo, a prima vista non ci piace, ma è la strada: l'opzione per la vita e l'opzione per Dio sono identiche. Il Signore lo dice nel Vangelo di San Giovanni: «Questa è la vita eterna: che conoscano te» (Gv 17, 3). La vita umana è una relazione. Solo in relazione, non chiusi in noi stessi, possiamo avere la vita. E la relazione fondamentale è la relazione col Creatore, altrimenti le altre relazioni sono fragili. Scegliere Dio, quindi: questo è essenziale. Un mondo vuoto di Dio, un mondo che ha dimenticato Dio, perde la vita e cade in una cultura di morte. Scegliere la vita, fare l'opzione per la vita, quindi, è, innanzitutto, scegliere l’opzione-relazione con Dio. Ma, subito nasce la questione: con quale Dio? Qui, di nuovo, ci aiuta il Vangelo: con quel Dio che ci ha mostrato il suo volto in Cristo, con quel Dio che ha vinto l'odio sulla Croce, cioè nell'amore sino alla fine. Così, scegliendo questo Dio, scegliamo la vita.

Il Papa Giovanni Paolo II ci ha donato la grande Enciclica Evangelium vitae . In essa — è quasi un ritratto dei problemi della cultura odierna, delle speranze e dei pericoli — diviene visibile che una società che dimentica Dio, che esclude Dio e, proprio per avere la vita, cade in una cultura di morte. Proprio volendo avere la vita si dice «No» al bambino, perché mi toglie qualche parte della mia vita; si dice «No» al futuro, per avere tutto il presente; si dice «No» sia alla vita che nasce sia alla vita sofferente, che va verso la morte. Questa apparente cultura della vita diventa la anti-cultura della morte, dove Dio è assente, dove è assente quel Dio che non ordina l'odio ma vince l'odio. Qui facciamo la vera opzione per la vita. Tutto, allora, è connesso: la più profonda opzione per Cristo Crocifisso con la più completa opzione per la vita, dal primo momento fino all'ultimo momento.

Questo, mi sembra, in qualche modo, anche il nucleo della nostra pastorale: aiutare a fare una vera opzione per la vita, rinnovare la relazione con Dio come la relazione che ci dà vita e ci mostra la strada per la vita. E così amare di nuovo Cristo, che dall'Essere più ignoto, al quale non arrivavamo e che rimaneva enigmatico, si è reso un Dio noto, un Dio dal volto umano, un Dio che è amore. Teniamo presente proprio questo punto fondamentale per la vita e consideriamo che in questo programma è presente tutto il Vangelo, dall'Antico al Nuovo Testamento, che ha come centro Cristo. La Quaresima, per noi stessi, dovrebbe essere il tempo per rinnovare la nostra conoscenza di Dio, la nostra amicizia con Gesù, per essere così capaci di guidare gli altri in modo convincente alla opzione per la vita, che è innanzitutto opzione per Dio. A noi stessi deve risultare chiaro che scegliendo Cristo non abbiamo scelto la negazione della vita, ma abbiamo scelto realmente la vita in abbondanza.

L'opzione cristiana è, in fondo, molto semplice: è l'opzione del «Sì» alla vita. Ma questo «Sì», si realizza solo con un Dio non ignoto, con un Dio dal volto umano. Si realizza seguendo questo Dio nella comunione dell'amore. Quanto ho fin qui detto vuol essere un modo di rinnovare il nostro ricordo nei riguardi del grande Papa Giovanni Paolo II.

Veniamo al secondo intervento, così simpatico, a proposito delle mamme. Direi che adesso non posso comunicare grandi programmi, parole che potrete dire alle mamme. Dite semplicemente: il Papa vi ringrazia! Vi ringrazia perché avete donato la vita, perché volete aiutare questa vita che cresce e volete così costruire un mondo umano, contribuendo ad un futuro umano. E lo fate non dando solo la vita biologica, ma comunicando il centro della vita, facendo conoscere Gesù, introducendo i vostri bambini alla conoscenza di Gesù, all'amicizia con Gesù. Questo è il fondamento di ogni catechesi. Quindi bisogna ringraziare le mamme soprattutto perché hanno avuto il coraggio di dare la vita. E bisogna pregare le mamme perché completino questo loro dare la vita dando l'amicizia con Gesù.

Il terzo intervento era del Rettore della chiesa di sant'Anastasia. Qui, forse, posso dire, tra parentesi, che la chiesa di sant'Anastasia mi era già cara prima di averla vista, perché era la chiesa titolare del nostro Cardinale de Faulhaber. Egli ci ha sempre fatto sapere che a Roma aveva una sua chiesa, quella di sant'Anastasia. Con questa comunità ci siamo sempre incontrati in occasione della seconda Messa di Natale, dedicata alla «stazione» di sant'Anastasia. Gli storici dicono che là, il Papa, doveva visitare il Governatore bizantino, che lì aveva la sede. La chiesa ci fa pensare anche a quella santa e così anche all'«Anastasis»: a Natale pensiamo anche alla Risurrezione. Non sapevo, e sono grato di esserne stato informato, che adesso la chiesa è sede dell'«Adorazione perpetua»; è quindi un punto focale della vita di fede a Roma. Questa proposta di creare nei cinque Settori della Diocesi di Roma, cinque luoghi di Adorazione perpetua, la pongo fiduciosamente nelle mani del Cardinale Vicario. Vorrei soltanto dire: grazie a Dio, perché dopo il Concilio, dopo un periodo in cui mancava un po' il senso dell'adorazione eucaristica, è rinata la gioia di questa adorazione dappertutto nella Chiesa, come abbiamo visto e sentito nel Sinodo sull'Eucaristia. Certo, con la Costituzione conciliare sulla Liturgia, è stata riscoperta soprattutto tutta la ricchezza dell'Eucaristia celebrata, dove si realizza il testamento del Signore: Egli si dà a noi e noi rispondiamo dandoci a Lui. Ma, adesso, abbiamo riscoperto che questo centro che ci ha donato il Signore nel poter celebrare il suo sacrificio e così entrare in comunione sacramentale, quasi corporale, con Lui perde la sua profondità e anche la sua ricchezza umana se manca l'Adorazione, come atto conseguente alla comunione ricevuta: l’adorazione è un entrare con la profondità del nostro cuore in comunione con il Signore che si fa presente corporalmente nell'Eucaristia. Nell'Ostensorio si dà sempre nelle nostre mani e ci invita ad unirci alla sua Presenza, al suo Corpo risorto.
continua..................


__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 18:58

Adesso, veniamo alla quarta domanda. Se ho capito bene, ma non ne sono sicuro, era: «come arrivare ad una fede viva, ad una fede realmente cattolica, ad una fede concreta, vivace, efficiente?». La fede, in ultima istanza, è un dono. Quindi la prima condizione è lasciarsi donare qualcosa, non essere autosufficienti, non fare tutto da noi, perché non lo possiamo, ma aprirci nella consapevolezza che il Signore dona realmente. Mi sembra che questo gesto di apertura sia anche il primo gesto della preghiera: essere aperto alla presenza del Signore e al suo dono. È questo anche il primo passo nel ricevere una cosa che noi non facciamo e che non possiamo avere, nell'intento di farla da noi stessi. Questo gesto di apertura, di preghiera — donami la fede, Signore! — deve essere realizzato con tutto il nostro essere. Noi dobbiamo entrare in questa disponibilità di accettare il dono e di lasciarci permeare dal dono nel nostro pensiero, nel nostro affetto, nella nostra volontà. Qui, mi sembra molto importante sottolineare un punto essenziale: nessuno crede solo da se stesso. Noi crediamo sempre in e con la Chiesa. Il credo è sempre un atto condiviso, un lasciarsi inserire in una comunione di cammino, di vita, di parola, di pensiero. Noi non "facciamo" la fede, nel senso che è anzitutto Dio che la dà. Ma, non la "facciamo" anche nel senso che essa non dev’essere inventata da noi. Dobbiamo lasciarci cadere, per così dire, nella comunione della fede, della Chiesa. Credere è un atto cattolico in sé. È partecipazione a questa grande certezza, che è presente nel soggetto vivente della Chiesa. Solo così possiamo anche capire la Sacra Scrittura nella diversità di una lettura che si sviluppa per mille anni. È una Scrittura, perché è elemento, espressione dell'unico soggetto — il Popolo di Dio — che nel suo pellegrinaggio è sempre lo stesso soggetto. Naturalmente, è un soggetto che non parla da sé, ma è un soggetto creato da Dio — l'espressione classica è «ispirato» —, un soggetto che riceve, poi traduce e comunica questa parola. Questa sinergia è molto importante. Sappiamo che il Corano, secondo la fede islamica, è parola verbalmente data da Dio, senza mediazione umana. Il Profeta non c'entra. Egli solo l'ha scritta e comunicata. È pura parola di Dio. Mentre per noi, Dio entra in comunione con noi, ci fa cooperare, crea questo soggetto e in questo soggetto cresce e si sviluppa la sua parola. Questa parte umana è essenziale, e ci dà anche la possibilità di vedere come le singole parole diventano realmente Parola di Dio solo nell'unità di tutta la Scrittura nel soggetto vivente del popolo di Dio. Quindi, il primo elemento è il dono di Dio; il secondo è la compartecipazione nella fede del popolo pellegrinante, la comunicazione nella Santa Chiesa, la quale, da parte sua, riceve il Verbo di Dio, che è il Corpo di Cristo, animato dalla Parola vivente, dal Logos divino. Dobbiamo approfondire, giorno dopo giorno, questa nostra comunione con la Santa Chiesa e così con la Parola di Dio. Non sono due cose opposte, così che io possa dire: sono più per la Chiesa o sono più per la Parola di Dio. Solo unitamente si è nella Chiesa, si fa parte della Chiesa, si diventa membri della Chiesa, si vive della Parola di Dio, che è la forza di vita della Chiesa. E chi vive della Parola di Dio può viverla solo perché è viva e vitale nella Chiesa vivente.

Il quinto intervento era su Pio XII. Grazie per questo intervento. Era il Papa della mia gioventù. Lo abbiamo venerato tutti. Come è stato detto giustamente, egli ha molto amato il popolo tedesco, lo ha difeso anche nella grande catastrofe dopo la guerra. E devo aggiungere che prima di essere Nunzio a Berlino era Nunzio a Monaco, perché inizialmente a Berlino non aveva ancora la Rappresentanza Pontificia. Era proprio anche vicino a noi. Mi sembra, questa, l'occasione per esprimere gratitudine a tutti i grandi Papi del secolo scorso. Si è aperto il secolo con il santo Pio X, poi Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. Mi sembra che questo sia un dono speciale in un secolo così difficile, con due guerre mondiali, con due ideologie distruttive: fascismo-nazismo e comunismo. Proprio in questo secolo, che si è opposto alla fede della Chiesa, il Signore ci ha dato una catena di grandi Papi, e così un'eredità spirituale che ha confermato, direi, storicamente, la verità del Primato del Successore di Pietro.

Il successivo intervento dedicato alla famiglia, era del parroco di santa Silvia. Qui posso soltanto essere totalmente d'accordo. Anche nelle visite « ad limina» parlo sempre con i Vescovi della famiglia, minacciata, in diversi modi, nel mondo. È minacciata in Africa, perché si trova difficilmente il passaggio dal « mariage coutumier» al « mariage religieux », perché si teme la definitività.

Mentre in Occidente la paura del bambino è motivata dal timore di perdere qualcosa della vita, lì è il contrario: finché non consta che la moglie avrà anche bambini, non si può osare il matrimonio definitivo. Perciò il numero dei matrimoni religiosi rimane relativamente piccolo e molti anche "buoni" cristiani, anche con un'ottima volontà di essere cristiani, non compiono quest'ultimo passo. Il matrimonio è minacciato anche in America Latina, per altri motivi, ed è minacciato fortemente, come sappiamo, in Occidente. Tanto più dobbiamo, noi come Chiesa, aiutare le famiglie che sono la cellula fondamentale di ogni società sana. Solo così nella famiglia può crearsi una comunione delle generazioni, nella quale la memoria del passato vive nel presente e si apre al futuro. Così, realmente, continua e si sviluppa la vita e va avanti. Un vero progresso non è possibile senza questa continuità di vita e, di nuovo, non è possibile senza l'elemento religioso. Senza la fiducia in Dio, senza la fiducia in Cristo che ci dona anche la capacità della fede e della vita, la famiglia non può sopravvivere. Lo vediamo oggi. Solo la fede in Cristo e solo la compartecipazione della fede della Chiesa salva la famiglia e, d'altra parte, solo se viene salvata la famiglia anche la Chiesa può vivere. Io adesso non ho la ricetta di come fare questo. Ma, mi sembra, che dobbiamo sempre tenerlo presente. Perciò dobbiamo fare tutto ciò che favorisce la famiglia: circoli familiari, catechesi familiari, insegnare la preghiera in famiglia. Questo mi sembra molto importante: dove si prega insieme, si rende presente il Signore, si rende presente questa forza che può anche rompere la «sclerocardia», quella durezza del cuore che, secondo il Signore, è il vero motivo del divorzio. Nient'altro, solo la presenza del Signore ci aiuta a vivere realmente quanto era dall'inizio voluto dal Creatore e rinnovato dal Redentore. Insegnare la preghiera familiare e così invitare alla preghiera con la Chiesa. E trovare poi tutti gli altri modi.

Rispondo ora al vice Parroco di san Girolamo — vedo che è anche molto giovane — che ci parla di quanto fanno le donne nella Chiesa, anche proprio per i sacerdoti. Posso solo sottolineare che mi fa sempre grande impressione, nel primo Canone , quello Romano, la speciale preghiera per i sacerdoti: « Nobis quoque peccatoribus ». Ecco, in questa umiltà realistica dei sacerdoti noi, proprio come peccatori, preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere suoi servi. In questa preghiera per il sacerdote, proprio solo in questa, appaiono sette donne che circondano il sacerdote. Esse si mostrano proprio come le donne credenti che ci aiutano nel nostro cammino. Ognuno ha certamente questa esperienza. E così la Chiesa ha un grande debito di ringraziamento per le donne. E giustamente Lei ha sottolineato che, a livello carismatico, le donne fanno tanto, oserei dire, per il governo della Chiesa, cominciando dalle suore, dalle sorelle dei grandi Padri della Chiesa, come sant'Ambrogio, fino alle grandi donne del medioevo — santa Ildegarda, santa Caterina da Siena, poi santa Teresa d'Avila — e fino a Madre Teresa. Direi che questo settore carismatico certamente si distingue dal settore ministeriale nel senso stretto della parola, ma è una vera e profonda partecipazione al governo della Chiesa. Come si potrebbe immaginare il governo della Chiesa senza questo contributo, che talvolta diventa molto visibile, come quando santa Ildegarda critica i Vescovi, o come quando santa Brigida e santa Caterina da Siena ammoniscono e ottengono il ritorno dei Papi a Roma? Sempre è un fattore determinante, senza il quale la Chiesa non può vivere. Tuttavia, giustamente Lei dice: vogliamo vedere anche più visibilmente in modo ministeriale le donne nel governo della Chiesa. Diciamo che la questione è questa. Il ministero sacerdotale dal Signore è, come sappiamo, riservato agli uomini, in quanto il ministero sacerdotale è governo nel senso profondo che, in definitiva, è il Sacramento che governa la Chiesa. Questo è il punto decisivo. Non è l'uomo che fa qualcosa, ma il sacerdote fedele alla sua missione governa, nel senso che è il Sacramento, cioè mediante il Sacramento è Cristo stesso che governa, sia tramite l'Eucaristia che negli altri Sacramenti, e così sempre Cristo presiede. Tuttavia, è giusto chiedersi se anche nel servizio ministeriale — nonostante il fatto che qui Sacramento e carisma siano il binario unico nel quale si realizza la Chiesa — non si possa offrire più spazio, più posizioni di responsabilità alle donne.
Non ho del tutto capito le parole dell'ottavo intervento. Sostanzialmente ho capito che oggi l'umanità camminando da Gerusalemme a Gerico incontra sul cammino i ladri. Il Buon Samaritano l'aiuta con la misericordia del Signore. Possiamo solo sottolineare che, alla fine, è l'uomo che è caduto e cade sempre di nuovo tra i ladri, ed è Cristo che ci guarisce. Noi dobbiamo e possiamo aiutarlo, sia nel servizio dell'amore sia nel servizio della fede che è anche un ministero di amore.
Poi i Martiri dell'Uganda. Grazie per questo contributo. Ci fa pensare al Continente africano, che è la grande speranza della Chiesa. Ho ricevuto negli ultimi mesi gran parte dei Vescovi africani in visita « ad limina». E per me è stato molto edificante, ed anche consolante, vedere Vescovi di alto livello teologico e culturale, Vescovi zelanti, che realmente sono animati dalla gioia della fede. Sappiamo che è in buone mani questa Chiesa, ma che tuttavia soffre perché le Nazioni ancora non si sono formate. In Europa era proprio tramite il Cristianesimo che, oltre le etnie che esistevano, si sono formati i grandi corpi delle Nazioni, le grandi lingue, e così comunioni di culture e spazi di pace, benché poi questi grandi spazi di pace opposti tra di loro abbiano creato anche una nuova specie di guerra che prima non esisteva. Tuttavia, in Africa, abbiamo ancora in molte parti questa situazione, dove ci sono soprattutto le etnie dominanti. Il potere coloniale poi ha imposto frontiere nelle quali adesso devono formarsi Nazioni. Ma ancora c'è questa difficoltà di ritrovarsi in un grande insieme e di trovare, oltre le etnie, l'unità del governo democratico e anche la possibilità di opporsi agli abusi coloniali che continuano. Ancora, sempre da parte delle grandi potenze, l'Africa continua ad essere oggetto di abuso e molti conflitti non avrebbero assunto questa forma se non ci fossero dietro gli interessi delle grandi potenze. Così ho visto anche come la Chiesa, in tutta questa confusione, con la sua unità cattolica, è il grande fattore che unisce nella dispersione. In molte situazioni, adesso soprattutto dopo la grande guerra nella Repubblica Democratica del Congo, la Chiesa è rimasta l'unica realtà che funziona e che fa continuare la vita, dà l'assistenza necessaria, garantisce la convivenza e aiuta a trovare la possibilità di realizzare un grande insieme. In tal senso, in queste situazioni, la Chiesa svolge anche un servizio sostitutivo del livello politico, dando la possibilità di vivere insieme, e di ricostruire, dopo le distruzioni, la comunione, così come di ricostruire, dopo lo scoppio dell'odio, lo spirito di riconciliazione. Molti mi hanno detto che proprio in queste situazioni il Sacramento della Penitenza è di grande importanza come forza di riconciliazione e deve essere anche amministrato in questo senso. Volevo, con una parola, dire che l'Africa è un Continente di grande speranza, di grande fede, di realtà ecclesiali commoventi, di sacerdoti e di Vescovi zelanti. Ma è sempre anche un Continente che ha bisogno — dopo le distruzioni che vi abbiamo portato dall'Europa — del nostro fraterno aiuto. Ed esso non può non nascere dalla fede, che crea anche la carità universale oltre le divisioni umane. Questa è la nostra grande responsabilità in questo tempo. L'Europa ha importato le sue ideologie, i suoi interessi, ma ha anche importato con la missione il fattore della guarigione. Ancor più, oggi, abbiamo la responsabilità di avere anche noi una fede zelante, che si comunica, che vuole aiutare gli altri, che è ben consapevole che dare la fede non è introdurre una forza di alienazione ma è dare il vero dono del quale ha bisogno l'uomo proprio per essere anche creatura dell'amore.

Ultimo punto era quello toccato dal vice Parroco carmelitano di santa Teresa d'Avila, che ci ha rivelato giustamente le sue preoccupazioni. Sarebbe certamente sbagliato un semplice e superficiale ottimismo, che non si accorge delle grandi minacce nei confronti della gioventù di oggi, i bambini, le famiglie. Dobbiamo percepire con grande realismo queste minacce, che nascono dove Dio è assente. Dobbiamo sentire sempre più la nostra responsabilità, affinché Dio sia presente, e così la speranza e la capacità di andare con fiducia verso il futuro.

continua...............



[Modificato da Cattolico_Romano 02/11/2008 18:59]
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 19:00

 
Riprendo ora la parola, cominciando con la Pontificia Accademia. Quanto Lei ha detto sul problema degli adolescenti, sulla loro solitudine e sull'incomprensione da parte degli adulti, lo tocchiamo con mano, oggi. È interessante che questa gioventù, che cerca nelle discoteche di essere vicinissima, soffra in realtà di una grande solitudine, e naturalmente anche di incomprensione. Mi sembra questo, in un certo senso, espressione del fatto che i padri, come è stato detto, in gran parte sono assenti dalla formazione della famiglia. Ma anche le madri devono lavorare fuori casa. La comunione tra loro è molto fragile. Ognuno vive il suo mondo: sono isole del pensiero, del sentimento, che non si uniscono. Il grande problema proprio di questo tempo — nel quale ognuno, volendo avere la vita per sé, la perde perché si isola e isola l'altro da sé — è di ritrovare la profonda comunione che alla fine può venire soltanto da un fondo comune a tutte le anime, dalla presenza divina che ci unisce tutti.

Mi sembra che la condizione sia di superare la solitudine e anche di superare l'incomprensione, perché anche quest'ultima è il risultato del fatto che il pensiero oggi è frammentato. Ognuno cerca il suo modo di pensare, di vivere, e non c'è una comunicazione in una profonda visione della vita. La gioventù si sente esposta a nuovi orizzonti non partecipati dalla generazione precedente perché manca la continuità della visione del mondo, preso in una sequela sempre più rapida di nuove invenzioni. In dieci anni si sono realizzati cambiamenti che in passato neppure in cento anni si erano verificati. Così si separano realmente mondi. Penso alla mia gioventù e all'ingenuità, se così posso dire, nella quale abbiamo vissuto, in una società del tutto agraria in confronto con la società di oggi. Vediamo come il mondo cambia sempre più rapidamente, cosicché si frammenta anche con questi cambiamenti. Perciò, in un momento di rinnovamento e di cambiamento, l'elemento del permanente diventa più importante. Mi ricordo quando è stata discussa la Costituzione conciliare Gaudium et spes.

Da una parte, c'era il riconoscimento del nuovo, della novità, il «Sì» della Chiesa all'epoca nuova con le sue innovazioni, il «No» al romanticismo del passato, un «No» giusto e necessario. Ma poi i Padri — se ne trova la prova anche nel testo — hanno detto anche che nonostante questo, nonostante la necessaria disponibilità ad andare avanti, a lasciar cadere anche altre cose che ci erano care, c'è qualcosa che non cambia, perché è l'umano stesso, la creaturalità. L'uomo non è del tutto storico. L'assolutizzazione dello storicismo, nel senso che l'uomo sarebbe solo e sempre creatura frutto di un certo periodo, non è vera. C'è la creaturalità e proprio essa ci dà la possibilità anche di vivere nel cambiamento e di rimanere identici a noi stessi. Questa non è una risposta immediata a quello che dobbiamo fare, ma, mi sembra, che il primo passo, sia quello di avere la diagnosi. Perché questa solitudine in una società che d'altra parte appare come una società di massa? Perché questa incomprensione in una società nella quale tutti cercano di capirsi, dove la comunicazione è tutto e dove la trasparenza di tutto a tutti è la suprema legge? La risposta sta nel fatto che vediamo il cambiamento nel nostro proprio mondo e non viviamo sufficientemente quell'elemento che ci collega tutti, l'elemento creaturale, che diventa accessibile e diventa realtà in una certa storia: la storia di Cristo, che non sta contro la creaturalità ma restituisce quanto era voluto dal Creatore, come dice il Signore circa il matrimonio. Il cristianesimo, proprio sottolineando la storia e la religione come un dato storico, dato in una storia, a cominciare da Abramo, e quindi come una fede storica, avendo aperto proprio la porta alla modernità con il suo senso del progresso, dell'andare permanentemente avanti, è anche, nello stesso momento, una fede che si basa sul Creatore, che si rivela e si rende presente in una storia alla quale dà la sua continuità, quindi la comunicabilità tra le anime. Penso quindi, anche qui, che una fede vissuta in profondità e con tutta l'apertura verso l'oggi, ma anche con tutta l'apertura verso Dio, unisce le due cose: il rispetto della alterità e della novità, e la continuità del nostro essere, la comunicabilità tra le persone e tra i tempi.

image



L'altro punto era: come possiamo noi vivere la vita come dono? È una questione che poniamo soprattutto adesso, in Quaresima. Vogliamo rinnovare l'opzione per la vita che è, come ho detto, opzione non per possedere se stessi ma per donare se stessi. Mi sembra che possiamo farlo solo grazie ad un permanente colloquio col Signore e al colloquio tra di noi. Anche con la « correctio fraterna» è necessario maturare sempre più di fronte ad una sempre insufficiente capacità di vivere il dono di se stessi. Ma, mi sembra, che dobbiamo anche qui unire le due cose. Da una parte, dobbiamo accettare la nostra insufficienza con umiltà, accettare questo «Io» che non è mai perfetto ma si protende sempre verso il Signore per arrivare alla comunione col Signore e con tutti.
Questa umiltà di accettare anche i propri limiti è molto importante. Solo così, d'altra parte, possiamo anche crescere, maturare e pregare il Signore perché ci aiuti a non stancarci nel cammino, pur accettando con umiltà che mai saremo perfetti, accettando anche l'imperfezione, soprattutto dell'altro. Accettando la propria possiamo accettare più facilmente quella dell'altro, lasciandoci formare e riformare sempre di nuovo, dal Signore.

Ora gli ospedali. Grazie per il saluto che viene dagli ospedali. Non conoscevo la mentalità secondo la quale un sacerdote si trova a svolgere il suo ministero in ospedale perché ha compiuto qualcosa di male... Ho sempre pensato che è servizio primario del sacerdote quello di servire i malati, i sofferenti, perché il Signore è venuto soprattutto per stare con i malati. È venuto per condividere le nostre sofferenze e per guarirci. In occasione delle visite « ad limina» ai Vescovi africani dico sempre che le due colonne del nostro lavoro sono l'educazione — cioè la formazione dell'uomo, che implica tante dimensioni come l'educazione per imparare, la professionalità, l'educazione nell'intimità della persona — e la guarigione. Il servizio fondamentale, essenziale della Chiesa è dunque quello di guarire. E proprio nei Paesi africani si realizza tutto questo: la Chiesa offre la guarigione. Presenta le persone che aiutano i malati, aiutano a guarire nel corpo e nell'anima. Mi sembra, quindi, che dobbiamo vedere proprio nel Signore il nostro modello di sacerdote per guarire, per aiutare, per assistere, per accompagnare verso la guarigione. Ciò è fondamentale per l'impegno della Chiesa; è forma fondamentale dell'amore e quindi, è espressione fondamentale della fede. Di conseguenza anche nel sacerdozio è il punto centrale.

Poi, rispondo al Vice parroco dei santi Patroni d'Italia che ci ha parlato del dialogo con gli Ortodossi e del dialogo ecumenico in generale. Nella situazione mondiale di oggi, vediamo come il dialogo a tutti i livelli sia fondamentale. Ancor di più è importante che i cristiani non siano chiusi tra di loro ma aperti, e proprio nei rapporti con gli Ortodossi vedo come le relazioni personali siano fondamentali. In dottrina siamo in gran parte uniti su tutte le cose fondamentali, tuttavia in dottrina sembra molto difficile fare dei progressi. Ma avvicinarci nella comunione, nelle comune esperienza della vita della fede, è il modo per riconoscerci reciprocamente come figli di Dio e discepoli di Cristo. E questa è la mia esperienza da almeno quaranta, cinquant' anni quasi: questa esperienza del comune discepolato, che finalmente viviamo nella stessa fede, nella stessa successione apostolica, con gli stessi sacramenti e quindi anche con la grande tradizione di pregare; è bella questa diversità e molteplicità delle culture religiose, della culture di fede. Avere questa esperienza è fondamentale e mi sembra, forse, che la convinzione di alcuni, di una parte dei monaci dell'Athos contro l'ecumenismo, risulti anche dal fatto che manchi questa esperienza nella quale si vede e si tocca che anche l'altro appartiene allo stesso Cristo, appartiene alla stessa comunione con Cristo nell'Eucaristia. Quindi questo è di grande importanza: dobbiamo sopportare la separazione che esiste. San Paolo dice che gli scismi sono necessari per un certo tempo e il Signore sa perché: per provarci, per esercitarci, per farci maturare, per farci più umili. Ma nello stesso tempo siamo obbligati ad andare verso l'unità e già andare verso l'unità è una forma di unità.

Veniamo ora al Padre spirituale del Seminario. Il primo problema era la difficoltà della carità pastorale. La viviamo da una parte, ma dall'altra parte vorrei anche dire: coraggio. La Chiesa fa tanto grazie a Dio, in Africa ma anche a Roma e in Europa! Fa tanto e tanti le sono grati, sia nel settore della pastorale degli ammalati, sia nella pastorale dei poveri e degli abbandonati. Continuiamo con coraggio e cerchiamo di trovare insieme le strade migliori. L'altro punto era incentrato sul fatto che la formazione sacerdotale tra generazioni, anche vicine, sembra essere per molti un po' diversa, e questo complica il comune impegno per la trasmissione della fede. Ho notato questo quando ero Arcivescovo di Monaco. Quando noi siamo entrati in seminario, abbiamo avuto tutti una comune spiritualità cattolica, più o meno matura. Diciamo che il fondamento spirituale era comune. Adesso vengono da esperienze spirituali molto diverse. Ho constatato nel mio seminario che vivevano in diverse «isole» di spiritualità che comunicavano difficilmente. Tanto più ringraziamo il Signore perché ha dato tanti nuovi impulsi alla Chiesa e tante nuove forme anche di vita spirituale, di scoperta della ricchezza della fede. Bisogna soprattutto non trascurare la comune spiritualità cattolica, che si esprime nella Liturgia e nella grande Tradizione della fede. Questo mi sembra molto importante. Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere — come ho detto prima di Natale alla Curia Romana — l'ermeneutica della discontinuità, ma vivere l'ermeneutica del rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell'andare avanti in continuità. Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia. Prendo un esempio concreto che mi è venuto proprio oggi con la breve meditazione di questo giorno. La « Statio» di questo giorno, giovedì dopo il Mercoledì delle Ceneri, è san Giorgio. Corrispondenti a questo santo soldato, una volta vi erano due letture su due santi soldati. La prima parla del re Ezechia, che, malato, è condannato a morte e prega il Signore piangendo: dammi ancora un po' di vita! E il Signore è buono e gli concede ancora 17 anni di vita. Quindi una bella guarigione e un soldato che può riprendere di nuovo in mano la sua attività. La seconda è il Vangelo che narra dell'ufficiale di Cafarnao con il suo servo malato. Abbiamo così due motivi: quello della guarigione e quello della «milizia» di Cristo, della grande lotta. Adesso, nella Liturgia attuale, abbiamo due letture totalmente diverse. Abbiamo quella del Deuteronomio: «Scegli la vita», e il Vangelo: «Seguire Cristo e prendere la croce su di sé», che vuol dire non cercare la propria vita ma donare la vita, ed è una interpretazione di cosa vuol dire «scegli la vita». Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia. Ero proprio innamorato del cammino quaresimale della Chiesa, con queste «chiese stazionali» e le letture collegate a queste chiese: una geografia di fede che diventa una geografia spirituale del pellegrinaggio col Signore. Ed ero rimasto un po' male per il fatto che ci avessero tolto questo nesso tra la «stazione» e le letture. Oggi vedo che proprio queste letture sono molto belle ed esprimono il programma della Quaresima: scegliere la vita, cioè rinnovare il «Sì» del Battesimo, che è proprio scelta della vita. In questo senso, c'è un'intima continuità e mi sembra che dobbiamo impararlo da questo che è solo un piccolissimo esempio tra discontinuità e continuità. Dobbiamo accettare le novità ma anche amare la continuità e vedere il Concilio in questa ottica della continuità. Questo ci aiuterà anche nel mediare tra le generazioni nel loro modo di comunicare la fede.

Infine, il sacerdote del Vicariato di Roma, ha concluso con una parola della quale mi approprio perfettamente così che con essa possiamo anche concludere: divenire più semplici. Mi sembra questo un programma bellissimo. Cerchiamo di metterlo in pratica e così saremo più aperti al Signore e alla gente.

Grazie!

[© copyright - Libreria Editrice Vaticana
www.vatican.va]



__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
02/11/2008 19:00

Il discorso del Papa nella visita «ad limina» dei presuli di Hong Kong e di Macau

Anche per la Cina
Cristo è maestro, pastore e redentore


"Cristo è, anche per la Cina, un Maestro, un Pastore, un Redentore amoroso:  la Chiesa non può tacere questa buona notizia". Lo ha affermato Benedetto XVI durante l'udienza ai vescovi di Hong Kong e di Macau, ricevuti nella mattina di venerdì 27 giugno, in occasione della visita "ad limina Apostolorum". Rivolgendosi ai presuli delle due diocesi il Papa ha anche espresso l'auspicio che anche gli altri vescovi della Cina Continentale "possano venire a Roma in pellegrinaggio sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, in segno di comunione con il Successore di Pietro e con la Chiesa universale".

Cari Fratelli Vescovi!
Manda il tuo spirito e rinnova la faccia della terra (cfr Sal 104, 30). Con queste parole vi porgo un cordiale benvenuto. Ringrazio il Cardinale Zen per i sentimenti di filiale devozione, che ha manifestato a nome di tutti. Accogliete l'espressione del mio affetto e l'assicurazione delle mie preghiere per voi e per quanti sono affidati alla vostra sollecitudine pastorale. In questo momento mi sono presenti i sacerdoti, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli laici delle vostre due comunità diocesane. La visita ad limina Apostolorum è per voi occasione per rafforzare l'impegno a rendere Gesù sempre più visibile nella Chiesa e più conosciuto nella società mediante la testimonianza dell'amore e della verità del suo Vangelo.
Come ho scritto nella mia Lettera del 27 maggio 2007 alla Chiesa cattolica in Cina, l'invito che Gesù rivolse a Pietro, al fratello Andrea ed ai primi discepoli:  "Prendi il largo e calate le reti per la pesca" (Lc 5, 4) risuona oggi per noi e ci invita a fare memoria grata del passato, a vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro:  "Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre!" (Eb 13, 8). Anche le vostre due Chiese particolari sono chiamate ad essere testimoni di Cristo, a guardare in avanti con speranza e a misurarsi - nell'annuncio del Vangelo - con le nuove sfide che le popolazioni di Hong Kong e di Macao devono affrontare (cfr n. 3).
Il Signore ha conferito a ogni uomo e a ogni donna il diritto di udire l'annuncio che Gesù Cristo "mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2, 20). A questo diritto corrisponde un dovere di evangelizzare:  "Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me:  guai a me se non predicassi il Vangelo!" (1 Cor 9, 16; cfr Rm 10, 14). Nella Chiesa ogni attività ha una essenziale dimensione evangelizzatrice e non deve mai essere separata dall'impegno per aiutare tutti a incontrare Cristo nella fede, che è il primario obiettivo dell'evangelizzazione:  "Il fatto sociale e il Vangelo sono semplicemente inscindibili tra loro. Dove portiamo agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti, là portiamo troppo poco" (Benedetto XVI, Omelia durante la Santa Messa nella spianata della "Neue Messe" a München [10 settembre 2006]:  AAS 98 [2006], 710).
Oggi, la missione della Chiesa si svolge sullo sfondo della globalizzazione. Di recente ho osservato che le forze della globalizzazione vedono l'umanità sospesa fra due poli. Da una parte c'è la moltitudine di crescenti vincoli sociali e culturali che in generale promuovono un senso di solidarietà globale e di responsabilità condivisa per il bene dell'umanità. Dall'altra, appaiono segni inquietanti di una frammentazione e di un certo individualismo in cui domina il secolarismo, che spinge il trascendente e il senso del sacro ai margini ed eclissa la fonte stessa di armonia e unità nell'universo. Di fatto, gli aspetti negativi di questo fenomeno culturale evidenziano l'importanza di una solida formazione ed esortano a uno sforzo concertato per sostenere l'anima spirituale e morale delle vostre popolazioni.
Sono consapevole poi che anche nelle vostre due Diocesi, come nel resto della Chiesa, emerge la necessità di un'adeguata formazione permanente del clero. Di qui nasce l'invito, rivolto a voi Vescovi come responsabili delle comunità ecclesiali, a pensare specialmente al giovane clero che è sempre più sottoposto a nuove sfide pastorali, connesse con le esigenze del compito di evangelizzare una società così complessa com'è quella attuale. La formazione permanente dei sacerdoti "è un'esigenza intrinseca al dono e al ministero sacramentale ricevuto e si rivela necessaria in ogni tempo. Oggi però risulta essere particolarmente urgente, non solo per il rapido mutarsi delle condizioni sociali e culturali degli uomini e dei popoli entro cui si svolge il ministero presbiterale, ma anche per quella "nuova evangelizzazione" che costituisce il compito essenziale e indilazionabile della Chiesa alla fine del secondo millennio" (Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale Pastores dabo vobis [25 marzo 1992], n. 70:  AAS 84 [1992], 782). La vostra sollecitudine pastorale dovrà avere di mira, in una maniera speciale, anche tutte le persone consacrate, uomini e donne, che sono chiamate a rendere visibili nella Chiesa e nel mondo i tratti caratteristici di Gesù, vergine, povero e obbediente.
Cari Fratelli, ben sapete che le scuole cattoliche apportano un contributo notevole alla formazione intellettuale, spirituale e morale, delle nuove generazioni:  è per questi aspetti cruciali della crescita della persona che i genitori, sia cattolici sia di altre tradizioni religiose, ricorrono alle scuole cattoliche. A questo proposito, desidero rivolgermi a tutti coloro, uomini e donne, che prestano un generoso servizio nelle scuole cattoliche delle vostre due Diocesi:  essi sono chiamati a essere "testimoni di Cristo, epifania dell'amore di Dio nel mondo" e a possedere "il coraggio della testimonianza e la pazienza del dialogo" servendo "la dignità umana, l'armonia del creato, l'esistenza dei popoli e la pace" (Le persone consacrate e la loro missione nelle scuole, n. 1-2). È, quindi, della massima importanza rimanere vicini agli studenti e alle loro famiglie, curare la formazione dei giovani alla luce degli insegnamenti del Vangelo e seguire con sollecitudine le necessità spirituali di tutti nella comunità scolastica. Le scuole cattoliche delle vostre due Diocesi hanno contribuito in maniera rilevante allo sviluppo sociale e alla crescita culturale delle vostre popolazioni; oggi questi centri educativi incontrano nuove difficoltà:  vi sono vicino e vi incoraggio ad adoperarvi affinché questo prezioso servizio non venga meno.
Nella vostra missione di Pastori traete conforto dal Paraclito, che difende, consiglia e protegge (cfr Gv 14, 16)! Incoraggiate i fedeli ad accogliere tutto ciò che lo Spirito genera! In varie occasioni ho ricordato che i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono il "segno luminoso della bellezza di Cristo, e della Chiesa, sua Sposa" (cfr Messaggio ai partecipanti al Congresso del 22 maggio 2006). Rivolgendomi "ai cari amici dei movimenti", li esortavo a fare di essi sempre più "scuole di comunione, compagnie in cammino in cui si impara a vivere nella verità e nell'amore che Cristo ci ha rivelato e comunicato per mezzo della testimonianza degli apostoli, in seno alla grande famiglia dei suoi discepoli" (ibid.). vi esorto ad andare incontro ai movimenti con molto amore, poiché essi sono una delle novità più importanti suscitate dallo Spirito Santo nella Chiesa per l'attuazione del Concilio Vaticano II (cfr Discorso ai Vescovi partecipanti ad un seminario di studi, promosso dal Pontificio Consiglio per i Laici [17 maggio 2008]:  L'Osservatore Romano, 18 maggio 2008, pag. 8). Prego al tempo stesso il Signore perché anche i movimenti pongano ogni impegno per armonizzare le loro attività con i programmi pastorali e spirituali delle Diocesi.
vi ringrazio personalmente per l'affetto e per la devozione che avete manifestato alla Santa Sede in molte e diverse maniere. Mi congratulo con voi per le molteplici realizzazioni delle vostre così efficienti comunità diocesane e vi esorto ad un sempre maggiore impegno nel ricercare i mezzi più adatti per rendere il messaggio cristiano di amore più comprensibile nel mondo nel quale vivete:  in tal modo voi contribuirete effettivamente a dimostrare a tutti i vostri fratelli e sorelle la perenne giovinezza e l'inesauribile capacità rinnovatrice del Vangelo di Cristo, testimoniando che si può essere autentici cinesi e autentici cattolici.
Incoraggio poi le vostre Diocesi a continuare a dare il loro contributo alla Chiesa nella Cina Continentale, sia nel mettere a disposizione il personale per la formazione sia nel sostenere iniziative benefiche di promozione umana e di assistenza. A questo riguardo come non ricordare il prezioso servizio, reso con generosità e con competenza dalla Caritas delle vostre due Diocesi! Non dimenticate, però, che Cristo è, anche per la Cina, un Maestro, un Pastore, un Redentore amoroso:  la Chiesa non può tacere questa buona notizia.
Mi auguro, e chiedo al Signore, che arrivi presto il giorno in cui anche i vostri Confratelli della Cina Continentale possano venire a Roma in pellegrinaggio sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, in segno di comunione con il Successore di Pietro e con la Chiesa universale. Colgo volentieri l'occasione per inviare alla Comunità cattolica della Cina e a tutto il popolo di quel vasto Paese l'assicurazione delle mie preghiere e del mio affetto.



(©L'Osservatore Romano - 28 giugno 2008)

__________________________________________________

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 00:01. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com