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Udienze del Mercoledì Catechesi del Papa Anno 2008

Ultimo Aggiornamento: 04/12/2008 11:27
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Dopo la pausa natalizia per la quale il Papa ha dedicato le due udienze del mercoledì, ritorniamo con oggi ai Padri della Chiesa.....

All'udienza generale il Papa inizia a parlare del più grande Padre della Chiesa latina

Sotto il segno di Agostino


Una serie di catechesi sotto il segno di Agostino. L'ha inaugurata Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì mattina, 9 gennaio. Nell'Aula Paolo VI gremita di fedeli il Papa ha avviato un ciclo di riflessioni dedicate al più grande Padre della Chiesa latina, il santo vescovo di Ippona, definendolo "uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile... conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché ha lasciato un'impronta profondissima nella vita culturale dell'Occidente e di tutto il mondo".
Cari fratelli e sorelle!
Dopo le grandi festività natalizie, vorrei tornare alle meditazioni sui Padri della Chiesa e parlare oggi del più grande Padre della Chiesa latina, sant'Agostino: uomo di passione e di fede, di intelligenza altissima e di premura pastorale instancabile, questo grande santo e dottore della Chiesa è spesso conosciuto, almeno di fama, anche da chi ignora il cristianesimo o non ha consuetudine con esso, perché ha lasciato un'impronta profondissima nella vita culturale dell'Occidente e di tutto il mondo. Per la sua singolare rilevanza, sant'Agostino ha avuto un influsso larghissimo, e si potrebbe affermare, da una parte, che tutte le strade della letteratura latina cristiana portano a Ippona (oggi Annaba, sulla costa algerina), il luogo dove era Vescovo e, dall'altra, che da questa città dell'Africa romana, di cui Agostino fu Vescovo dal 395 fino alla morte nel 430, si diramano molte altre strade del cristianesimo successivo e della stessa cultura occidentale.
Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande, che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l'intrinseca ricchezza, inventando idee e forme di cui si sarebbero nutriti i posteri, come sottolineò anche Paolo VI: "Si può dire che tutto il pensiero dell'antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli successivi" (AAS, 62, 1970, p. 426). Agostino è inoltre il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere.
Il suo biografo Possidio dice: sembrava impossibile che un uomo potesse scrivere tante cose nella propria vita. Di queste diverse opere parleremo in un prossimo incontro. Oggi la nostra attenzione sarà riservata alla sua vita, che si ricostruisce bene dagli scritti, e in particolare dalle Confessiones, la straordinaria autobiografia spirituale, scritta a lode di Dio, che è la sua opera più famosa. E giustamente, perché sono proprio le Confessiones agostiniane, con la loro attenzione all'interiorità e alla psicologia, a costituire un modello unico nella letteratura occidentale, e non solo occidentale, anche non religiosa, fino alla modernità. Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell'io, al mistero di Dio che si nasconde nell'io, è una cosa straordinaria senza precedenti e rimane per sempre, per così dire, un "vertice" spirituale.
Ma, per venire alla vita, Agostino nacque a Tagaste - nella provincia della Numidia, nell'Africa romana - il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell'accoglienza nel catecumenato. Ed è rimasto sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo; egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani.
Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile.
Il ragazzo, di vivissima intelligenza, ricevette una buona educazione, anche se non fu sempre uno studente esemplare. Egli tuttavia studiò bene la grammatica, prima nella sua città natale, poi a Madaura, e dal 370 retorica a Cartagine, capitale dell'Africa romana: divenne un perfetto dominatore della lingua latina, non arrivò però a maneggiare con altrettanto dominio il greco e non imparò il punico, parlato dai suoi conterranei. Proprio a Cartagine Agostino lesse per la prima volta l'Hortensius, uno scritto di Cicerone poi andato perduto che si colloca all'inizio del suo cammino verso la conversione. Il testo ciceroniano, infatti, svegliò in lui l'amore per la sapienza, come scriverà, ormai Vescovo, nelle Confessiones: "Quel libro cambiò davvero il mio modo di sentire", tanto che "all'improvviso perse valore ogni speranza vana e desideravo con un incredibile ardore del cuore l'immortalità della sapienza" (III, 4, 7).
Ma poiché era convinto che senza Gesù la verità non può dirsi effettivamente trovata, e perché in questo libro appassionante quel nome gli mancava, subito dopo averlo letto cominciò a leggere la Scrittura, la Bibbia. Ma ne rimase deluso. Non solo perché lo stile latino della traduzione della Sacra Scrittura era insufficiente, ma anche perché lo stesso contenuto gli apparve non soddisfacente. Nelle narrazioni della Scrittura su guerre e altre vicende umane non trovava l'altezza della filosofia, lo splendore di ricerca della verità che ad essa è proprio. Tuttavia non voleva vivere senza Dio e così cercava una religione corrispondente al suo desiderio di verità e anche al suo desiderio di avvicinarsi a Gesù.
Cadde così nella rete dei manichei, che si presentavano come cristiani e promettevano una religione totalmente razionale. Affermavano che il mondo è diviso in due principi: il bene e il male. E così si spiegherebbe tutta la complessità della storia umana. Anche la morale dualistica piaceva a sant'Agostino, perché comportava una morale molto alta per gli eletti: e per chi come lui vi aderiva era possibile una vita molto più adeguata alla situazione del tempo, specie per un uomo giovane. Si fece pertanto manicheo, convinto in quel momento di aver trovato la sintesi tra razionalità, ricerca della verità e amore di Gesù Cristo. Ed ebbe anche un vantaggio concreto per la sua vita: l'adesione ai manichei infatti apriva facili prospettive di carriera.
Aderire a quella religione che contava tante personalità influenti gli permetteva di continuare la relazione intrecciata con una donna e di andare avanti nella sua carriera. Da questa donna ebbe un figlio, Adeodato, a lui carissimo, molto intelligente, che sarà poi presente nella preparazione al battesimo presso il lago di Como, partecipando a quei "Dialoghi" che sant'Agostino ci ha trasmesso. Il ragazzo, purtroppo, morì prematuramente.
Insegnante di grammatica a circa vent'anni nella sua città natale, tornò presto a Cartagine, dove divenne un brillante e celebrato maestro di retorica. Con il tempo, tuttavia, Agostino iniziò ad allontanarsi dalla fede dei manichei, che lo delusero proprio dal punto di vista intellettuale in quanto incapaci di risolvere i suoi dubbi, e si trasferì a Roma, e poi a Milano, dove allora risiedeva la corte imperiale e dove aveva ottenuto un posto di prestigio grazie all'interessamento e alle raccomandazioni del prefetto di Roma, il pagano Simmaco, ostile al Vescovo di Milano sant'Ambrogio.
A Milano Agostino prese l'abitudine di ascoltare - inizialmente allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico - le bellissime prediche del Vescovo Ambrogio, che era stato rappresentante dell'imperatore per l'Italia settentrionale, e dalla parola del grande presule milanese il retore africano rimase affascinato; e non soltanto dalla sua retorica, soprattutto il contenuto toccò sempre più il suo cuore. Il grande problema dell'Antico Testamento, della mancanza di bellezza retorica, di altezza filosofica si risolse, nelle prediche di sant'Ambrogio, grazie all'interpretazione tipologica dell'Antico Testamento: Agostino capì che tutto l'Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Così trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità anche filosofica dell'Antico Testamento e capì tutta l'unità del mistero di Cristo nella storia e anche la sintesi tra filosofia, razionalità e fede nel Logos, in Cristo Verbo eterno che si è fatto carne.
In breve tempo Agostino si rese conto che la lettura allegorica della Scrittura e la filosofia neoplatonica praticate dal Vescovo di Milano gli permettevano di risolvere le difficoltà intellettuali che, quando era più giovane, nel suo primo avvicinamento ai testi biblici gli erano sembrate insuperabili.
Alla lettura degli scritti dei filosofi Agostino fece così seguire quella rinnovata della Scrittura e soprattutto delle Lettere paoline. La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, del quale parleremo ancora in un'altra catechesi, e l'africano si trasferì nella campagna a nord di Milano presso il lago di Como - con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici - per prepararsi al battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l'idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri. A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo.
Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l'organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve l'antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua diocesi - con notevoli risvolti anche civili - negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell'Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia.
E a Dio si affidò Agostino ogni giorno, fino all'estremo della sua vita: colpito da febbre, mentre da quasi tre mesi la sua Ippona era assediata dai vandali invasori, il Vescovo - racconta l'amico Possidio nella Vita Augustini - chiese di trascrivere a grandi caratteri i salmi penitenziali "e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua malattia li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime" (31, 2). Così trascorsero gli ultimi giorni della vita di Agostino, che morì il 28 agosto 430, quando ancora non aveva compiuto 76 anni. Alle sue opere, al suo messaggio e alla sua vicenda interiore dedicheremo i prossimi incontri.
(©L'Osservatore Romano - 10 gennaio 2008)

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UDIENZA MERCOLEDI' 16.1.2008




CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Cari fratelli e sorelle!

Oggi, come mercoledì scorso, vorrei parlare del grande Vescovo di Ippona, sant’Agostino. Quattro anni prima di morire, egli volle nominare il successore. Per questo, il 26 settembre 426, radunò il popolo nella Basilica della Pace, ad Ippona, per presentare ai fedeli colui che aveva designato per tale compito. Disse: "In questa vita siamo tutti mortali, ma l’ultimo giorno di questa vita è per ogni individuo sempre incerto.

Tuttavia nell’infanzia si spera di giungere all’adolescenza; nell’adolescenza alla giovinezza; nella giovinezza all’età adulta; nell’età adulta all’età matura; nell’età matura alla vecchiaia. Non si è sicuri di giungervi, ma si spera. La vecchiaia, al contrario, non ha davanti a sé alcun altro periodo da poter sperare; la sua stessa durata è incerta… Io per volontà di Dio giunsi in questa città nel vigore della mia vita; ma ora la mia giovinezza è passata e io sono ormai vecchio" (Ep 213,1). A questo punto Agostino fece il nome del successore designato, il prete Eraclio. L’assemblea scoppiò in un applauso di approvazione ripetendo per ventitré volte: "Sia ringraziato Dio! Sia lodato Cristo!". Con altre acclamazioni i fedeli approvarono, inoltre, quanto Agostino disse poi circa i propositi per il suo futuro: voleva dedicare gli anni che gli restavano a un più intenso studio delle Sacre Scritture (cfr Ep 213, 6).

Di fatto, quelli che seguirono furono quattro anni di straordinaria attività intellettuale: portò a termine opere importanti, ne intraprese altre non meno impegnative, intrattenne pubblici dibattiti con gli eretici – cercava sempre il dialogo – intervenne per promuovere la pace nelle province africane insidiate dalle tribù barbare del sud. In questo senso scrisse al conte Dario, venuto in Africa per comporre il dissidio tra il conte Bonifacio e la corte imperiale, di cui stavano profittando le tribù dei Mauri per le loro scorrerie: "Titolo più grande di gloria – affermava nella lettera - è proprio quello di uccidere la guerra con la parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non già con la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se sono buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di spargere il sangue. Tu, al contrario, sei stato inviato proprio per impedire che si cerchi di spargere il sangue di alcuno" (Ep 229, 2).

Purtroppo, la speranza di una pacificazione dei territori africani andò delusa: nel maggio del 429 i Vandali, invitati in Africa per ripicca dallo stesso Bonifacio, passarono lo stretto di Gibilterra e si riversarono nella Mauritania. L’invasione raggiunse rapidamente le altre ricche province africane. Nel maggio o nel giugno del 430 "i distruttori dell’impero romano", come Possidio qualifica quei barbari (Vita, 30,1), erano attorno ad Ippona, che strinsero d’assedio.

In città aveva cercato rifugio anche Bonifacio, il quale, riconciliatosi troppo tardi con la corte, tentava ora invano di sbarrare il passo agli invasori. Il biografo Possidio descrive il dolore di Agostino: "Le lacrime erano, più del consueto, il suo pane notte e giorno e, giunto ormai all’estremo della sua vita, più degli altri trascinava nell’amarezza e nel lutto la sua vecchiaia" (Vita, 28,6). E spiega: "Vedeva infatti, quell’uomo di Dio, gli eccidi e le distruzioni delle città; abbattute le case nelle campagne e gli abitanti uccisi dai nemici o messi in fuga e sbandati; le chiese private dei sacerdoti e dei ministri, le vergini sacre e i religiosi dispersi da ogni parte; tra essi, altri venuti meno sotto le torture, altri uccisi di spada, altri fatti prigionieri, perduta l’integrità dell’anima e del corpo e anche la fede, ridotti in dolorosa e lunga schiavitù dai nemici" (ibid., 28,8).

Anche se vecchio e stanco, Agostino restò tuttavia sulla breccia, confortando se stesso e gli altri con la preghiera e con la meditazione sui misteriosi disegni della Provvidenza. Parlava, al riguardo, della "vecchiaia del mondo" – e davvero era vecchio questo mondo romano –, parlava di questa vecchiaia come già aveva fatto anni prima per consolare i profughi provenienti dall’Italia, quando nel 410 i Goti di Alarico avevano invaso la città di Roma. Nella vecchiaia, diceva, i malanni abbondano: tosse, catarro, cisposità, ansietà, sfinimento. Ma se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane.

E allora l’invito: "Non rifiutare di ringiovanire unito a Cristo, anche nel mondo vecchio. Egli ti dice: Non temere, la tua gioventù si rinnoverà come quella dell’aquila" (cfr Serm. 81,8). Il cristiano quindi non deve abbattersi anche in situazioni difficili, ma adoperarsi per aiutare chi è nel bisogno. È quanto il grande Dottore suggerisce rispondendo al Vescovo di Tiabe, Onorato, che gli aveva chiesto se, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche, un Vescovo o un prete o un qualsiasi uomo di Chiesa potesse fuggire per salvare la vita: "Quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno. In questo caso si trasferiscano pure tutti in luoghi sicuri; ma se alcuni hanno bisogno di rimanere, non siano abbandonati da quelli che hanno il dovere di assisterli col sacro ministero, di modo che o si salvino insieme o insieme sopportino le calamità che il Padre di famiglia vorrà che soffrano" (Ep 228, 2).

E concludeva: "Questa è la prova suprema della carità" (ibid., 3). Come non riconoscere, in queste parole, l’eroico messaggio che tanti sacerdoti, nel corso dei secoli, hanno accolto e fatto proprio?

Intanto la città di Ippona resisteva. La casa-monastero di Agostino aveva aperto le sue porte ad accogliere i colleghi nell’episcopato che chiedevano ospitalità. Tra questi vi era anche Possidio, già suo discepolo, il quale poté così lasciarci la testimonianza diretta di quegli ultimi, drammatici giorni. "Nel terzo mese di quell’assedio – egli racconta – si pose a letto con la febbre: era l’ultima sua malattia" (Vita, 29,3). Il santo Vegliardo profittò di quel tempo finalmente libero per dedicarsi con più intensità alla preghiera. Era solito affermare che nessuno, Vescovo, religioso o laico, per quanto irreprensibile possa sembrare la sua condotta, può affrontare la morte senza un’adeguata penitenza. Per questo egli continuamente ripeteva tra le lacrime i salmi penitenziali, che tante volte aveva recitato col popolo (cfr ibid., 31,2).

Più il male si aggravava, più il Vescovo morente sentiva il bisogno di solitudine e di preghiera: "Per non essere disturbato da nessuno nel suo raccoglimento, circa dieci giorni prima d’uscire dal corpo pregò noi presenti di non lasciar entrare nessuno nella sua camera fuori delle ore in cui i medici venivano a visitarlo o quando gli si portavano i pasti. Il suo volere fu adempiuto esattamente e in tutto quel tempo egli attendeva all’orazione" (ibid.,31,3).Cessò di vivere il 28 agosto del 430: il suo grande cuore finalmente si era placato in Dio.

"Per la deposizione del suo corpo – informa Possidio – fu offerto a Dio il sacrificio, al quale noi assistemmo, e poi fu sepolto" (Vita, 31,5). Il suo corpo, in data incerta, fu trasferito in Sardegna e da qui, verso il 725, a Pavia, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’oro, dove anche oggi riposa. Il suo primo biografo ha su di lui questo giudizio conclusivo: "Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti libri e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo" (Possidio, Vita, 31, 8). È un giudizio a cui possiamo associarci: nei suoi scritti anche noi lo "ritroviamo vivo".

Quando leggo gli scritti di sant’Agostino non ho l’impressione che sia un uomo morto più o meno milleseicento anni fa, ma lo sento come un uomo di oggi: un amico, un contemporaneo che parla a me, parla a noi con la sua fede fresca e attuale. In sant’Agostino che parla a noi, parla a me nei suoi scritti, vediamo l’attualità permanente della sua fede; della fede che viene da Cristo, Verbo Eterno Incarnato, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo.

E possiamo vedere che questa fede non è di ieri, anche se predicata ieri; è sempre di oggi, perché realmente Cristo è ieri oggi e per sempre. Egli è la Via, la Verità e la Vita. Così sant’Agostino ci incoraggia ad affidarci a questo Cristo sempre vivo e a trovare così la strada della vita.


I Saluti


APPELLO DEL SANTO PADRE


Dopodomani, venerdì 18 gennaio, inizia la consueta Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che quest’anno riveste un valore singolare poichè sono trascorsi cento anni dal suo avvio. Il tema è l’invito di San Paolo ai Tessalonicesi: "Pregate continuamente" (1 Tes 5,17); invito che ben volentieri faccio mio e rivolgo a tutta la Chiesa. Sì, è necessario pregare senza sosta chiedendo con insistenza a Dio il grande dono dell’unità tra tutti i discepoli del Signore. La forza inesauribile dello Spirito Santo ci stimoli ad un impegno sincero di ricerca dell’unità, perché possiamo professare tutti insieme che Gesù è l’unico Salvatore del mondo.


Saluto in lingua italiana

Mi rivolgo ora con affetto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto voi, rappresentanti dell’Associazione Italiana Allevatori, realtà importante per l’economia del Paese, e vi esorto ad operare sempre più nel rispetto dell’ambiente e in favore della sicurezza alimentare dei cittadini. La festa liturgica del vostro patrono sant’Antonio Abate, che celebreremo domani, susciti in voi il desiderio di aderire con crescente generosità a Cristo e testimoniare con gioia il suo Vangelo. Saluto poi gli esponenti della Biblioteca Roncioniana, di Prato e le Piccole Sorelle dei Poveri. Vi ringrazio tutti per la vostra presenza ed invoco su ciascuno la continua assistenza divina.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. L’esempio di Sant'Antonio Abate, insigne padre del monachesimo che molto lavorò per la Chiesa, sostenendo i martiri nella persecuzione, incoraggi voi, cari giovani, a ricercare costantemente e a seguire fedelmente Cristo; conforti voi, cari malati, nel sopportare con pazienza le vostre sofferenze e ad offrirle affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vostra vita familiare.

www.vatican.va

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All'udienza generale il Papa parla ancora dell'esperienza di sant'Agostino
Dio non è lontano
dalla nostra ragione e dalla nostra vita



30.1.2008

Quando l'uomo si allontana da Dio, si aliena anche da se stesso. Lo ha ricordato il Papa parlando del rapporto tra fede e ragione nell'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino. "Dio - ha sottolineato durante l'udienza generale di mercoledì 30 gennaio nell'Aula Paolo VI - non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e alla nostra ragione".
Cari amici,
dopo la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino. Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem.

Il Papa stesso volle definire questo testo "un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione". Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: "Convertitevi". Seguendo il cammino di sant'Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.

La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant'Agostino. Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un'ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita.

Così tutto l'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l'equilibrio e il destino di ogni essere umano. Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono "le due forze che ci portano a conoscere" (Contra Academicos, III, 20, 43). A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas ("credi per comprendere") - il credere apre la strada per varcare la porta della verità - ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas ("comprendi per credere"), scruta la verità per poter trovare Dio e credere.


 

Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell'incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L'armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.

Proprio questa vicinanza di Dio all'uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell'uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori - afferma il convertito - ma "torna in te stesso; nell'uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un'anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione" (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un'affermazione famosissima, all'inizio delle Confessiones, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: "Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te" (I, 1, 1).

La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: "Tu infatti - riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio - eri all'interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta", interior intimo meo et superior summo meo; tanto che - aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione - "tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te" (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessiones (IV, 4, 9 e 14, 22) che l'uomo è "un grande enigma" (magna quaestio) e "un grande abisso" (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva. Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.

L'essere umano - sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (XII, 27) - è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l'umanità e "via universale della libertà e della salvezza", come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano - afferma ancora Agostino nella stessa opera - "nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato" (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: "Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l'uomo totale è lui e noi" (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8).

Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell'Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull'Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale - afferma Agostino in una bellissima pagina - "prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua" (Enarrationes in Psalmos, 85, 1).

Nella conclusione della lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: "A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità" (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessiones (X, 27, 38): "Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace".

Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà - che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù - ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.

(©L'Osservatore Romano - 31 gennaio 2008)

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UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2008


Saluto ai pellegrini presenti nella Basilica Vaticana:
Sono lieto di accogliere e di salutare cordialmente tutti voi, cari pellegrini provenienti da varie parti d’Italia. Il cammino quaresimale che stiamo percorrendo sia occasione favorevole di un deciso sforzo di conversione e di rinnovamento spirituale per un risveglio alla fede autentica, per un recupero salutare del rapporto con Dio e per un impegno evangelico più generoso. Nella consapevolezza che l'amore è stile di vita che contraddistingue il credente, non stancatevi di essere ovunque testimoni di carità.


Concludiamo questo nostro incontro cantando la preghiera del Pater Noster.
* * *
Sant'Agostino (4)

Cari fratelli e sorelle,

dopo la pausa degli esercizi spirituali della settimana scorsa ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino, sul quale già ripetutamente ho parlato nelle catechesi del mercoledì. E’ il Padre della Chiesa che ha lasciato il maggior numero di opere, e di queste oggi intendo parlare brevemente. Alcuni degli scritti agostiniani sono d’importanza capitale, e non solo per la storia del cristianesimo ma per la formazione di tutta la cultura occidentale: l’esempio più chiaro sono le Confessiones, senza dubbio uno dei libri dell’antichità cristiana tuttora più letti. Come diversi Padri della Chiesa dei primi secoli, ma in misura incomparabilmente più vasta, anche il Vescovo d’Ippona ha infatti esercitato un influsso esteso e persistente, come appare già dalla sovrabbondante tradizione manoscritta delle sue opere, che sono davvero moltissime.

Lui stesso le passò in rassegna qualche anno prima di morire nelle Retractationes e poco dopo la sua morte esse vennero accuratamente registrate nell’Indiculus (“elenco”) aggiunto dal fedele amico Possidio alla biografia di sant'Agostino, Vita Augustini. L’elenco delle opere di Agostino fu realizzato con l’intento esplicito di salvaguardarne la memoria mentre l’invasione vandala dilagava in tutta l’Africa romana e conta ben milletrenta scritti numerati dal loro Autore, con altri “che non si possono numerare, perché non vi ha apposto nessun numero”. Vescovo di una città vicina, Possidio dettava queste parole proprio a Ippona – dove si era rifugiato e dove aveva assistito alla morte dell’amico – e quasi sicuramente si basava sul catalogo della biblioteca personale di Agostino. Oggi, sono oltre trecento le lettere sopravvissute del Vescovo di Ippona e quasi seicento le omelie, ma queste in origine erano moltissime di più, forse addirittura tra le tremila e le quattromila, frutto di un quarantennio di predicazione dell’antico retore che aveva deciso di seguire Gesù e di parlare non più ai grandi della corte imperiale, ma alla semplice popolazione di Ippona.
E ancora in anni recenti le scoperte di un gruppo di lettere e di alcune omelie hanno arricchito la nostra conoscenza di questo grande Padre della Chiesa. “Molti libri – scrive Possidio – furono da lui composti e pubblicati, molte prediche furono tenute in chiesa, trascritte e corrette, sia per confutare i diversi eretici sia per interpretare le sacre Scritture ad edificazione dei santi figli della Chiesa. Queste opere – sottolinea il Vescovo amico – sono tante che a stento uno studioso ha la possibilità di leggerle ed imparare a conoscerle” (Vita Augustini, 18, 9).

Tra la produzione letteraria di Agostino – quindi più di mille pubblicazioni suddivise in scritti filosofici, apologetici, dottrinali, morali, monastici, esegetici, antieretici, oltre appunto le lettere e le omelie – spiccano alcune opere eccezionali di grande respiro teologico e filosofico. Innanzi tutto bisogna ricordare le già menzionate Confessiones, scritte in tredici libri tra il 397 e il 400 a lode di Dio. Esse sono una specie di autobiografia nella forma di un dialogo con Dio. Questo genere letterario riflette proprio la vita di sant'Agostino, che era un vita non chiusa in sé, dispersa in tante cose, ma vissuta sostanzialmente come dialogo con Dio e così una vita con gli altri. Già il titolo Confessiones indica la specificità di questa autobiografia. Questa parola confessiones nel latino cristiano sviluppato dalla tradizione dei Salmi ha due significati, che tuttavia si intrecciano. Confessiones indica, in primo luogo, la confessione delle proprie debolezze, della miseria dei peccati; ma, allo stesso tempo, confessiones significa lode di Dio, riconoscimento a Dio. Vedere la propria miseria nella luce di Dio diventa lode a Dio e ringraziamento perché Dio ci ama e ci accetta, ci trasforma e ci eleva verso se stesso. Su queste Confessiones che ebbero grande successo già durante la vita di sant'Agostino, lui stesso ha scritto: “Esse hanno esercitato su di me tale azione mentre le scrivevo e l’esercitano ancora quando le rileggo. Vi sono molti fratelli ai quali queste opere piacciono” (Retractationes, II, 6): e devo dire che anch’io sono uno di questi «fratelli». E grazie alle Confessiones possiamo seguire passo passo il cammino interiore di quest’uomo straordinario e appassionato di Dio. Meno diffuse ma altrettanto originali e molto importanti sono poi le Retractationes, composte in due libri intorno al 427, nelle quali sant’Agostino, ormai anziano, compie un’opera di “revisione” (retractatio) di tutta la sua opera scritta, lasciando così un documento letterario singolare e preziosissimo, ma anche un insegnamento di sincerità e di umiltà intellettuale.

Il De civitate Dei – opera imponente e decisiva per lo sviluppo del pensiero politico occidentale e per la teologia cristiana della storia – venne scritto tra il 413 e il 426 in ventidue libri. L'occasione era il sacco di Roma compiuto dai Goti nel 410. Tanti pagani ancora viventi, ma anche molti cristiani, avevano detto: Roma è caduta, adesso il Dio cristiano e gli apostoli non possono proteggere la città. Durante la presenza delle divinità pagane Roma era caput mundi, la grande capitale, e nessuno poteva pensare che sarebbe caduta nelle mani dei nemici. Adesso, con il Dio cristiano, questa grande città non appariva più sicura. Quindi il Dio dei cristiani non proteggeva, non poteva essere il Dio al quale affidarsi. A questa obiezione, che toccava profondamente anche il cuore dei cristiani, risponde sant'Agostino con questa grandiosa opera, il De civitate Dei, chiarendo che cosa dobbiamo aspettarci da Dio e che cosa no, qual è la relazione tra la sfera politica e la sfera della fede, della Chiesa. Anche oggi questo libro è una fonte per definire bene la vera laicità e la competenza della Chiesa, la grande vera speranza che ci dona la fede.
Questo grande libro è una presentazione della storia dell’umanità governata dalla Provvidenza divina, ma attualmente divisa da due amori. E questo è il disegno fondamentale, la sua interpretazione della storia, che è la lotta tra due amori: amore di sé “sino all'indifferenza per Dio”, e amore di Dio “sino all'indifferenza per sé”, (De civitate Dei, XIV, 28), alla piena libertà da sé per gli altri nella luce di Dio. Questo, quindi, è forse il più grande libro di sant'Agostino, di una importanza permanente. Altrettanto importante è il De Trinitate, opera in quindici libri sul principale nucleo della fede cristiana, la fede nel Dio trinitario, scritta in due tempi: tra il 399 e il 412 i primi dodici libri, pubblicati a insaputa di Agostino, che verso il 420 li completò e rivide l’intera opera. Qui egli riflette sul volto di Dio e cerca di capire questo mistero del Dio che è unico, l'unico creatore del mondo, di noi tutti, e tuttavia, proprio questo unico Dio è trinitario, un cerchio di amore. Cerca di capire il mistero insondabile: proprio l'essere trinitario, in tre Persone, è la più reale e più profonda unità dell'unico Dio. Il De doctrina Christiana è invece una vera e propria introduzione culturale all’interpretazione della Bibbia e in definitiva allo stesso cristianesimo, che ha avuto un’importanza decisiva nella formazione della cultura occidentale.
Pur con tutta la sua umiltà, Agostino certamente fu consapevole della propria statura intellettuale. Ma per lui, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai semplici.

Questa sua intenzione più profonda, che ha guidato tutta la sua vita, appare da una lettera scritta al collega Evodio, dove comunica la decisione di sospendere per il momento la dettatura dei libri del De Trinitate, “perché sono troppo faticosi e penso che possano essere capiti da pochi; per questo urgono di più testi che speriamo saranno utili a molti” (Epistulae, 169, 1, 1). Quindi più utile era per lui comunicare la fede in modo comprensibile a tutti, che non scrivere grandi opere teologiche. La responsabilità acutamente avvertita nei confronti della divulgazione del messaggio cristiano è poi all’origine di scritti come il De catechizandis rudibus, una teoria e anche una prassi della catechesi, o il Psalmus contra partem Donati. I donatisti erano il grande problema dell'Africa di sant'Agostino, uno scisma volutamente africano. Essi affermavano: la vera cristianità è quella africana. Si opponevano all'unità della Chiesa. Contro questo scisma il grande Vescovo ha lottato per tutta la sua vita, cercando di convincere i donatisti che solo nell'unità anche l'africanità può essere vera. E per farsi capire dai semplici, che non potevano comprendere il grande latino del retore, ha detto: devo scrivere anche con errori grammaticali, in un latino molto semplificato. E lo ha fatto soprattutto in questo Psalmus, una specie di poesia semplice contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell'unità della Chiesa si realizza per tutti realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo.
In questa produzione destinata a un pubblico più largo riveste un’importanza particolare la massa delle omelie, spesso pronunciate ‘a braccio’, trascritte dai tachigrafi durante la predicazione e subito messe in circolazione. Tra queste, spiccano le bellissime Enarrationes in Psalmos, molto lette nel medioevo. Proprio la prassi di pubblicazione delle migliaia di omelie di Agostino – spesso senza il controllo dell’autore – spiega la loro diffusione e successiva dispersione, ma anche la loro vitalità. Subito infatti le prediche del vescovo d’Ippona diventavano, per la fama del loro autore, testi molto ricercati e servivano anche per altri Vescovi e sacerdoti come modelli, adattati a sempre nuovi contesti.

La tradizione iconografica, già in un affresco lateranense risalente al VI secolo, rappresenta sant’Agostino con un libro in mano, certo per esprimere la sua produzione letteraria, che tanto influenzò la mentalità e il pensiero cristiani, ma per esprimere anche il suo amore per i libri, per la lettura e la conoscenza della grande cultura precedente. Alla sua morte non lasciò nulla, racconta Possidio, ma “raccomandava sempre di conservare diligentemente per i posteri la biblioteca della chiesa con tutti i codici”, soprattutto quelli delle sue opere. In queste, sottolinea Possidio, Agostino è “sempre vivo” e giova a chi legge i suoi scritti, anche se, conclude, “io credo che abbiano potuto trarre più profitto dal suo contatto quelli che lo poterono vedere e ascoltare quando di persona parlava in chiesa, e soprattutto quelli che ebbero pratica della sua vita quotidiana fra la gente” (Vita Augustini, 31). Sì, anche per noi sarebbe stato bello poterlo sentire vivo. Ma è realmente vivo nei suoi scritti, è presente in noi e così vediamo anche la permanente vitalità della fede alla quale ha dato tutta la sua vita.




Saluti:
* * *
Rivolgo ora un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Canossiane qui convenute in occasione della loro Assemblea capitolare e le esorto ad essere sempre più presenze significative ovunque operano, distinguendosi per una intensa comunione e attiva cooperazione con i Pastori della Chiesa. Saluto con affetto i Seminaristi del Seminario Vescovile di Lugano, accompagnati dal Vescovo Mons. Pier Giacomo Grampa, e li incoraggio a dedicarsi con serio impegno alla propria formazione spirituale e teologica, necessaria per l’impegno apostolico che li attende. Saluto le Guide della Necropoli Vaticana, accompagnate dal Cardinale Angelo Comastri e da Mons. Vittorio Lanzani, ed esprimo il mio apprezzamento per il competente e generoso servizio che svolgono in favore dei pellegrini provenienti da tutto il mondo. Saluto i fedeli della Parrocchia San Giovanni Battista, in Dossena e i rappresentanti della Federazione Italiana Amici dei Musei.

Saluto poi i fedeli delle Diocesi di Pavia e di Vigevano, guidati dai rispettivi Pastori Mons. Giovanni Giudici e Mons. Claudio Baggini, qui convenuti per ricambiare la visita, che ho avuto la gioia di compiere nel mese aprile dell’anno scorso in terra pavese e lomellina. Cari amici, ancora una volta vi ringrazio per l’affetto con cui mi avete accolto, ed auspico che da quel nostro incontro scaturisca per le vostre Comunità diocesane una rinnovata vitalità spirituale nella fedele e generosa adesione a Cristo e alla Chiesa. Guardate al futuro con speranza e lavorate con appassionata fiducia nella vigna del Signore!

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, e agli sposi novelli. L’amicizia nei confronti di Gesù, cari giovani, sia per voi fonte di gioia e spinta a compiere scelte impegnative. L’amore per Cristo vi rechi conforto, cari malati, nei momenti difficili e vi infonda serenità. Cari sposi novelli, alla luce dell’amicizia con il Signore, impegnatevi a corrispondere alla vostra vocazione e missione con un amore reciproco e fedele.

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All'udienza generale Benedetto XVI conclude le catechesi sul vescovo d'Ippona
Agostino e le sue conversioni
modello per ogni essere umano



La vicenda interiore di sant'Agostino, "uno dei più grandi convertiti della storia cristiana", è stata al centro della catechesi di Benedetto XVI durante l'udienza generale di mercoledì 27 febbraio, svoltasi nella basilica Vaticana e nell'Aula Paolo VI. Il Papa ha concluso così le sue riflessioni dedicate al vescovo d'Ippona.

Cari fratelli e sorelle,

con l'incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant'Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l'anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l'omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.

Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant'Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all'origine di una delle forme letterarie più specifiche dell'Occidente, l'autobiografia, cioè l'espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall'inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell'anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe - se ne possono distinguere facilmente tre - siano un'unica grande conversione.

Sant'Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall'inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un'educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un'attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l'amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d'impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l'esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c'è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell'epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all'improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, "prendi, leggi, prendi, leggi" (VIII, 12, 29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell'epistola ai Romani dove l'Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l'Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: "Avevi convertito a te il mio essere", egli commenta (Confessiones, VIII, 12, 30). Fu questa la prima e decisiva conversione.

A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l'uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi "toccabile", uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. È questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell'apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell'amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall'inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo.

Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un'attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti - è un ingente carico, un grande peso, un'immane fatica" (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.

Ma c'è un'ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta nel Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell'ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna - cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente - era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.

Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all'unico Signore Gesù lo introdusse all'esperienza di un'umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes ("revisioni"), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. "Ho compreso - scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) - che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece - tutti noi, inclusi gli apostoli - dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est. Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant'Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l'umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l'incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che "nella speranza siamo stati salvati" (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch'essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.

In un bellissimo testo sant'Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l'esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l'unico che ci salva, ci purifica e ci dà la vera gioia, la vera vita.
(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2008)

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Udienza Mercoledì 5.3.2008


L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta in due momenti distinti: alle ore 10.30, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato gruppi di studenti italiani; successivamente, nell’Aula Paolo VI, ha tenuto la catechesi e salutato i pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui Padri Apostolici, si è soffermato sulla figura di San Leone Magno.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con la recita del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.



SALUTO AGLI STUDENTI ITALIANI NELLA BASILICA VATICANA



Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di accogliervi in questa Basilica e di rivolgere a tutti il mio cordiale benvenuto. Saluto voi, rappresentanti dell’Opera Madonnina del Grappa e del Movimento Speranza e vita, e vi incoraggio ad approfondire sempre di più la vostra vita di fede, tenendo presenti gli insegnamenti del vostro fondatore p. Enrico Mauri. Non stancatevi di affidarvi a Cristo e di testimoniarlo in ogni ambiente.

Saluto gli insegnanti, gli alunni e i genitori delle Scuole gestite dalle Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza così numerosa ed auguro a ciascuno di vivere questo tempo della scuola come occasione propizia per una autentica formazione integrale. Vi incoraggio a rafforzare la vostra adesione al Vangelo per essere sempre disponibili e pronti a compiere la volontà del Signore. Saluto, infine, tutti voi, studenti dei vari Istituti scolastici e vi assicuro la mia preghiera affinché lo Spirito Santo infonda nei vostri cuori la vera gioia e vi colmi dei suoi doni.


[00344-01.01] [Testo originale: Italiano]



CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


Cari fratelli e sorelle,

proseguendo il nostro cammino tra i Padri della Chiesa, veri astri che brillano da lontano, nel nostro incontro di oggi ci accostiamo alla figura di un Papa, che nel 1754 fu proclamato da Benedetto XIV Dottore della Chiesa: si tratta di san Leone Magno. Come indica l’appellativo presto attribuitogli dalla tradizione, egli fu davvero uno dei più grandi Pontefici che abbiano onorato la Sede romana, contribuendo moltissimo a rafforzarne l’autorità e il prestigio.

Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo.

Leone era originario della Tuscia. Divenne diacono della Chiesa di Roma intorno all’anno 430, e col tempo acquistò in essa una posizione di grande rilievo. Questo ruolo di spicco indusse nel 440 Galla Placidia, che in quel momento reggeva l’Impero d’Occidente, a inviarlo in Gallia per sanare una difficile situazione. Ma nell’estate di quell’anno il Papa Sisto III – il cui nome è legato ai magnifici mosaici di Santa Maria Maggiore – morì, e a succedergli fu eletto proprio Leone, che ne ricevette la notizia mentre stava appunto svolgendo la sua missione di pace in Gallia. Rientrato a Roma, il nuovo Papa fu consacrato il 29 settembre del 440. Iniziava così il suo pontificato, che durò oltre ventun anni, e che è stato senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa. Alla sua morte, il 10 novembre del 461, il Papa fu sepolto presso la tomba di san Pietro. Le sue reliquie sono custodite anche oggi in uno degli altari della Basilica vaticana.

Quelli in cui visse Papa Leone erano tempi molto difficili: il ripetersi delle invasioni barbariche, il progressivo indebolirsi in Occidente dell’autorità imperiale e una lunga crisi sociale avevano imposto al Vescovo di Roma – come sarebbe accaduto con evidenza ancora maggiore un secolo e mezzo più tardi, durante il pontificato di Gregorio Magno – di assumere un ruolo rilevante anche nelle vicende civili e politiche. Ciò non mancò, ovviamente, di accrescere l’importanza e il prestigio della Sede romana.

Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di Leone. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice.

Non altrettanto positivo fu purtroppo, tre anni dopo, l’esito di un’altra iniziativa papale, segno comunque di un coraggio che ancora ci stupisce: nella primavera del 455 Leone non riuscì infatti a impedire che i Vandali di Genserico, giunti alle porte di Roma, invadessero la città indifesa, che fu saccheggiata per due settimane. Tuttavia il gesto del Papa – che, inerme e circondato dal suo clero, andò incontro all’invasore per scongiurarlo di fermarsi – impedì almeno che Roma fosse incendiata e ottenne che dal terribile sacco fossero risparmiate le Basiliche di San Pietro, di San Paolo e di San Giovanni, nelle quali si rifugiò parte della popolazione terrorizzata.

Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni – ne sono conservati quasi cento in uno splendido e chiaro latino – e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia.

Tenutosi nell’anno 451, con i trecentocinquanta Vescovi che vi parteciparono, questo Concilio fu la più importante assemblea fino ad allora celebrata nella storia della Chiesa. Calcedonia rappresenta il traguardo sicuro della cristologia dei tre Concili ecumenici precedenti: quello di Nicea del 325, quello di Costantinopoli del 381 e quello di Efeso del 431. Già nel VI secolo questi quattro Concili, che riassumono la fede della Chiesa antica, vennero infatti paragonati ai quattro Vangeli: è quanto afferma Gregorio Magno in una famosa lettera (I,24), in cui dichiara "di accogliere e venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, i quattro Concili", perché su di essi - spiega ancora Gregorio - "come su una pietra quadrata si leva la struttura della santa fede". Il Concilio di Calcedonia – nel respingere l’eresia di Eutiche, che negava la vera natura umana del Figlio di Dio – affermò l’unione nella sua unica Persona, senza confusione e senza separazione, delle due nature umana e divina.

Questa fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo veniva affermata dal Papa in un importante testo dottrinale indirizzato al Vescovo di Costantinopoli, il cosiddetto Tomo a Flaviano, che, letto a Calcedonia, fu accolto dai Vescovi presenti con un’eloquente acclamazione, della quale è conservata notizia negli atti del Concilio: "Pietro ha parlato per bocca di Leone", proruppero a una voce sola i Padri conciliari. Soprattutto da questo intervento, e da altri compiuti durante la controversia cristologica di quegli anni, risulta con evidenza come il Papa avvertisse con particolare urgenza le responsabilità del Successore di Pietro, il cui ruolo è unico nella Chiesa, perché "a un solo apostolo è affidato ciò che a tutti gli apostoli è comunicato", come afferma Leone in uno dei suoi sermoni per la festa dei santi Pietro e Paolo (83,2).

E queste responsabilità il Pontefice seppe esercitare, in Occidente come in Oriente, intervenendo in diverse circostanze con prudenza, fermezza e lucidità attraverso i suoi scritti e mediante i suoi legati. Mostrava in questo modo come l’esercizio del primato romano fosse necessario allora, come lo è oggi, per servire efficacemente la comunione, caratteristica dell’unica Chiesa di Cristo.

Consapevole del momento storico in cui viveva e del passaggio che stava avvenendo – in un periodo di profonda crisi – dalla Roma pagana a quella cristiana, Leone Magno seppe essere vicino al popolo e ai fedeli con l’azione pastorale e la predicazione. Animò la carità in una Roma provata dalle carestie, dall’afflusso dei profughi, dalle ingiustizie e dalla povertà. Contrastò le superstizioni pagane e l’azione dei gruppi manichei.

Legò la liturgia alla vita quotidiana dei cristiani: per esempio, unendo la pratica del digiuno alla carità e all’elemosina soprattutto in occasione delle Quattro tempora, che segnano nel corso dell’anno il cambiamento delle stagioni. In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno "non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente". Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.

(il Papa ha concluso a braccio)

È questo il mistero cristologico al quale san Leone Magno, con la sua lettera al Concilio di Efeso, ha dato un contributo efficace ed essenziale, confermando per tutti i tempi — tramite tale Concilio — quanto disse san Pietro a Cesarea di Filippo. Con Pietro e come Pietro confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E perciò Dio e Uomo insieme, "non estraneo al genere umano, ma alieno dal peccato" (cfr Serm. 64). Nella forza di questa fede cristologica egli fu un grande portatore di pace e di amore. Ci mostra così la via: nella fede impariamo la carità. Impariamo quindi con san Leone Magno a credere in Cristo, vero Dio e vero Uomo, e a realizzare questa fede ogni giorno nell'azione per la pace e nell'amore per il prossimo.


[00345-01.01] [Testo originale: Italiano]



SINTESI DELLA CATECHESI NELLE DIVERSE LINGUE





SALUTI PARTICOLARI NELLE DIVERSE LINGUE



○ Saluto in lingua italiana


Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare alle Religiose infermiere di diverse Congregazioni, che stanno partecipando ad un corso di aggiornamento. Care sorelle, sforzatevi di vedere sempre nei malati il volto di Cristo e ripartite da Lui ogni giorno con umile coraggio per essere testimoni del suo amore. Saluto i fedeli provenienti dal Santuario della Divina Misericordia, in Santa Lucia di Caserta e i Militari della Scuola di Fanteria, di Cesano.

Saluto, infine, i malati e gli sposi novelli. Cari malati, siate sempre consapevoli che contribuite in modo misterioso alla costruzione del Regno di Dio, offrendo generosamente le vostre sofferenze al Padre celeste in unione a quelle di Cristo. E voi, cari sposi novelli, sappiate quotidianamente edificare la vostra famiglia nell'ascolto di Dio, nel fedele reciproco amore e nell'accoglienza dei più bisognosi, seguendo l'esempio della Santa Famiglia di Nazaret.


[00355-01.01] [Testo originale: Italiano]

www.vatican.va

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RIEPILOGO delle Catechesi di Benedetto XVI sulla Chiesa

Benedetto XVI ha iniziato il ciclo di udienze generali del mercoledì dedicate ai Padri della Chiesa il 7 marzo 2007. Eccole nell'ordine:

> San Clemente Romano

> Sant'Ignazio d'Antiochia

> San Giustino

> Sant'Ireneo di Lione

> Clemente Alessandrino

> Origene Alessandrino. 1

> Origene Alessandrino. 2

> Tertulliano

> San Cipriano

> Eusebio di Cesarea

> Sant'Atanasio di Alessandria

> San Cirillo di Gerusalemme

> San Basilio. 1

> San Basilio. 2

> San Gregorio di Nazianzo. 1

> San Gregorio di Nazianzo. 2

> San Gregorio di Nissa. 1

> San Gregorio di Nissa. 2

> San Giovanni Crisostomo. 1

> San Giovanni Crisostomo. 2

> San Cirillo di Alessandria

> Sant'Ilario di Poitiers

> Sant’Eusebio di Vercelli

> Sant'Ambrogio di Milano

> San Massimo di Torino

> San Girolamo. 1

> San Girolamo. 2

> Afraate il Persiano

> Sant'Efrem Siro

> San Cromazio di Aquileia

> San Paolino da Nola

> Sant'Agostino. 1

> Sant'Agostino. 2

> Sant'Agostino. 3

> Sant'Agostino. 4

> Sant'Agostino. 5

> San Leone Magno

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In precedenza, a partire dal 15 marzo 2006, aveva dedicato un ciclo di udienze ai dodici Apostoli e ad altri discepoli nominati nel Nuovo Testamento. Nell'ordine:

> La volontà di Gesù sulla Chiesa e la scelta dei Dodici

> Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo

> Il dono della "comunione"

> Il servizio alla comunione

> La comunione nel tempo: la Tradizione

> La tradizione apostolica

> La successione apostolica

> Pietro, il pescatore

> Pietro, l’apostolo

> Pietro, la roccia

> Andrea, il Protoclito

> Giacomo, il Maggiore

> Giacomo, il Minore

> Giovanni, figlio di Zebedeo

> Giovanni, il teologo

> Giovanni, il veggente di Patmos

> Matteo

> Filippo

> Tommaso

> Bartolomeo

> Simone il Cananeo e Giuda Taddeo

> Giuda Iscariota e Mattia

> Paolo di Tarso

> Paolo - La centralità di Gesù Cristo

> Paolo - Lo Spirito nei nostri cuori

> Paolo - La vita nella Chiesa

> Timoteo e Tito

> Stefano il Protomartire

> Barnaba, Silvano e Apollo

> Aquila e Priscilla

> Le donne a servizio del Vangelo

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12 marzo 2008


L'udienza generale del Papa dedicata a Boezio e Cassiodoro
Trasmettere i grandi valori
attraverso l'incontro delle culture



L'esigenza di riconciliare le culture per insegnare alle nuove generazioni i grandi valori della fede e della convivenza umana è stata sottolineata dal Papa all'udienza generale di mercoledì 12 marzo, svoltasi nella Basilica Vaticana e nell'Aula Paolo VI. Benedetto XVI ha riproposto gli insegnamenti dei due scrittori ecclesiastici Boezio e Cassiodoro.

Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di due scrittori ecclesiastici, Boezio e Cassiodoro, che vissero in anni tra i più tribolati dell'Occidente cristiano e, in particolare, della penisola italiana. Odoacre, re degli Eruli, un'etnia germanica, si era ribellato, ponendo termine all'impero romano d'Occidente (a. 476), ma aveva poi ben presto dovuto soccombere agli Ostrogoti di Teodorico, che per alcuni decenni si assicurarono il controllo della penisola italiana. Boezio, nato a Roma nel 480 circa dalla nobile stirpe degli Anicii, entrò ancor giovane nella vita pubblica, raggiungendo già a venticinque anni la carica di senatore. Fedele alla tradizione della sua famiglia, si impegnò in politica convinto che si potessero temperare insieme le linee portanti della società romana con i valori dei popoli nuovi.

E in questo nuovo tempo dell'incontro delle culture considerò come sua propria missione quella di riconciliare e di mettere insieme queste due culture, la classica romana con la nascente del popolo ostrogoto. Fu così attivo in politica anche sotto Teodorico, che nei primi tempi lo stimava molto. Nonostante questa attività pubblica, Boezio non trascurò gli studi, dedicandosi in particolare all'approfondimento di temi di ordine filosofico-religioso. Ma scrisse anche manuali di aritmetica, di geometria, di musica, di astronomia: tutto con l'intenzione di trasmettere alle nuove generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura greco-romana.

In questo ambito, cioè nell'impegno di promuovere l'incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca per proporre la fede cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio evangelico. Proprio per questo, Boezio è stato qualificato come l'ultimo rappresentante della cultura romana antica e il primo degli intellettuali medievali.
La sua opera certamente più nota è il De consolatione philosophiae, che egli compose in carcere per dare un senso alla sua ingiusta detenzione. Era stato infatti accusato di complotto contro il re Teodorico per aver assunto la difesa in giudizio di un amico, il senatore Albino. Ma questo era un pretesto: in realtà Teodorico, ariano e barbaro, sospettava che Boezio avesse simpatie per l'imperatore bizantino Giustiniano.

Di fatto, processato e condannato a morte, fu giustiziato il 23 ottobre del 524, a soli 44 anni. Proprio per questa sua drammatica fine, egli può parlare dall'interno della propria esperienza anche all'uomo contemporaneo e soprattutto alle tantissime persone che subiscono la sua stessa sorte a causa dell'ingiustizia presente in tanta parte della "giustizia umana". In quest'opera, nel carcere cerca la consolazione, cerca la luce, cerca la saggezza.

E dice di aver saputo distinguere, proprio in questa situazione, tra i beni apparenti - nel carcere essi scompaiono - e i beni veri, come l'autentica amicizia che anche nel carcere non scompaiono. Il bene più alto è Dio: Boezio imparò - e lo insegna a noi - a non cadere nel fatalismo, che spegne la speranza. Egli ci insegna che non governa il fato, governa la Provvidenza ed essa ha un volto. Con la Provvidenza si può parlare, perché la Provvidenza è Dio. Così, anche nel carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui che ci salva. Nello stesso tempo, anche in questa situazione egli conserva il senso della bellezza della cultura e richiama l'insegnamento dei grandi filosofi antichi greci e romani come Platone, Aristotile - aveva cominciato a tradurre questi greci in latino - Cicerone, Seneca, ed anche poeti come Tibullo e Virgilio.

La filosofia, nel senso della ricerca della vera saggezza, è secondo Boezio la vera medicina dell'anima (lib. I). D'altra parte, l'uomo può sperimentare l'autentica felicità unicamente nella propria interiorità (lib. II). Per questo, Boezio riesce a trovare un senso nel pensare alla propria tragedia personale alla luce di un testo sapienziale dell'Antico Testamento (Sap 7, 30-8, 1) che egli cita: "Contro la sapienza la malvagità non può prevalere. Essa si estende da un confine all'altro con forza e governa con bontà eccellente ogni cosa" (Lib. III, 12: PL 63, col. 780). La cosiddetta prosperità dei malvagi, pertanto, si rivela menzognera (lib. IV), e si evidenzia la natura provvidenziale dell'adversa fortuna. Le difficoltà della vita non soltanto rivelano quanto quest'ultima sia effimera e di breve durata, ma si dimostrano perfino utili per individuare e mantenere gli autentici rapporti fra gli uomini. L'adversa fortuna permette infatti di discernere i falsi amici dai veri e fa capire che nulla è più prezioso per l'uomo di un'amicizia vera. Accettare fatalisticamente una condizione di sofferenza è assolutamente pericoloso, aggiunge il credente Boezio, perché "elimina alla radice la possibilità stessa della preghiera e della speranza teologale che stanno alla base del rapporto dell'uomo con Dio" (Lib. V, 3: PL 63, col. 842).

La perorazione finale del De consolatione philosophiae può essere considerata una sintesi dell'intero insegnamento che Boezio rivolge a se stesso e a tutti coloro che si dovessero trovare nelle sue stesse condizioni. Scrive così in carcere: "Combattete dunque i vizi, dedicatevi ad una vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L'imposizione che avete subìto può tramutarsi, qualora rifiutiate di mentire, nell'enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice supremo che vede e sa come stanno veramente le cose" (Lib. V, 6: PL 63, col. 862). Ogni detenuto, per qualunque motivo sia finito in carcere, intuisce quanto sia pesante questa particolare condizione umana, soprattutto quando essa è abbrutita, come accadde a Boezio, dal ricorso alla tortura.

Particolarmente assurda è poi la condizione di chi, ancora come Boezio che la città di Pavia riconosce e celebra nella liturgia come martire della fede, viene torturato a morte senza alcun altro motivo che non sia quello delle proprie convinzioni ideali, politiche e religiose. Boezio, simbolo di un numero immenso di detenuti ingiustamente di tutti i tempi e di tutte le latitudini, è di fatto oggettiva porta di ingresso alla contemplazione del misterioso Crocifisso del Golgota.

Contemporaneo di Boezio fu Marco Aurelio Cassiodoro, un calabrese nato a Squillace verso il 485, che morì pieno di giorni, a Vivarium intorno al 580. Anch'egli, uomo di alto livello sociale, si dedicò alla vita politica e all'impegno culturale come pochi altri nell'occidente romano del suo tempo. Forse gli unici che gli potevano stare alla pari in questo suo duplice interesse furono il già ricordato Boezio, e il futuro Papa di Roma, Gregorio Magno (590-604). Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella dimenticanza tutto il patrimonio umano e umanistico, accumulato nei secoli d'oro dell'Impero Romano, Cassiodoro collaborò generosamente, e ai livelli più alti della responsabilità politica, con i popoli nuovi che avevano attraversato i confini dell'Impero e si erano stanziati in Italia. Anche lui fu modello di incontro culturale, di dialogo, di riconciliazione. Le vicende storiche non gli permisero di realizzare i suoi sogni politici e culturali, che miravano a creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell'Italia e la nuova cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità del movimento monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane. Decise di appoggiarlo dedicando ad esso tutte le sue ricchezze materiali e le sue forze spirituali.

Concepì l'idea di affidare proprio ai monaci il compito di recuperare, conservare e trasmettere ai posteri l'immenso patrimonio culturale degli antichi, perché non andasse perduto. Per questo fondò Vivarium, un cenobio in cui tutto era organizzato in modo tale che fosse stimato come preziosissimo e irrinunciabile il lavoro intellettuale dei monaci. Egli dispose che anche quei monaci che non avevano una formazione intellettuale non dovevano occuparsi solo del lavoro materiale, dell'agricoltura, ma anche trascrivere manoscritti e così aiutare nel trasmettere la grande cultura alle future generazioni. E questo senza nessuno scapito per l'impegno spirituale monastico e cristiano e per l'attività caritativa verso i poveri. Nel suo insegnamento, distribuito in varie opere, ma soprattutto nel trattato De anima e nelle Institutiones divinarum litterarum, la preghiera (cfr PL 69, col. 1108), nutrita dalla Sacra Scrittura e particolarmente dalla frequentazione assidua dei Salmi (cfr PL 69, col. 1149), ha sempre una posizione centrale quale nutrimento necessario per tutti.

Ecco, ad esempio, come questo dottissimo calabrese introduce la sua Expositio in Psalterium: "Respinte e abbandonate a Ravenna le sollecitazioni della carriera politica segnata dal sapore disgustoso delle preoccupazioni mondane, avendo goduto del Salterio, libro venuto dal cielo come autentico miele dell'anima, mi tuffai avido come un assetato a scrutarlo senza posa per lasciarmi permeare tutto di quella dolcezza salutare dopo averne avuto abbastanza delle innumerevoli amarezze della vita attiva" (PL 70, col. 10).

La ricerca di Dio, tesa alla sua contemplazione - annota Cassiodoro -, resta lo scopo permanente della vita monastica (cfr PL 69, col. 1107). Egli aggiunge però che, con l'aiuto della grazia divina (cfr PL 69, col. 1131.1142), una migliore fruizione della Parola rivelata si può raggiungere con l'utilizzazione delle conquiste scientifiche e degli strumenti culturali "profani" già posseduti dai Greci e dai Romani (cfr PL 69, col. 1140). Personalmente, Cassiodoro si dedicò a studi filosofici, teologici ed esegetici senza particolare creatività, ma attento alle intuizioni che riconosceva valide negli altri. Leggeva con rispetto e devozione soprattutto Girolamo ed Agostino.

Di quest'ultimo diceva: "In Agostino c'è talmente tanta ricchezza che mi sembra impossibile trovare qualcosa che non sia già stato abbondantemente trattato da lui" (cfr PL 70, col. 10). Citando Girolamo invece esortava i monaci di Vivarium: "Conseguono la palma della vittoria non soltanto coloro che lottano fino all'effusione del sangue o che vivono nella verginità, ma anche tutti coloro che, con l'aiuto di Dio, vincono i vizi del corpo e conservano la retta fede. Ma perché possiate, sempre con l'aiuto di Dio, vincere più facilmente le sollecitazioni del mondo e i suoi allettamenti, restando in esso come pellegrini continuamente in cammino, cercate anzitutto di garantirvi l'aiuto salutare suggerito dal primo salmo che raccomanda di meditare notte e giorno la legge del Signore. Il nemico non troverà infatti alcun varco per assalirvi se tutta la vostra attenzione sarà occupata da Cristo" (De Institutione Divinarum Scripturarum, 32: PL 69, col. 1147).

È un ammonimento che possiamo accogliere come valido anche per noi. Viviamo infatti anche noi in un tempo di incontro delle culture, di pericolo della violenza che distrugge le culture, e del necessario impegno di trasmettere i grandi valori e di insegnare alle nuove generazioni la via della riconciliazione e della pace. Questa via troviamo orientandoci verso il Dio con il volto umano, il Dio rivelatosi a noi in Cristo.
(©L'Osservatore Romano - 13 marzo 2008)

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Udienza generale di mercoledì 9.4.2008


Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato.
Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: "L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina" (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico.

Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.

Questa prospettiva del "biografo" si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come "astro luminoso", Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla "notte oscura della storia" (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo "Europa".

La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, "ex provincia Nursiae" – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; "soli Deo placere desiderans" (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una "comunità religiosa" di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco.

Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il "cuore" di un monastero benedettino chiamato "Sacro Speco". Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.

Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.

Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione.

Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica "una scuola del servizio del Signore" (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che "all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla" (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. "Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti", egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione "affinché in tutto venga glorificato Dio" (57,9).

In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.

All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene "le veci di Cristo" (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – "il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse" (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad "aiutare piuttosto che a dominare" (64,8), ad "accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo" e ad "illustrare i divini comandamenti col suo esempio" (2,12).

Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta "il consiglio dei fratelli" (3,2), perché "spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore" (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come "minima, tracciata solo per l’inizio" (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio.

Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa.

Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, "un regresso senza precedenti nella tormentata storia

dell’umanità" (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.


[00531-01.01] [Testo originale: Italiano]


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Nel discorso in lingua italiana il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura dello Pseudo-Dionigi Aeropagita.


Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti. Quindi ha pronunciato un appello in favore delle popolazioni del Sichuan, in Cina, colpite da un devastante terremoto.
L’Udienza Generale si è conclusa con la recita del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.



CATECHESI DEL SANTO PADRE 14.5.2008


Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei, nel corso delle catechesi sui Padri della Chiesa, parlare di una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull'Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede.

L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell'Areopago, e una certa donna, Damaris.

Se l'autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l'incontro tra la cultura e l'intelligenza greca e l'annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l'annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.

Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata detta: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato e pseudonimato. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un'autorità quasi apostolica.
Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è l'altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po' disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero e un linguaggio comune.

Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua Settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. E con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in rapporto con il Vangelo. Questo principio, che egli afferma nella sua settima lettera, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.

Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire "soprapersonale", realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorta di religione, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca.
Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l'uomo poteva trovare l'accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità — per loro certi riti potevano anche essere sufficienti — e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.

Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio, nell'armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio, e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini, agli angeli e arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e sono lode a Dio. Trasformava così l'immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura.

Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio.

(il Papa a braccio prosegue e dice)

Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia, non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un'esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa unione di noi con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre – egli dice con parola greca – un «hymnein», un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica.

Anzi la parola "mistica" acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola "sacramentale", cioè quanto appartiene al «mysterion», al sacramento. Con lui la parola "mistica" diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell'anima verso Dio. E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra la filosofia greca e il cristianesimo, in particolare la fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più vero; la Bibbia appare abbastanza "barbara", semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri.

Queste immagini ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella semplicità delle immagini, noi troviamo più verità che nei grandi concetti. Il volto di Dio è la nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Così si parla — è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo — di una "teologia negativa". Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto, e dall'altra parte questo volto di Dio è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo questo Proclo, l'armonia dei cori celesti, così che sembra che tutti dipendano da tutti, resta vero che il nostro cammino verso Dio resta molto lontano da Lui; lo Pseudo-Dionigi dimostra che alla fine la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si fa vicino a noi in Gesù Cristo.

E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nella interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell'Oriente sia dell'Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l'eredità così semplice e così profonda di San Francesco: il Poverello con Dionigi ci dice alla fine, che l'amore vede più che la ragione. Dov'è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l'amore vede, l'amore è occhio e l'esperienza ci dà più che la riflessione.

Che cosa sia questa esperienza Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà, nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità, c'è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa, tocchiamo realmente il cuore di Dio.

Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col "non", e solo entrando in questa esperienza del "non" Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell'Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.

Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l'essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell'incontro con Lui, nell'esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell'amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell'esperienza, dell'esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l'incontro con Dio in Cristo.

[00729-01.01] [Testo originale: Italiano]



APPELLO DEL SANTO PADRE


Il mio pensiero va, in questo momento, alle popolazioni del Sichuan e delle Province limitrofe in Cina, duramente colpite dal terremoto, che ha causato gravi perdite in vite umane, numerosissimi dispersi e danni incalcolabili. Vi invito ad unirvi a me nella fervida preghiera per tutti coloro che hanno perso la vita. Sono spiritualmente vicino alle persone provate da così devastante calamità: per esse imploriamo da Dio sollievo nella sofferenza. Voglia il Signore concedere sostegno a tutti coloro che sono impegnati nel far fronte alle esigenze immediate del soccorso.

[00740-01.02] [Testo originale: Italiano]


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Il Papa all'udienza generale narra la vita di uno dei quattro dottori dell'Occidente
Gregorio Magno pacificatore dell'Europa


A san Gregorio Magno Benedetto xvi ha dedicato l'udienza generale di mercoledì mattina, 28 maggio, svoltasi in piazza San Pietro. Nella sua catechesi il Papa ha parlato della vita del grande dottore dell'Occidente che - ha detto - "era un uomo immerso in Dio e sempre vicino al prossimo, a tutti i bisogni della gente del suo tempo".


Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso ho parlato di un Padre della Chiesa poco conosciuto in Occidente, Romano il Melode, oggi vorrei presentare la figura di uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell'Occidente, il Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa!

Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l'attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice iii (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell'ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant'Andrea al Celio.

Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell'ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell'amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l'universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo "apocrisario", oggi si direbbe "Nunzio Apostolico", per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l'appoggio dell'imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d'Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio ii. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l'anno 590.

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall'inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell'affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l'ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un'ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (circa 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l'Italia e Roma ve n'era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda.

Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell'Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell'Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice.

Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant'Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l'Inghilterra.
Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore -, intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598-601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica.

Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l'importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre:
contenere l'espansione dei Longobardi in Italia;
sottrarre la regina Teodolinda all'influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica;
mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un'azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi.

Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l'annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all'azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell'indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d'Italia un'attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all'apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo.

Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest'uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.
(©L'Osservatore Romano - 29 maggio 2008)



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Udienza Mercoledì 4.6.2008

Cari fratelli e sorelle,

ritornerò oggi, in questo nostro incontro del mercoledì, alla straordinaria figura di Papa Gregorio Magno, per raccogliere qualche ulteriore luce dal suo ricco insegnamento. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una "sua" dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo.

Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio,egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione.

In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui "il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo". Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le "stazioni" - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola "praedicator": non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi "predicatore" di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il "predicatore" per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: "Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere". Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita "ars artium", l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di "ecumenico" da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare questa legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua espressione - servus servorum Dei.

Questa parola da lui coniata non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che, soprattutto un Vescovo, dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente fu di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze, seppe farsi "servo dei servi". Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

[00876-01.01] [Testo originale: Italiano]

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Vogliamo essere veramente segno di contraddizione?

Altro non vi dico (…) Non vorrei più parole, ma trovarmi nel campo della battaglia, sostenendo le pene, e combattendo con voi insieme per la verità infino alla morte, per gloria e lode del nome di Dio, e reformazione della Santa Chiesa…”
(Santa Caterina da Siena, Lettera 305 al Papa Urbano VI ove lottò fino alla morte per difendere l’autorità del Pontefice)
 


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CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA 11.6.2008


Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo "europeo", perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa.



In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 ed indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione "totius Europae – di tutta l’Europa", con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).

Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.

All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della "peregrinatio pro Christo", del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Annegray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo.

Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.

A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum - per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto – disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente.

Con un'altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza "tariffata" per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei Vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro.

Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, "ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti – cosa più grave – sono disattese" (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV – come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) – per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).

Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare ed imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda.

Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.

Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma.

Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle della Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.

Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da Lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana.

Cito dalle sue Instructiones: "Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo" (cfr Instr. XI).

Queste parole, il Santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura –scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica – si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

[00913-01.01] [Testo originale: Italiano]

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All'udienza generale dedicata a sant'Isidoro di Siviglia il Papa sottolinea il legame tra vita contemplativa e attiva

I cristiani non sono uomini
a una dimensione


La vita del cristiano dev'essere una sintesi tra "contemplazione di Dio" e "azione a servizio della comunità umana e del prossimo". È questo l'insegnamento di sant'Isidoro di Siviglia riproposto dal Papa all'udienza generale di mercoledì 18 giugno, in piazza San Pietro.

Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di sant'Isidoro di Siviglia:  era fratello minore di Leandro, Vescovo di Siviglia e grande amico del Papa Gregorio Magno. Il rilievo è importante, perché permette di tenere presente un accostamento culturale e spirituale indispensabile alla comprensione della personalità di Isidoro. Egli deve infatti molto a Leandro, persona molto esigente, studiosa e austera, che aveva creato intorno al fratello minore un contesto familiare caratterizzato dalle esigenze ascetiche proprie di un monaco e dai ritmi di lavoro richiesti da una seria dedizione allo studio. Inoltre Leandro si era preoccupato di predisporre il necessario per far fronte alla situazione politico-sociale del momento:  in quei decenni infatti i Visigoti, barbari e ariani, avevano invaso la penisola iberica e si erano impadroniti dei territori appartenuti all'Impero romano. Occorreva conquistarli alla romanità e al cattolicesimo. La casa di Leandro e di Isidoro era fornita di una biblioteca assai ricca di opere classiche, pagane e cristiane. Isidoro, che si sentiva attratto simultaneamente sia verso le une che verso le altre, fu educato perciò a sviluppare, sotto la responsabilità del fratello maggiore, una disciplina molto forte nel dedicarsi al loro studio, con discrezione e discernimento.
Nell'episcopio di Siviglia si viveva, perciò, in un clima sereno ed aperto.

Lo possiamo dedurre dagli interessi culturali e spirituali di Isidoro, così come essi emergono dalle sue stesse opere, che comprendono una conoscenza enciclopedica della cultura classica pagana e un'approfondita conoscenza della cultura cristiana. Si spiega così l'eclettismo che caratterizza la produzione letteraria di Isidoro, il quale spazia con estrema facilità da Marziale ad Agostino, da Cicerone a Gregorio Magno. La lotta interiore che dovette sostenere il giovane Isidoro, divenuto successore del fratello Leandro sulla cattedra episcopale di Siviglia nel 599, non fu affatto leggera. Forse si deve proprio a questa lotta costante con se stesso l'impressione di un eccesso di volontarismo che s'avverte leggendo le opere di questo grande autore, ritenuto l'ultimo dei Padri cristiani dell'antichità. Pochi anni dopo la sua morte, avvenuta nel 636, il Concilio di Toledo del 653 lo definì:  "Illustre maestro della nostra epoca, e gloria della Chiesa cattolica".


Isidoro fu senza dubbio un uomo dalle contrapposizioni dialettiche accentuate. E, anche nella sua vita personale, sperimentò un permanente conflitto interiore, assai simile a quello che avevano avvertito già san Gregorio Magno e sant'Agostino, fra desiderio di solitudine, per dedicarsi unicamente alla meditazione della Parola di Dio, ed esigenze della carità verso i fratelli della cui salvezza si sentiva, come Vescovo, incaricato. Scrive per esempio a proposito dei responsabili delle Chiese:  "Il responsabile di una Chiesa (vir ecclesiasticus) deve da una parte lasciarsi crocifiggere al mondo con la mortificazione della carne e dall'altra accettare la decisione dell'ordine ecclesiastico, quando proviene dalla volontà di Dio, di dedicarsi al governo con umiltà, anche se non vorrebbe farlo" (Sententiarum liber iii, 33, 1:  PL 83, col 705 B).

Aggiunge poi appena un paragrafo dopo:  "Gli uomini di Dio (sancti viri) non desiderano affatto di dedicarsi alle cose secolari e gemono quando, per un misterioso disegno di Dio, vengono caricati di certe responsabilità... Essi fanno di tutto per evitarle, ma accettano ciò che vorrebbero fuggire e fanno ciò che avrebbero voluto evitare. Entrano infatti nel segreto del cuore e là dentro cercano di capire che cosa chieda la misteriosa volontà di Dio. E quando si rendono conto di doversi sottomettere ai disegni di Dio, umiliano il collo del cuore sotto il giogo della decisione divina" (Sententiarum liber iii, 33, 3:  PL 83, coll. 705-706).


Per capire meglio Isidoro occorre ricordare, innanzitutto, la complessità delle situazioni politiche del suo tempo, a cui ho già accennato:  durante gli anni della fanciullezza aveva dovuto sperimentare l'amarezza dell'esilio. Ciò nonostante era pervaso di entusiasmo apostolico:  sperimentava l'ebbrezza di contribuire alla formazione di un popolo che ritrovava finalmente la sua unità, sul piano sia politico che religioso, con la provvidenziale conversione dell'erede al trono visigoto Ermenegildo dall'arianesimo alla fede cattolica.

Non si deve tuttavia sottovalutare l'enorme difficoltà di affrontare in modo adeguato problemi assai gravi come quelli dei rapporti con gli eretici e con gli Ebrei. Tutta una serie di problemi che appaiono molto concreti anche oggi, soprattutto se si considera ciò che avviene in certe regioni nelle quali sembra quasi di assistere al riproporsi di situazioni assai simili a quelle presenti nella penisola iberica in quel sesto secolo. La ricchezza delle conoscenze culturali di cui disponeva Isidoro gli permetteva di confrontare continuamente la novità cristiana con l'eredità classica greco-romana, anche se più che il dono prezioso della sintesi sembra che egli avesse quello della collatio, cioè della raccolta, che si esprimeva in una straordinaria erudizione personale, non sempre ordinata come si sarebbe potuto desiderare.


Da ammirare è, in ogni caso, il suo assillo di non trascurare nulla di ciò che l'esperienza umana aveva prodotto nella storia della sua patria e del mondo intero. Isidoro non avrebbe voluto perdere nulla di ciò che era stato acquisito dall'uomo nelle epoche antiche, fossero esse pagane, ebraiche o cristiane. Non deve stupire pertanto se, nel perseguire questo scopo, gli succedeva a volte di non riuscire a far passare adeguatamente, come avrebbe voluto, le conoscenze che possedeva attraverso le acque purificatrici della fede cristiana. Di fatto, tuttavia, nelle intenzioni di Isidoro, le proposte che egli fa restano sempre in sintonia con la fede cattolica, da lui sostenuta con fermezza.

Nella discussione dei vari problemi teologici, egli mostra di percepirne la complessità e propone spesso con acutezza soluzioni che raccolgono ed esprimono la verità cristiana completa. Ciò ha consentito ai credenti nel corso dei secoli di fruire con gratitudine delle sue definizioni fino ai nostri tempi. Un esempio significativo in materia ci è offerto dall'insegnamento di Isidoro sui rapporti tra vita attiva e vita contemplativa. Egli scrive:  "Coloro che cercano di raggiungere il riposo della contemplazione devono allenarsi prima nello stadio della vita attiva; e così, liberati dalle scorie dei peccati, saranno in grado di esibire quel cuore puro che, unico, permette di vedere Dio" (Differentiarum Lib ii, 34, 133:  PL 83, col 91A). Il realismo di un vero pastore lo convince però del rischio che i fedeli corrono di ridursi ad essere uomini ad una dimensione. Perciò aggiunge:  "La via media, composta dall'una e dall'altra forma di vita, risulta normalmente più utile a risolvere quelle tensioni che spesso vengono acuite dalla scelta di un solo genere di vita e vengono invece meglio temperate da un'alternanza delle due forme" (o.c., 134:  ivi, col 91B).


La conferma definitiva di un giusto orientamento di vita Isidoro la cerca nell'esempio di Cristo e dice:  "Il Salvatore Gesù ci offrì l'esempio della vita attiva, quando durante il giorno si dedicava a offrire segni e miracoli in città, ma mostrò la vita contemplativa quando si ritirava sul monte e vi pernottava dedito alla preghiera" (o.c. 134:  ivi). Alla luce di questo esempio del divino Maestro, Isidoro può concludere con questo preciso insegnamento morale:  "Perciò il servo di Dio, imitando Cristo, si dedichi alla contemplazione senza negarsi alla vita attiva. Comportarsi diversamente non sarebbe giusto. Infatti come si deve amare Dio con la contemplazione, così si deve amare il prossimo con l'azione. È impossibile dunque vivere senza la compresenza dell'una e dell'altra forma di vita, né è possibile amare se non si fa esperienza sia dell'una che dell'altra" (o.c., 135:  ivi, col 91C).

Ritengo che questa sia la sintesi di una vita che cerca la contemplazione di Dio, il dialogo con Dio nella preghiera e nella lettura della Sacra Scrittura, come pure l'azione a servizio della comunità umana e del prossimo. Questa sintesi è la lezione che il grande Vescovo di Siviglia lascia a noi, cristiani di oggi, chiamati a testimoniare Cristo all'inizio di un nuovo millennio.



(©L'Osservatore Romano - 19 giugno 2008)




 


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  La catechesi del Papa presenta la figura di san Massimo il Confessore

Culmine della libertà
è dire sì a Dio


Tolleranza, libertà e dialogo sono valori veri se hanno in Cristo il loro punto di riferimento. Lo ha detto Benedetto XVI nella catechesi, pronunciata quasi per intero a braccio, durante l'udienza generale di mercoledì 25 giugno, in piazza San Pietro.

Cari fratelli e sorelle,
vorrei presentare oggi la figura di uno dei grandi Padri della Chiesa di Oriente del tempo tardivo. Si tratta di un monaco, san Massimo, che meritò dalla Tradizione cristiana il titolo di Confessore per l'intrepido coraggio con cui seppe testimoniare - "confessare" - anche con la sofferenza l'integrità della sua fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, Salvatore del mondo. Massimo nacque in Palestina, la terra del Signore, intorno al 580.

Fin da ragazzo fu avviato alla vita monastica e allo studio delle Scritture, anche attraverso le opere di Origene, il grande maestro che già nel terzo secolo era giunto a "fissare" la tradizione esegetica alessandrina.


Da Gerusalemme, Massimo si trasferì a Costantinopoli, e da lì, a causa delle invasioni barbariche, si rifugiò in Africa. Qui si distinse con estremo coraggio nella difesa dell'ortodossia. Massimo non accettava alcuna riduzione dell'umanità di Cristo. Era nata la teoria secondo cui in Cristo vi sarebbe solo una volontà, quella divina. Per difendere l'unicità della sua persona, negavano in Lui una vera e propria volontà umana.

E, a prima vista, potrebbe apparire anche una cosa buona che in Cristo ci sia una sola volontà. Ma san Massimo capì subito che ciò avrebbe distrutto il mistero della salvezza, perché una umanità senza volontà, un uomo senza volontà non è un vero uomo, è un uomo amputato. Quindi l'uomo Gesù Cristo non sarebbe stato un vero uomo, non avrebbe vissuto il dramma dell'essere umano, che consiste proprio nella difficoltà di conformare la volontà nostra con la verità dell'essere. E così san Massimo afferma con grande decisione:  la Sacra Scrittura non ci mostra un uomo amputato, senza volontà, ma un vero uomo completo:  Dio, in Gesù Cristo, ha realmente assunto la totalità dell'essere umano - ovviamente eccetto il peccato - quindi anche una volontà umana. E la cosa, detta così, appare chiara:  Cristo o è o non è uomo. Se è uomo, ha anche una volontà. Ma nasce il problema:  non si finisce così in una sorta di dualismo? Non si arriva ad affermare due personalità complete:  ragione, volontà, sentimento?

Come superare il dualismo, conservare la completezza dell'essere umano e tuttavia tutelare l'unità della persona di Cristo, che non era schizofrenico. E san Massimo dimostra che l'uomo trova la sua unità, l'integrazione di se stesso, la sua totalità non in se stesso, ma superando se stesso, uscendo da se stesso. Così, anche in Cristo, uscendo da se stesso, l'uomo trova in Dio, nel Figlio di Dio, se stesso. Non si deve amputare l'uomo per spiegare l'Incarnazione; occorre solo capire il dinamismo dell'essere umano che si realizza solo uscendo da se stesso; solo in Dio troviamo noi stessi, la nostra totalità e completezza.

Così si vede che non l'uomo che si chiude in sé è uomo completo, ma l'uomo che si apre, che esce da se stesso, diventa completo e trova se stesso proprio nel Figlio di Dio, trova la sua vera umanità. Per san Massimo questa visione non rimane una speculazione filosofica; egli la vede realizzata nella vita concreta di Gesù, soprattutto nel dramma del Getsemani. In questo dramma dell'agonia di Gesù, dell'angoscia della morte, della opposizione tra la volontà umana di non morire e la volontà divina che si offre alla morte, in questo dramma del Getsemani si realizza tutto il dramma umano, il dramma della nostra redenzione.

San Massimo ci dice, e noi sappiamo che questo è vero:  Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il "no" fosse l'apice della libertà. Solo chi può dire "no" sarebbe realmente libero; per realizzare realmente la sua libertà, l'uomo deve dire "no" a Dio; solo così pensa di essere finalmente se stesso, di essere arrivato al culmine della libertà. Questa tendenza la portava in se stessa anche la natura umana di Cristo, ma l'ha superata, perché Gesù ha visto che non il "no" è il massimo della libertà. Il massimo della libertà è il "sì", la conformità con la volontà di Dio. Solo nel "sì" l'uomo diventa realmente se stesso; solo nella grande apertura del "sì", nella unificazione della sua volontà con quella divina, l'uomo diventa immensamente aperto, diventa "divino".

Essere come Dio era il desiderio di Adamo, cioè essere completamente libero. Ma non è divino, non è completamente libero l'uomo che si chiude in sé stesso; lo è uscendo da sé, è nel "sì" che diventa libero; e questo è il dramma del Getsemani:  non la mia volontà, ma la tua. Trasferendo la volontà umana nella volontà divina, è così che nasce il vero uomo, così siamo redenti. Questo, in brevi parole, è il punto fondamentale di quanto voleva dire san Massimo, e vediamo che qui è veramente in questione tutto l'essere umano; sta qui l'intera questione della nostra vita. San Massimo aveva già problemi in Africa difendendo questa visione dell'uomo e di Dio; poi fu chiamato a Roma. Nel 649 prese parte attiva al Concilio Lateranense, indetto dal Papa Martino i a difesa delle due volontà di Cristo, contro l'editto dell'imperatore, che - pro bono pacis - proibiva di discutere tale questione.

Il Papa Martino dovette pagare caro il suo coraggio:  benché malandato in salute, venne arrestato e tradotto a Costantinopoli. Processato e condannato a morte, ottenne la commutazione della pena nel definitivo esilio in Crimea, dove morì il 16 settembre 655, dopo due lunghi anni di umiliazioni e di tormenti.
Poco tempo più tardi, nel 662, fu la volta di Massimo, che - opponendosi anche lui all'imperatore - continuava a ripetere:  "È impossibile affermare in Cristo una sola volontà!" (cfr PG 91, cc. 268-269). Così, insieme a due suoi discepoli, entrambi chiamati Anastasio, Massimo fu sottoposto a un estenuante processo, benché avesse ormai superato gli ottant'anni di età.

Il tribunale dell'imperatore lo condannò, con l'accusa di eresia, alla crudele mutilazione della lingua e della mano destra - i due organi mediante i quali, attraverso le parole e gli scritti, Massimo aveva combattuto l'errata dottrina dell'unica volontà di Cristo. Infine il santo monaco, così mutilato, venne esiliato nella Colchide, sul Mar Nero, dove morì, sfinito per le sofferenze subite, all'età di 82 anni, il 13 agosto dello stesso anno 662.


Parlando della vita di Massimo, abbiamo accennato alla sua opera letteraria in difesa dell'ortodossia. Ci siamo riferiti in particolare alla Disputa con Pirro, già patriarca di Costantinopoli:  in essa egli riuscì a persuadere l'avversario dei suoi errori. Con molta onestà, infatti, Pirro concludeva così la Disputa:  "Chiedo scusa per me e per quelli che mi hanno preceduto:  per ignoranza siamo giunti a questi assurdi pensieri e argomentazioni; e prego che si trovi il modo di cancellare queste assurdità, salvando la memoria di quelli che hanno errato" (PG 91, c. 352).

Ci sono poi giunte alcune decine di opere importanti, tra le quali spicca la Mistagoghía, uno degli scritti più significativi di san Massimo, che raccoglie in sintesi ben strutturata il suo pensiero teologico.
Quello di san Massimo non è mai un pensiero solo teologico, speculativo, ripiegato su se stesso, perché ha sempre come punto di approdo la concreta realtà del mondo e della sua salvezza. In questo contesto, nel quale ha dovuto soffrire, non poteva evadere in affermazioni filosofiche solo teoriche; doveva cercare il senso del vivere, chiedendosi:  chi sono io, che cosa è il mondo? All'uomo, creato a sua immagine e somiglianza, Dio ha affidato la missione di unificare il cosmo. E come Cristo ha unificato in se stesso l'essere umano, nell'uomo il Creatore ha unificato il cosmo. Egli ci ha mostrato come unificare nella comunione di Cristo il cosmo e così arrivare realmente a un mondo redento.

A questa potente visione salvifica fa riferimento uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo, Hans Urs von Balthasar, che - "rilanciando" la figura di Massimo - definisce il suo pensiero con l'icastica espressione di Kosmische Liturgie, "liturgia cosmica". Al centro di questa solenne "liturgia" rimane sempre Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. L'efficacia della sua azione salvifica, che ha definitivamente unificato il cosmo, è garantita dal fatto che egli, pur essendo Dio in tutto, è anche integralmente uomo - compresa anche l'"energia" e la volontà dell'uomo.


La vita e il pensiero di Massimo restano potentemente illuminati da un immenso coraggio nel testimoniare l'integrale realtà di Cristo, senza alcuna riduzione o compromesso. E così appare chi è veramente l'uomo, come dobbiamo vivere per rispondere alla nostra vocazione. Dobbiamo vivere uniti a Dio, per essere così uniti a noi stessi e al cosmo, dando al cosmo stesso e all'umanità la giusta forma. L'universale "sì" di Cristo, ci mostra anche con chiarezza come dare il collocamento giusto a tutti gli altri valori. Pensiamo a valori oggi giustamente difesi quali la tolleranza, la libertà, il dialogo. Ma una tolleranza che non sapesse più distinguere tra bene e male diventerebbe caotica e autodistruttiva. Così pure:  una libertà che non rispettasse la libertà degli altri e non trovasse la comune misura delle nostre rispettive libertà, diventerebbe anarchia e distruggerebbe l'autorità. Il dialogo che non sa più su che cosa dialogare diventa una chiacchiera vuota.

Tutti questi valori sono grandi e fondamentali, ma possono rimanere veri valori soltanto se hanno il punto di riferimento che li unisce e dà loro la vera autenticità. Questo punto di riferimento è la sintesi tra Dio e cosmo, è la figura di Cristo nella quale impariamo la verità di noi stessi e impariamo così dove collocare tutti gli altri valori, perché scopriamo il loro autentico significato. Gesù Cristo è il punto di riferimento che dà luce a tutti gli altri valori. Questo è il punto di arrivo della testimonianza di questo grande Confessore. E così, alla fine, Cristo ci indica che il cosmo deve divenire liturgia, gloria di Dio e che la adorazione è l'inizio della vera trasformazione, del vero rinnovamento del mondo.


Perciò vorrei concludere con un brano fondamentale delle opere di san Massimo:  "Noi adoriamo un solo Figlio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, come prima dei tempi, così anche ora, e per tutti i tempi, e per i tempi dopo i tempi. Amen!" (PG 91, c. 269).



(©L'Osservatore Romano - 26 giugno 2008)




 
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06/11/2008 16:55

udienza di mercoledi 5/11/08
Non vorrei essere innopportuno ma mi sembra bello ricominciare
«La Risurrezione svela l'identità del Crocifisso»

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) - così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L'intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.

E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l'importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l'unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.

E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica - non vuol scrivere quasi un manuale di teologia - ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò - come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell'annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).

Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell'evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all'inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell'incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l'intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).

Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell'intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall'altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell'attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).

In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell'ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.
da Avvenire
21/11/2008 10:22

Udienza del (12 novembre 2008)
Il nostro futuro è essere con il Signore


Cari fratelli e sorelle,

il tema della risurrezione, sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva, quella dell'attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose ultime, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in un certo senso, già presenti.

Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l'Apostolo scrive così: "Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti" (4,14). E continua: "Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore" (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E’ questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è "essere con il Signore"; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata.

Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: "Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!" (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dell’arrivo del Signore vi sarà l'apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’ (2,3), che la tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa Lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: "Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità" (3, 10-12). In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa del ritorno implica responsabilità per questo mondo.

La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia – ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nostro nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: "Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi" (1, 21-26).

Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per se, ma per noi. Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.

E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi aspetti dell'attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la fine del mondo? Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al futuro.

In secondo luogo, la certezza che Cristo è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c'è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.

Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna — è giudice e salvatore insieme — ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia. Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.

Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo all'escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9).

Infine, un ultimo punto che forse appare un po' difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell'area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa "Signore nostro, vieni!" (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, si chiude con questa preghiera: "Signore, vieni!". Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: "Vieni, Signore Gesù!". Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d'altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell'amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c'è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! "Vieni, Signore Gesù!", e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.



04/12/2008 11:24

Udienza del (26 novembre 2008)
La fede senza amore è "arbitrio" e "soggettivismo"

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in grado di farsi "giusto" con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire "giusto" davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua "giustizia" unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende "giusti". Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta.

Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della "giustificazione" mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: "In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le "opere della carne" che sono "fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria..." (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.

All’inizio di quest’elenco di virtù è citata l’agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l'amore,per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: "Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse..." (1 Cor 13,1.4-5). L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per "Colui che è morto e risorto per noi" (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.

Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: "Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta" (2,26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr Gc 2,2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata "con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare... tenendo salda la parola di vita", dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr Fil 2,12-14.16).

Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, "tutto fosse loro lecito". E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19) . Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto "ragionevole" e insieme "spirituale", per cui siamo esortati da Paolo a "offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti "dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male" (2 Cor 5,10; cfr anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.

Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall'amore "folle" di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’ questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell'amore


04/12/2008 11:27

Udienza del (03 dicembre 2008)
«Il male non è logico, è libertà abusata»


Cari fratelli e sorelle,

nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita" (1 Cor 15,22.45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo.

Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del "molto più" riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: "Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo.

D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che "a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte" (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.

Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto.

Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa "seconda natura" fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.

Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sè sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo.

E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.

Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: "Hai creato sanabili le nazioni" (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte.

Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!


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