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Benedetto XVI ricorda Giovanni Paolo II

Ultimo Aggiornamento: 04/11/2008 17:23
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Sul sito della Radio Vaticana, l'intervista al Santo Padre in formato audio (real audio e mp3) e video:

Link al file in formato Real Audio
Link al file in formato MP3
Link al video

Li ho provati e funzionano tutti e tre...........

se volete comunque anche leggere l'intervista, leggete a seguire......

target Benedetto XVI: Giovanni Paolo II? Lo sento sempre vicino


di Mattia Bianchi/ 17/10/2005

In un'intervista alla TV polacca, Benedetto XVI ricorda papa Wojtyla, ripercorrendo un'amicizia iniziata nel 1978. La sua eredità è immensa, ha detto, mio compito sarà farla assimilare. E nel giugno 2006, il viaggio in Polonia. Il testo integrale...

Un’amicizia lunga 27 anni, la collaborazione come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, gli ultimi incontri poco prima della morte, il passaggio di testimone alla guida della Chiesa. Benedetto XVI è tornato a parlare di Giovanni Paolo II in un’intervista esclusiva alla Televisione di Stato Polacca. In occasione della “Giornata del Papa”, celebrata ogni anno in Polonia il 16 ottobre, il pontefice ha risposto alle domande di padre Andrzej Majewski, responsabile della redazione dei programmi cattolici dell’emittente. Un dialogo profondo che è andato alle radici dell’eredità lasciata da papa Wojtyla, che il successore si impegna a portare avanti. “Considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, - ha spiegato Benedetto XVI - ma di fare in modo che questi documenti (ndr. gli scritti di Giovanni Paolo II) siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano”. Un legame forte quello tra i due pontefici. “Sono vicino al papa – confida Ratzinger - e lui ora mi aiuta ad essere vicino al Signore e cerco di entrare nella sua atmosfera di preghiera, di amore del Signore, di amore della Madonna e mi affido alla sue preghiere. C’è così un dialogo permanente ed anche un essere vicini, in un nuovo modo, ma in modo molto profondo”. Benedetto XVI ha annunciato anche che con tutta probabilità sarà in pellegrinaggio in Polonia nel mese di giugno del 2006. Un viaggio che si annuncia già ricco di significati.

Il testo integrale dell’intervista a Benedetto XVI

Grazie di cuore, Padre Santo, per averci concesso questa breve intervista in occasione della Giornata del Papa, che si celebra in Polonia. Il 16 ottobre del 1978, il cardinale Karol Wojtyla diventò Papa e da quel giorno Giovanni Paolo II, per oltre 26 anni, da Successore di San Pietro, come è Lei adesso, ha guidato la Chiesa assieme ai vescovi e ai cardinali. Tra i cardinali vi era anche Vostra Santità, persona singolarmente apprezzata e stimata dal suo predecessore; persona di cui il Pontefice Giovanni Paolo II ebbe a scrivere nel libro “Alzatevi, andiamo” - e qui cito – “Ringrazio Iddio per la presenza e l’aiuto del cardinale Ratzinger. E’ un amico provato”, ha scritto Giovanni Paolo II.

Padre Santo come è iniziata questa amicizia e quando Vostra Santità ha conosciuto il cardinale Karol Wojityla?

"Personalmente lo ho conosciuto soltanto nei due pre-conclave e conclave del ’78. Avevo naturalmente sentito parlare del cardinale Wojityla, inizialmente soprattutto nel contesto della corrispondenza fra vescovi polacchi e tedeschi nel ’65. I cardinali tedeschi mi hanno raccontato come era grandissimo il merito e il contributo dell’arcivescovo di Cracovia e che era proprio l’anima di questa corrispondenza realmente storica. Da amici universitari avevo anche sentito della sua filosofia e della grandezza della sua figura di pensatore. Ma come ho detto l’incontro personale la prima volta si è realizzato per il conclave del ’78. Dall’inizio ho sentito una grande simpatia e, grazie a Dio, immeritatamente, il cardinale di quel tempo mi ha donato fin dall’inizio la sua amicizia. Sono grato per questa fiducia che mi ha donato, senza i miei meriti. Soprattutto vedendolo pregare, ho visto e non solo capito, ho visto che era un uomo di Dio. Questa era l’impressione fondamentale: un uomo che vive con Dio, anzi in Dio. Mi ha poi impressionato la cordialità, senza pregiudizi, con la quale si è incontrato con me. In questi incontri del pre-conclave dei cardinali, ha preso diverse volte la parola e qui ho avuto anche la possibilità di sentire la statura del pensatore. Senza grandi parole, era così nata un’amicizia che veniva proprio dal cuore e, subito dopo la sua elezione, il Papa mi ha chiamato diverse volte a Roma per colloqui e alla fine mi ha nominato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede".

Dunque non è stata una sorpresa questa nomina e questa convocazione a Roma?

"Per me era un po’ difficile, perché dall’inizio del mio episcopato a Monaco, con la solenne consacrazione a vescovo nella cattedrale di Monaco, vi era per me un obbligo, quasi un matrimonio con questa diocesi ed avevano anche sottolineato che dopo decenni ero il primo vescovo originario della diocesi. Mi sentivo quindi molto obbligato e legato a questa diocesi. C’erano poi dei problemi difficili che non erano ancora risolti e non volevo lasciare la diocesi con dei problemi non risolti. Di tutto questo ho discusso con il Santo Padre, con grande apertura e con questa fiducia che aveva il Santo Padre, che era molto paterno con me. Mi ha dato quindi tempo di riflettere, egli stesso voleva riflettere. Alla fine mi ha convinto, perché questa era la volontà di Dio. Potevo così accettare questa chiamata e questa responsabilità grande, non facile, che di per sé superava le mie capacità. Ma nella fiducia alla paterna benevolenza del Papa e con la guida dello Spirito Santo, potevo dire di sì".

Questa esperienza durò per più di 20 anni…

"Sì, sono arrivato nel febbraio dell’82 ed è durata fino alla morte del Papa nel 2005".

Quali sono, secondo Lei, Santo Padre, i punti più significativi del Pontificato di Giovanni Paolo II?

"Possiamo avere, direi, due punti di vista: uno ad extra - al mondo -, ed uno ad intra - alla Chiesa -. Riguardo al mondo, mi sembra che il Santo Padre, con i suoi discorsi, la sua persona, la sua presenza, la sua capacità di convincere, ha creato una nuova sensibilità per i valori morali, per l’importanza della religione nel mondo. Questo ha fatto sì che si creasse una nuova apertura, una nuova sensibilità per i problemi della religione, per la necessità della dimensione religiosa nell’uomo e soprattutto è cresciuta – in modo inimmaginabile – l’importanza del Vescovo di Roma. Tutti i cristiani hanno riconosciuto – nonostante le differenze e nonostante il loro non riconoscimento del Successore di Pietro – che è lui il portavoce della cristianità. Nessun altro al mondo, a livello mondiale può parlare così nel nome della cristianità e dar voce e forza nell’attualità del mondo alla realtà cristiana. Ma anche per la non cristianità e per le altre religioni, era lui il portavoce dei grandi valori dell’umanità. E’ anche da menzionare che è riuscito a creare un clima di dialogo fra le grandi religioni e un senso di comune responsabilità che tutti abbiamo per il mondo, ma anche che le violenze e le religioni sono incompatibili e che insieme dobbiamo cercare la strada per la pace, in una responsabilità comune per l’umanità. Spostiamo l’attenzione ora verso la situazione della Chiesa. Io direi che, anzitutto, ha saputo entusiasmare la gioventù per Cristo. Questa è una cosa nuova, se pensiamo alla gioventù del ’68 e degli anni Settanta. Che la gioventù si sia entusiasmata per Cristo e per la Chiesa ed anche per valori difficili, poteva ottenerlo soltanto una personalità con quel carisma; soltanto Lui poteva in tal modo riuscire a mobilitare la gioventù del mondo per la causa di Dio e per l’amore di Cristo. Nella Chiesa ha creato – penso – un nuovo amore per l’Eucaristia. Siamo ancora nell’Anno dell’Eucaristia, voluto da lui, con tanto amore; ha creato un nuovo senso per la grandezza della Misericordia Divina; e ha anche approfondito molto l’amore per la Madonna e ci ha così guidato ad una interiorizzazione della fede e, allo stesso tempo, ad una maggiore efficienza. Naturalmente bisogna menzionare – come sappiamo tutti - anche quanto sia stato essenziale il suo contributo per i grandi cambiamenti nel mondo nell’89, per il crollo del cosiddetto socialismo reale".

Nel corso dei suoi incontri personali e dei colloqui con Giovanni Paolo II, che cosa faceva maggior impressione a Vostra Santità? Potrebbe raccontarci i suoi ultimi incontri, forse di quest’anno, con Giovanni Paolo II?

"Sì. Gli ultimi due incontri li ho avuti, un primo, al Policlinico “Gemelli”, intorno al 5-6 febbraio; e, un secondo, il giorno prima della sua morte, nella sua stanza. Nel primo incontro il Papa soffriva visibilmente, ma era pienamente lucido e molto presente. Io era andato semplicemente per un incontro di lavoro, perché avevo bisogno di alcune sue decisioni. Il Santo Padre - benché soffrendo – seguiva con grande attenzione quanto dicevo. Mi comunicò in poche parole le sue decisioni, mi diede la sua benedizione, mi salutò in tedesco, accordandomi tutta la sua fiducia e la sua amicizia. Per me è stato molto commovente vedere, da una parte, come la sua sofferenza fosse in unione col Signore sofferente, come portasse la sua sofferenza con il Signore e per il Signore; e, dall’altra, vedere come risplendesse di una serenità interiore e di una lucidità completa. Il secondo incontro è stato il giorno prima della morte: era ovviamente più sofferente, visibilmente, circondato da medici ed amici. Era ancora molto lucido, mi ha dato la sua benedizione. Non poteva più parlare molto. Per me questa sua pazienza nel soffrire è stato un grande insegnamento, soprattutto riuscire a vedere e a sentire come fosse nella mani di Dio e come si abbandonasse alla volontà di Dio. Nonostante i dolori visibili, era sereno, perché era nelle mani dell’Amore Divino".

Lei, Santo Padre, spesso nei suoi discorsi evoca la figura di Giovanni Paolo II, e di Giovanni Paolo II dice che era un Papa grande, un predecessore compianto e venerato. Ricordiamo sempre le parole di Vostra Santità espresse alla Messa del 20 aprile scorso, parole dedicate proprio a Giovanni Paolo II. E’ stato Lei, Santo Padre, a dire – e qui cito – “sembra che egli mi tenga forte per mano, vedo i suoi occhi ridenti e sento le sue parole, che in quel momento rivolge a me in particolare: ‘non aver paura!’”. Santo Padre, una domanda alla fine molto personale: Lei continua ad avvertire la presenza di Giovanni Paolo II, e se è così, in che modo?

"Certo. Comincio a rispondere alla prima parte della sua domanda. Avevo inizialmente, parlando dell’eredità del Papa, dimenticato di parlare dei tanti documenti che ci ha lasciato – 14 Encicliche, tante Lettere Pastorali e tanti altri – e tutto questo rappresenta un patrimonio ricchissimo che non è ancora sufficientemente assimilato nella Chiesa. Io considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, ma di fare in modo che questi documenti siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano II. Sappiamo che il Papa era l’uomo del Concilio, che aveva assimilato interiormente lo spirito e la lettera del Concilio e con questi testi ci fa capire veramente cosa voleva e cosa non voleva il Concilio. Ci aiuta ad essere veramente Chiesa del nostro tempo e del tempo futuro. Adesso vengo alla seconda parte della sua domanda. Il Papa mi è sempre vicino attraverso i suoi testi: io lo sento e lo vedo parlare, e posso stare in dialogo continuo col Santo Padre, perché con queste parole parla sempre con me, conosco anche l’origine di molti testi, ricordo i dialoghi che abbiamo avuto su uno o sull’altro testo. Posso continuare il dialogo con il Santo Padre. Naturalmente questa vicinanza attraverso le parole è una vicinanza non solo con i testi, ma con la persona, dietro i testi sento il Papa stesso. Un uomo che va dal Signore, non si allontana: sempre più sento che un uomo che va dal Signore si avvicina ancora di più e sento che dal Signore è vicino a me in quanto io sono vicino al Signore, sono vicino al Papa e lui ora mi aiuta ad essere vicino al Signore e cerco di entrare nella sua atmosfera di preghiera, di amore del Signore, di amore della Madonna e mi affido alla sue preghiere. C’è così un dialogo permanente ed anche un essere vicini, in un nuovo modo, ma in modo molto profondo".

Padre Santo, la aspettiamo ora in Polonia. Tanti domandano quando il Papa verrà in Polonia?

"Sì, l’intenzione di venire in Polonia, se Dio vuole, se i tempi me lo permetteranno, c’è. Ho parlato con mons. Dziwisz riguardo alla data e mi dicono che giugno sarebbe il periodo più adeguato. Tutto è ancora naturalmente da organizzare con tutte le istanze competenti. In questo senso è una parola provvisoria, ma sembra che forse il prossimo giugno, se il Signore lo concede, potrei venire in Polonia".

Santo Padre, a nome di tutti i telespettatori, la ringrazio di cuore per questa intervista. Grazie, Padre Santo.

"Grazie a Lei".

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15 Luglio 2005

Tra istituzione e carisma

Il codice dell'ammirazione


È il fiore estremo. Quello più semplice e prezioso. Si dice: questi uomini hanno qualcosa in comune. Giovanni Paolo e Benedetto XVI.

E, a distanza formale ma qui non sostanziale, il loro vicario in Roma, Camillo Ruini. È capitato di pensarci anche lunedì 28 giugno: quel giorno infatti si ebbe il discorso di papa Ratzinger per la consegna del Compendio, e la sera ci fu l’accelerata apertura del processo di beatificazione di papa Wojtyla voluta dal successore, con l’intervento del cardinale Ruini oggi pubblicato in queste pagine. Appena qualche giorno prima c’era stata la presentazione dell’ultimo libro del cardinale Ratzinger, relatore il già collega Ruini. Una circolarità di idee forti, di convinzioni radicate.

Qualcosa che li tiene insieme? Certo, la fede, le responsabilità. E il potere di chi ha grandi compiti, ovvio. Qualcuno aggiunge: l’intelligenza, o la lungimiranza. I più maligni, i più corti: una comune strategia. D’accordo, d’accordo... Ma guardiamo bene. Questi tre - e non solo loro, ovviamente - hanno fatto trasparire anche qualcos’altro. Il loro vero spettacolo, certo non voluto, e ancor meno esibito, anzi circonfuso di rispetto e di pudore. Hanno rivelato una cosa inattesa, come fiore alto e semplice: un’amicizia. D’intelletto e di spirito. Che sembra un fatto ovvio, ma non lo è.

Lo sappiamo duramente: la mancanza, la fine di un’amicizia è circostanza triste come una malattia. In genere, gli amici te li devi scegliere. Li eleggi. Si contano infatti sulle dita di una mano, si dice. Loro invece si sono trovati perché arruolati da un Altro. Per storie diverse si sono trovati insieme. A servire la Chiesa, rispondendo alla chiamata di un Altro. Non è nata come feeling o gioco di convenienze, ma come prossimità che diventa intensità di risposta a Chi li ha voluti vicini in un tempo arduo. Con temperamenti, e gusti diversi. Con immaginazione diversa. Non era scontato che si scoprissero amici. Nessuno peraltro lo impone. Bastano il rispetto, la collaborazione cordiale, l’obbedienza senza infingimenti, la lealtà. Dalla vicinanza è venuta la stima interiore, profonda, che sconfina nell’ammirazione appena soffusa. Benedetto vuol citare - gli capita spesso - il predecessore? "Il nostro Papa", dice. Ruini dal canto suo non fa mistero di quel che pensa su Giovanni Paolo II, né su Benedetto XVI.

Non c’è nulla che tenga tanto lontano gli uomini, che una cosiddetta comunità dove non c’è amicizia. I cristiani che non hanno amici sono una cosa triste come la morte. Ci vuole un Dio che risorga sempre contro questa morte. L’evento di Gesù, la sua dolce presenza. Forse uno dei primi "miracoli" di Karol Wojtyla è questo segno di amicizia posto in cima alla Chiesa, questo fiore posto là dove la gerarchia e l’Istituzione toccano il vertice. Perché non bastano gerarchia e istituzione. Vi ho chiamati amici, dice Gesù in uno dei momenti chiave della sua vita con i primi discepoli. Cosa importa se hai tutto, ma perdi te stesso? Li aveva ammoniti. Voi siete i miei amici. Capo o ultima ruota del carro che tu sia.

Nelle parole oggi pubblicate del card. Ruini viene più volte ricordato il ruolo che gli amici ebbero nella giovinezza e anche nella maturità di Karol Wojtyla. Don Francesco Ricci, uno dei pochi in Italia a conoscerlo bene prima dell’elezione del ’78, fece stampare un libretto del Papa nelle edizioni Cseo. Titolo: i miei amici. Erano articoli dove ricordava coloro che sono stati importanti per lui, uomini noti e oscuri. Alcuni di quei nomi sono risuonati in San Giovanni sulla bocca del cardinal vicario. Formando una catena, una corona, un fiore impensabile. Formando quella bellezza che è anticipo della santità, suo segno di fronte alla durezza della vita e al male del mondo. Il fiore del vivere che tutti desiderano.

Davide Rondoni

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Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza, riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della Chiesa. Penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio. Restano indimenticabili per noi le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. Poi l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione portando egli stesso la Croce.

Infine la muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna. Il Santo Padre, con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. Nel suo ultimo libro "Memoria e Identità" (Rizzoli 2005) ci ha lasciato un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio.

Sia all'inizio come ancora una volta alla fine del menzionato libro, il Papa si mostra profondamente toccato dallo spettacolo del potere del male che, nel secolo appena terminato, ci è stato dato di sperimentare in modo drammatico. Dice testualmente: "Non è stato un male in edizione piccola… È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema" (pag. 198). Il male è forse invincibile? È la vera ultima potenza della storia? A causa dell'esperienza del male, la questione della redenzione, per Papa Woytiła, era diventata l'essenziale e centrale domanda della sua vita e del suo pensare come cristiano. Esiste un limite contro il quale la potenza del male s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in questo suo libro, come anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che al male mette un limite è la misericordia divina. Alla violenza, all'ostentazione del male si oppone nella storia – come "il totalmente altro" di Dio, come la potenza propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più forte del drago, potremmo dire con l'Apocalisse.

Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13 maggio 1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e con il mondo, Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa risposta. Il limite del potere del male, la potenza che, in definitiva, lo vince è – così egli ci dice – la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio sulla Croce: "La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato dalla sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo stati guariti’ (Is 53, 5)" (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella sofferenza. Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo. In questo modo essa si fonde insieme con l'amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il male nel mondo. La risposta che si è avuta in tutto il mondo alla morte del Papa è stata una manifestazione sconvolgente di riconoscenza per il fatto che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a Dio per il mondo; un ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di odio e di violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio degli altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la redenzione, e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima parola nel mondo.

(Benedetto XVI agli auguri alla Curia nel ricordare l'Amico Giovanni Paolo II)

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Card. JOSEPH RATZINGER
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

commenta l'Enciclica Fides et Ratio

© L'OSSERVATORE ROMANO Venerdì 16 Ottobre 1998



Il tema dell'Enciclica Fides et ratio circa i rapporti tra fede e ragione potrebbe sembrare a prima vista eminentemente intellettuale, argomento riservato agli addetti ai lavori: teologi, filosofi, studiosi. Certamente è vero che i destinatari immediati dell'Enciclica sono, oltre ai Vescovi della Chiesa cattolica, i teologi, i filosofi, gli uomini di cultura. Ma guardando le cose in profondità, l'Enciclica, proponendo questo tema, interpella tutti gli uomini, in quanto in ogni uomo alberga il desiderio di conoscere la verità e trovare risposta agli interrogativi fondamentali dell'esistenza: chi sono? da dove vengo e verso dove vado? qual è il senso della presenza del male, della sofferenza, della morte? che cosa ci sarà dopo questa vita? (cfr Prologo, n. 1). Nella frase iniziale dell'Enciclica risiede già il perché del Documento: La Fede e la Ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità. Il problema centrale dell'Enciclica Fides et ratio è infatti la questione della verità, che non è tuttavia una delle tante e molteplici questioni che l'uomo deve affrontare, ma è la questione fondamentale, ineliminabile, che
attraversa tutti i tempi e le stagioni della vita e della storia dell'umanità. La categoria fondamentale della Rivelazione cristiana è la verità, insieme con la carità. L'universalità del cristianesimo risulta dalla sua pretesa di essere la verità e scompare se scompare la convinzione che la fede è la verità. Ma la verità vale per tutti, e quindi il cristianesimo vale per tutti perché vero. Su questa base nasce il motivo e il dovere dell'attività missionaria della Chiesa: se la ragione umana desidera conoscere la verità, se l'uomo è creato per la verità, l'annuncio cristiano fa appello a questa apertura della ragione, per entrare nel cuore dell'uomo. Non ci può essere quindi nessuna contrapposizione, né separazione né estraneità tra la fede cristiana e la ragione umana, perché entrambe, pur nella loro distinzione, sono unite dalla verità, entrambe svolgono un loro ruolo al servizio della verità, entrambe trovano il loro fondamento originario nella verità. In questo mio intervento mi limiterò a presentare brevemente il contesto, l'originalità e l'attualità dell'Enciclica, senza voler entrare nell'analisi delle sue parti, anche perché ciò oltrepasserebbe le possibilità concrete di questo ambito di presentazione.

Il contesto

Dopo 120 anni dall'Enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (1879), Fides et ratio ripropone il tema del rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Perché la fede dovrebbe occuparsi della filosofia e perché la ragione non può fare a meno dell'apporto della fede? Gli interrogativi non rimangono senza risposta. E la risposta non è semplicemente la ripetizione di affermazioni già acquisite nel passato dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa, anche se ovviamente il pensiero dell'Enciclica è in piena continuità con il patrimonio già posseduto. La risposta si colloca nella situazione culturale attuale, che, letta nella sua radice profonda, si caratterizza per due fattori: la separazione portata all'estremo tra la fede e la ragione; e l'eliminazione della questione della verità - assoluta e incondizionata - dalla ricerca culturale e dal sapere razionale dell'uomo. Il clima culturale e filosofico generale nega oggi la capacità della ragione umana di conoscere la verità e riduce la razionalità ad essere semplicemente strumentale, utilitaristica, funzionale, calcolatrice o sociologica. In questo modo la filosofia perde la sua dimensione metafisica e il modello delle scienze umane ed empiriche diventa il parametro e il criterio della razionalità.
Le conseguenze sono: d'una parte la ragione scientifica non costituisce più un avversario per la fede, perché essa rinuncia ad interessarsi alle verità ultime e definitive dell'esistenza, limitando il suo orizzonte alle conoscenze parziali e sperimentabili. In tale modo però si espelle dall'ambito razionale tutto ciò che non rientra nelle capacità di controllo della ragione scientifica, e quindi si apre oggettivamente la strada ad una nuova forma di fideismo. Se l'unico tipo di "ragione" è quello della ragione scientifica, la fede viene espropriata di qualunque forma di razionalità e intelligibilità, ed è destinata a fuggire nel simbolismo non definibile o nel sentimento irrazionale.
D'altra parte la rinuncia della ragione alla rivendicazione della conoscenza della verità è anch'essa nel suo primo passo una opzione di tipo filosofico e pone l'esigenza di un intrinseco rapporto tra teologia e filosofia. Il ritirarsi da parte della ragione dalla questione della verità significa cedere ad una certa cultura filosofica, che esclude la metafisica a causa dell'assolutizzazione del paradigma della ragione scientifica o storica. La conseguenza di questa capitolazione è soltanto apparentemente innocua per la fede, che è sospinta dentro un cerchio chiuso in se stesso, relegato nel soggettivismo, nella privatizzazione intimistica, non più in grado di comunicarsi agli altri né di farsi valere sul piano culturale e razionale.
D'altra parte, se la ragione si trova in una situazione debole, ne deriva una visione culturale dell'uomo e del mondo di tipo relativistico e pragmatistico, dove "tutto è ridotto a opinione" e ci si accontenta soltanto di "verità parziali e provvisorie" (n. 5).

L'originalità

Di fronte a questa situazione culturale, il messaggio dell'Enciclica reagisce, riproponendo con forza e convinzione la capacità della ragione di conoscere Dio e di raggiungere, conformemente alla natura limitata dell'uomo, le verità fondamentali dell'esistenza: la spiritualità e immortalità dell'anima; la capacità di fare il bene e di seguire la legge morale naturale, la possibilità di formulare giudizi veri, l'affermazione della libertà dell'uomo... Nello stesso tempo essa riafferma che tale capacità metafisica della ragione è un dato necessario della fede al punto che una concezione di fede che pretendesse di svilupparsi in modo estraneo o alternativo alla ragione, sarebbe deficiente anche come fede. Inoltre, il Papa, inserendosi pienamente nel dialogo tra gli uomini di cultura del nostro tempo, pone una domanda seria che non potrà non sollecitare una riflessione e una discussione altrettanto serie: perché la ragione vuole impedire a se stessa di tendere verso la verità, mentre per sua stessa natura essa è orientata al suo raggiungimento? A questo punto però diventa evidente che per sostenere la capacità della ragione di conoscere la verità di Dio, di se stessi e del mondo, è necessaria una filosofia che sia in grado di comprendere concettualmente la dimensione metafisica della realtà. Occorre in altri termini una filosofia aperta agli interrogativi fondamentali dell'esistenza, all'integrità e alla totalità del reale, senza pregiudiziali chiusure e senza precomprensioni riduttive. La fede cristiana è quindi per un verso obbligata ad opporsi a quelle filosofie o teorie che escludono la attitudine dell'uomo a conoscere la verità metafisica delle cose (positivismo, materialismo, scientismo, storicismo, problematicismo, relativismo, nichilismo), ma per altro verso, difendendo la possibilità di una riflessione metafisica e razionale, che conserva la sua autonomia nel metodo della ricerca e nella sua indole propria, la fede difende la dignità dell'uomo e promuove la stessa filosofia, incitandola ad occuparsi e a preoccuparsi delle questioni del senso ultimo e profondo dell'essere, dell'uomo, del mondo. Escludere infatti l'uomo dall'accesso alla verità è la radice di ogni alienazione. In questo senso Fides et ratio si ricollega alla prima Enciclica, quella programmatica, di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis: la Chiesa non può essere indifferente a tutto ciò che fa battere il cuore dell'uomo, cioè a tutte le sue inquietudini, a tutte le sue imprese e a tutte le sue speranze: "la ricerca della verità, l'insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza" (n. 18). Obiettivo di Fides et ratio è ridare precisamente fiducia all'uomo contemporaneo nella possibilità di trovare sicura risposta alle sue inquietudini ed esigenze essenziali, e invita la coscienza umana a confrontarsi con il problema del fondamento dell'esistere e del vivere e a riconoscere la verità di Dio come principio della verità della persona e del mondo intero. Ciò non vuol dire che la Chiesa intende imporre una determinata scuola filosofica o canonizzare un determinato sistema filosofico o metafisico. L'Enciclica su questo punto è chiarissima. Significa però che la dottrina cristiana esige l'affermazione di una recta ratio (ragione filosofica retta), che pur non identificandosi con nessun movimento filosofico particolare, esprime il nucleo essenziale e i capisaldi irrinunciabili della verità razionale dell'essere, del conoscere, dell'agire morale dell'uomo, che precedono, per così dire, la pluralità delle diverse filosofie e culture, e costituiscono il criterio di giudizio sui diversi enunciati dei sistemi filosofici. Si comprende quindi l'importanza di questi richiami dell'Enciclica per i teologi e i filosofi (credenti e non). Profondamente originale è l'indicazione secondo cui la rivelazione cristiana stessa è il punto di aggancio e di confronto tra la filosofia e la fede. Nel delineare le esigenze e i compiti attuali (cap. VII), il Papa indica la "via sapienziale" come strada maestra per raggiungere le risposte definitive al problema del senso dell'esistenza, ricordando ai teologi che senza una sana filosofia la teologia è destinata a soccombere dietro le forme di pensiero della cultura post-moderna che hanno rinunciato a pensare la questione della verità; e invitando i filosofi a recuperare, sulla scia di una tradizione perennemente valida, le dimensioni di saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico.

L'attualità

L'Enciclica risponde finalmente alla sfida culturale di importanza capitale che viene sollevata dall'attualità del nostro tempo: si tratta del senso della libertà. "Verità e libertà, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono" (n. 90). È questa, se si vuole, l'istanza ultima che proviene dall'Enciclica Fides et ratio. Nel nostro tempo è assai maturata l'idea di libertà, al punto che essa è concepita come autonomia assoluta e non si vede come sia possibile connetterla con l'idea di verità assoluta e incondizionata. La principale conseguenza è che l'opinione diffusa ritiene possibile e legittimo cercare soltanto un terreno o una piattaforma comune dove individuare valori etici o genericamente umanitari attorno ai quali costruire un consenso. Il consenso possibile diventa il principio e il fine della riflessione culturale, filosofica e del dialogo. Non quindi l'assenso o la ricerca della verità, ma il consenso pubblico che realisticamente si può conseguire e che rispetta la libertà di tutti e di ognuno, costituisce l'obiettivo della riflessione e dell'impegno culturale e sociale.
Fides et ratio supera questa depressione e ristrettezza della ragione e della libertà, e pone invece un inscindibile legame tra verità e libertà. La libertà non è semplice capacità di compiere scelte indifferenti o interscambiabili, ma possiede un orientamento verso la pienezza, la vita compiuta che la persona deve conquistare con l'esercizio della sua libertà, ma nel modo giusto (Recta Ratio). La libertà trova il suo senso, e quindi la sua verità, nell'autodirigersi verso il suo proprio fine, in conformità con la natura della persona umana. Quindi la libertà ha un vincolo inscindibile con la verità dell'uomo, creato ad immagine di Dio, e consiste soprattutto nell'amare Dio e il prossimo.
C'è quindi correlazione tra amore e verità. L'amore a Dio e al prossimo può avere consistenza soltanto quando è nel profondo amore alla verità di Dio e del prossimo. Anzi il vero amore all'uomo è voler donargli ciò di cui l'uomo ha più bisogno: conoscenza e verità. Ecco perché l'Enciclica Fides et ratio è attuale, di una attualità profonda, e non semplicemente epidermica o secondo la moda corrente: è attuale perché mostra che la fede come accoglienza della verità di Dio che si rivela in Gesù Cristo non è una minaccia né per la ragione né per la libertà. La fede protegge la ragione, perché ha bisogno di un uomo che interroghi e indaghi. Non è il domandare che è di ostacolo alla fede, bensì quell'atteggiamento di chiusura che non vuol domandare e considera la verità come qualcosa di irraggiungibile o che non è degno di aspirazione. La fede non distrugge la ragione, la custodisce e così facendo resta fedele a se stessa. Allo stesso modo la fede protegge la libertà, perché una volta tolta la verità all'uomo, egli è condotto progressivamente o ad una distruttiva volontà di potenza sopraffatrice della libertà altrui o alla disperazione della solitudine (n. 90). La libertà - è il messaggio di Giovanni Paolo II - può essere raggiunta e garantita soltanto se il cammino verso la verità rimarrà aperto e accessibile sempre, a tutti e in ogni luogo.

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LETTERA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
AL CARDINALE JOSEPH RATZINGER,
PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE
PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

 

Al Venerato Fratello Cardinale JOSEPH RATZINGER
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

È mio vivo desiderio, Signor Cardinale, manifestarLe un sentito ringraziamento per l’iniziativa che la Congregazione per la Dottrina della Fede, da Lei diretta, ha preso di promuovere un Simposio sul tema: Il Primato del Successore di Pietro, chiedendo la collaborazione di numerosi e insigni studiosi ed esperti. La prego di voler presentare a tutti gli illustri partecipanti l’espressione dei miei sentimenti di grato apprezzamento per la loro disponibilità ed impegno.

Nella Enciclica Ut Unum sint ho riconosciuto che “è significativo e incoraggiante che la questione del primato del Vescovo di Roma sia attualmente diventata oggetto di studio, immediato o in prospettiva, e significativo e incoraggiante è pure che tale questione sia presente quale tema essenziale non soltanto nei dialoghi teologici che la Chiesa cattolica intrattiene con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, ma anche più generalmente nell’insieme del movimento ecumenico” (n. 89).

La Chiesa cattolica è consapevole di aver conservato, in fedeltà alla Tradizione apostolica e alla fede dei Padri, il ministero del Successore di Pietro, che Dio ha costituito “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità” (Lumen gentium, 23). Tale servizio all’unità, radicato nell’opera della misericordia divina, è un dono affidato, all’interno stesso del Collegio dei Vescovi, a colui che succede all’Apostolo Pietro come Vescovo di Roma, e lo stesso potere e autorità propri di questo ministero, senza i quali tale funzione sarebbe illusoria, debbono essere visti sempre nella prospettiva del servizio al disegno misericordioso di Dio, che vuole che tutti siano “uno” in Cristo Gesù.

A questo titolo, il primato si esercita a diversi livelli, che riguardano il servizio all’unità della fede, alla vigilanza sulla celebrazione sacramentale e liturgica, sulla missione, sulla disciplina e sulla vita cristiana, nella consapevolezza tuttavia che tutto ciò deve compiersi sempre nella comunione.

Nello stesso tempo, si deve anche sottolineare che il servizio all’unità della fede e della Chiesa da parte del ministero petrino è via e strumento di evangelizzazione: la stessa sorte della nuova evangelizzazione è legata alla testimonianza di unità della Chiesa, di cui il Successore di Pietro è garante e segno visibile.

D’altra parte, come affermavo in occasione dell’incontro con il Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra nel giugno del 1984, tale convinzione della Chiesa cattolica “costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi” (Insegnamenti, VII, 1 [1984] 1686).

A motivo quindi della preoccupazione per l’unità, che rientra essenzialmente nell’ambito delle funzioni del primato, ho manifestato nell’Enciclica Ut Unum sint la persuasione di “avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 95).

Questa esigenza si ritrova pure nella Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede Communionis notio su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, là dove si auspica che “diventi possibile a tutti riconoscere il permanere del Primato di Pietro nei suoi successori, i Vescovi di Roma, e vedere realizzato il ministero petrino, come è inteso dal Signore, quale universale servizio apostolico, che è presente in tutte le Chiese dall’interno di esse e che, salva la sua sostanza d’istituzione divina, può esprimersi in modi diversi, a seconda dei luoghi e dei tempi, come testimonia la storia” (n. 18).

Nel vostro Simposio, l’impegno di studiosi, esperti nei diversi settori delle discipline teologiche - bibliche, storico-teologiche, sistematiche - testimonia il rigore e la completezza della ricerca nei diversi ambiti del sapere teologico, che, secondo l’impostazione dottrinale data all’incontro di studio, intende offrire un contributo importante al servizio del proseguimento del dialogo teologico; proprio indicando gli elementi essenziali della dottrina della fede cattolica su questo aspetto dell’ecclesiologia, distinguendoli da questioni legittimamente disputabili o comunque non vincolanti in modo definitivo.

Questa peculiare caratteristica, lungi dal costituire una difficoltà per lo stesso dialogo ecumenico, ne rappresenta invece una condizione necessaria, perché esso sia strumento del riconoscimento della verità divina.

È pertanto con profondo interesse che seguirò i vostri lavori, mentre rivolgo fin d’ora a Lei, venerato Fratello, e a quanti partecipano e collaborano al Simposio il mio fervido augurio per un proficuo risultato, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità.

Accompagno questi voti con una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 30 Novembre 1996.

GIOVANNI PAOLO II

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BENEDETTO XVI PARTECIPA NELL'AULA PAOLO VI
ALLA PROIEZIONE DEL FILM "KAROL, UN PAPA RIMASTO UOMO"

Giovanni Paolo II, instancabile profeta di speranza e di pace
ha percorso i sentieri del globo per comunicare il Vangelo a tutti





"Dall'insieme è emersa la figura di un instancabile profeta di speranza e di pace, che ha percorso i sentieri del globo per comunicare il Vangelo a tutti". Con queste parole Benedetto XVI ha commentato il film "Karol, un Papa rimasto uomo", proiettato nella serata di giovedì 30 marzo, nell'Aula Paolo VI. Questi sono i punti nodali del discorso pronunciato dal Santo Padre al termine della proiezione:


"Questa sera abbiamo rivissuto le emozioni provate nel maggio dello scorso anno, quando, a poca distanza dalla scomparsa dell'amato Pontefice, abbiamo assistito, in questa medesima sala, alla proiezione della prima parte del film";


"Abbiamo riascoltato l'appello iniziale del suo Pontificato risuonato nel corso degli anni tante volte: "Aprite le porte a Cristo! Non abbiate paura!". Lo scorrere delle immagini ci ha mostrato un Papa immerso nel contatto con Dio e proprio per questo sempre sensibile alle attese degli uomini";


"Il film ci ha fatto idealmente ripensare ai suoi viaggi apostolici in ogni parte del mondo; ci ha dato modo di rivivere i suoi incontri con tante persone, con i Grandi della terra e con semplici cittadini, con illustri personaggi e persone sconosciute. Tra tutti merita una menzione speciale l'abbraccio con Madre Teresa di Calcutta, legata a Giovanni Paolo II da un'intima sintonia spirituale";


"Impietriti, come se fossimo presenti, abbiamo riudito gli spari del tragico attentato in Piazza San Pietro del 13 maggio 1981";


"Sono tornate alla mente le sue parole vibranti per condannare l'oppressione di regimi totalitari, la violenza omicida e la guerra; parole piene di consolazione e di speranza per manifestare vicinanza ai familiari delle vittime di conflitti e di drammatici attentati, come quello alle Torri Gemelle di New York; parole di coraggio e di denuncia verso la società consumistica e la cultura edonistica, protesa a costruire un benessere semplicemente materiale che non può soddisfare le attese profonde del cuore umano";


"Ecco i sentimenti che sorgono spontanei dal cuore questa sera, e che ho voluto condividere con voi, cari fratelli e sorelle, ripercorrendo, aiutati dalle sequenze di questo film, le fasi del Pontificato dell'indimenticabile Giovanni Paolo II";


"Ci accompagni dall'alto l'amato Pontefice e ci ottenga dal Signore la grazia di essere come lui sempre fedeli alla nostra missione".

(©L'Osservatore Romano - 1 Aprile 2006)

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Ecco le parole che il Papa ci ha rivolto, per tutta l'umanità nel ricordare Giovanni Paolo II:

Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS


Cari fratelli e sorelle!

Il 2 aprile dello scorso anno, proprio come oggi, l’amato Papa Giovanni Paolo II stava vivendo in queste stesse ore l’ultima fase del suo pellegrinaggio terreno, un pellegrinaggio di fede, di amore e di speranza, che ha lasciato un segno profondo nella storia della Chiesa e dell’umanità. La sua agonia e la sua morte costituirono quasi un prolungamento del Triduo pasquale. Tutti ricordiamo le immagini della sua ultima Via Crucis, il Venerdì Santo: non potendo recarsi al Colosseo, la seguì dalla sua Cappella privata, tenendo tra le mani una croce. Nel giorno di Pasqua, poi, impartì la benedizione Urbi et Orbi senza poter pronunciare parole, con il solo gesto della mano. E’ stata la benedizione più sofferta e commovente, che ci ha lasciato come estrema testimonianza della sua volontà di compiere il ministero fino alla fine. Giovanni Paolo II è morto così come aveva sempre vissuto, animato dall’indomito coraggio della fede, abbandonandosi in Dio e affidandosi a Maria Santissima. Questa sera lo ricorderemo con una veglia di preghiera mariana in Piazza San Pietro, dove domani pomeriggio celebrerò per lui la Santa Messa.

Ad un anno dal suo passaggio dalla terra alla casa del Padre possiamo domandarci: che cosa ci ha lasciato questo grande Papa, che ha introdotto la Chiesa nel terzo millennio? La sua eredità è immensa, ma il messaggio del suo lunghissimo pontificato si può ben riassumere nelle parole con le quali egli lo volle inaugurare, qui in Piazza San Pietro, il 22 ottobre 1978: "Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!". Questo indimenticabile appello, Giovanni Paolo II l’ha incarnato con tutta la sua persona e tutta la sua missione di Successore di Pietro, specialmente con il suo straordinario programma di viaggi apostolici. Visitando i Paesi del mondo intero, incontrando le folle, le Comunità ecclesiali, i Governanti, i Capi religiosi e le diverse realtà sociali, egli ha compiuto come un unico grande gesto, a conferma di quelle parole iniziali. Ha annunciato sempre Cristo, proponendolo a tutti, come aveva fatto il Concilio Vaticano II, quale risposta alle attese dell’uomo, attese di libertà, di giustizia, di pace. Cristo è il Redentore dell’uomo - amava ripetere -, l’unico autentico Salvatore di ogni persona e dell’intero genere umano.

Negli ultimi anni, il Signore lo ha gradualmente spogliato di tutto, per assimilarlo pienamente a Sé. E quando ormai non poteva più viaggiare, e poi nemmeno camminare, e infine neppure parlare, il suo gesto, il suo annuncio si è ridotto all’essenziale: al dono di se stesso fino all’ultimo. La sua morte è stata il compimento di una coerente testimonianza di fede, che ha toccato il cuore di tanti uomini di buona volontà. Giovanni Paolo II ci ha lasciati nel giorno di sabato dedicato particolarmente a Maria, verso la quale ha sempre nutrito una devozione filiale. Alla celeste Madre di Dio domandiamo ora di aiutarci a far tesoro di quanto ci ha donato ed insegnato questo grande Pontefice.


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CAPPELLA PAPALE NEL PRIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II , 03.04.2006



Questo pomeriggio, alle ore 17.30, il Santo Padre Benedetto XVI presiede, sul sagrato della Basilica Vaticana, la celebrazione della Santa Messa con i Cardinali in suffragio del defunto Sommo Pontefice Giovanni Paolo II.

Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Celebrazione Eucaristica:


OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

In questi giorni è particolarmente viva nella Chiesa e nel mondo la memoria del Servo di Dio Giovanni Paolo II nel primo anniversario della sua morte. Con la veglia mariana di ieri sera abbiamo rivissuto il momento preciso in cui, un anno fa, avvenne il suo pio transito, mentre oggi ci ritroviamo in questa stessa Piazza San Pietro per offrire il Sacrificio eucaristico in suffragio della sua anima eletta. Saluto con affetto, insieme con i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti e i religiosi, i numerosi pellegrini giunti da tante parti, specialmente dalla Polonia, per testimoniargli stima, affetto e profonda riconoscenza. Vogliamo pregare per questo amato Pontefice, lasciandoci illuminare dalla Parola di Dio che or ora abbiamo ascoltato.

Nella prima Lettura, tratta dal Libro della Sapienza, ci è stato ricordato qual è il destino finale dei giusti: un destino di felicità sovrabbondante, che ricompensa senza misura per le sofferenze e le prove affrontate nel corso della vita. "Dio li ha provati – afferma l’autore sacro – e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto" (3,5-6). Il termine "olocausto" fa riferimento al sacrificio in cui la vittima veniva interamente bruciata, consumata dal fuoco; era segno, pertanto, di offerta totale a Dio. Questa espressione biblica ci fa pensare alla missione di Giovanni Paolo II, che ha fatto dono a Dio e alla Chiesa della sua esistenza e ha vissuto la dimensione sacrificale del suo sacerdozio specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia.
Tra le invocazioni a lui care ve n’era una tratta dalle "Litanie di Gesù Cristo Sacerdote e Vittima", che egli volle porre al termine del libro Dono e Mistero, pubblicato in occasione del 50° del suo Sacerdozio (cfr pp. 113-116): "Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam - Gesù, Pontefice che consegnasti te stesso a Dio come offerta e vittima, abbi pietà di noi". Quante volte egli ripeté questa invocazione! Essa esprime bene il carattere intimamente sacerdotale di tutta la sua vita. Egli non ha mai fatto mistero del suo desiderio di diventare sempre più una cosa sola con Cristo Sacerdote, mediante il Sacrificio eucaristico, sorgente di infaticabile dedizione apostolica.

Alla base di questa offerta totale di sé stava naturalmente la fede. Nella seconda Lettura, poc’anzi ascoltata, san Pietro utilizza anch’egli l’immagine dell’oro provato col fuoco e la applica alla fede (cfr 1 Pt 1,7). In effetti, nelle difficoltà della vita è soprattutto la qualità della fede di ciascuno ad essere saggiata e verificata: la sua solidità, la sua purezza, la sua coerenza con la vita. Ebbene, il compianto Pontefice, che Dio aveva dotato di molteplici doni umani e spirituali, passando attraverso il crogiolo delle fatiche apostoliche e della malattia, è apparso sempre più una "roccia" nella fede.
Chi ha avuto modo di frequentarlo da vicino ha potuto quasi toccare con mano quella sua fede schietta e salda, che, se ha impressionato la cerchia dei collaboratori, non ha mancato di diffondere, durante il lungo Pontificato, il suo influsso benefico in tutta la Chiesa, in un crescendo che ha raggiunto il suo culmine negli ultimi mesi e giorni della sua vita. Una fede convinta, forte e autentica, libera da paure e compromessi, che ha contagiato il cuore di tanta gente, grazie anche ai numerosi pellegrinaggi apostolici in ogni parte del mondo, e specialmente grazie a quell’ultimo "viaggio" che è stata la sua agonia e la sua morte.

La pagina del Vangelo che è stata proclamata ci aiuta a comprendere un altro aspetto della sua personalità umana e religiosa. Potremmo dire che egli, Successore di Pietro, ha imitato in modo singolare, tra gli Apostoli, Giovanni, il "discepolo amato", che restò sotto la Croce accanto a Maria nell’ora dell’abbandono e della morte del Redentore. Vedendoli lì vicini - narra l’evangelista - Gesù li affidò l’uno all’altra: "Donna, ecco il tuo figlio! … Ecco la tua madre" (Gv 19,26-27). Queste parole del Signore morente erano particolarmente care a Giovanni Paolo II. Come l’Apostolo evangelista, anch’egli ha voluto prendere Maria nella sua casa: "et ex illa hora accepit eam discipulus in sua – da quel momento il discepolo la prese nella sua casa" (Gv 19,27).
L’espressione "accepit eam in sua" è singolarmente densa: indica la decisione di Giovanni di rendere Maria partecipe della propria vita così da sperimentare che, chi apre il cuore a Maria, in realtà è da Lei accolto e diventa suo. Il motto segnato nello stemma del Pontificato di Papa Giovanni Paolo II, Totus tuus, riassume bene questa esperienza spirituale e mistica, in una vita orientata completamente a Cristo per mezzo di Maria: "ad Iesum per Mariam".

Cari fratelli e sorelle, questa sera il nostro pensiero torna con emozione al momento della morte dell’amato Pontefice, ma al tempo stesso il cuore è come spinto a guardare avanti. Sentiamo risuonare nell’animo i suoi ripetuti inviti ad avanzare senza paura sulla strada della fedeltà al Vangelo per essere araldi e testimoni di Cristo nel terzo millennio. Ci tornano alla mente le sue incessanti esortazioni a cooperare generosamente alla realizzazione di una umanità più giusta e solidale, ad essere operatori di pace e costruttori di speranza. Resti sempre fisso il nostro sguardo su Cristo, "lo stesso ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8), che guida saldamente la sua Chiesa. Noi abbiamo creduto al suo amore ed è l’incontro con Lui "che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (cfr Deus caritas est, 1).
La forza dello Spirito di Gesù sia per tutti, cari fratelli e sorelle, come lo fu per Papa Giovanni Paolo II, sorgente di pace e di gioia. E la Vergine Maria, Madre della Chiesa, ci aiuti ad essere in ogni circostanza, come lui, apostoli infaticabili del suo divin Figlio e profeti del suo amore misericordioso.
Amen!


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Dal libro "Il mio amato predecessore" di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Edizioni San Paolo:

Il Papa: Wojtyla meglio di Dylan


A due anni dalla morte di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ricorda il suo «amato predecessore» In esclusiva stralci del libro che ricostruisce oltre vent'anni di amicizia, collaborazione e aneddoti
Papa Benedetto XVI accanto a un quadro del suo «amato predecessore», Giovanni Paolo II.

Per gentile concessione dell'editore San Paolo, pubblichiamo alcuni stralci di «Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore» di Joseph Ratzinger-Papa Benedetto XVI (124 pag. 12,50 euro). Papa Wojtyla Con voi voglio tornare con la memoria all'indimenticabile giorno della sua elezione alla Sede di Pietro. Sento ancora l'eco delle sue parole, umili, sagge e piene di dedizione, quando rispose alla domanda se accettava la scelta fatta dai cardinali (...). Ho davanti agli occhi la sua figura, forte e serena, sulla loggia della basilica di San Pietro, quando per la prima volta diede la benedizione Urbi et Orbi, affidandosi alla protezione della Madonna e all'amore di coloro dei quali in tutto il mondo doveva prendersi cura come pastore e guida. Non ho mai dimenticato il suo profetico richiamo: «Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!». Ringrazio Dio, che con queste immagini nel cuore ho potuto trascorrere più di due decenni al suo fianco, godendo della sua benevolenza e amicizia, e che oggi posso continuare la sua opera sotto il suo sguardo protettore dalla casa del Padre.

Wojtyla e Dylan

Il Papa appariva stanco, affaticato. Proprio in quel momento arrivarono le star dei giovani, Bob Dylan e altri di cui non ricordo il nome. Avevano un messaggio completamente diverso da quello per cui il Papa si impegna. C'era ragione di essere scettici - io lo ero e, in un certo senso lo sono ancora, - di dubitare se davvero fosse giusto far intervenire questo genere di «profeti». Ma come improvvisamente apparve invecchiato e povero il loro messaggio, quando il Papa mise da parte il foglio manoscritto che gli stava davanti e cominciò a parlare ai giovani con il cuore, a dire loro cose che, almeno a prima vista, non si ha il coraggio di dire: a parlare del significato dell'insuccesso, della rinuncia, dell'accettazione della sofferenza, della croce. In quella circostanza non furono impiegate delle formule religiose logore e svuotate. La frattura Non posso dimenticare come (Giovanni Paolo II, ndr) ci parlò in occasione della grande Messa del sinodo africano di cui si era tanto rallegrato, mentre si trovava in ospedale dopo che era caduto in bagno e si era rotta l'anca. In precedenza aveva fatto visita alla «Madonna delle lacrime» a Siracusa e cominciò a parlarci proprio a partire da quell'incontro. Nessuna predica che avrebbe potuto rivolgerci in condizioni di buona salute, avrebbe potuto toccarci in maniera simile. Il sofferente La sua malattia affrontata con coraggio ha reso tutti più attenti al dolore umano, a ogni dolore fisico e spirituale; ha dato alla sofferenza dignità e valore, testimoniando che l'uomo non vale per la sua efficienza, per il suo apparire, ma non per se stesso, perché creato e amato da Dio. Con le parole e i gesti il caro Giovanni Paolo II non si è stancato di indicare al mondo che se l'uomo si lascia abbracciare da Cristo, non mortifica la ricchezza della sua umanità; se a lui aderisce con tutto il cuore, non gli viene a mancare qualcosa. Al contrario, l'incontro con Cristo rende la nostra vita più appassionante. Proprio perché si è avvicinato sempre più a Dio nella preghiera, nella contemplazione, nell'amore per la Verità e la Bellezza, il nostro amato Papa ha potuto farsi compagno di viaggio di ognuno di noi e parlare con autorevolezza anche a quanti sono lontani dalla fede cristiana. L'addio Tutti ricordiamo le immagini della sua ultima Via Crucis, il venerdì santo: non potendo recarsi al Colosseo, la seguì dalla sua cappella privata, tenendo tra le mani una croce. Nel giorno di Pasqua, poi, impartì la benedizione Urbi ed orbi senza poter pronunciare parole, con il solo gesto della mano. Non dimenticheremo mai quella benedizione. È stata la benedizione più sofferta e commovente, che ci ha lasciato come estrema testimonianza della sua volontà di compiere il ministero fino alla fine. Giovanni Paolo II è morto così come aveva sempre vissuto, animato dall'indomito coraggio della fede, abbandonandosi in Dio e affidandosi a Maria Santissima. Quale eredità La sua eredità è immensa, ma il messaggio del suo lunghissimo pontificato si può ben riassumere nelle parole con le quali egli lo volle inaugurare, qui in piazza San Pietro, il 22 ottobre 1978: «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». Questo indimenticabile appello, che io sento ancora risuonare in me come se fosse ieri, Giovanni Paolo II l'ha incarnato con tutta la sua persona e tutta la sua missione di successore di Pietro, specialmente con il suo straordinario programma di viaggi apostolici. Visitando i paesi del mondo intero, incontrando le folle, le comunità ecclesiali, i governanti, i capi religiosi e le diverse realtà sociali, egli ha compito come un unico grande gesto a conferma di quelle parole iniziali. Ha annunciato sempre Cristo, proponendolo a tutti, come aveva fatto il concilio Vaticano II, quale risposta alle attese dell'uomo, attese di libertà, di giustizia, di pace. Cristo è il Redentore dell'uomo - amava ripetere -, l'unico autentico Salvatore di ogni persona e dell'intero genere umano. Negli ultimi anni, il Signore lo ha gradualmente spogliato di tutto, per assimilarlo pienamente a sé. E quando ormai non poteva più viaggiare, e poi nemmeno camminare, e infine neppure parlare, il suo gesto, il suo annuncio si è ridotto all'essenziale: al dono di se stesso fino all'ultimo. La sua morte è stata il compimento di una coerente testimonianza di fede, che ha toccato il cuore di tanti uomini di buona volontà. Giovanni Paolo II ci ha lasciati nel giorno di sabato dedicato particolarmente a Maria, verso la quale ha sempre nutrito una devozione filiale. Alla celeste Madre di Dio domandiamo ora di aiutarci a far tesoro di quanto ci ha donato e insegnato questo grande Pontefice. Vicino a Cristo Egli ha interpretato per noi il mistero pasquale come mistero della divina misericordia. Scrive nel suo ultimo libro: Il limite imposto al male «è in definita la divina misericordia» (Memoria e identità). E riflettendo sull'attentato dice: «Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza; l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore... E' la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene» (pag. 199). Animato da questa visione, il Papa ha sofferto e amato in comunione con Cristo e perciò il messaggio della sua sofferenza e del suo silenzio è stato così eloquente e fecondo.

La provincia di Como, 17 aprile 2007

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Papa Benedetto racconta il suo predecessore


Ratzinger Joseph - Benedetto XVI
Giovanni Paolo II - Il mio amato predecessore
Ed. SAN PAOLO € 9,00, 128 pagine.

La splendida, sorprendente e tenera amicizia tra gli ultimi due successori di Pietro.

Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i due ultimi papi della Chiesa Cattolica, hanno tanti punti in comune. Sono quasi coetanei, sono nati ambedue in Europa Centrale, su fronti opposti sono scampati alla seconda guerra mondiale, hanno partecipato insieme al Concilio ecumenico Vaticano II. Hanno poi collaborato a Roma per quasi un quarto di secolo.
Gli eventi esteriori, tuttavia, non ci dicono l'essenziale: al di là della lunga collaborazione, tra il papa polacco e il prefetto della dottrina della fede si erano sviluppate stima, cordialità e amicizia come raramente capita di incontrare nella storia.
I testi di Benedetto XVI che qui vengono presentati sono una lettura privilegiata della figura e del pontificato di Giovanni Paolo II, danno un'interpretazione autorevole di alcuni eventi decisivi del pontificato, soprattutto lasciano intravedere la commozione del ricordo, il cuore del grande papa.
Un volume che fa conoscere da vicino il papa polacco nell'interpretazione del suo amico e successore Benedetto XVI.

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