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Benedetto XVI in Terra Santa; Un pellegrinaggio sulle orme del Risorto

Ultimo Aggiornamento: 28/05/2009 08:48
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22/05/2009 18:13

Benedetto XVI in Terra Santa

Un pellegrinaggio sulle orme del Risorto


di Leonardo Sandri

Cardinale, prefetto della Congregazione
per le Chiese Orientali


L'indimenticabile pellegrinaggio nella Terra del Signore, compiuto da Benedetto XVI dall'8 al 15 maggio, si è distinto per l'incontro con la Chiesa locale. Il Papa, tracciando un bilancio di quella esperienza nella prima udienza generale dopo il rientro, l'ha definita "una comunità di singolare importanza perché rappresenta una presenza viva là dove tutta la Chiesa ha avuto origine" ("L'Osservatore Romano", 21 maggio 2009, pagina 1). Così ha confermato l'elogio rivolto alle Chiese orientali in occasione della visita alla nostra congregazione, il 9 giugno 2007, quando le aveva riconosciute come "custodi viventi delle origini cristiane" ("L'Osservatore Romano", 10 giugno 2007, pagina 1). Il futuro della Chiesa universale dipende anche oggi dal legame con la Chiesa delle origini. Sono sicuro di interpretare pienamente i sentimenti dei pastori e dei fedeli della porzione del popolo di Dio che vive in Terra Santa, un vero pusillus grex ma di significato vitale per la Chiesa intera, ringraziando il Papa soprattutto per l'incoraggiamento, la consolazione e la speranza offerti ai cattolici, e per la preghiera condivisa in alcuni Luoghi santi nei diversi riti. Un grazie convinto per averli tutti esortati a rimanere quali pietre vive là dove tutto parla del passaggio storico del Redentore.

"Precarietà, isolamento, incertezza e povertà" ("L'Osservatore Romano", 21 maggio 2009, cit.) sono responsabili, secondo il Pontefice, dell'inarrestabile esodo dei cristiani da quell'area. Ma non possiamo rassegnarci a lasciare a tali problemi l'ultima parola. Non si rassegna il Papa e lo segue la Chiesa con grande speranza. L'intero itinerario compiuto in Giordania, Israele e Territori palestinesi è stato riassunto dal Pontefice "nel segno della Risurrezione di Cristo" (ibid.). Non potranno, perciò, le vicissitudini del passato, le guerre e le distruzioni del presente, e nemmeno i conflitti tra i cristiani, fermare la Chiesa che è sospinta dallo Spirito del Risorto. Poiché il Crocifisso è stato glorificato, la sua opera continuerà. Ne siamo certi. Secondo l'insegnamento di san Paolo, nella croce Cristo ha abbattuto il muro della separazione. Perciò è inesorabilmente destinato a svanire ogni ostacolo alla ricomposizione dell'unità del genere umano che il Crocifisso risorto persegue. Il sostegno del Papa alla comunità cristiana porta con sé un impulso a questa missione di unità e di pace che le è propria.

Ogni tappa ha rivelato la dimensione ecumenica e interreligiosa del viaggio. E quella spiccatamente sociale e politica ha trovato evidenza nell'incontro del Papa con le pubbliche Autorità di Giordania, Israele e dei Territori palestinesi. Ma anche in questi ambiti il successore di Pietro si presentava come capo e padre della comunità affidatagli dal Signore. Era tutta la Chiesa che lo accompagnava, ma essa si mostrava concretamente nella comunità locale. A nome della Chiesa egli ha confermato la volontà di dialogo e collaborazione con le grandi religione monoteiste, che scorgono in Gerusalemme una insopprimibile profezia di pace. Ora toccherà alla comunità locale lo sforzo di realizzare giorno per giorno tale proposito. E lo farà con tutta se stessa a cominciare dalla celebrazione liturgica del mistero pasquale, fonte e culmine della sua vita e della sua missione.

Le opere educative, assistenziali, sociali, talora straordinarie, realizzate e mantenute tra mille sacrifici dai cattolici di Terra Santa, scaturiscono dalla irrinunciabile identità cristiana della comunità. Il dialogo possibile e perciò doveroso, che il Papa ha rilanciato, troverà attuazione nella testimonianza quotidiana e nel servizio ordinario di quella Chiesa particolare, nella sua perseverante fedeltà a Dio e agli uomini. Talune voci hanno ricordato che il dialogo non va enfatizzato. È vero. Del resto, esso è un mezzo e non il punto di arrivo definitivo. Sul santo monte della biblica convocazione si stabilirà la comunione perfetta di tutti con l'unico Dio:  la meta è quella e tutto ad essa è finalizzato.

Ma mentre siamo nel tempo, il dialogo, pur faticoso e incerto, attesta il nostro essere sulla stessa via; esalta una visione comune, magari non pienamente elaborata, ma avvertita e desiderata; alimenta un'attesa, fin d'ora condivisa. Il dialogo, già in atto, nella sua debolezza, tradisce per fortuna di tutti un segreto comune convincimento:  l'appartenenza ad un'unica famiglia amata dall'unico Dio, Padre di tutti. In questo senso ogni momento di incontro è sempre un apprezzabile traguardo e mai una illusione. L'incontro già avvenuto non autorizza a fermare i nostri passi. Piuttosto, li conforta e li rende più spediti.
Ho vissuto col Papa giornate di particolare intensità spirituale.

Egli era ovunque sommerso da un'accoglienza tanto sincera ed affettuosa, che faceva pensare alla folla ben più grande di quanti, uomini e donne, vegliavano su di lui in quelle giornate con fervida preghiera in ogni parte del mondo. Senza dimenticare che, in realtà, a vegliare su Pietro era la nube dei testimoni che sono presso Dio:  i patriarchi e i profeti, gli apostoli e i martiri, i santi monaci ed eremiti, i pellegrini cristiani e i cercatori dell'Assoluto, tutti preceduti dalla Madre del Signore, e condotti in quella Terra lungo i secoli dal fascino indicibile suscitato dal farsi uomo di Dio. Ben più numerosa di quella visibile che lo circondava, era, dunque, la Chiesa che lo accompagnava ed era evocata e realmente convocata nella celebrazione dei santi misteri. L'apice del pellegrinaggio va ravvisato, perciò, nelle liturgie eucaristiche presiedute dal Papa ad Amman, Gerusalemme, Betlemme e Nazaret; nella preghiera con i consacrati nella cattedrale melkita di Amman e nella basilica dell'Annunciazione; nella sosta al Calvario e alla Tomba vuota del Risorto. Proprio in quei Luoghi e in quei momenti "santi" il vescovo di Roma ha voluto assicurare che il viaggio "aveva come scopo prioritario la visita alle comunità cattoliche della Terra Santa" (ibid.). Sostenere quelle comunità significa garantire a tutta la Terra Santa un bene prezioso, forse indispensabile per il suo cammino nel presente e nel futuro.

Offrire ai loro componenti, specialmente ai giovani che guardano al domani con preoccupazione, adeguate condizioni di abitazione, formazione, lavoro e di movimento personale e familiare, vuol dire difendere non a parole ma nei fatti la dignità di tutti. Sono esse, del resto, che ora dovranno coltivare il seme buono affidato dal Papa a quella Terra anch'essa "buona e santa". La benedizione di Dio darà incremento alla generosa seminagione, ma l'abbondanza del raccolto dipenderà anche dalla loro fedeltà. Certo, dovrà essere la comunità internazionale a cimentarsi nell'avventura della pace, che è sempre e comunque possibile, anche a Gaza, credendo alla solidarietà tra le genti e lottando contro ogni ingiusta discriminazione. Ma le comunità cattoliche non dovranno mai stancarsi di chiedere il bene di una reale libertà religiosa, contribuendo con tutte le loro forze al suo perseguimento, che è garanzia dei diritti insopprimibili di ogni persona. Il Signore non le lascerà sole là dove per la prima volta è risuonato il suo santo nome. Benedetto XVI le ha assicurate che anche la Chiesa di Cristo sarà al loro fianco.




(©L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009)
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24/05/2009 09:32

Il Patriarca Twal e l'arcivescovo Franco sull'esito del pellegrinaggio di Benedetto XVI

Il Papa in Terra Santa e i frutti da raccogliere


Gerusalemme, 23. Come pellegrino in Terra Santa, Benedetto XVI ha voluto incoraggiare i cristiani del mondo intero a seguire il suo esempio, "a venire qui, per pregare ed entrare in contatto con le comunità locali". Come pastore, ha rivolto il suo messaggio alle popolazioni cristiane incontrate, fermandosi ad ascoltarle. Come Capo di Stato, ha ribadito la posizione della Chiesa sui diritti degli israeliani e dei palestinesi, "spronando verso la soluzione dei due Stati". Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal, e l'arcivescovo Antonio Franco, nunzio apostolico in Israele e in Cipro e delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina, hanno riassunto così i principali contenuti del viaggio del Papa in Terra Santa. In una conferenza stampa tenutasi mercoledì scorso al Centro Notre Dame di Gerusalemme, i due presuli hanno sottolineato il successo di questo pellegrinaggio, "persino nelle difficoltà", poiché "il Santo Padre ha così potuto fare esperienza della realtà concreta nella quale viviamo, qui in Terra Santa".

Il messaggio lasciato da Benedetto XVI va ora studiato, recepito, trasformato in azione:  "I risultati non saranno totalmente visibili oggi - hanno spiegato Twal e Franco - e nemmeno domani. Abbiamo bisogno di più tempo, di dar tempo alla Provvidenza, ma questo messaggio di dialogo, di pace, di riconciliazione porterà i suoi frutti". Di certo "dipenderà dalla buona volontà di ognuno di noi di ascoltarlo veramente e di confrontare i nostri atteggiamenti con le indicazioni lasciateci dal Santo Padre". Una di queste - ha detto il nunzio apostolico - "è che si riconosca il diritto di Israele a vivere in sicurezza nel proprio Paese e il diritto dei palestinesi ad avere una patria, uno Stato, in modo che si giunga a una pace stabile in questa parte del mondo". Ma il ruolo della Chiesa nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese - ha aggiunto monsignor Franco - "non è certamente diretto. A essa spetta di rendere le persone capaci di accettarsi a vicenda, di perdonarsi, di creare delle nuove possibilità, in modo da originare le precondizioni alla pace, sostenendo gli sforzi positivi e tentando di vincere la rassegnazione e la passività".

L'arcivescovo ha sottolineato anche l'importanza del discorso pronunciato da Benedetto XVI allo Yad Vashem:  "Vi invito a riprendere le parole del Papa nel loro insieme, e specialmente quelle pronunciate al suo arrivo all'aeroporto, al memoriale e nel discorso conclusivo. Se ci addentriamo veramente nel pensiero del Papa, non possiamo desiderare di più del messaggio che egli ci ha lasciato sulla Shoah. Ha detto "Mai più!"". E la "riflessione sul nome", allo Yad Vashem, "è la più bella che poteva fare per parlarci del dovere della memoria".

Il Patriarca Twal ha approfondito l'aspetto del viaggio legato al dialogo ecumenico e interreligioso:  "Il Santo Padre - ha affermato - è stato felice di constatare che esiste una volontà di dialogo fra tutte le religioni, di trovare una buona disposizione. E, in un certo senso, è stato felice di toccare con mano la complessità della nostra situazione. Per il Papa, una cosa è leggere dei rapporti, un'altra è vedere la realtà nella sua concretezza".

Di tappa importante per il cammino del dialogo interreligioso parla anche l'arcivescovo Francis Assisi Chullikatt, nunzio apostolico in Giordania e in Iraq, che in un'intervista al Sir sottolinea che la scelta della Giordania, come "prima sosta del suo pellegrinaggio", e la visita alla moschea di Amman "sono stati gesti molto apprezzati" dalla comunità musulmana giordana e dai reali. Gesti che hanno fatto "ulteriormente migliorare l'atteggiamento dei musulmani nei riguardi dei cristiani". Il dialogo interreligioso - dice Chullikatt - "ha ricevuto, dalla visita papale, uno stimolo in più. Da questo incontro ci attendiamo frutti positivi".

Apprezzamento per il "valore" e la "forza" della visita di Benedetto XVI in Terra Santa è stato manifestato inoltre dall'istituzione interreligiosa "Pave the way foundation" che, in un comunicato firmato dal suo fondatore e presidente, l'ebreo Gary Krupp, sottolinea l'importanza del messaggio di pace portato dal Papa "in una regione divisa da differenze politiche, religiose e culturali". Allo stesso tempo la fondazione lamenta le critiche che "da settori contrapposti sono state mosse al Santo Padre", spiegando che si tratta di persone o istituzioni "con ideologie opposte o con finalità di partito".



(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009)
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27/05/2009 09:03

  Il pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terra Santa

Non c'è alternativa al dialogo tra i cristiani e con l'ebraismo


di Walter Kasper*

Cardinale, presidente del Pontificio Consiglio
per la Promozione dell'Unità dei Cristiani
e della Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo

Il pellegrinaggio di Benedetto XVI nei luoghi di origine del cristianesimo ha avuto diversi aspetti. Ciò lo ha reso molto difficile, ma anche tanto emozionante e importante.
Naturalmente era destinato soprattutto al gregge dei cristiani cattolici, piccolo e tuttavia multiforme nei suoi riti:  soprattutto ai cristiani di rito melkita, maronita e latino. I cristiani cattolici vivono lì da secoli, ma come tutti i cristiani devono far fronte quotidianamente a numerose difficoltà; per questo, purtroppo, molti cristiani, specialmente i più giovani, emigrano. Perciò hanno bisogno dell'incoraggiamento del successore di Pietro, che ha ricevuto dal Signore il mandato di confermare i suoi fratelli nella fede.



Il messaggio pasquale della speranza e della pace, che è stato il filo conduttore di tutte le omelie e i discorsi del Papa, è stato da loro accolto con gratitudine in tutte le tappe del pellegrinaggio:  ad Amman, a Gerusalemme, a Betlemme e a Nazaret. Questi incontri sono stati tra i momenti più belli del viaggio. Solo per questo sarebbe valsa la pena compierlo.
Ma in Terra Santa - della quale oltre a Israele fanno parte anche la Giordania e i Territori palestinesi - lo sguardo si volge verso le numerose Chiese e comunità cristiane.

In nessun altro luogo la lacerazione del cristianesimo è così visibile e così dolorosamente evidente come a Gerusalemme, dove i primi cristiani avevano "un cuore solo e un'anima sola". Ma in nessun altro luogo i cristiani dipendono tanto l'uno dall'altro come qui. È stato quindi un piacere constatare che il lavoro ecumenico ha recato buoni frutti anche a Gerusalemme. Senza gli sforzi compiuti, che proprio lì sono tutt'altro che semplici, gli incontri cordiali di Benedetto XVI nel Patriarcato greco-ortodosso con i rappresentanti di tutte le Chiese con sede a Gerusalemme - specialmente quelli con il patriarca greco-ortodosso e il patriarca armeno-apostolico - difficilmente sarebbero stati possibili.
Questi incontri hanno mostrato che negli ultimi decenni non ci siamo limitati a pubblicare documenti ecumenici cartacei, ma che, attraverso il dialogo, nella vita e nel cuore si è verificata una crescita del rispetto e della stima reciproci, della collaborazione e della fratellanza.

Certamente rimane ancora molto da fare e da approfondire. Ma dagli incontri con il Pontefice e dalle sue parole di comprensione emana un incoraggiamento per il cammino ecumenico futuro, e questo non solo a Gerusalemme.

Gerusalemme è la Città santa per ebrei, cristiani e musulmani. L'incontro con gli ebrei, i "fratelli maggiori" nella fede di Abramo, è stato per diverse ragioni al centro dell'interesse pubblico. Tuttavia Benedetto XVI non è venuto - come molti erroneamente ritenevano - come Papa tedesco, con il ben noto peso della storia tedesca. Ciò che ha da dire in merito, lo ha già detto a Colonia e ad Auschwitz. Egli è venuto - cosa che dal punto di vista meramente politico è molto più importante - come capo della Chiesa cattolica universale per esprimere nuovamente al popolo ebraico il suo affetto personale, come quello della Chiesa cattolica. Il rifiuto di ogni forma di antisemitismo, della negazione o anche solo dello svilimento della Shoah è stato da lui espresso chiaramente non appena ha toccato il suolo israeliano all'aeroporto di Tel Aviv. Prima della partenza lo ha ribadito a tutti con grande chiarezza. Ha definito irrevocabile la dichiarazione conciliare Nostra aetate sul rapporto con l'ebraismo.

Così quasi tutto ciò che secondo molti rappresentanti ebraici e mass media israeliani è mancato nel suo discorso nel memoriale di Yad Vashem era già stato detto. Come se la semplice ripetizione delle stesse affermazioni, invece di rafforzarle, non le banalizzasse! Giustamente, non è nello stile di questo Papa preoccuparsi di parole che potrebbero apparire provocatorie e di rendere giustizia al politicamente corretto. Doveva trasmettere un messaggio molto più importante, che nessun altro rappresentante così eminente aveva saputo dare prima. Il Papa ha preso spunto dal nome del memoriale di Yad Vashem, ossia "un memoriale, un nome". Seguendo il senso e le orme della cultura della memoria biblica ed ebraica, egli ha spiegato che corrisponde alla dignità dell'uomo possedere un nome e che questo nome è scritto in modo indelebile dalla mano di Dio. Quindi, anche se i carnefici nazisti hanno privato le vittime del loro nome riducendole a meri numeri, pensando in tal modo di poterne cancellare per sempre il ricordo, secondo la fede sia ebraica sia cristiana la loro memoria si conserva in eterno e anche noi dobbiamo serbarne il ricordo. Che cosa si potrebbe dire di più profondo sulla dignità indistruttibile delle vittime e gli abissi del crimine della Shoah?

Quindi il discorso di Benedetto XVI al memoriale di Yad Vashem è stato un grande discorso. È stato grande perché ancora una volta il Papa non ha tenuto conto dei motti o delle parole provocatorie che ci si aspettava e sulle quali si è pronunciato già da tempo e spesso; è stato grande soprattutto perché aveva da dire qualcosa di nuovo, di fondamentale e di profondo. Il Pontefice ha così dato un nuovo spunto e ha mostrato una nuova dimensione della riflessione sulla Shoah. Conosco il contenuto di molti altri suoi discorsi; anche le critiche che ho letto verso queste parole del Papa mi sono venute in mente tutte subito dopo il discorso. Provenivano in parte dalle stesse persone che all'epoca criticarono anche Giovanni Paolo II. Chiunque compie lo sforzo di esaminare gli scritti di Benedetto XVI, sa che già molto tempo prima di essere eletto alla cattedra di Pietro si è dimostrato un amico del popolo ebraico ed era consapevole della sua perenne dignità come popolo dell'alleanza scelto da Dio.



Non si deve però attribuire troppa importanza alle voci critiche. Il presidente israeliano Peres e diversi amici ebrei hanno difeso pubblicamente il Papa contro critiche ingiuste e in parte assurde. Anche nel gran Rabbinato di Gerusalemme è stato ringraziato espressamente per aver risolto in modo chiaro i malintesi sorti nell'infelice questione riguardante il vescovo lefebvriano negazionista. La benevolenza che il Papa ha riscontrato presso molti ebrei è emersa in modo evidente quando, durante l'incontro interreligioso a Nazaret, un rabbino, fuori programma, ha intonato spontaneamente una canzone con le parole "shalom, salam", alla quale tutti si sono uniti.

Anche qui è apparso in modo chiaro che i numerosi dialoghi a livello locale tra ebrei e cristiani sortiscono effetti positivi; attraverso questa visita sono stati confermati e incoraggiati, e naturalmente proseguiranno.
Ora però dobbiamo anche parlare di come rendere maggiormente noti al pubblico i risultati, e soprattutto lo spirito con cui il dialogo viene portato avanti.
Nel corso del suo viaggio il Papa ha incontrato anche i musulmani e con loro ha cercato il dialogo. Pure qui vi sono stati alcuni incontri belli e incoraggianti, soprattutto in Giordania, dove il re già durante il saluto ha tenuto un discorso importante; e a Nazaret, dove le tensioni che esistevano qualche anno fa, grazie a Dio, si sono risolte. Ci sono stati però anche segni di inconciliabilità. Sebbene il dialogo, - e ancor più quello a tre tra ebrei, musulmani e cristiani - sia difficile, non vi è però alternativa.

Il Papa - come egli stesso ha ripetutamente sottolineato - non ha voluto portare un messaggio politico bensì spirituale. Ha fatto appello al cuore, ma anche alla ragione di chi lo ascoltava. Chi non ha il senso della dimensione spirituale e non apre il proprio cuore, ha potuto giudicare il suo messaggio di pace come insignificante. Tuttavia, non solo il credente, ma anche il semplice buon senso sa che la pace può essere raggiunta attraverso trattative politiche solo se prima vi è volontà di pace e di riconciliazione. La spirale mortale della violenza e della controviolenza può essere spezzata solo spiritualmente.

Purtroppo, oggi molti non sanno più che la preghiera è la forza più potente che può trasformare il mondo. Soprattutto in una situazione tanto triste e al momento apparentemente senza speranza come quella che si prova attraversando il muro sulla via da Gerusalemme a Betlemme, la preghiera può dare la certezza che i muri non sono mai eterni e che non possono esserlo. La speranza è più forte. Questa speranza Benedetto XVI l'ha potuta e voluta risvegliare e rafforzare nei cristiani, negli ebrei, nei musulmani. Per questo, il suo è stato un viaggio importante e significativo.



(©L'Osservatore Romano - 27 maggio 2009)
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L'aspetto geopolitico della visita del Papa in Terra Santa

Intervista a Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”di Roberta Sciamplicotti

ROMA, mercoledì, 27 maggio 2009 (ZENIT.org).- La visita di Benedetto XVI in Terra Santa, dall'8 al 15 maggio scorsi, è stata importante per dare coraggio alla comunità cristiana locale, diventata ormai “quasi una specie protetta” vista la sua esiguità.
E' quanto afferma Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, la rivista italiana di geopolitica, che ZENIT ha intervistato per conoscere le sue impressioni sul pellegrinaggio papale in Giordania, Israele e nei Territori palestinesi.

Qual è l'importanza geopolitica del viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa?

Lucio Caracciolo: Dal punto di vista della Santa Sede la priorità in Terra Santa è evidentemente la protezione dei cristiani locali, ormai un esiguo manipolo, quasi una specie protetta. Contemporaneamente si trattava di dare alle parti in causa, nella fattispecie israeliani e palestinesi, così come agli altri Paesi arabi della regione, il senso della presenza della Santa Sede nella zona e una spinta per una pace negoziata.Benedetto XVI ha dovuto calibrare ogni singola virgola dei suoi discorsi per evitare di suscitare polemiche troppo acute, e ci è riuscito abbastanza bene, anche se la sua posizione non ha convinto molto soprattutto la stampa israeliana, che è stata piuttosto ingenerosa nei suoi confronti. Ad ogni modo, ha evitato gli incidenti diplomatici che alcuni avevano paventato se non auspicato.La parte più importante del viaggio è stata l'evocazione dell'ombra del muro che taglia la Terra Santa, che dal punto di vista della Chiesa deve essere eliminato.

Quali erano le aspettative per questa visita? Crede che siano state soddisfatte?

Lucio Caracciolo: Le aspettative erano piuttosto basse sul fronte israeliano, maggiori su quello palestinese. Israele, ma direi il mondo ebraico in generale, ha avuto molte questioni di attrito con la Chiesa e con questo Papa in particolare. In questo contesto, la visita di Benedetto XVI era quasi una sorta di atto dovuto. Il Papa ha mostrato notevole cautela e un'adesione emotiva in occasione di certi eventi, particolarmente con la visita al Memoriale dell'Olocausto di Yad Vashem.Quanto ai palestinesi, non potendo contare su un grande supporto internazionale e avendo una minoranza cristiana non insignificante tra di loro speravano forse in qualcosa di più. La divisione interna tra l'islamismo di Hamas e Fatah indebolisce il fronte palestinese e il Papa non può fare troppo al riguardo. Il suo obiettivo è quello di sostenere la comunità cristiana, visto che la storica presenza cristiana nel mondo arabo è in via di scomparsa.

Pensa che il viaggio papale avrà delle ripercussioni sulla situazione mediorientale?

Lucio Caracciolo: Sinceramente no. Ritengo che la visita non abbia sostanzialmente toccato gli equilibri mediorientali, né lo poteva fare. Il Papa non ha una forza politica o strategica tale da alterare la situazione. Ha fatto ciò che poteva fare un'autorità spirituale e l'ha fatto con la cautela che la diplomazia imponeva e con l'invocazione della pace che il suo ruolo lo porta a lanciare.

A suo avviso qual è la soluzione migliore, o quella più praticabile, per raggiungere la pace in Terra Santa?

Lucio Caracciolo: Servirebbe una sorta di illuminazione divina che tocchi tutte le parti in causa. Al momento non credo ci siano le condizioni per una pace. La pace non è solo un trattato, è più una sorta di condivisione spirituale, e ora gli spiriti sono divisi e ostili. Nella migliore delle ipotesi, si potrà mantenere o status quo e cercare di migliorarlo, ma penso che sarà molto difficile raggiungere la pace.

Limes” ha anche un'edizione on line, consultabile all'indirizzo http://temi.repubblica.it/limes/
[Modificato da Cattolico_Romano 28/05/2009 08:48]
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