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A Rimini per cercare e conoscere Dio

Ultimo Aggiornamento: 04/09/2009 18:31
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24/08/2009 06:39

A Rimini per cercare e conoscere Dio

Enorme partecipazione alla messa di apertura del Meeting di Rimini



di Antonio Gaspari



RIMINI, domenica, 23 agosto 2009 (ZENIT.org).- La consueta celebrazione eucaristica di apertura del Meeting per l’amicizia tra i popoli di Rimini ha toccato numeri mai visti.


Tutte le sale destinate ad ospitare i fedeli si sono riempite rapidamente, tanto che anche l’emiciclo del meeting point è rapidamente diventato assemblea di cristiani, con la Messa e i celebranti trasmessi sullo schermo gigante.


Oltre diecimila persone hanno partecipato alla celebrazione eucaristica, e mai, in trenta anni, il Meeting aveva toccato questi numeri.


Nella sua omelia il Vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, ha ripreso le parole del Pontefice Benedetto XVI per ribadire che “Gesù Cristo è il fulcro dell’intera storia umana”.


“Ogni giorno - ha continuato il Vescovo -  c’è gente che si tira indietro perché crede che portare la croce è un compito troppo gravoso”, ma Gesù ci ha insegnato che bisogna “distribuire pezzi di pane e gocce di sangue per gli altri”.


“Noi cristiani abbiamo creduto e conosciuto”, ha sottolineato monsignor Lambiasi, ed “il principio della fede cristiana è l’amore che alimenta la fiducia e la conoscenza”.


“La fede – ha aggiunto – è luce e conoscenza” per questo si può dire che “chi non crede in Gesù non conosce veramente il reale”.


La partecipazione straordinaria alla Messa di apertura riflette anche i numeri che mostrano una crescita del Meeting negli ultimi trent’anni.


Dal 23 al 29 agosto saranno 116 gli incontri proposti dalla XXX edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, il cui tema di riferimento è  “La conoscenza è sempre un avvenimento”.


Gli spazi occupati che erano 9.000 mq nella prima edizione del 1980, sono diventati nell’edizione del 2009 ben 170.000.


L’edizione del 1980, proponeva 16 incontri e una sola sala per conferenze, 42 personaggi, 5 spettacoli; l’edizione 2009, invece, 116 incontri, 11 sale per conferenze, 299 personaggi, 26 spettacoli.


Il primo Meeting è stato costruito da 300 volontari, ed ha visto 50.000 presenze; quello del trentennale è sostenuto, nei sette giorni della manifestazione, da 3148 volontari - a cui bisogna aggiungere i 700 del pre-meeting - e punta a confermare le oltre 700.000 presenze.


Oltre che dall’Italia i volontari provengono da: Russia, Spagna, Portogallo, Lituania, Kossovo, Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Kazakhstan, Canada, Stati Uniti, Paraguay.


Il bilancio preventivo del Meeting 2009 è di 7 milioni e 400.000 euro. Sponsor principali Bombardier, Finmeccanica, Gruppo Fondiaria Sai, Intesa San Paolo, quattro i contributi istituzionali, 18 gli Sponsor Ufficiali.


Nel complesso, sono circa 200 le Aziende e gli Enti che, a vario titolo, partecipano alla manifestazione e sostengono il Meeting.


 

 

 

 


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24/08/2009 06:46

Messaggio di Benedetto XVI al Meeting di Rimini


ROMA, domenica, 23 agosto 2009 (ZENIT.org).- In occasione della 30.ma edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, che si è aperta questa domenica a Rimini sul tema: "La conoscenza è sempre un avvenimento", il Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inviato - a nome del Santo Padre Benedetto XVI - un Messaggio agli organizzatori ed ai partecipanti.



* * *

A Sua Eccellenza Rev.ma

Mons. Francesco Lambiasi

Vescovo di Rimini

Eccellenza Reverendissima,

in occasione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, che quest’anno celebra il suo trentennale, mi è particolarmente gradito trasmettere il saluto del Santo Padre a Lei, ed a quanti hanno promosso ed organizzato tale manifestazione culturale, che in tre decenni ha già visto la partecipazione di migliaia e migliaia di uomini e donne, soprattutto giovani, e l’intervento di centinaia di relatori sulle tribune allestite nelle aule della fiera di Rimini.

Aiutati da studiosi di ogni disciplina, da artisti, da autorità religiose, da esponenti del mondo della politica, dell’economia, dello sport, ci si è potuto confrontare sulle questioni e sulle istanze fondamentali dell’umana esistenza, ed approfondire le ragioni dell’essere cristiani in questa nostra epoca. Sua Santità augurache il Meeting continui a raccogliere le sfide e gli interrogativi che i tempi di oggi pongono alla fede, e rispondere ad essi facendo tesoro dell’insegnamento del compianto Mons. Luigi Giussani, fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.

    La tematica del Meeting 2009 verte sulla conoscenza che è sempre un avvenimento. “Avvenimento” è una parola con cui don Giussani ha tentato di riesprimere la natura stessa del cristianesimo, che per lui è un “incontro”, e cioè un dato esperienziale di conoscenza e di comunione. Proprio dall’accostamento tra le parole “avvenimento” e “incontro” è possibile percepire meglio il messaggio del Meeting. La riflessione gnoseologica ed epistemologica contemporanea ha portato alla luce il ruolo determinante del soggetto della conoscenza nell’atto stesso del conoscere. Contrariamente ai presupposti del “dogma” positivista della pura obiettività, il principio di indeterminazione di Heisenberg ha reso evidente come ciò sia vero perfino per le scienze naturali: anche in queste discipline, il cui “oggetto” sembra essere regolato da invariabili leggi di natura, la prospettiva dell’osservatore è un fattore che condiziona e determina il risultato dell’esperimento scientifico, e quindi della conoscenza scientifica come tale. La pura obiettività risulta perciò pura astrazione, espressione di una gnoseologia inadeguata e irrealistica.

Ma se ciò è vero per le scienze naturali, lo è tanto più per quegli “oggetti” di conoscenza che a loro volta sono strutturalmente legati alla libertà degli uomini, alle loro scelte, alle loro diversità. Pensiamo alle scienze storiche, che si basano su testimonianze nelle quali convergono, come fattori influenzati del loro modo di comunicare la realtà che trasmettono, le visioni del mondo di chi le ha composte e le loro convinzioni, a loro volta legate a quelle del loro tempo, le loro situazioni personali, le scelte con cui essi si sono posti in rapporto alla realtà che descrivono, la loro levatura morale, le loro capacità e il loro ingegno, la loro cultura. Lo studioso che accosta il suo oggetto dovrà dunque sceverare tutto ciò, per comprendere e valutare il significato e la portata del messaggio veicolato in un contesto d’insieme, agendo come se si trovasse di fronte ad una persona che non conosce ancora bene, ma che gli sta raccontando qualcosa che ritiene comunque importante conoscere. La conseguenza più rilevante di tale situazione è che la conoscenza non può essere descritta come la registrazione di uno spettatore distaccato. Anzi, il coinvolgimento con l’oggetto conosciuto da parte del soggetto conoscente è conditio sine qua non della conoscenza stessa. E pertanto, non il distacco e l’assenza di coinvolgimento sono l’ideale da rincorrere, peraltro invano, nella ricerca di una conoscenza «obiettiva», bensì un coinvolgimento adeguato con l’oggetto, un coinvolgimento atto a far giungere a chi interroga la conoscenza il suo specifico messaggio.

Ecco perché la conoscenza può essere un “avvenimento”. Essa «avviene» come un vero e proprio «incontro» tra un soggetto e un oggetto. Che tale incontro sia necessario perchè si possa parlare di conoscenza ci fa allora guardare a soggetto e a oggetto non come a due grandezze che si possano reciprocamente mantenere ad asettica distanza al fine di preservarne la purezza; essi sono al contrario due realtà vive che si influenzano reciprocamente proprio quando vengono in contatto. L’onestà intellettuale di colui che conosce sta tutta in quella somma arte di “ospitare l’oggetto” in modo che esso possa rivelare se stesso quale veramente è, anche se non in modo integrale ed esaustivo.

E l’accoglienza dell’oggetto, la disponibilità dell’ascolto che caratterizza il soggetto conoscente come vero amante della verità, si può descrivere come una sorta di «simpatia» per l’oggetto. C’è qui, come molto del pensiero medievale ci ha trasmesso, una particolare forza conoscitiva propria dell’amore. “Amare” significa “voler conoscere” e il desiderio e la ricerca della conoscenza sono una spinta interna dell’amore come tale. A ben vedere, dunque, ciò stabilisce un rapporto ineliminabile tra amore e verità. La conoscenza presuppone per sua natura una certa “conformazione” di soggetto e oggetto: un’intuizione fondamentale, già condensata nell’antico assioma empedocleo, secondo il quale “il simile conosce il simile”. L’evangelista Giovanni lo richiama implicitamente, laddove scrive che quando Dio “si sarà manifestato noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è” (1Gv 3,2).

Ci si potrebbe domandare se esista conoscenza più necessaria all’uomo di quella del suo Creatore; se ci sia conoscenza più adeguatamente descritta dalla parola “incontro”, se non il fondamentale rapporto che esiste appunto tra lo spirito dell’uomo e lo Spirito di Dio. Si comprende allora perché i Padri della Chiesa abbiano insistito sul bisogno di purificare l’occhio dell’anima per giungere a vedere Dio, rifacendosi alla beatitudine evangelica: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). La razionalità dell’uomo può essere esercitata, e dunque raggiungere il suo fine proprio, che è la conoscenza della verità e di Dio, solo grazie a un cuore purificato e sinceramente amante del vero che ricerca. Purificato in tal modo, lo spirito umano può aprirsi alla rivelazione della verità. C’è dunque un misterioso nesso tra la beatitudine evangelica e le parole rivolte da Gesù a Nicodemo, riportate da san Giovanni: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito…dovete rinascere dall’alto” (3,6-7).

Il Santo Padre Benedetto XVI auspica che queste parole di Cristo risuonino nel cuore dei partecipanti alla 30° edizione del Meeting di Rimini, come richiamo a volgersi con fiducia verso di Lui, ad accoglierne la misteriosa presenza, che è per l’uomo e la società sorgente di verità e di amore. Con tali sentimenti, mentre formula voti di pieno successo a codesta manifestazione, imparte a Vostra Eccellenza, ai responsabili e a tutti coloro che sono presenti una speciale Benedizione Apostolica.

    Unisco volentieri i miei auguri, e mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio

dell’Eccellenza Vostra Reverendissima

dev.mo nel Signore

Card. Tarcisio Bertone

Segretario di Stato

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Il messaggio del cardinale Bertone al Meeting di Rimini

L'amore spinge al desiderio della conoscenza


Pubblichiamo il testo del messaggio che il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha inviato al vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, in occasione del XXX Meeting per l'amicizia tra i popoli, che si tiene nella cittadina romagnola fino al 29 agosto.

Eccellenza Reverendissima,

in occasione del Meeting per l'amicizia fra i popoli, che quest'anno celebra il suo trentennale, mi è particolarmente gradito trasmettere il saluto del Santo Padre a Lei, ed a quanti hanno promosso ed organizzato tale manifestazione culturale, che in tre decenni ha già visto la partecipazione di migliaia e migliaia di uomini e donne, soprattutto giovani, e l'intervento di centinaia di relatori sulle tribune allestite nelle aule della fiera di Rimini. Aiutati da studiosi di ogni disciplina, da artisti, da autorità religiose, da esponenti del mondo della politica, dell'economia, dello sport, ci si è potuti confrontare sulle questioni e sulle istanze fondamentali dell'umana esistenza, ed approfondire le ragioni dell'essere cristiani in questa nostra epoca. Sua Santità augura che il Meeting continui a raccogliere le sfide e gli interrogativi che i tempi di oggi pongono alla fede, e rispondere ad essi facendo tesoro dell'insegnamento del compianto Mons. Luigi Giussani, fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione.

La tematica del Meeting 2009 verte sulla conoscenza che è sempre un avvenimento. "Avvenimento" è una parola con cui don Giussani ha tentato di riesprimere la natura stessa del cristianesimo, che per lui è un "incontro", e cioè un dato esperienziale di conoscenza e di comunione. Proprio dall'accostamento tra le parole "avvenimento" e "incontro" è possibile percepire meglio il messaggio del Meeting. La riflessione gnoseologica ed epistemologica contemporanea ha portato alla luce il ruolo determinante del soggetto della conoscenza nell'atto stesso del conoscere. Contrariamente ai presupposti del "dogma" positivista della pura obiettività, il principio di indeterminazione di Heisenberg ha reso evidente come ciò sia vero perfino per le scienze naturali:  anche in queste discipline, il cui "oggetto" sembra essere regolato da invariabili leggi di natura, la prospettiva dell'osservatore è un fattore che condiziona e determina il risultato dell'esperimento scientifico, e quindi della conoscenza scientifica come tale. La pura obiettività risulta perciò pura astrazione, espressione di una gnoseologia inadeguata e irrealistica.

Ma se ciò è vero per le scienze naturali, lo è tanto più per quegli "oggetti" di conoscenza che a loro volta sono strutturalmente legati alla libertà degli uomini, alle loro scelte e alle loro diversità. Pensiamo alle scienze storiche, che si basano su testimonianze nelle quali convergono, come fattori influenzanti del loro modo di comunicare la realtà che trasmettono, le visioni del mondo di chi le ha composte e le loro convinzioni, a loro volta legate a quelle del loro tempo, le loro situazioni personali, le scelte con cui essi si sono posti in rapporto alla realtà che descrivono, la loro levatura morale, le loro capacità e il loro ingegno, la loro cultura. Lo studioso che accosta il suo oggetto dovrà dunque sceverare tutto ciò, per comprendere e valutare il significato e la portata del messaggio veicolato in un contesto d'insieme, agendo come se si trovasse di fronte ad una persona che non conosce ancora bene, ma che gli sta raccontando qualcosa che ritiene comunque importante conoscere. La conseguenza più rilevante di tale situazione è che la conoscenza non può essere descritta come la registrazione di uno spettatore distaccato.

Anzi, il coinvolgimento con l'oggetto conosciuto da parte del soggetto conoscente è conditio sine qua non della conoscenza stessa. E pertanto, non il distacco e l'assenza di coinvolgimento sono l'ideale da rincorrere, peraltro invano, nella ricerca di una conoscenza "obiettiva", bensì un coinvolgimento adeguato con l'oggetto, un coinvolgimento atto a far giungere a chi interroga la conoscenza il suo specifico messaggio.

Ecco perché la conoscenza può essere un "avvenimento". Essa "avviene" come un vero e proprio "incontro" tra un soggetto e un oggetto. Che tale incontro sia necessario perché si possa parlare di conoscenza ci fa allora guardare a soggetto e a oggetto non come a due grandezze che si possano reciprocamente mantenere ad asettica distanza al fine di preservarne la purezza; essi sono al contrario due realtà vive che si influenzano reciprocamente proprio quando vengono in contatto. L'onestà intellettuale di colui che conosce sta tutta in quella somma arte di "ospitare l'oggetto" in modo che esso possa rivelare se stesso quale veramente è, anche se non in modo integrale ed esaustivo.

E l'accoglienza dell'oggetto, la disponibilità all'ascolto che caratterizza il soggetto conoscente come vero amante della verità, si può descrivere come una sorta di "simpatia" per l'oggetto. C'è qui, come molto del pensiero medievale ci ha trasmesso, una particolare forza conoscitiva propria dell'amore. "Amare" significa "voler conoscere" e il desiderio e la ricerca della conoscenza sono una spinta interna dell'amore come tale. A ben vedere, dunque, ciò stabilisce un rapporto ineliminabile tra amore e verità. La conoscenza presuppone per sua natura una certa "conformazione" di soggetto e oggetto:  un'intuizione fondamentale, già condensata nell'antico assioma empedocleo, secondo il quale "il simile conosce il simile". L'evangelista Giovanni lo richiama implicitamente, laddove scrive che quando Dio "si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo così come Egli è" (1 Gv 3, 1).

Ci si potrebbe domandare se esista conoscenza più necessaria all'uomo di quella del suo Creatore; se ci sia conoscenza più adeguatamente descritta dalla parola "incontro", se non il fondamentale rapporto che esiste appunto tra lo spirito dell'uomo e lo Spirito di Dio. Si comprende allora perché i Padri della Chiesa abbiano insistito sul bisogno di purificare l'occhio dell'anima per giungere a vedere Dio, rifacendosi alla beatitudine evangelica:  "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5, 8).

La razionalità dell'uomo può essere esercitata, e dunque raggiungere il suo fine proprio, che è la conoscenza della verità e di Dio, solo grazie a un cuore purificato e sinceramente amante del vero che ricerca. Purificato in tal modo, lo spirito umano può aprirsi alla rivelazione della verità. C'è dunque un misterioso nesso tra la beatitudine evangelica e le parole rivolte da Gesù a Nicodemo, riportate da san Giovanni:  "Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito... dovete rinascere dall'alto" (3, 6-7).

Il Santo Padre Benedetto XVI auspica che queste parole di Cristo risuonino nel cuore dei partecipanti alla 30 edizione del Meeting di Rimini, come richiamo a volgersi con fiducia verso di Lui, ad accoglierne la misteriosa presenza, che è per l'uomo e la società sorgente di verità e di amore. Con tali sentimenti, mentre formula voti di pieno successo a codesta manifestazione, imparte a Vostra Eccellenza, ai responsabili e a tutti coloro che sono presenti una speciale Benedizione Apostolica.

Unisco volentieri i miei auguri, e mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio
  dell'Eccellenza Vostra
  Reverendissima
  dev.mo nel Signore

Tarcisio Card. Bertone
Segretario di Stato


(©L'Osservatore Romano - 24-25 agosto 2009)
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26/08/2009 05:58

Per vincere la crisi occorrono politiche di sostegno alle famiglie

Al Meeting si discute di lavoro: opportunità, vocazione o condanna?

di Antonio Gaspari


RIMINI, lunedì, 24 agosto 2009 (ZENIT.org).- Grande successo di partecipazione e di interesse all’incontro, svoltosi domenica 23 agosto al Meeting di Rimini, sul tema “Lavoro: opportunità o condanna?”.

Dario Odifreddi, presidente della Fondazione Piazza dei mestieri e responsabile del dipartimento lavoro e formazione della Fondazione per la sussidiarietà, ha sottolineato che il lavoro è il modo in cui l’uomo utilizza i propri talenti per trasformare la realtà e per costruire il proprio futuro e quello della propria famiglia e comunità.

Simona Beretta, docente di politiche economiche internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha rilevato che pur essendo il lavoro la questione centrale dell’economia è “la parola meno pronunciata anche se è indispensabile per uscire dalla crisi”.

Come soluzione alla crisi la docente della Cattolica ha sostenuto che bisogna “riprendere la strada dello sviluppo” sottolineando che il lavoro “è una vocazione”.

“Il lavoro – ha precisato la Beretta – non è un semplice fare, ma un agire, un prendersi gli spazi di libertà”, per questo – ha aggiunto – il lavoro non è una condanna ma una presa di coscienza di “libertà e responsabilità”.

In merito al progresso, secondo la docente della Cattolica, “lo sviluppo è progredire nel benessere”.

“L’essere amati – ha sottolineato – il sentirsi curati e stimati, l’essere trattati con sincerità. Insomma sperimentare relazioni di carità e verità è un bene per tutta la società”.

A queste considerazioni si è agganciato Ivan Guizzardi, Segretario Generale della FeLSA Cisl, il quale ha spiegato che “il mondo del lavoro cambia se cambia lo sguardo alle persone”.

“Un disoccupato – ha constatato – lasciato solo a se stesso entra in depressione, non ce la fa. Occorre una compagnia: persone che insieme tentano di dare delle risposte alla crisi”.

A questo proposito Guizzardi ha parlato del contratto di secondo livello che sono riusciti a far accettare, dove “ad ogni aumento dello sviluppo dell’azienda corrisponde un aumento del salario”.

Della condizione della donna e del rapporto tra lavoro e cura della famiglia ha parlato invece Lorenza Violini, docente di Diritto Costituzionale all’Università Statale di Milano, secondo cui “è essenziale la presenza della donna in famiglia. Occorrono politiche che sostengano attraverso reti di solidarietà le famiglie. Servizi per l’infanzia, detrazioni fiscali per figli a carico ecc.”

A queste richieste ha riposto il Ministro delle Pari opportunità, Mara Carfagna, la quale ha ricordato che il Governo in carica ha stanziato 40 milioni di euro per politiche di sostegno alle madri che lavorano.

La Carfagna ha ribadito che “la donna è perno della famiglia. Investire sulle donne è investire su un tassello fondamentale per la società. C’è una ricchezza nascosta in Italia e questa ricchezza è il lavoro delle donne”.

“Abbiamo cercato – ha aggiunto il Ministro – di fare in modo che la donna riesca a conciliare lavoro e vita famigliare. Per questo abbiamo consentito il diritto di maternità anche alle lavoratrici precarie”.

“Noi crediamo – ha concluso la Carfagna – che chi fa un figlio, non sia un ostacolo, ma un benefattore della società”.

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26/08/2009 05:59

L'ideologia disumana che partorì i Laogai cinesi

Harry Wu racconta i crimini del regime cinese


di Antonio Gaspari
RIMINI, lunedì, 24 agosto 2009 (ZENIT.org).- E’ stato condannato all’ergastolo perché cattolico e perché osò criticare l’intervento militare sovietico contro l’Ungheria ma l’ingiustizia della condanna e diciannove anni nei campi di lavoro forzato (Laogai) non lo hanno piegato.
Domenica 23 agosto, al Meeting di Rimini, Harry Wu, presidente della Laogai Research Foundation (http://www.laogai.it/?page_id=9553), ha raccontato la propria storia ed ha spiegato la crudeltà dell’ideologia comunista che governa la Cina.
Wu ha denunciato la politica di aborti forzati e sterilizzazione, l’utilizzo dei campi di lavoro forzato, il commercio di organi di condannati a morte e detenuti, la persecuzione contro la religione cattolica e le altre religioni.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione del Meeting, Wu Nongda, diventato Harry Wu quando ha ottenuto la cittadinanza statunitense, ha precisato che nella Repubblica Popolare Cinese “il cattolicesimo è tuttora illegale”.
“Tutti i templi e le chiese – ha aggiunto – sono proprietà del governo. C’è una religione di Stato che è il comunismo. E’ il governo che nomina i Vescovi e che tra non molto cercherà di nominare anche un Papa”.
Wu è nato a Shangai nel 1937 da una famiglia borghese. Nel 1949 il partito comunista prese il potere, instaurando una dittatura che dura da 60 anni.
A dodici anni Wu divenne cattolico, “ma non mi resi conto che fosse un problema” ha commentato.
A vent’anni aveva una ragazza ed era diventato capitano della squadra di baseball. La sua vita cambiò quando decise di organizzare una conferenza sul comunismo e si azzardò a porre una domanda riguardante i fatti d’Ungheria, quando i sovietici schiacciarono militarmente la rivolta popolare.
Nel 1960, quando era appena laureato e in attesa di un posto di lavoro fu preso dalla polizia che gli fece firmare un documento “coprendo con le mani la parte alta del foglio”. Venne arrestato e portato nei campi di lavoro senza conoscere i reati di cui era stato accusato.
Furono le guardie dei campi di lavoro che gli comunicarono che era stato condannato all’ergastolo.
Gli cascò il mondo addosso e in più occasioni pensò che forse era meglio lasciarsi morire, come facevano tanti detenuti nei campi di lavoro.
Per diciannove anni Wu è stato detenuto in dodici diversi campi di lavoro, senza avere il conforto neanche della visita di un amico, parente o conoscente.
Nel 1976 Mao Tse Dong muore e tre anni dopo Wu viene rilasciato.
Fugge negli Stati Uniti. Per alcuni anni vive senza neanche riuscire a raccontare quello che gli è accaduto. Poi il Senato americano gli commissiona un lavoro di ricerca sui lager cinesi conosciuti come Laogai, abbreviazione del cinese laodong gaizao, che significa ‘riformare attraverso il lavoro’.
E così oltre a raccontare la sua storia scopre che sono 1000 i campi di prigionia dove milioni di condannati lavorano gratuitamente con turni di 12 ore producendo merci che vengono immesse sui mercati di tutto il mondo.
Calcoli e testimonianze conservative parlano di 50 milioni di vittime nei campi di lavoro.
Nei Laogai i condannati vengono anche “rieducati”, nel senso – ha spiegato Wu – che “quelli del partito vogliono rieducare un intero popolo alla propria ideologia”.
Tra i molti crimini del regime, Wu ha raccontato della strage di bambini. In Cina infatti tutte le donne sono sottoposte alla politica del figlio unico.
La politica di pianificazione familiare cinese priva i cittadini della più fondamentale delle libertà: la libertà di procreare. Le misure punitive previste per i trasgressori sono terribili e prevedono sterilizzazioni e aborti forzati, pestaggi, distruzione delle abitazioni, licenziamenti.
L’utilizzo utilitaristico del regime cinese dei cittadini arriva anche alla produzione e commercio di organi.
Wu ha raccontato che nel solo 2006 sono avvenute in Cina 30.000 operazioni di trapianto di organi. “Il 95 per cento di questi organi – ha rilevato – provengono da persone condannate a morte”. La Cina è il Paese con il più alto numero di esecuzioni al mondo.
A vent’anni dalla rivolta di Tien An Men, Harry Wu sta girando il mondo per far conoscere i crimini della dittatura cinese.
Tra i suoi libri pubblicati in italiano figurano: “Laogai, i Gulag di Mao Tze Dong” (ed. L’ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma, 2006, traduzione dall'inglese di Laogai. The Chinese Gulag, 1991); “Controrivoluzionario. I miei anni nei gulag cinesi”, (ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, traduzione dall'inglese di Bitter Winds, 1994); “Laogai. L'orrore cinese” (Spirali, 2008); e “Cina. La politica demografica del figlio unico e le sue conseguenze” (Guerini Associati, 2009).
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26/08/2009 06:04

Dal caso Englaro la lezione che nessuna vita è superflua

Intervista a Massimo Pandolfi, Caporedattore de “Il Resto del Carlino”


di Antonio Gaspari

RIMINI, lunedì, 24 agosto 2009 (ZENIT.org).- “La vita, anche la più sofferente e malata, è sempre degna di essere vissuta fino in fondo”. Questa è la tesi che il libro “La vita in gioco. Eluana e noi” (ed. Ares) intende spiegare, sottolineare, testimoniare.

Scritto da Massimo Pandolfi, Caporedattore del quotidiano “Il Resto del Carlino”, il saggio contiene documenti inediti, valutazioni medico-scientifiche, contributi d’opinione, interviste e racconti di persone che si sono risvegliate dopo 19 anni di coma.

Nel libro si trova il monologo teatrale del poeta e scrittore Davide Rondoni e svariate testimonianze, tra cui quella del Ministro della Salute, Maurizio Sacconi, che colpito da una grave malattia si è messo in gioco con tutta la sua umanità in questa vicenda.

Gli altri interventi sono dei medici Gian Battista Guizzetti, Mario Melazzini, Marco Maltoni, tutti e tre impegnati in prima fila accanto ai malati più gravi; del giurista Luciano Eusebi e di Fulvio De Nigris, fondatore della ‘Casa dei Risvegli Luca De Nigris di Bologna’.

In chiusura l’adesione alla vita pronunciata dall'attore e autore teatrale Alessandro Bergonzoni e dal noto giornalista del Tg1 Aldo Maria Valli.

Per saperne di più ZENIT ha intervistato Massimo Pandolfi, già autore dei volumi “L’inguaribile voglia di vivere” e “Liberi di vivere”, due testi che hanno dato voce a persone che soffrono di malattie molto gravi, ma che scelgono, nonostante tutto, di continuare a lottare, testimoniando anche con gioia la bellezza della vita in ogni
circostanza, anche quella apparentemente più drammatica.

Ancora un libro sulla vicenda Eluana. Perché?

Pandolfi: Perché credo che sulla vicenda di Eluana siano state dette tante, troppe bugie. Ad un certo punto è passato il messaggio che i sadici saremmo noi, 'ostinati' difensori della vita e i buoni tutti quelli che volevano accompagnare Eluana alla fine del suo calvario. Non è così. Il libro parte da dati di fatto per spiegare la verità vera di una vicenda che è stata troppo spesso addomesticata. Eluana non era una malata terminale, ma una grave disabile. Eluana non era attaccata a macchinari strani, e veniva nutrita, idratata e pulita come capita alle persone non autosufficienti. Non c'era nessuna spina da staccare per Eluana. Eluana forse non si rendeva conto di nulla, ma solo forse, perché neanche i medici sono in grado di dare una risposta vera a questi misteri che si chiamano stati vegetativi. E comunque, se anche non si rendeva conto di nulla, c'è per caso un criterio umano per stabilire quando una vita è degna o meno di essere vissuta? Io penso proprio di no. Credevo fosse importante provare a riportare un po' di verità su questa storia, anche per rispetto di migliaia di malati (e familiari di malati) che affrontano in modo diametralmente opposto delle realtà difficili.

Quale significato ha avuto, dal punto di vista etico, mediatico e sociale, la triste vicenda di Eluana?

Pandolfi: Io credo nell'assoluta buona fede di Beppino Englaro. Non condivido nulla delle sue scelte, ma sono certo che lui abbia fatto tutto quello che ha fatto pensando al presunto bene di sua figlia. In nome della libertà. ma che libertà è quella che ti toglie l'unica cosa che ti consente di poter esprimere questa libertà, cioè la vita? Purtroppo il caso singolo di una persona (Beppino Englaro) che ha fatto questa scelta è diventato una sorta di bandiera etica e mediatica per molti. Ma la realtà è un'altra! Pongo una domanda io: ma ci avete fatto caso, dal 25 giugno 2008 (giorno del decreto della Corte d'Appello di Milano che autorizzava la sospensione dell'idratazione e nutrizione artificiale di Eluana) non c'è stato un disabile-uno che abbia provato a seguire questa strada giudiziaria, che dopo quel precedente poteva anche essere molto agevole. Perché? Non sarà che forse le reali esigenze dei disabili e dei loro familiari sono ben altre rispetto a quelle ossessionatamente sbandierate da radicali radical chic e 'Ignazi Marino' vari nei mesi scorsi?

E' tuttora in atto una vivace discussione su quello che viene indicato come diritto a morire, da alcuni denunciato come eutanasia.
Qual è il suo parere il proposito?


Pandolfi: Il diritto a morire è solo un gioco di parole. Ma che vuol dire diritto a morire? Prima o poi si muore tutti. Diciamo che c'è una società nichilistica che pretende - ed è questo l'aspetto drammatico - che certe persone ad un certo punto della loro esistenza si tolgano di turno. Diventano scomodi o sono scomodi in partenza, d'impiccio. Si è cominciato con i bambini da ammazzare prima di far nascere (aborto: primo omicidio legalizzato della storia moderna), poi siamo arrivati a malati e disabili, presto chiuderemo il cerchio con gli anziani. Si confondono delitti e diritti. E la cosa tragica è che si pensa, molti pensano, che si faccia ciò a fin di bene. Io credo che più che parlare di diritto a morire, bisognerebbe insegnare (magari con una carezza, con un po' più di umanità) ai nostri giovani una nuova strada: dobbiamo aiutare tutti (anziani, malati, disabili, le migliaia di Eluana che ci sono in giro per l'Italia e per il mondo) a trovare un significato alla loro esistenza. E si può. Come ha detto splendidamente il cantautore laico Enzo Jannacci: 'L'esistenza è uno spazio che ci è stato donato e che dobbiamo riempire di significato, sempre e comunque'.

Qual è il contenuto del libro e quali sono i fini della sua pubblicazione?

Pandolfi: Spiego in pratica la frase di Jannacci. Nel mio percorso umano e professionale in questi anni mi sono occupato molto di persone e situazioni (grazie anche ai precedenti libri “L'inguaribile voglia di vivere” e “Liberi di vivere”) molto simili a quella di Eluana e ho scoperto, anzi sto continuando a scoprire che nel 99.9% dei casi le esigenze di queste persone non sono quelle che sono purtroppo state sbandierate per mesi anche da noi giornalisti. Questa gente (e i loro familiari) non chiede-chiedono di morire ma chiedono semplicemente di trovare dei buoni motivi per continuare a vivere, così come la realtà vuole che loro vivano. E ho scoperto quello che è un messaggio di speranza, che voglio lanciare col mio libro: anche queste persone, anche i loro familiari, possono essere felici! Purtroppo viviamo in una società dove sembra che la parola dolore debba per forza essere messa in contrapposizione con la parola felicità. Non è così.

Il libro racconta dall'A alla Z tutta la vicenda di Eluana, attraverso anche documenti e testimonianze inedite. Metà libro è farina del mio sacco, l'altra metà di amici che ho coinvolto e che mi hanno fornito testi e contributi. Ho coinvolto persone che, seppur partendo da posizioni politiche, culturali e religiose anche profondamente diverse, hanno vissuto delle esperienze dirette che consentono loro di spiegare come la vita vada difesa, sempre e comunque. Bellissima e commovente la testimonianza introduzione del Ministro della Salute Maurizio Sacconi. Poi ci sono testi di medici (Mario Melazzini, Gian Battista Guizzetti, Marco Maltoni), giuristi (Luciano Eusebi), genitori che dal dolore per la morte del figlio hanno creato dei centri medici di eccellenza (Fulvio De Nigris), autori-attori (Alessandro Bergonzoni), giornalisti (Aldo Maria Valli). All'inizio del libro c'è il bellissimo monologo teatrale del poeta e scrittore Davide Rondoni, intitolato 'Passare la mano delicatamente'.

[Il libro di Pandolfi verrà presentato martedì 25 agosto al Meeting di Rimini da Celestina Isimbaldi, Davide Rondoni e Camillo Fornasieri]
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28/08/2009 06:27

Edward Green: il Papa ha ragione, l'Aids non si combatte con il condom
Occorre un cambiamento culturale e nei comportamenti sessuali


di Mirko Testa

RIMINI, giovedì, 27 agosto 2009 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha ragione: i preservativi non sono la panacea nella lotta all'Aids, perché la prevenzione del contagio investe tutti gli aspetti di una persona e quindi richiede una risposta culturale.

E' quanto ha affermato Edward Green, antropologo e direttore dell’Aids Prevention Research Project della Harvard School of Pubblic Health and Center for Population and Developement Studies, intervenendo il 25 agosto al Meeting di Rimini a una tavola dal titolo “Aids, un problema culturale”.
Con una esperienza più che trentennale nei Paesi in via di sviluppo, Green aveva già presentato nel gennaio del 2004 uno studio presso il Medical Institute for Sexual Health a Washington D.C. che dimostrava gli scarsi risultati prodotto dalla distribuzione dei preservativi nel Continente africano, in particolare nell’Africa sub-sahariana.
Nel suo intervento, Green ha accennato alle dichiarazioni rilasciate dal Papa sull'inefficacia del preservativo nella lotta all'Aids e sulla necessità di un “risveglio spirituale e umano”, durante il volo per Camerun, in occasione del suo primo viaggio apostolico in Africa, nel marzo del 2008, che suscitarono da più parti indignazione e critiche.

“Mi ha colpito la vicinanza dei commenti del Papa alle più recenti scoperte scientifiche”, ha commentato l'antropologo.
Infatti, ha spiegato, “non c'è alcuna prova che i preservativi abbiano una qualche efficacia nella riduzione dell'Hiv su larga scala, in particolare in caso di epidemie molto estese come l'Africa”.
“E' uno strumento che può forse funzionare per singoli individui ma non necessariamente per popolazioni e nazioni”, ha precisato.
“E perché non funziona in Africa? Innanzitutto, perché non viene usato regolarmente, perché c'è una bassa richiesta, perché riduce il piacere, perché indica una mancanza di fiducia all'interno della coppia e soprattutto perché c'è la cosiddetta 'compensazione del rischio”, ha spiegato.
Quest'ultimo è il fenomeno generato dalla falsa percezione di protezione legata al preservativo che porta le persone a esporsi a maggiori rischi e quindi ad aumentare le possibilità di contrarre il virus.

“Tutti questi principi sono immutabili e generali – ha però affermato Green – e quindi non basta dire 'bisogna che tutti usino sempre il preservativo' perché questo non succede”.
In particolare “le strategie incentrate sui preservativi inizialmente sono state sviluppate negli Stati Uniti, pensando ai gruppi più vulnerabili, a quelli più esposti all'infezione, cioè agli omosessuali maschi, agli eroinomani e alle prostitute”.
Allora, “le risorse per la prevenzione venivano impiegate, principalmente, per la riduzione del rischio oppure per sviluppare soluzioni mediche”.
Inizialmente, per prevenire l'Hiv si usavano in primo luogo il preservativo, test diagnostici su base volontaria, il trattamento massiccio di altre malattie veneree che possono facilitare la trasmissione del virus, microbiocidi vaginali e farmaci antiretrovirali.

“In realtà non c'era alcuna prova che queste misure preventive riducessero la diffusione dell'Hiv in Africa, perché non hanno avuto un impatto generale sull'epidemia”, ha detto precisando però poi che questi interventi si sono rivelati al contrario fruttuosi in Paesi come Thailandia e Cambogia, dove l'Hiv viene trasmesso soprattutto dalle prostitute.
In realtà, in base ai risultati di alcune ricerche, “la fedeltà e la circoncisione maschile sembrano aver sortito i giusti effetti in Africa portando a una riduzione del 60% nella riduzione dell'Hiv”.
Negli Stati Uniti, tra il 1982 e il 1985, quando non si parlava più dell'Aids come della slim disease, “gli omosessuali ed eroinomani erano considerati gruppi molto spesso stigmatizzati ed emarginati” e “nessuno poteva lanciare un giudizio morale sulle loro abitudini sessuali perché si trattava della sfera privata e quindi era intoccabile”.

La libertà sessuale, ha chiarito Green, veniva considerata dalla comunità gay come una conquista frutto di una lunga battaglia cui era impossibile rinunciare.
Quando poi gli Stati Uniti hanno cominciato a lanciare programmi a livello internazionale, esportando il modello incentrato sul preservato agli altri Paesi indipendentemente da quelle che erano le modalità di diffusione dell'epidemia, le persone che si sono mostrate più interessate sono stati gli attivisti gay e gli esperti in pianificazione familiare.
Essendo poi il preservativo una tecnologia a basso costo, ha continuato Green, “la prevenzione dell'Aids è divenuta una sorta di business”.

In Uganda, al contrario, che dal 1986 è colpito pesantemente da questa malattia che causa ogni anno oltre 900.000 morti, “l'Aids è stato considerato come un problema comportamentale e non soltanto medico”, ha raccontato Edward Green.
“Si è cercato di evitare non di ridurre il rischio”, utilizzando anche nella campagna dei poster finalizzati ad incutere timore nelle persone, senza però stigmatizzare i sieropositivi, al fine di rovesciare il paradigma allora dominante.
Si è quindi puntato sull’approccio “ABC” all’AIDS (Abstain, Be faithful, use Condoms, cioè Astinenza, Fedeltà, Preservativi) con una campagna avviata nel 1987 e finalizzata a sensibilizzare le persone sull'importanza di rimanere vergini fino al matrimonio, evitare i rapporti sessuali occasionali e avere uno solo partner.
Questa mobilitazione nel paese simbolo dell’Africa sub-sahariana ha portato a una riduzione della prevalenza di sieropositivi dal 21% alla fine degli anni Ottanta al 6,4% nel 2000, e una riduzione della prevalenza dell'Hiv del 75% nel gruppo di età tra i 15 e i 19 anni, e del 60% tra i 20 e i 24 anni.
Rose Busingye, la responsabile a Kampala del Meeting Point International, uno dei maggiori partner di AVSI – una Ong, nata nel 1972 e impegnata con oltre 100 progetti di cooperazione allo sviluppo in 39 paesi del mondo, che solo nel Continente nero sostiene circa 5 mila persone quasi tutte malate di Aids –, ha quindi raccontato la sua esperienza.

“Il mondo di oggi – ha affermato Rose – produce un modo di sentire le persone come un aggregato di frammenti e segmenti” da curare e trattare separatamente, così che quella che si genera è solo “confusione e contraddizione”.
“Ma io non sono un particolare – ha detto –. Per curare un uomo non si deve partire dal particolare dell'Aids. L'uomo non è una malattia, l'uomo non è il sesso”.
“L'Otorinolaringoiatra non è solo di fronte ad un naso ma è davanti ad un uomo col suo naso”, ha poi scherzato.
In questo modo, ha spiegato, “si perde l'interezza dell'uomo”.
Nel Meeting Point, le donne di Rose – attualmente circa 2000 e quasi tutte malate di Aids e con altrettanti bambini che godono del sostegno a distanza dell'AVSI e di altri progetti - si aiutano a vicenda nel prendere le medicine, e se una di loro muore, i figli vengono presi in casa da un'altra.
Quelle donne, ha continuato, “sono malate eppure attraverso il virus hanno scoperto veramente chi sono, e quando scopri che la vita ha un valore, lo proteggi”.
“La battaglia – ha concluso – è contro ciò che non ha al centro il vero valore della dignità umana. Il problema è trovare il senso di tutto”.

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28/08/2009 06:28

La dottrina sociale al centro della riflessione politica


Al Meeting di Rimini si discute di “Caritas in veritate”


RIMINI, giovedì, 27 agosto 2009 (ZENIT.org).- L’ultima enciclica di Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, è stata al centro di un incontro sul tema “Dalla dottrina sociale all’esperienza”, svoltosi mercoledì 26 agosto al Meeting di Rimini.

Ha aperto l’incontro Luca Antonini, Vicepresidente della Fondazione per la Sussidiarietà e docente di Diritto costituzionale all’Università di Padova, il quale ha definito la Caritas in veritate come “una bussola certa” in una situazione storica alquanto particolare.
Prendendo la parola Maurizio Sacconi, Ministro del Welfare, ha detto che l’enciclica è una fonte importante a partire dalla quale è lecito chiedersi se “può una società, in cui esistono processi culturali che hanno prodotto i germi del nichilismo, essere ragionevolmente capace di sviluppo e di crescita”.
“Il governo – ha sostenuto Sacconi – dovrà necessariamente affrontare i temi della vita e del fine vita già dal prossimo autunno, perché questi argomenti non sono altra cosa rispetto allo sviluppo”.
Per Sacconi, anche il tema del mercato e dell’impresa, se vissuto con responsabilità è in grado di essere inclusivo.
Affinché avvenga “l’inclusione”, ha suggerito occorre superare “una propensione implicita all’autoreferenzialità delle banche, le quali devono necessariamente ancorarsi al territorio”.
L’antidoto all’autoreferenzialità deve essere ricercato, secondo Sacconi nel “favorire la scelta di partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa e la costruzione di un nuovo modello sociale”.
E' poi intervenuto Roberto Formigoni, Presidente della regione Lombardia, il quale ha sottolineato che “è la prima volta che c’è da parte del magistero della Chiesa una proposta di innovazione totale del sistema”, ponendo l'accento sul “principio di gratuità” al centro dell’enciclica.
Per Formigoni, “è una fotografia a colori, quella di Benedetto XVI, non una teoria, perché per mettere all’angolo il rischio di una nuova ideologia fondata sulla tecnica, indica la carità”.
Successivamente ha parlato del tema della responsabilità, citando gli ultimi accadimenti alle acciaierie di Brescia, in cui si è verificata una forma creativa grazie alla “flessibilità mentale dei lavoratori e dell’azienda”.
Riguardo alla sfida culturale e sociale da raccogliere, il Presidente della regione Lombardia ha citato dall’enciclica la parola ‘fraternità’.
“Oggi il pregiudizio di certa stampa – ha rilevato Formigoni – è pensare alla fraternità come a qualcosa di vecchio, sentimentale, appunto cattolico”, ed ha indicato nella sussidiarietà la risposta alla sfida lanciata dall’enciclica.
“La politica che vuole essere sussidiaria – è il punto di vista del governatore – deve uscire dalla gabbia stato-mercato e sostenere le iniziative dei corpi intermedi, così come accade in Lombardia”.
Formigoni ha poi ravvisato la necessità di una “rete di responsabilità globale che si assuma il compito morale della sfida”, da qui la possibilità di una sussidiarietà e di corpi intermedi di livello globale.
In conclusione del suo intervento, ha annunciato tre proposte in atto nella regione Lombardia: l’inserimento negli ammortizzatori sociali e il tema del quoziente familiare; l’allargamento nel campo dell’assistenza degli ammortizzatori sociali anche ai precari; l’introduzione della quattordicesima, come criterio di merito per medici ed infermieri.
Il deputato del Partito Democratico, Enrico Letta, ha quindi indicato cinque parole-chiave contenute nell’enciclica, la prima delle quali è “dialogo”, inteso in termini di comunicazione e comunione, come riportato nel quarto paragrafo del documento papale.
“Il dialogo deve essere rilanciato, perché si tratta di un incontro proficuo tra persone piene – ha detto Letta –. Solo chi ha paura della sue debolezze rifiuta il rilancio iniziale che l’enciclica offre a tutti”.
Il deputato del Partito Democratico ha poi parlato della necessità di riallacciare “relazioni strette”, così da far riaffiorare “la dimensione della comunità” in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo.
La seconda sottolineatura è sulla parola “doveri”, scorta come la possibilità di ripensare al ruolo dell’etica in economia.
“Sì a poche e chiare regole ben applicate – ha esclamato – così che sia il mercato sia la tecnica (riferimento al paragrafo 43) possano basarsi sulla rettitudine morale dei soggetti coinvolti”.
Con la parola “natalità”, Letta è passato al tema della promozione della vita ed ha dichiarato che in Italia, siamo in presenza di un vero e proprio grido di dolore, la cui risposta è da ricercare in “un nuovo welfare in grado di aiutare le famiglie”.
L’on. Letta ha quindi indicato “il lavoro”, in luogo della rendita, come il cavallo di battaglia per uscire definitivamente dalla crisi oltre a chiedere un maggiore impegno per il Mezzogiorno.
L’ultima sottolineatura, per l’esponente del PD, è sulla parola sussidiarietà, “di cui l’enciclica è un’ode”. “È la vera soluzione alla sfida della globalizzazione”. In conclusione del suo intervento, Letta ha voluto evidenziare il fatto che “l’enciclica fa uscire il tema della sussidiarietà fuori dai confini in cui gli addetti ai lavori l’avevano collocato”.

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28/08/2009 06:29

Il cantautore Enzo Jannacci rivela la sua fede in Dio


RIMINI, giovedì, 27 agosto 2009 (ZENIT.org).- “Credo in Dio e non sono ateo”. Lo ha dichiarato il cantautore Enzo Jannacci in un’intervista esclusiva che è stata pubblicata il 26 agosto dal quotidiano “Avvenire”.

Nell’intervista realizzata da Paolo Viana, Jannaci racconta il suo percorso di ricerca della fede, caratterizzato da una “costante dialettica interna” attraverso la lettura della Bibbia e del Vangelo.
“Sto vivendo una maturazione del mio credo religioso”, ha dichiarato, raccontando di quando gli parve di vedere “la carezza del Nazareno ad un povero operaio stanco su un tram di Milano”.
Della necessità di Cristo, Jannacci aveva già parlato durante la vicenda di Eluana Englaro quando scrisse su “Il Corriere della Sera” che “avremmo così tanto bisogno di una carezza del Nazareno”.
L’intervista ha fatto scalpore perché Jannacci, cantautore e medico che canta la Milano operaia, quella dei poveracci che lavorano sodo, non aveva mai rivelato il suo essere credente, anzi i più pensavano che fosse ateo.
Intervenuto al Meeting di Rimini, il 26 agosto, con un concerto che è durato quasi due ore, Jannacci ha spiegato quanto la fede sia vicina all’amore e al canto
Nell’intervista ad “Avvenire” ha detto: “Quando uno ha la fortuna di riconoscere e di alimentare un’esperienza di fede, prova le stesse situazioni emotive dell’amore, vede la luce attraverso uno spettro diverso, ha voglia di parlare con gli altri, di cantare”.
“Sì, di cantare come ho fatto io la scorsa settimana, in auto, a squarciagola”, ha aggiunto.
E in una intervista al “Meeting Quotidiano” del 27 agosto ha precisato: “la fede è come un innamoramento. (…) Non è semplice da spiegare. Per ognuno l’accadimento è particolare. Ma succede sempre così, un incontro, una scintilla”.
“Ma poi – ha concluso – il sentimento va alimentato e giorno per giorno si scopre un amore nella condivisione, nelle cose comuni”.

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28/08/2009 06:54

I miracoli della missione in Africa

La testimonianza di un Vescovo in Sudan e di una suora missionaria in Nigeria


di Antonio Gaspari
RIMINI, giovedì, 27 agosto 2009 (ZENIT.org).- Intervenuti mercoledì al Meeting di Rimini, monsignor Cesare Mazzolari, Vescovo di Rumbek (Sudan), e suor Caterina Dolci, missionaria delle suore del Bambino Gesù in Nigeria, hanno raccontato i tanti miracoli che l’annuncio di Cristo continua a generare.
Nel presentare i due ospiti Mario Molteni, docente di Economia aziendale alla Cattolica di Milano, ha spiegato che “dentro un contesto che resta drammatico, ci sono in Africa esperienze positive, profetiche, che rappresentano punti di speranza: fatti positivi che stanno educando il popolo africano”.
Monsignor Mazzolari ha cercato di far comprendere la difficile situazione del Sudan e dei cristiani che vi abitano, ricordando che nel 1964 oltre 300 tra missionari, suore e padri vennero espulsi dal Paese.
Il clero nativo del Sudan venne messo pesantemente sotto pressione dal governo che intimò la creazione di una Chiesa nazionale staccata dal Vaticano.
Il Vescovo di Rumbek ha quindi ricordato il nome e il sangue versato dei martiri di quegli anni tra cui padre Arcangelo Ali, padre Saturnino Lohure e padre Barnaba Deng.
Nonostante la persecuzione, nel 1975, quando i missionari poterono tornare in Sudan trovarono comunità cristiane che seppur povere e sfinite erano sopravvissute grazie al lavoro dei catechisti.
Ma dopo undici anni ripresero le persecuzioni. Sacerdoti, suore e padri subirono rapimenti e maltrattamenti. La comunità cristiana soffrì in silenzio, cercando di continuare a praticare opere di carità tra la gente.
Tra conflitti interni e persecuzioni si arriva fino al 2006, quando iniziò il sanguinoso conflitto tra i Bantu e i Luo.
Monsignor Mazzolari ha raccontato che le Chiese del Sudan si riunirono in preghiera per quattro settimane invocando la pace, che fu firmata il 12 giugno di quell'anno.
Secondo il Vescovo di Rumbek “abbiamo raggiunto la pace dal punto di vista diplomatico, ma questo non è bastato” ed ha aggiunto che “la pace è sempre un dono che Dio ci concede, è Lui che la fa”.
“Il vero protagonista però è l’oppresso – ha aggiunto monsignor Mazzolari –. Lui accettando la croce, la persecuzione, la morte dei propri cari, lascia l’odio, fa morire la violenza che sente dentro di sé e perdona tutto e tutti”.
Monsignor Mazzolari ha quindi sottolineato che “il modello di riconciliazione è Cristo stesso che si fece vittima innocente, si fece oppresso e chiede ad ogni cristiano di essere ambasciatore di riconciliazione”.
“Noi siamo strumenti di riconciliazione grazie a Cristo”, ha affermato il Vescovo di Rumbek, ed ha raccontato delle tante opere di carità e formazione nei campi scolastico, culturale, sanitario, assistenziale, educativo ed economico che la Chiesa cattolica svolge in Sudan.
Suor Caterina Dolci ha invece iniziato dicendo: “Sono in Nigeria da ventiquattro anni ed ho visto accadere, dentro questa difficile realtà, cose semplici ma belle”.
Nata a Bergamo, suor Caterina ha iniziato il suo cammino con Comunione e Liberazione e successivamente con le suore del Bambino Gesù.
“Ci sono tanti problemi da risolvere in Nigeria – ha commentato – ma ci sono anche esperienze positive di gente che, aprendosi al mistero di Cristo presente, vive una vita dignitosa e con una speranza”.
Tra le tante attività di Suor Caterina c’è anche la visita ai detenuti del carcere di Jalingo, dove la temperatura in un'unica cella è di 40 gradi e l’acqua non c’è.
Durante una visita suor Caterina disse ai detenuti che il Vescovo aveva iniziato la costruzione della Chiesa ed aveva chiesto a tutti di pagare il costo di un mattone.
Un giorno il Vescovo venne a dire messa nel carcere, e con grande sorpresa i detenuti consegnarono una busta con dentro il denaro per dieci mattoni.
Tutti rimasero commossi. I detenuti avevano trovato il denaro vendendo alle guardie carcerarie pezzetti di carne prelevati dalle proprie minestre.
“Lo hanno fatto perché si erano sentiti amati”, ha detto suor Caterina.
La suora missionaria ha anche raccontato di come sia cambiato il rapporto con la gente del villaggio di Kona, dove all’inizio regnava la poligamia, le donne non venivano considerate e riti e magie erano dominanti.
Adesso a Kona è nato un gesto di pellegrinaggio che si ripete, ormai da vent’anni, il 15 agosto e, fatto eccezionale nel contesto africano, una donna ha guidato momenti di approfondimento della fede cristiana (scuola di comunità) destinati ad un gruppo di uomini.
“L’incontro con Cristo – ha concluso suor Caterina – genera e rigenera una speranza anche per chi vive in Nigeria, in mezzo a tante difficoltà”.
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31/08/2009 06:39

La Croce, mistero di Dio e mistero dell'uomo

Al centro dell'ultimo libro del prof. Alessandro Meluzzi


di Mirko Testa
RIMINI, domenica, 30 agosto 2009 (ZENIT.org).- Nella dimensione del dono e del sacrifico, incarnati nella Croce, l'uomo incontra se stesso e Dio.

E' questo in sintesti quanto emerge dalle pagine di “Abbracciare la Croce. Dolore, libertà e tenerezza in Dio”, l'ultimo libro del prof. Alessandro Meluzzi, famoso medico, psichiatra e psicoterapeuta, presentato il 26 agosto scorso presso lo stand delle Odizioni OCD allestito durante il Meeting di Rimini.
Fondatore delle comunità di accoglienza del disagio psichico ed esistenziale per minori e adulti "Agape Madre dell'Accoglienza" e ordinato ipodiacono nel rito greco-melchita cattolico, Meluzzi è inoltre Direttore scientifico della Scuola Superiore di Umanizzazione della Medicina.
Nel corso della presentazione, l'autore ha osservato che l’esperienza del lutto, così come quella dell’abbandono, della perdita, della frustrazione e della sconfitta sono esperienze costitutive e inevitabili della condizione umana.
Nel dolore e nel momento della prova si affacciano, tuttavia, domande e risposte che riguardano il senso più profondo dell'uomo, che lo spingono a levare lo sguardo alla ricerca del divino.
Da qui l'invito che percorre tutta l'opera a guardare al dolore come un'occasione per ritrovare se stessi e alla vita umana “come gioiosa salita al Calvario”.
La Croce si accompagna però a una consolazione: “Sappiamo che Dio condivide integralmente il mistero dell’umano, e con un atto libero e amorevole sceglie di farsi uomo per condividere – in tutto fuorché nel peccato – la natura umana, che è fatta di morte, di dolore e di croci”.
Dio, che si piega verso l'uomo e che è innalzato sulla Croce, trascina l'intera umanità verso di sé in un abbraccio universale di accoglienza ma anche in una scopera: la scoperta della dimensione divina nascosta nelle profondità del cuore umano.
La scoperta che la dimensione della gratuità e l'orizzonte del dono non possono prescindere dal sacrificio, dal fare il sacro, che è il contrario del ricercare la felicità personale.
La Croce diviene così una “potentissima anche se scomoda scaturigine di senso”.
“La nostra vita ha un senso solo quando diventa dono – scrive nell'introduzione al libro –. Infatti se l’esistenza è possesso perfetto di noi, allora è nulla. La realtà non può essere il risultato di un atto introspettivo privato, tra sé e sé”.
Dio, spiega Meluzzi, “ha imboccato una via d’amore in cui il dolore è inevitabile”, rendendo visibile che “la libertà di scelta porta innegabilmente con sé quote di dolore”. Anzi, aggiunge, “il dolore avvertibile è direttamente proporzionale al grado di libertà che si ricerca”.
Per questo, “il tossicodipendente [...] si nega il massimo grado di libertà ricercando l’anestesia, perché solo in essa riesce a vietarsi la possibilità di essere libero e quindi dolente”.
“Così chi ricerca la libertà […] mette in conto non solo la possibilità, ma soprattutto la necessità, la doverosità della sofferenza”, sottolinea.
“Questa libertà dell’uomo – scrive ancora Meluzzi – si rispecchia nella misteriosa libertà di Dio. Dio che lascia libera la creatura di amarlo o di non amarlo tanto da crocifiggerlo; quindi la Croce è il prezzo che Dio paga per riscattare la libertà dell’uomo, non solo per redimerlo, ma per condividere fino in fondo la natura dell’uomo”.
Dall'intima vocazione dell'uomo all'apertura verso il prossimo discende quindi che “la beatitudine si raggiunge se ci si compromette nella relazione della compassione, che significa soffrire insieme all’altro. Allora l’accettazione della relazione con l’altro non può prescindere da un esito inevitabile, ossia il dolore”.
Quindi, afferma, “ci possiamo conoscere soltanto attraverso l’atto della relazione. Infatti se non ci fosse la relazione non ci sarebbe neppure il pensiero, né l’essere, né l’identità. Questa relazione che ha come esito l’amore e il dono è l’essenza del mistero cristiano”.
Nella prefazione al libro, padre Roberto Fornara, Superiore del Centro Interprovinciale dei Carmelitani Scalzi di Roma, spiega che nell’ambito della spiritualità carmelitana, ad esempio, un’esperienza come quella di Giovanni della Croce lega in modo inscindibile sofferenza e amore, libertà e dolore.
“L’esperienza di Giovanni della Croce, fin dalla più tenera infanzia, lo aveva incanalato verso la comprensione della fecondità della prova, ad un livello più ampio, come riferimento alla Croce”, scrive padre Fornara.
“Per lui la Croce è il Vangelo – gioioso annuncio – totalmente dispiegato; è la manifestazione piena dell’agape di Dio. La Croce è il luogo dell’obbedienza d’amore del Figlio al Padre”.
A distanza di quattro secoli – aggiunge –, un’altra grande carmelitana scalza, Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), ebrea, “profondamente figlia del suo popolo, comprende che chi intuisce il valore e il significato della Croce di Cristo, deve prenderla su di sé in nome di tutti”.
La sapienza della Croce, tuttavia, non è solo prerogativa dei santi, dei mistici e dei teologi. “È l’uomo – spiega –, l’uomo in quanto tale che è chiamato quotidianamente a confrontarsi con il mistero della Croce, mistero dell’iniquità, della violenza, del dolore innocente, della guerra, dei soprusi, delle malattie incurabili, della contraddittorietà del reale”.
In coclusione, scrive padre Fornara, il libro del prof. Meluzzi non costituisce “tanto un invito ad abbracciare volontariamente la Croce, quanto piuttosto a lasciarsi abbracciare dal Dio crocifisso, esperto di amore, esperto di umanità”.
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Per vincere la crisi economica, imitare il Buon Samaritano

Il cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo al Meeting di Rimini

di Roberta Sciamplicotti
RIMINI, domenica, 30 agosto 2009 (ZENIT.org).- Per superare la crisi economica che attanaglia il mondo, bisognerebbe applicare anche negli affari lo spirito del Buon Samaritano.

E' quanto propone Carl A. Anderson, cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, intervenuto questo venerdì al Meeting di Rimini.
"Mentre il mondo affronta la più grave crisi economica della nostra vita, dovremmo ricordare che l'aspetto peggiore della natura umana - l'avidità - ne è stata considerata una causa importante", ha affermato nel suo discorso.
"Molti hanno perso di vista l'importanza dell'unità - della comunione - con l'altro".
In questo contesto, "dobbiamo guardare al meglio dell'umanità - alla generosità, alla solidarietà e alla comunione - con il nostro prossimo", ha esortato.
"Un modello degli affari basato sulla comprensione della dignità di ogni persona e sulla nostra responsabilità nei confronti del nostro prossimo non può che essere etico. Dobbiamo lavorare per sostituire la motivazione di Caino con quella del Buon Samaritano in ogni aspetto della nostra vita, e soprattutto nelle relazioni d'affari".
"Solo in questo modo", ha dichiarato, "lo sviluppo sarà realmente sostenibile".
Secondo Anderson, i cattolici, le loro organizzazioni e i loro movimenti hanno "un'eccellente opportunità di raggiungere sia altri cattolici che il mondo intero, attraverso la carità".
"Cristo ci ha chiesto di farci riconoscere per il modo in cui ci amiamo, e la leadership che possiamo esercitare può essere una grande forza".
"Il volto della nostra Chiesa non è mai più attraente che nell'abbraccio aperto al nostro prossimo".
I Cavalieri di Colombo
Nel suo intervento, Carl Anderson ha anche ripercorso la storia dei Cavalieri di Colombo, fondati nel 1882 nel Connecticut (Stati Uniti) da padre Michael McGivney per aiutare i cattolici più poveri, di cui nessuna istituzione si prendeva cura.
Gli uomini della parrocchia di St. Mary di New Haven costituirono quindi questa associazione, il cui impegno nelle opere di carità è noto in tutto il mondo.
Anderson ha sottolineato due principi importanti dell'associazione: l'unità - "quella comunione che abbiamo l'uno con l'altro, con la parrocchia, la comunità e la Chiesa - e in questo modo con Dio stesso" - e la carità - "dove incontriamo Cristo".
Il nome scelto deriva dal fatto che Colombo "è uno dei pochi cattolici popolari e riveriti nella storia americana". I membri sono oggi oltre un milione e mezzo nel mondo.
"Non c'è alcun regolamento statale tanto giusto da poter eliminare il bisogno di un servizio d'amore - ha commentato -. Chiunque voglia eliminare l'amore si sta preparando a eliminare l'uomo. Ci sarà sempre una sofferenza che chiede consolazione e aiuto. Ci sarà sempre solitudine. Ci saranno sempre situazioni di bisogno materiale in cui è indispensabile l'aiuto nella forma dell'amore concreto per il prossimo".
I Cavalieri di Colombo, ha aggiunto, "vedendo Cristo nel loro prossimo e cercando la comunione con lui", sono "un autentico dono di sé che va al di là del mero operato sociale che può essere svolto da uno Stato".
"La carità è indispensabile per chi dà e per chi riceve, perché ogni atto caritativo parla il linguaggio della fede e della speranza, e questo linguaggio, ogni volta che viene parlato, costruisce una civiltà dell'amore", ha concluso.
Per ulteriori informazioni, www.kofc.org/anderson
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Il Meeting di Rimini, un "miracolo" che si ripete da trent'anni

Comunicato conclusivo del XXX Meeting

RIMINI, domenica, 30 agosto 209 (ZENIT.org).- Il Meeting per l'amicizia fra i popoli di Rimini "è un autentico 'miracolo' che si ripete da trent'anni e che - a detta di tanti - è impossibile trovare altrove, frutto di un'educazione a vivere la gratuità come dimensione di ogni rapporto".

Lo si legge nel comunicato stampa conclusivo della 30ma edizione dell'evento, svoltosi dal 23 al 29 agosto sul tema "La conoscenza è sempre un avvenimento".
Il XXX Meeting, spiega il testo, "si è svolto nel segno della sfida contenuta nel messaggio di Benedetto XVI: 'non il distacco e l'assenza di coinvolgimento sono l'ideale da rincorrere, peraltro invano, nella ricerca di una conoscenza 'obiettiva', bensì un coinvolgimento adeguato con l'oggetto'".
4.000 volontari hanno pagato vitto e alloggio per poter lavorare al Meeting, "segno di un desiderio di fare un'esperienza, cioè di vivere ciò che fa crescere, e di condividerla con chiunque".
Le presenze hanno sfiorato quota 800.000, con un numero che cresce ogni anno di persone che arrivano dall'estero.
Nelle giornate del Meeting si sono alternati quasi 300 relatori, che "hanno contribuito al realizzarsi di una conoscenza nuova della realtà e in alcuni momenti sono arrivati fino a comunicare il significato ultimo delle cose".
"Per sette giorni le persone hanno potuto vedere che il percorso della conoscenza non è ridestato da discorsi o spiegazioni astratte, ma dall'incontro con persone che conoscono il reale in un modo nuovo e attraente, perché carico di una promessa di verità e di bene".
Il Meeting di quest'anno, ricorda il comunicato, si è aperto "con un evento internazionale eccezionale", favorito dal Ministro degli Esteri Frattini: "l'incontro di quattro leader di altrettanti Paesi africani, che hanno dialogato di pace e sviluppo".
"Assolutamente imprevista" è stata poi la testimonianza umana e politica dell'ex premier britannico Tony Blair, "che è arrivata fino alla confessione pubblica delle ragioni della sua conversione al cattolicesimo: la scoperta del carattere universale della Chiesa".
Tra coloro che hanno "accettato di confrontarsi coi temi reali della vita di un popolo, dall'educazione al lavoro, dall'economia alla giustizia" figurano anche responsabili delle istituzioni, del Governo italiano e dell'opposizione, come Renato Schifani, Mario Draghi, Giulio Tremonti, di Angelino Alfano, Maurizio Sacconi, Claudio Scajola, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Roberto Calderoli, Luca Zaia, Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, affiancati da esponenti dell'economia e della finanza come Corrado Passera, James Murdoch, Fabio Conti e Raffaele Bonanni.
"Fedele alla sua tradizione, il Meeting ha proposto momenti di ecumenismo reale con esponenti delle tradizioni ebraica, ortodossa e musulmana, animati da una sincera volontà di dialogo in vista di una convivenza pacifica nella verità e nella diversità".
Particolarmente apprezzati sono stati l'intervento del Cardinale Antonio María Rouco Varela, Arcivescovo di Madrid, sul contributo della Chiesa alla vita sociale e quello del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, sulla ragionevolezza della fede.
Il comunicato finale dell'incontro cita quindi una frase tratta dall'ultimo libro di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, movimento che promuove il Meeting di Rimini. Nel testo, intitolato "Qui e ora", si legge che "l'uomo che agisca con un minimo di autocoscienza agisce avendo un motivo ultimo".

Per questo, conclude il comunicato, il titolo del Meeting 2010, che si svolgerà a Rimini dal 22 al 28 agosto, è "Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore".
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Racconti dall'America Latina: quando l'io nasce da un incontro

Le testimonianze del Vescovo di Petrópolis e di un'educatrice in Ecuador


di Mirko Testa

RIMINI, martedì, 1 settembre agosto 2009 (ZENIT.org).-

Da cinque anni Vescovo di Petrópolis, nello Stato di Rio de Janeiro, mons. Filippo Santoro non aveva mai pensato di andare in Brasile.
Poi un giorno la domanda di don Luigi Giussani: “Tu, andresti volentieri in Brasile”? E lui: “Quel 'volentieri' mi ha ferito e gli ho risposto subito: 'Se me lo chiedi tu, vado!'”, ha raccontato il presule durante un incontro svoltosi il 25 agosto in occasione del Meeting di Rimini.

Era il 1984 quando partì alla volta del Paese carioca. Giunto a Rio, l’allora don Santoro si trovò ad insegnare teologia all’Università Cattolica di Rio de Janeiro sostituendo Clodovis Boff, fratello del più noto Leonardo, ma anch’egli esponente di spicco della Teologia della liberazione che allora era quasi egemone in tutta l’America latina.
Fu così che decise di impiegare come metodo teologico del suo insegnamento “non una dialettica, ma una presenza”, perché “la comunione viene prima della liberazione. E non viceversa”.
“E la comunione per me era lo sguardo e l'abbraccio di don Giussani e degli amici in cui esperimentavo la totale diversità dell'abbraccio di Cristo. Dalla comunione la liberazione”, ha spiegato mons. Santoro.
Per il presule, è infatti “indispensabile offrire fatti che indicano la presenza del Mistero tra noi, prima di ogni analisi sociale, prima delle categorie del povero, della globalizzazione, dell’ecologia e della stessa cultura”.

E così diventano ancora più vere le parole di don Giussani: “La liberazione è quando il destino è più vicino al cuore dell'uomo”.
La seconda testimonianza è stata quella di Amparito Espinoza, 38 anni, che svolge attività di educatrice a Pisullì, in un quartiere marginale di Quito, in Ecuador.
Amparito è stata una delle prime a cominciare come orientatrice in un progetto della Fondazione non governativa Avsi chiamato Pelca (Prescolar en la casa, che significa “asilo in casa”), nato per offrire sostegno ai bambini e alle famiglie più povere che abitano nelle aree rurali del Manabì.
A un certo punto della sua vita, dopo aver perso già una figlia all'età di sedici mesi, Amparito viene abbandonata da suo marito quando era incinta di Amanda, che compirà 16 anni questo settembre. Due anni dopo averla lasciata per risposarsi con un'altra donna, il marito torna sui suoi passi. Lei lo riaccoglie in casa. Un giorno scopre di essere nuovamente incinta.
Nel 2003, però, i medici diagnosticano a Anthony una cardiopatia incurabile. Il bambino ha solo quattro anni.
“Passavo tutti i giorni all’ospedale con lui – ha raccontato Amparito –. Spesso si svegliava e mi diceva: 'Ti voglio bene mamma, non ti preoccupare, il Signore mi guarirà'”.
Dopo nove mesi, il piccolo non ce la fa. “Morì davanti ai miei occhi, e io non potevo fare nulla. Diventò buio”. Era sola e senza soldi, era “arrabbiata con Dio”. Amanda studiava in una scuola religiosa gestita dalle Suore Missionarie del Sacro Costato, che la sostennero durante la malattia di Anthony, sia economicamente che umanamente.
“Cosa vuoi da me, Signore, se io non sono cattiva? Perché mi accadono queste cose? Non voglio piangere più, mettimi dove tu vuoi, ma in maniera di essere utile agli altri”, diceva.
Un giorno incontra Stefania Famlonga, responsabile dell'Avsi in Ecuador, e da lì attinge nuova speranza per ricominciare a vivere.
“Le cose che ti succedono nella via – dice oggi Amparito –, anche le più drammatiche, come la morte di un figlio, non avvengono per caso o per capriccio ma per permetterci di capire la volontà del Signore”.
Con Stefania, segue quindi il progetto PelCa - che prevede anche asili e doposcuola -, incontrando periodicamente gruppi di madri per aiutarle a educare i loro figli. Per quattro mesi visitano tutti i bambini nelle case di Quito, conoscendoli, incontrando le loro famiglie, le loro situazioni.
In seguito viene aperto un asilo “Ojos de Cielo” che oggi accoglie 35 bambini e nascono otto “case asilo” che ospitano quotidianamente 56 bimbi, in genere di genitori lavoratori.
Uno delle chiavi del successo di questo progetto è che chi lavora nei centri educativi e tiene rapporti cono le famiglie sono persone che vivono lì insieme a loro, o addirittura le stesse mamme dei bambini sostenuti che hanno cominciato a lavorare negli asili.
Tra le persone che lavorano attualmente a Quito, molte sono ragazze madri.
Dal 2000, quando nacque il progetto - reso possibile grazie al sostegno a distanza – con alla guida don Dario Maggi, oggi Vescovo ausiliare di Guayaquil, a Pelca si è aggiunto anche un altro progetto, denominato “Aedi”, che si prende cura delle famiglie con figli in età scolare, per un totale di 1.500 bambini sostenuti di cui 600 in età prescolare.
“L’idea che sta alla base del progetto Pelca – ha spiegato Amparito – vede la famiglia quale principale ambito educativo del bambino”.
“Noi non vogliamo sostituire ciò che manca, ma aiutare le mamme a capire cosa dare da mangiare ai propri bambini, a riconoscere e curare le malattie, a come trascorrere del tempo con loro per aiutarli nell’apprendimento”, ha detto.
“Cresciamo insieme, io, le mamme e i bambini. E’ un’esperienza che mi fa sentire ogni giorno più ricca”, ha quindi concluso.
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