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Simon Pietro dalla Galilea a Roma

Ultimo Aggiornamento: 29/08/2009 19:09
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29/08/2009 19:09

Il papirologo protestante C.P. Thiede, ha dedicato una bella monografia su San Pietro al quale vi rendo partecipi:

Capitolo VI - 6. Pietro, verso l'anno 42, giunge a Roma perché doveva andare nel centro dell'Impero, chiamata in modo indiretto Babilonia, e ne diventa l'«episcopo» (p. 228-235)

Luca è uno storico accurato. Se non accenna nemmeno alle peregrinazioni di Pietro fino alla sua ricomparsa in occasione del Concilio apostolico degli Atti 15, doveva avere delle buone ragioni. L'ipotesi che egli avesse perso interesse nel seguente ruolo di Pietro perché voleva favorire Paolo è troppo semplicistica, ed è in ogni caso contraddetta dal ruolo determinante che Pietro gioca negli Atti 15. E' comprensibile che Luca non voglia nominare il luogo (o i luoghi) dove Pietro si recò. Il motivo è lo stesso che causò l'omissione del nome di Pietro nel racconto di Luca e Marco (ripreso anche da Matteo) della mutilazione dell'orecchio del servo al Getsemani. Scrivendo mentre Pietro era ancora vivo, e a un alto funzionario romano, Luca vuole evitare qualsiasi cosa che possa compromettere l'attività dell'apostolo (che era legalmente un fuggitivo dalle autorità dello stato) nei confini dell'Impero romano. Luca sapeva dove era andato Pietro e dove si trovava nel momento in cui scriveva, ma rimase zitto. Anche Pietro cerca di essere vago a questo proposito, quando manda la sua prima Lettera da Roma usando lo pseudonimo topografico di «Babilonia» al posto di Roma (1Pt 5,13). Ed è proprio l'uso di «Babilonia» che ci dà la chiave per identificare l'«altro luogo» di Luca.

Sebbene non si possa determinare quando Babilonia fu usata per la prima volta come crittogramma al posto di Roma, una tale identificazione è indiscutibile (30). La scelta di Babilonia (invece, per esempio, di Sodoma o Gomorra) era immediata poiché implicava sia il simbolo del potere e del male, dell'arroganza e della corruzione che sarebbero stati sconfitti dal Signore (cfr. Is 13,1-14,23), sia l'«esilio» della Chiesa cristiana nel centro del paganesimo. Ma qualunque fosse la somma di ragioni che indusse la scelta di Pietro, i suoi lettori sarebbero stati ben consapevoli dei riferimenti della Scrittura a Babilonia. Ce ne sono molti, ma uno è particolarmente illuminante: Ezechiele 12,1-13. Vi sono qui dei riferimenti all'«esilio», alla fuga da Gerusalemme a notte fonda (12,7) e a Babilonia (12,13). Anche se tutti questi elementi sono presenti in questo passo (che contiene, naturalmente, un significato e una profezia molto più ampi e complessi), tuttavia è un altro verso che offre la chiave all'«indovinello» di Luca: «(...) preparati a emigrare; emigrerai dal luogo dove stai verso un altro luogo», recita Ez 12,3. La Bibbia dei Settanta usa l'espressione eis heteron topon, la stessa usata da Luca per indicare la destinazione di Pietro. L'«altro luogo» è Babilonia, e Babilonia è Roma.

I tempi erano maturi, pare, per l'uso simbolico di «Babilonia» per significare Roma fra i cristiani che vivevano o si trovavano nella capitale dell'Impero alla fine degli anni 50 o all'inizio degli anni 60, e i regni di Claudio e Nerone offrivano abbastanza materiale esemplificativo (31).

Prove testuali indicano quindi chiaramente che la destinazione di Pietro era Roma. Una conferma ulteriore proviene dalla storia della Chiesa, in un suggestivo particolare riportato da Eusebio e da Girolamo. Pietro arrivò a Roma durante il regno di Claudio, più precisamente nel secondo anno di regno, l'anno 42 (Eusebio, HE 2,14,6, con il Chronicon ad loc, e Girolamo, De viris illustribus 1, dove egli è il «soprintendente» o episkopos per venticinque anni, cioè fino alla sua morte sotto Nerone) (32). Questo fatto è confermato dal Catalogus Liberianus, del quarto secolo, un elenco di papi dall'inizio della diocesi romana fino a papa Liberio (352-66), e dal Liber Pontificalis, pubblicato (nella forma conservata) nel sesto secolo (per la maggior parte si basa sul Catalogus Liberianus, ma contiene alcune informazioni indipendenti e della varianti nei dettagli) (33).


E' interessante notare che queste fonti datano dall'epoca in cui la Chiesa cominciò a catalogare la sua storia (non ce n'era stato evidentemente bisogno prima che acquisisse autorità ufficiale e sicurezza durante il regno di Costantino) (34). Ma è ugualmente degno di nota il fatto che queste fonti storiche in nessun caso contraddicano le informazioni o la plausibilità storica del Nuovo Testamento. Anche se è forse inevitabile una certa imprecisione nei particolari di secondaria importanza, lo schema generale e la successione delle date e dei dati coincidono perfettamente.

Pietro lasciò Gerusalemme subito dopo la fuga dalla prigione nell'anno 41 o 42. La seconda data concorderebbe anche con un ordine apocrifo di Gesù, strano e non molto plausibile, secondo il quale gli apostoli non avrebbero dovuto lasciare Gerusalemme per dodici anni: Atti di Pietro 2,5; Clemente Alessandrino, Stromata 6,5,43 (che cita il perduto Kerygma Petrou, «Predicazione di Pietro»); Eusebio, HE 5, 18,14 riconduce questa affermazione ad Apollonio, uno scrittore antimontanista (HE 5 18,1), ma precisa aggiungendo l'ironico commento hos ek paradoseos, «come se per tradizione».


Pietro si dirige quindi verso Roma, ma non direttamente. Potrebbe avere visitato Antiochia, e forse molte città nell'Asia Minore (cfr. 1Pt 1,1; Eusebio, HE 3, 1,2), forse Corinto (cfr. 1Cor 1,12-14; 9,5: probabilmente una traccia della presenza di Pietro a Corinto con la moglie, che non fa altre apparizioni dirette nel Nuovo Testamento - cfr. Mc 1,29-31 - e muore da martire sotto gli occhi di Pietro, come riporta Clemente Alessandrino, Stromata 7,63,3, ed Eusebio, HE 3,30,2). Nell'inverno del 42 arriva a Roma. Non fu il primo evangelizzatore ad arrivare in città (i romani citati negli Atti 2,10 avrebbero diffuso la buona novella prima di lui), ma fu il primo apostolo ad avallare e fondare ufficialmente la Chiesa. Il suo arrivo e l'inizio della sua opera è il punto di partenza del suo «episcopato», che, come quello ad Antiochia, continua anche durante la sua assenza, rimanendo egli il capo titolare o il «soprintendente» ufficiale.

L'importanza dell'opera di fondazione di Pietro a Roma è riconosciuta persino da Paolo, che ritardò la propria visita a Roma finché non poté includerla come breve tappa di passaggio nel viaggio verso la Spagna, perché non voleva «costruire su un fondamento altrui» (Rm 15,20 e 23-24). Ciò che Paolo dice, alla lettera, è che la «prima pietra» era già stata posta da qualcun altro, e apparteneva a costui. Non era una comunità anonima, ma una persona, che aveva posto questa pietra. I romani sapevano chi era costui: non c'era bisogno che Paolo menzionasse il suo nome in questo contesto (35); e Paolo aveva tutte le ragioni per riconoscere la preminenza di Pietro a Roma: la sua priorità si manifestava nella missione fra i pagani (cf. Gal 1,16; 2,7-9), e la comunità di Roma cui si rivolgeva era decisamente ebrea, anche se in prevalenza di lingua greca.

Era questo, in effetti, il «terreno di caccia» ideale per un uomo con l'esperienza di Pietro, piuttosto che quella di Paolo. Grazie alla sua opera rivoluzionaria in Cesarea, Pietro era pronto a entrare in contatto con i romani (Cornelio potrebbe persino avere ricambiato l'insegnamento di Pietro informandolo sulla situazione a Roma e sulla mentalità dei romani), ma la sua esperienza fino a quel momento si era formata con gli ebrei e i sostenitori degli ebrei, pagani «timorati di Dio» (proprio il genere di persone che avrebbe incontrato e che lo avrebbe bene accolto al suo arrivo a Roma). Con una popolazione ebraica di circa cinquantamila persone (36), inclusi i timorati di Dio e i proseliti pagani, c'era molto lavoro da fare. Persino al tempo della Lettera di Paolo ai Romani, nell'anno 57, quando le comunità si erano ricostituite dopo la morte di Claudio e la fine definitiva delle espulsioni, l'elemento giudeo-cristiano era ancora più forte e più importante di quello strettamente pagano-cristiano (cfr. Rm 1,16; 2,9-10; 7,1; 11,13-21). Il semplice fatto, tuttavia, che ci fosse un considerevole gruppo di pagani (cfr. Rm 1,13-15) dimostra ancora una volta l'intento di Pietro di svolgere anche la missione fra i pagani.

Pietro non era solo a Roma. Marco andò con lui o direttamente dalla casa della madre o lo raggiunse non molto tempo dopo: per quanto concerne la cronologia degli Atti, la presenza di Marco a Gerusalemme non era più richiesta già da quando Paolo e Barnaba lo portano con se ad Antiochia (At 12,25) nel 46, dopo la «visita per la carestia». Inoltre, sentiamo parlare di lui come interprete di Pietro (come scrive Papia), e se Pietro bilingue dall'infanzia, ebbe mai bisogno di un interprete per risparmiare alle sensibili orecchie dei romani l'affronto del suo rozzo greco non colto, che si combinava con uno scoraggiante accento di Galilea, questo accadde all'inizio del suo primo soggiorno, piuttosto che verso la fine del secondo (37). Eusebio (HE 6,14,6, citando l'opera perduta di Clemente Alessandrino, Hypotyposeis), nota che Marco aveva seguito Pietro per molto tempo, un'allusione al lungo rapporto fra i due, del quale 1Pietro 5,13, dove Pietro chiama Marco figlio suo, non è l'inizio, ma il punto culminante. Sebbene nessuna delle fonti affermi in così tante parole che Marco rimase con Pietro a Roma dal 42 in poi, le prove raccolte suggeriscono questa possibilità più di qualsiasi altra (38).


Il ritorno di Marco a Gerusalemme entro il 46 coincide con un altro dato: la scrittura del suo Vangelo. Si è visto da prove papirologiche e storiche che il Vangelo doveva essere datato a prima dell'anno 50, una conclusione cui portano anche prove indipendenti non papirologiche (39). La data più plausibile, considerando ciò, sarebbe da collocarsi fra la partenza di Pietro da Roma (subito dopo la morte di Erode Agrippa nel 44, quando poté programmare senza grossi rischi un ritorno in Palestina; la cronaca di Eusebio lo vede ritornare, via Antiochia, nel 44) e l'arrivo di Marco a Gerusalemme nel 46 al più tardi. Questa corrispondenza fra le prove papirologiche e quelle storiche ha inoltre il vantaggio di essere corroborata da commenti, altrimenti di difficile interpretazione, dei Padri della Chiesa.

Ireneo, che conosceva la nota di Papia, è il primo a commentare i Vangeli dopo di lui. Egli inizia con una affermazione che sembra essere erronea, cioè che sia Pietro sia Paolo fondarono la comunità romana (a meno che non si legga il verbo che egli usa per «fondare», themelioo, allo stesso modo in cui viene usato in 1Pt 5,10, dove significa «rafforzare», «confermare»; in questo senso, l'affermazione di Ireneo è naturalmente vera sia per Pietro sia per Paolo).

Riferendosi all'epoca in cui Matteo scriveva il suo Vangelo «fra gli ebrei» «nella loro stessa lingua», egli afferma che Marco, il discepolo e l'interprete di Pietro, trascrisse su carta il suo insegnamento dopo la loro (cioè di Pietro e di Paolo) morte (Haer. 3, 1,1). Molti commentatori hanno interpretato così il significato dell'affermazione di Ireneo. Tuttavia, la traduzione «dopo la loro morte» di meta de touton exodon è molto problematica e certamente non sopportata dalla affermazione precedente di Papia. Papia dice semplicemente che Marco aveva scritto accuratamente tutte le cose così come le ricordava (hosa emnemoneusen akribos egrapsen). Ma ricordare l'insegnamento di qualcuno certamente non presuppone la morte di costui (sarebbe sufficiente la sua partenza, e questo è precisamente ciò che dice Ireneo).


Exodos può naturalmente significare «morte» (come nel Nuovo Testamento: Lc 9,31; probabilmente 2Pt 1,15). Innanzitutto, però, la parola greca ha il semplice significato di «partenza», dai tragici greci fino all'Antico Testamento in greco, dove viene usata a proposito della partenza degli israeliti dall'Egitto nel secondo libro del Pentateuco (cfr. Sal 104,38; 113,1; Eb 11,22 et al.). Il significato «morte» è un significato acquisito, di alto valore simbolico, ma il suo uso in questo senso deve risultare ovvio dal contesto diretto (una condizione chiaramente presente in Lc 9,31, ma non altrettanto inequivocabile in 2Pt 1,15). E poiché la fonte (o le fonti) di Ireneo non presuppone o implica la morte di Pietro, non dovremmo interpretare così il suo testo (40). Pietro è partito da Roma prima che Marco scriva il suo Vangelo: questo è tutto ciò che vuole dire.

Questo è completamente compatibile con i commenti di Origene e di Clemente Alessandrino. Origene dice che Marco scrisse come Pietro l'aveva istruito o gli aveva insegnato (hos Petros hyphegesato auto, Commentario al Vangelo di Matteo, citato in Eusebio, HE 6, 25,5). Questo significa che egli seguì l'esempio posto dal metodo e dai contenuti della predicazione di Pietro. Infine, Clemente ricorda che Marco, che era stato compagno di Pietro per molto tempo, fu sollecitato dai cristiani (romani) a trascrivere ciò che Pietro aveva detto, e così fece. La reazione di Pietro fu neutrale: «Egli né impedì né incoraggiò ciò» (mete kolusai mete protrepsasthai: Hypotyposeis, in Eusebio, HE 6, 14,7).

In un altro passo, parafrasando il resoconto di Clemente, Eusebio conclude con una nota differente: Pietro era contento, egli scrive, e ratificò l'opera perché fosse studiata devotamente nelle chiese (HE 2, 15,2). Queste due affermazioni, naturalmente, non si escludono a vicenda: mostrano piuttosto un progresso da un inizio cauto, quando Pietro ancora predicava, al momento in cui l'opera era stata stesa nella sua forma finale. Il verso di 2 Pietro 1,15 potrebbe riflettere quest'ultimo stadio, la ratifica e la raccomandazione del Vangelo (41).


Tutti questi resoconti e fonti servono a confermare la conclusione che il Vangelo di Marco fu scritto a Roma, non solo mentre Pietro era ancora in vita, ma subito dopo la sua prima partenza dalla città, fra il 44 e il 46.


Capitolo VII - 1. Quando Paolo parte per Roma per essere giudicato, Pietro probabilmente ne era assente (p. 258-260)

Tutte le più antiche fonti ancora esistenti che commentano la morte di Pietro concordano sul fatto che avvenne a Roma. E' meno certo quando e come egli vi tornò da Antiochia. Potrebbe essere rimasto ad Antiochia ancora per un po', poiché egli, a differenza di Paolo, non aveva motivo per lasciare la città. Ma in qualunque momento Pietro ripartì alla volta di Roma, è improbabile che vi sia andato direttamente: non era persona da perdersi l'occasione di evangelizzare. Corinto potrebbe essere stata di nuovo una tappa del suo viaggio, e non può essere esclusa la possibilità che alcuni dei fatti che indussero Paolo ad alludere in modo enigmatico all'influenza di Pietro sui Corinzi ebbero luogo durante questa sua (seconda) visita (1).

Pietro giunse a Roma non prima della fine dell'anno 57. Quando Paolo manda la sua Lettera ai Romani nei primi mesi di quello stesso anno, il nome di Pietro spicca per la sua assenza dal lungo elenco dei destinatari del saluto di Paolo in 16,3-16 (2). Questo elenco, comunque, getta una luce sulla composizione della comunità cristiana a Roma. Troviamo due vecchie conoscenze, Priscilla e Aquila (cfr. At 18,2, 18 e 26; 1Cor 16,19; 2Tm 4,19), che potrebbero avere collaborato con Pietro, prima di lasciare Roma nel 49, vittime delle espulsioni di Claudio. Parecchi elementi che li riguardano invitano a un commento. Secondo Romani 16,3-4, essi avevano una comunità nella loro casa, una specie di «casa-chiesa» (Paolo usa proprio il termine ekklesia nel v. 4), il che indica una forma di organizzazione simile a quella di Antiochia o (cfr. At 12,12 e 17) di Gerusalemme: molti nuclei più piccoli formavano la Chiesa, e i giudeo-cristiani non condividevano necessariamente i luoghi d'incontro e i pasti con i pagano-cristiani. Quest'ultimo fatto è confermato da ciò che possiamo dedurre a proposito dei gruppi e degli individui citati, se li consideriamo come i capi di case-nuclei allo stesso modo di Priscilla e Aquila.


Andronico e Giunia sono giudeo-cristiani (Paolo li chiama «miei parenti» in Rm 16,7), come Maria (16,6), Apelle (16,10) ed Erodione (16,11). D'altra parte, troviamo romani o pagani, come Ampliato (16,8), Urbano e Stachi (16,9), Trifena, Trifosa e Perside (16,12), Rufo (16,13), Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba ed Erma (16,14), Filologo e Giulia, Nereo e Olimpas (16,15). Se per lo meno le coppie sono a capo delle case-nucleo (3), le case-nucleo dei giudeo-cristiani e dei pagano-cristiani sono nettamente distinte. E' interessante che Paolo, sebbene venga formalmente accolto tre (?) anni più tardi da due delegazioni cristiane al Foro di Appio e alle Tre Taverne (At 28,15), non mostri alcun interesse per la comunità cristiana (pagana); egli si preoccupa chiaramente dei giudei (At 28,17-28). La completa scomparsa dei cristiani dalla vista di Paolo dopo il verso 28,16 è probabilmente una conseguenza del modo conciso di Luca di narrare la sua storia. Questo non significa che Paolo operasse indipendentemente per tutti i due anni che trascorse agli arresti domiciliari, ignorando la Chiesa esistente. Né dovremmo dedurre dal silenzio di At 28,30-31 che Pietro era necessariamente assente da Roma a quell'epoca, o che egli e Paolo non si incontrarono.

Aquila e Priscilla (o Prisca, come Paolo la chiama di solito) erano ricchi proprietari di un'attività internazionale di costruzione di tende, con filiali a Roma, Corinto ed Efeso, presso cui Paolo aveva in precedenza lavorato (At 18,2-4). Se possiamo giudicare dal loro posto in cima all'elenco di Paolo, essi erano probabilmente i cristiani romani più importanti durante l'assenza di Pietro. Paolo, come sappiamo dagli Atti e dalla 1 Corinzi, li aveva incontrati a Corinto e fu in seguito con loro a Efeso, dove avevano fondato ancora una volta una casa-chiesa. Ma Paolo li esclude dall'elenco di coloro che egli aveva battezzato di persona (1Cor 1,14-16). Essi furono quindi battezzati con tutta probabilità a Roma prima della loro espulsione; possiamo supporre che sia stato Pietro a battezzarli e a istruirli a formare nuclei di credenti durante i loro viaggi e in sua assenza. Come Marco, anch'essi costituiscono dunque un legame fra Pietro e Paolo (4).

Capitolo VIII - 1. Pietro morì molto probabilmente nel 67, durante la lunga persecuzione dei cristiani ordinata da Nerone (p. 283-291)

Quando, perché e come morì Pietro? Le nostre fonti più antiche ci forniscono una chiave: si tratta della prima lettera di Clemente Romano, uno dei primi cristiani della seconda generazione di convertiti, del quale si conoscono parecchie cose. Cominciò come membro dell'«amministrazione» della Chiesa (cfr. Il pastore di Hermas, Visione 2,4,2-3) e ricoprì questo incarico fino alla metà degli anni 80. Verso la fine degli anni 80 (1) per circa 10 anni fu vescovo di Roma (la Chiesa cattolica lo ricorda come terzo successore di Pietro), grazie anche al fatto che era stato uno stretto discepolo di Pietro e Paolo (Ireneo, Haer. 3,3,3; Eusebio, HE 5,6,1-5; cfr. Tertulliano, De praesc. 32). E' stato persino ipotizzato che egli sia lo stesso Clemente della Filippesi 4,3 (Origene, Commentario su Giovanni 6,54; Eusebio, HE 3,4,9). A un certo punto, egli scrisse la sua lettera, da parte della Chiesa romana, ai Corinzi (Dionigi di Corinto, in Eusebio, HE 4,23,11; Egesippo, in Eusebio, HE 4,22,12).


La data della lettera è stata da molti stabilita nel 96, ma argomenti decisivi sono stati sollevati contro una datazione così tarda, in particolare per il fatto che dalla lettera non risulta ancora un'amministrazione completamente organizzata della Chiesa (1Clemente 42,4; 44,1-4; 54,2; 57,1) e le «calamità» (1,1) non corrispondono alle persecuzioni avvenute sotto il regno di Domiziano (imperatore dall'81 al 96) ma piuttosto alla situazione caotica a Roma nel 69, come fu descritta in modo indipendente anche da Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana 5,13 (2). Per questa e altre ragioni, e considerando i problemi associati a tutti gli argomenti in favore di una datazione tarda, si è insistito a proporre come data il 70 (3). Ma qualunque sia la data precisa di composizione, Clemente scrive come uno per cui le persecuzioni di Nerone sono un ricordo ancora vivo (5,1-6,2). E ciò che scrive a proposito della morte di Pietro (e di Paolo) è illuminante: «A causa della gelosia e dell'invidia, i pilastri maggiori e più giusti furono perseguitati e condannati a morte. Conserviamo davanti ai nostri occhi i buoni [retti] apostoli: Pietro, il quale soffrì a causa della gelosia ingiustificata non uno o due ma molti tormenti, e, avendo dato testimonianza [kai houto marturesas: il martirio letteralmente come una forma di testimonianza], egli andò nel luogo della gloria che gli era dovuto. A causa della gelosia e della discordia, Paolo mostrò il prezzo della sopportazione paziente [hypomone]...».

Clemente usa molte volte il termine «gelosia» nella sua lettera (6,1, a proposito delle sofferenze e del martirio dei cristiani, uomini ma soprattutto donne, e 9,1); si potrebbero quasi considerare i passi dal capitolo 3 al 6 come una sezione intitolata «Concernente le conseguenze della gelosia» (4). Ma, come abbiamo visto analizzando gli Atti 5,17, «gelosia», zelos, in un simile contesto, significa anche «zelo (religioso)», e questa è anche l'interpretazione che ne viene data nel passo di Clemente. La Chiesa romana era cresciuta considerevolmente a partire dalla fine degli anni 50. Era un vivaio per una cristianità giudaica tradizionale e per una cristianità pagana indigena, indipendente come mentalità. Entrambe erano capaci di una fratellanza cristiana ma, come la Lettera ai romani di Paolo aveva già dimostrato, a Roma come ad Antiochia, i cristiani non erano ancora riusciti a creare una chiesa mista unita. Le fazioni radicali, da entrambe le parti, continuavano ad alimentare le differenze tradizionali, e un uomo come Pietro, il cui scopo ultimo era sempre stato quello di riunire i pagani e gli ebrei in un'unica Chiesa, avrebbe avuto i suoi problemi allo stesso modo di Paolo, la vittima dello zelo ebraico osservante della Legge (At 21,20-30; Rm 2,17-29; 13,1-7 e 13) e con forti implicazioni politiche (Fil 3,2,5 e 19-20).

Non è improbabile che Pietro tornasse a Roma alla fine del 57 o nel 58 proprio perché aveva avuto notizia dell'espansione dei giudeo-cristiani zeloti e osservanti della Legge. Le stesse persone che avevano causato dei problemi ad Antiochia potevano essere comparse ora a Roma, una scelta ovvia e probabile, volendo estendersi dalla terza città dell'Impero, come popolazione, alla sua capitale. La realtà del conflitto è spiegata bene dalla Lettera di Paolo ai Filippesi, 1,15-17; ci furono in effetti dei cristiani che gli causarono dei problemi durante la sua prigionia.

Mentre Paolo era in qualche misura indifeso in una situazione simile, Pietro poteva ancora tentare di agire da conciliatore, ma persino lui non poteva essere sicuro di sopravvivere abbastanza da vedere il suo compito portato a termine (cf. 2Pt 1,13-14). Essendo stato scritto, copiato e spedito alle diverse destinazioni il Vangelo di Marco, egli era certo che la sua predicazione e il suo insegnamento erano al sicuro, entro i limiti di ciò che lo sforzo umano poteva ottenere; e poiché egli era cosciente che il conflitto fra i giudeo-cristiani e i pagano-cristiani era totalmente contrario al volere di Dio, riuscì a perseverare pazientemente nella sua opera quotidiana nella comunità senza né un immotivato ottimismo né un eccessivo scoraggiamento.

La sua opera sarebbe stata ostacolata dal disprezzo in cui erano tenuti i cristiani sia dall'opinione pubblica romana sia dagli ebrei ortodossi. I tentativi di Paolo di convertire l'establishment ebraico a Roma (At 28,17-28) avevano ottenuto solo un moderato successo (At 28,24); i capi della comunità ebraica, irrigiditisi, sarebbero diventati nemici invece che concilianti, e i cristiani, con tutti i loro problemi interni, erano quindi circondati da un'ostilità latente, da parte dei pagani e degli ebrei, che sarebbe potuta esplodere alla prima occasione. Gli ebrei, in particolare, non avrebbero accettato di essere espulsi (come nel 49) o persino perseguitati a causa di una situazione che era imputabile in gran parte ai cristiani.


Essi, più che le autorità romane dell'inizio degli anni 60, piuttosto indifferenti, avrebbero tenuto d'occhio con attenzione i cristiani e le loro attività. La prudenza era in ogni caso opportuna, poiché gli stessi ebrei zeloti avevano provocato una considerevole tensione sotto Claudio e Nerone, e non si poteva prevedere quali disordini sarebbero successi se questi zeloti e i «riformatori sociali» (5) cristiani fossero stati considerati come agitatori contro lo stato. Chi meglio di Paolo poteva comprendere questo modo di pensare? La sua Lettera ai Romani, dopo tutto, tratta di questo aspetto della vita sociale dei cristiani (Rm 12,14-21; 13,1-14; 16,17-20) in modo altrettanto energico ed enfatico della successiva Lettera ai Filippesi (1,15-17; 3,2-20).

Anche Pietro era del tutto consapevole della natura problematica di un'attività sociale prematura, che sarebbe stata considerata anti-sociale dalle autorità (1Pt 2,11-17; 3,13-17; 2Pt 3,14). Egli sapeva anche che l'opinione pubblica era sempre stata pronta ad attaccare i cristiani (1Pt 2,11-12; 3,16).

Questa precaria «guerra fredda», con schermaglie di minore importanza, durò parecchi anni, finché scoppiò l'incendio al Circo Massimo, probabilmente accidentale, nelle prime ore del 19 luglio 64, distruggendo dieci delle quattordici circoscrizioni della città di Roma e dando inizio, indirettamente, agli orrori delle persecuzioni di Nerone. In un primo momento Nerone si dimostrò un abile governante. Tornando in tutta fretta da Anzio, aprì i suoi giardini sulla collina del Vaticano e a Campo Marzio per le decine, se non centinaia, di migliaia di persone che erano rimaste senza un tetto dopo l'incendio; egli iniziò immediatamente a ricostruire la città, stese un previdente programma di costruzione di alloggi e procurò grano e cibo a prezzi assai bassi (cfr. Tacito, Annales, 15,38-41 e, polemicamente, Svetonio, De vita Caesarum 6, 38,1-3).

Cerchiamo di immaginare la situazione in un luogo come i giardini di Nerone al Vaticano. In un primo tempo i senzatetto furono ammassati tutti insieme senza alcuna considerazione per il rango e la religione. Cittadini disperati, che avevano perso tutte le loro proprietà di valore, erano accampati accanto ai cristiani, che sembravano invece impassibili e addirittura visibilmente contenti del modo in cui la punizione divina si era abbattuta sulla città depravata. Il fuoco, profetizzato da tempo immemorabile come segnale della fine del mondo, era finalmente giunto. Pietro (e Paolo) probabilmente tentarono di smorzare queste voci, ma il danno ormai era fatto. I romani comuni avrebbero considerato i cristiani nemici dello stato, della città e persino responsabili dello scoppio dell'incendio che tanto aspettavano. Potrebbero essere stati i giudeo-cristiani «zeloti», che erano (a differenza dei loro fratelli pagani) immersi in pensieri apocalittici, a iniziare a provocare gli altri (cristiani e non cristiani) con i loro discorsi sul giudizio di Dio. Chi conoscesse la seconda Lettera di Pietro gli avrebbe fatto notare che egli stesso aveva predetto tutto ciò (3,7 e 10-12). Pietro, ribattendo che questo non era l'episodio che egli aveva avuto in mente, sarebbe diventato nemico dichiarato degli «zeloti», proprio come insinua Clemente nella sua lettera (1 Clemente 5,4).

Questi sviluppi richiesero del tempo. Tacito, che riporta come né il programma di Nerone di ricostruzione di Roma, né i divertimenti pubblici, né le preghiere agli dei poterono sedare le voci secondo le quali l'incendio era scoppiato per ordini dall'alto (Annales 15,44), lascia intendere che ci fu un intervallo considerevole fra l'incendio e la decisione finale di usare i cristiani come capri espiatori. In effetti, è interessante che nessuna delle prime fonti cristiane accenni in alcun modo all'incendio come in diretta relazione con le persecuzioni.


Le sofferenze reali e le glorie del martirio erano così importanti da diventare indipendenti dall'evento del secolo dell'incendio che le aveva precedute e che, indirettamente, aveva contribuito a causarle. Persino Lattanzio, retore e pensatore circospetto, scrivendo come precettore di Crispo (il figlio dell'imperatore Costantino) intorno all'anno 317 (cfr. De mortibus persecutorum 2,5-6), sorvola sull'incendio nel suo enfatico racconto delle persecuzioni di Nerone, in un'epoca in cui la storia di Tacito era conosciuta da tutti e facilmente consultabile da lui presso gli archivi imperiali). Anche due altri appassionati di materiali d'archivio, Eusebio e Girolamo, scelsero di omettere ogni riferimento all'incendio. Qualunque idea apocalittica potessero avere i cristiani romani dell'anno 64, da Clemente in poi gli storici cristiani fecero in modo di assicurarsi che i loro lettori non fossero disorientati.

Tuttavia lo stesso Tacito indirettamente avalla il racconto di Clemente. Non solo testimonia il disprezzo di tutti nei confronti dei cristiani, la cui fede egli definisce superstizione (superstitio) e pericolo (malum), ma ricorda anche che molti cristiani furono condannati per le denunce (indicium) di coloro che erano stati arrestati in precedenza. Questo sembra confermare, da un diverso punto di vista, l'allusione di Clemente alla «gelosia/zelo» come motivo nascosto della persecuzione di massa che egli descrive in 6,1-2. In effetti, la descrizione stessa di Clemente, con le allusioni ai giochi umilianti fatti con i cristiani nel Circo e nei giardini di Nerone al Vaticano, ricorda uno dei racconti di Tacito. Ed esiste un'altra indicazione che non dovrebbe essere sottovalutata: Tacito afferma che i cristiani furono condannati «non tanto per l'accusa di essere incendiari, quanto per il loro odio per l'umanità» (odio humani generis). Tacito, un contemporaneo (forse) più giovane di Clemente, fornisce qui una buona ragione perché i padri della Chiesa non menzionassero del tutto l'incendio nei loro resoconti.

Pietro dovette rendersi conto che un'altra profezia di Gesù si stava realizzando. Quando aveva fornito a Marco il materiale per il suo Vangelo, aveva incluso il racconto del discorso di Gesù sul monte degli Ulivi (Mc 13,3-37). Ora, con tutte le denunce, le torture e le condanne a morte che erano compiute intorno a lui, dovettero tornargli alla mente i versi 13,12-13: «Il fratello farà morire il fratello, il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato».


Qualunque cosa abbia fatto Pietro mentre ancora aveva libertà di azione, una cosa consegue con certezza da questo passo, e in particolare dall'ultimo verso: non si sarebbe certo comportato come viene riportato dalla leggenda raccontata in modo avvincente negli Atti di Pietro 35 (5). Essa racconta come egli fuggisse da Roma, travestito, e incontrasse Gesù, a cui chiese: «Dove vai?» (Quo vadis?). E il Signore, a questa domanda, rispose dicendo che doveva tornare a Roma per essere crocifisso di nuovo; e Pietro, rendendosi conto di cosa stesse accadendo, ritornò indietro per essere egli stesso crocifisso. Chiunque abbia inventato questa storia (appena edificante) dovette aver dimenticato che Pietro, dopo l'Ascensione, non era più lo stesso Pietro, a volte debole e vacillante, del passato, e che la Roccia matura, che aveva ben presente la profezia di Gesù in Marco 13,14, non avrebbe mai abbandonato il suo gregge.

Clemente, la nostra fonte più antica, non specifica quando morirono Pietro e Paolo. La sua cronologia è, al contrario, piuttosto vaga; e questo è del tutto coerente con il contenuto dell'intero passo, che non vuole essere l'analisi di un fatto storico, ma la sintesi della sua «morale» per i lettori cristiani. Altre fonti antiche, che confermano il fatto che la morte di Pietro (e di Paolo) avvenne durante il regno di Nerone, non sono più specifiche di questa. Menzionano semplicemente il regno di Nerone, che terminò il 9 giugno del 68 con il suo suicidio (7).

Ma noi possediamo indicazioni affidabili sul modo in cui Pietro morì, cioè per crocifissione: coloro che menzionano la sua morte sono concordi su questo punto. Lattanzio (De mortibus persecutorum 2,6) la riassume con cura: «Egli [Nerone] crocifisse Pietro e uccise Paolo» (8). Origene riporta che Pietro fu «crocifisso a testa in giù, poiché era così che egli aveva chiesto di soffrire» (Commentario sulla Genesi, Libro 3, in Eusebio, HE 3, 1-2). Si possono sollevare dei dubbi a proposito di questa tradizione, poiché viene narrata anche nei leggendari Atti di Pietro 37(8)-39(10), che sono anteriori di circa trent'anni rispetto a Origene. I discorsi, chiaramente non petrini, attribuiti a Pietro in questa occasione, il più lungo dei quali pronunciato a testa in giù, non vengono però nemmeno menzionati da Origene.


Non c'è nulla di intrinsecamente impossibile nella tradizione in sé: le crocifissioni erano comuni nel contesto della persecuzione neroniana (cfr. Tacito, Annales 15,44), e una tale variazione nelle procedure sarebbe stata coerente con il desiderio di novità presente fra la plebe romana (cfr. di nuovo Tacito), senza considerare che probabilmente lo stesso Pietro avesse desiderato una morte ancora più umiliante di quella del suo Cristo. Ma su questo fatto non si può essere sicuri in modo assoluto, anche se non vi sono dubbi sulla crocifissione in sé.

E' Eusebio (nella versione latina delle sue "Cronache", ancora esistente, fatta da Girolamo) che fornisce una data per questo evento. Se accettiamo la sua cronologia, che si basa sugli anni di Nerone da imperatore (cioè 1-14), la sua indicazione che sia Pietro sia Paolo morirono (non necessariamente lo stesso giorno o lo stesso mese) durante il quattordicesimo anno di regno di Nerone suggerisce un periodo fra il 13 ottobre 67 e il 9 giugno 68 (9). Questa sembra essere una conclusione un pò incerta se si ipotizza che la persecuzione di Nerone sia stata intensa ma di breve durata, essendo terminata quando Nerone partì da Roma diretto in Grecia il 25 settembre 66, per ritornare solamente nel gennaio del 68.

Non è il caso di addentrarsi nella annosa discussione sull'esistenza o la non esistenza delle leggi neroniane contro i cristiani, il cosiddetto "Institutum Neronianum", ipotizzato da Tertulliano (Adv. Nat. 1,7,9) (10). Ciò che Svetonio (De vita Caesarum 6,16) (11) e Tertulliano (12) chiaramente implicano è la lunghissima, o perlomeno non breve, durata della persecuzione una volta che era stata ufficialmente sanzionata. Non c'è traccia, né nello storico latino Svetonio né nell'apologeta cristiano Tertulliano, di una fine improvvisa di questa azione semplicemente perché Nerone aveva deciso di abbandonare la scena. Solo la sua morte virtuale avrebbe potuto provocare una sospensione ufficiale. Sia che ci fosse o meno una legge scritta, oggi perduta, la persecuzione ebbe un impatto durevole e deciso sui cristiani (13).

Prendendo in considerazione le prove esistenti, la morte di Pietro durante il quattordicesimo anno di regno di Nerone non può essere esclusa, ma neanche, data la natura di questo fatto, dimostrata con certezze. Coloro che non vedono alcun motivo per mettere in dubbio la tradizione che Pietro sia stato il capo (titolare) della Chiesa romana per venticinque anni sottoscriveranno di buon grado la plausibilità della datazione di Eusebio. Se Pietro arrivò la prima volta a Roma nel 42, la sua morte nel 67 coinciderebbe, e questo ragionamento funziona naturalmente anche al contrario: se Pietro morì durante l'ultimo anno di regno di Nerone, sarebbe arrivato a Roma per la prima volta nel 42 o all'inizio del 43

Carsten Peter THIEDE
Simon Pietro dalla Galilea a Roma
tratto da: Carsten Peter THIEDE, Simon Pietro dalla Galilea a Roma (presentazione di Marta Sordi), Massimo, Milano 1999, p. 228-235.258-260.283-291.
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