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Il 21 novembre nella Cappella Sistina Benedetto XVI rilancerà l'alleanza tra arte e fede

Ultimo Aggiornamento: 18/12/2009 22:32
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Il 21 novembre nella Cappella Sistina Benedetto XVI rilancerà l'alleanza tra arte e fede

Incontro agli artisti


A 45 anni dall'incontro di Paolo VI con gli artisti e a 10 anni dalla lettera a essi indirizzata da Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI ha invitato il mondo dell'arte per un dialogo che si svolgerà il 21 novembre nella Cappella Sistina. L'appuntamento viene presentato giovedì 10 settembre alle ore 11.30, presso la Sala Stampa della Santa Sede. Pubblichiamo i testi dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del direttore dei Musei Vaticani.

di Gianfranco Ravasi

La grande sfida dell'artista è quella di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Così, il 7 maggio 1964, Paolo VI nella  cappella  Sistina  si  rivolgeva agli  artisti  da  lui convocati per riprendere un dialogo, anzi, per ristabilire - come egli ribadiva - un'alleanza nuova tra l'ispirazione divina della fede e l'ispirazione creatrice dell'arte.

Come confessava il grande pittore catalano Joan Miró, l'arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l'Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che "l'Arte è l'Inconnu, l'Ignoto, il Mistero". Si deve, invece, riconoscere che da tempo l'alleanza tra fede e arte si è infranta.

L'arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade "laiche" della contemporaneità.



Ha abbandonato la concezione secondo la quale l'opera artistica incarna una visione trascendente dell'essere, anzi, "crea un mondo" per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con l'attesa di una nuova epifania di bellezza e di mistero.

Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all'arido taglio della tela operato da Lucio Fontana che si trasformava, però, in "uno spiraglio per intravedere l'Assoluto". Ora questo non accade più perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell'arte a un messaggio, a una "verità", a una "bellezza". Il pittore Georges Braque in modo folgorante affermava nel suo saggio Il giorno e la notte che "l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". Ora l'arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull'abisso dell'Infinito, dell'Oltre, dell'Altro.

Di fronte a questa divaricazione tra la fede - o più genericamente la trascendenza - e l'arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto riproporre - nelle attuali coordinate culturali lontane quasi un mezzo secolo da quelle del 1964 - un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma variegata che tale termine comporta e che ora va oltre pittori, scultori, architetti, letterati, musicisti, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art e così via. Il 21 novembre prossimo, nello stesso fondale della Sistina, che ammutolisce e incanta con la sua testimonianza di bellezza e di spiritualità suprema, il Papa intesserà un dialogo nella speranza che risorga "un'alleanza feconda", sulla scia anche di un'altra memoria particolare. Infatti, dieci anni fa, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava una sua Lettera agli artisti, "per confermare la sua stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa".

Noi adesso, in attesa di raccogliere le linee che Benedetto XVI vorrà suggerire lanciando quasi la prima battuta di un dialogo che avrà nei mesi e negli anni avvenire le risposte molteplici degli artisti, espresse anche e soprattutto attraverso le loro opere, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia". Essa è stata, infatti, l'atlante iconografico per eccellenza, l'"immenso vocabolario" della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel.



È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d'arte:  "Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede".

Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d'Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta:  "Se un pagano viene e ti dice:  "Mostrami la tua fede!" tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri".

Questo incontro dell'arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell'Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia così:  Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d'arte, di letteratura, di musica e persino di un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce "all'etterno dal tempo", per usare un'icastica formula dantesca (Paradiso, xxxi, 38).

Certo, non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all'iconoclasmo dell'VIII secolo in Oriente o alla reticenza "ascetica" della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell'arte anche in una certa teologia, timorosa di derive "idolatriche".

D'altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a "non farsi immagine alcuna" di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è necessaria.
Ma si è andati oltre. Teologia e teologi si sono non di rado votati esclusivamente alla sistematica speculativa, spazzando via segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.



In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del XII secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono "soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri "luoghi" teologici". Alla radice di questo c'è il cuore stesso del messaggio cristiano, l'Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua èik0n, la sua "icona-immagine" perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa umanità l'"immagine e la somiglianza divina" (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (VIII-IX secolo) non esitava, seguendo la logica dell'Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, "se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato".

E Dionigi l'Areopagita, pseudonimo di un originale teologo del V-VI secolo, riconoscendo che in Gesù Cristo si ha "il visibile dell'Invisibile", preparava in un certo senso l'analogia dell'arte così come la concepirà Miró nella frase che abbiamo sopra citato. Alla luce di quanto si è detto, si comprendono, allora, le parole della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II:  "In un certo senso, l'icona è un sacramento:  analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell'Incarnazione. Proprio per questo la bellezza dell'icona può essere soprattutto gustata all'interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce".

Tra l'altro, questo è quanto osservava il grande cultore delle icone, oltre che teologo e scienziato, Pavel Florenskij, quando ricordava il nesso tra icona e culto:  "Il loro oro barbaro, pesante, futile nella luce del giorno, si ravviva con la luce tremolante di una lampada o di una candela, poiché sfavilla di miriadi di scintille, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste".

Ritorniamo, così, al punto di partenza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra l'artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell'essere, a svelare l'epifania del mistero, a conquistare l'infinito e l'eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. "Estetica", infatti, deriva dal greco àisthesis che è la "percezione":  ecco, è discernere il lato spirituale di ogni atto sensibile, è decifrare il "senso spirituale" che si cela in ogni gesto, evento, realtà che vengono percepiti ed espressi "sensibilmente".

È ciò che lo scrittore Hermann Hesse delineava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione:  "Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio".


(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2009)
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Tempo di riconciliazione dopo il grande divorzio


di Antonio Paolucci

Il 21 novembre prossimo Papa Benedetto XVI incontrerà gli artisti:  uomini e donne di culture e di lingue diverse, pittori, scultori, architetti; ma anche scrittori, musicisti, maestri del teatro e del cinema.
Il mondo delle arti si avvicinerà al successore di Pietro con prevedibile orgoglio, certo con soddisfazione perché essere invitati dal Papa è già di per sé un segno di status, ma anche, per molti, con un misto di curiosità, di diffidenza, di imbarazzo.

Era già accaduto il 7 maggio del 1964, data memorabile nella storia dei rapporti fra la Chiesa e le arti nei tempi moderni. Quel giorno Giovanni Battista Montini, che appena l'anno prima era stato eletto Papa col nome di Paolo VI, volle incontrare, in cappella Sistina, gli artisti. Il discorso pronunciato dal Pontefice in quella occasione elabora e propone una dottrina estetica destinata a rimanere una delle pagine in assoluto più alte nella storia intellettuale del cattolicesimo novecentesco. Partendo dalla consapevolezza della apparentemente incolmabile frattura fra la Chiesa e il mondo delle arti e offrendo le condizioni per un nuovo statuto di amicizia, il Papa affermava la libertà dell'artista, il rispetto per la forza innovativa dei linguaggi espressivi e lo faceva con parole di dura radicale critica nei confronti della istituzione da lui rappresentata:  "Vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori (...) vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, alla oleografia, all'opera d'arte di pochi pregi e di poca spesa (...) e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l'arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di Dio sono stati mal serviti". E ancora ritornava Papa Paolo VI, in quel documento memorabile, sulla "missione" dell'artista chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell'esercizio della sua responsabilità di creatore, ciò che è trascendente, inesprimibile, "ineffabile".

Più tardi, nel 1973, nel discorso di inaugurazione del Museo di Arte Religiosa Moderna, Paolo VI ulteriormente affermando i principi fondamentali, affina la sua teoria estetica, distinguendo fra arte sacra e arte religiosa. Se la prima ha una precisa connotazione di ruolo e di funzione perché è destinata a qualificare il culto divino, la seconda offre all'artista uno spettro di possibilità creative virtualmente infinito.

Tutto ciò che esprime la umana spiritualità - stupore di fronte al miracolo della natura, culto degli affetti, ascolto e riflessione di fronte ai supremi interrogativi della vita, della morte, dell'assoluto e dell'altrove - tutto questo può essere argomento di "arte religiosa".

Nasceva da queste riflessioni la Collezione che quel giorno di giugno del 1973 Paolo VI consegnava alla gestione dei Musei Vaticani, dopo averla personalmente e amorosamente costruita insieme al suo segretario monsignor Pasquale Macchi. Era, infatti, una collezione destinata a testimoniare la "religiosità" presente nell'arte moderna e contemporanea, ora affidata a iconografie tradizionali (Crocifissioni, Natività e così via ) ora sottesa a soggetti "secolari" quali paesaggi, nature morte, ritratti, composizioni informali, proposte sperimentali. Partendo dal riconoscimento e dalla accettazione della "religiosità" immanente alle forme figurative della modernità sarebbe stato possibile - era questo il pensiero ultimo di Paolo VI - avviare la ricomposizione del divorzio tra Chiesa e artisti e preparare la strada all'"arte sacra del futuro" prefigurata da Giovanni Battista Montini già negli anni Trenta, nelle riflessioni e negli articoli della giovinezza.

Un grande Papa intellettuale del rango di Benedetto XVI, un filosofo e un teologo del suo livello, non poteva non essere sensibile agli argomenti affrontati con straordinario profetico coraggio da Paolo VI. Ed ecco l'incontro con gli artisti organizzato per il 21 novembre prossimo. Agli esordi del secolo e del millennio la questione del rapporto fra la Chiesa e le arti - quelle figurative  ma  non  solo - non ha perso di significato né di attualità. Semmai, dopo il dibattito avviato da Paolo VI, se ne avverte sempre di più la drammatica urgenza e sempre di più ci si interroga sulle ragioni del divorzio.

Chi, come me, dall'osservatorio privilegiato dei Musei Vaticani considera la storia delle arti sotto il segno della Chiesa di Roma non può non provare sentimenti di stupore e di gratitudine. Gratitudine, naturalmente, per i capolavori di bellezza e di sapienza che il messaggio cristiano ci ha regalato ma anche, e soprattutto, stupore e ammirazione di fronte ai meravigliosi azzardi che, nei secoli, la nostra Chiesa ha saputo giocare.

Come quando, per esempio, fra quarto e quinto secolo, ha scelto come sua lingua figurativa l'arte greco-romana, l'ellenismo naturalistico e illusionistico. Azzardo immenso e carico di futuro è stato quello se si pensa che il cristianesimo veniva dall'ebraismo, la più ferocemente aniconica fra le culture del Mediterraneo e che senza quella scelta, il destino dell'arte in Occidente - Michelangelo e Rembrandt, Velasquez e Goya, Monet e Picasso - rischiava di identificarsi con la cifra e col segno, di diventare "ieroscrittura", come nell'islam.

Oppure quando - è l'epoca che i manuali chiamano del rinascimento - la Chiesa riconobbe nello splendore del vero visibile, l'epifania dell'Altissimo, l'ombra di Dio sulla terra. Non avremmo avuto, altrimenti, le nuvole di Giovanni Bellini, i riflessi nello specchio di Jan Van Eyck, la Stanza della Segnatura di Raffaello, la Canestra di frutta di Caravaggio, la Zattera di Medusa di Géricault.

Tutto questo per dire che la Chiesa per molti secoli ha saputo guardare al mondo delle arti con spregiudicato coraggio. Ne ha accettato gli stili, li ha vivificati e trasfigurati con i suoi contenuti, senza per questo mortificare o condizionare le ragioni dell'arte. Che sempre, nei secoli che precedono la modernità, è stata messa in condizione di esprimere la sua sovrana autonomia.

Poi, a far data dall'Ottocento, la Chiesa si è chiusa in difesa, non ha più saputo né voluto rischiare confronti con i movimenti artistici che devastavano e sconvolgevano il mondo. Quando, per dare immagine ai suoi messaggi, adottava uno stile, si attestava su quelli più tradizionali e consolanti. Così si è consumato il grande divorzio. Le risorse spirituali e intellettuali del cristianesimo hanno scelto di disertare il mondo della contemporaneità artistica inabissandosi come un fiume carsico. Oppure - è il fenomeno di cui tutti ai nostri giorni siamo testimoni - aprendosi alle forme di un caotico eclettismo che cerca di tenere insieme astrazione e figura, novità e tradizione, liturgia e funzione, segno e messaggio.

Questo è oggi, nel momento in cui il Papa si appresta a ricevere gli artisti, lo stato della questione.
Eppure mai come oggi è arrivato il momento di far tesoro dell'aforisma cinese che ha attraversato la nostra giovinezza:  "Grande è il disordine sotto il cielo.  La  situazione  è  dunque  eccellente".

Intendo dire con questo che forse oggi ci sono le condizioni favorevoli perché la Chiesa possa giocare con successo l'ultimo azzardo. Nella dissoluzione dei linguaggi e dei modelli, nell'afasia espressiva che distingue il nostro tempo, la Chiesa deve farsi sguardo e ascolto.

Occorre guardare, ascoltare, con umiltà, con pazienza, senza pregiudizi, senza preconcetti, nella consapevolezza che l'impresa è immensa, ardua fino alla temerarietà e tuttavia necessaria, ineludibile.

Nel deserto abitato dalla desolazione e dai miraggi, bisogna saper riconoscere le pepite d'oro che pure sappiamo esistere. Non è possibile che i tesori della spiritualità cristiana si siano inabissati in modo definitivo e irreversibile. Che sia loro preclusa l'occasione di riemergere nelle figure e nei colori, nello spazio abitato, nella musica, nel teatro, nel cinema, nella letteratura. Quali forme d'arte abiteranno il terzo millennio cristiano, non lo sappiamo. Oggi possiamo solo riconoscere e per quanto possibile onorare e valorizzare i frammenti di sapienza e di bellezza che potranno un giorno costruire il nuovo ordine estetico.


(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2009)
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Fu allora che il Papa chiese perdono riconoscendo il reciproco abbandono tra Chiesa e artisti

E Paolo VI disse: «Rifacciamo la pace? quest'oggi? qui?»


Il 7 maggio 1964, nella solennità dell'Ascensione, Papa Montini celebrò una messa per gli artisti nella Cappella Sistina. Pubblichiamo integralmente il testo dell'omelia da lui pronunciata che segnò, dopo le aperture di Pio XII, la ripresa di un dialogo fra la Chiesa e il mondo dell'arte.

Cari Signori e Figli ancora più cari! Ci premerebbe, prima di questo breve colloquio, di sgombrare il vostro animo da certa apprensione, da qualche turbamento, che può facilmente sorprendere chi si trova, in una occasione come questa, nella Cappella Sistina. Non c'è forse luogo che faccia più pensare e più trepidare, che incuta più timidezza e nello stesso tempo ecciti maggiormente i sentimenti dell'anima. Ebbene, proprio voi, artisti, dovete essere i primi a togliere dall'anima la istintiva titubanza, che nasce nell'entrare in questo cenacolo di storia, di arte, di religione, di destini umani, di ricordi, di presagi. Perché? Ma perché è proprio, se mai altro c'è, un cenacolo per gli artisti, degli artisti. E quindi dovreste in questo momento lasciare che il grande respiro delle emozioni, dei ricordi, dell'esultazione, - che un tempio come questo può provocare nell'anima - invada liberamente i vostri spiriti.



Vi può essere un altro turbamento, quasi un'altra paralizzante timidezza; ed è quella che può portare non tanto la Nostra umile persona, quanto la Nostra presenza ufficiale, il Nostro ministero pontificio:  è qui il Papa!, voi certo pensate. Sono mai venuti gli artisti dal Papa? È la prima volta che ciò si verifica, forse. O cioè, sono venuti per secoli, sono sempre stati in relazione col Capo della Chiesa Cattolica, ma per contatti diversi. Si direbbe perfino che si è perduto il filo di questa relazione, di questo rapporto. E adesso siete qui, tutti insieme, in un momento religioso, tutto per voi, non come gente che sta dietro le quinte, ma che viene veramente alla ribalta di una conversazione spirituale, di una celebrazione sacra. Ed è naturale, se si è sensibili e comprensivi, che ci sia una certa venerazione, un certo rispetto, un certo desiderio di capire e di tacere. Ebbene, anche questa sensibilità, se dovesse in questo momento legare le vostre espressioni interiori di liberi sentimenti, Noi vorremmo sciogliere, perché, se il Papa deve accogliere tutti - perché di tutti è Padre e per tutti ha un ministero, e per tutti ha una parola -, per voi specialmente tiene in serbo questa parola; ed è desideroso, ed è felice di poterla quest'oggi esprimere, perché il Papa è vostro amico.
E non lo è solo perché una tradizione di sontuosità, di mecenatismo, di grandezza, di fastosità circonda il suo ministero, la sua autorità, il suo rapporto con gli uomini, e perché ha bisogno di questo quadro decorativo e espressivo per dire a chi non lo sapesse chi lui è, e come Cristo lo abbia voluto in mezzo agli uomini. Ma lo è per ragioni più intrinseche, che sono poi quelle che ci tengono oggi occupati e che interessano il nostro spirito, e, cioè:  sono ragioni del Nostro ministero che Ci fanno venire in cerca di voi.
 
Dobbiamo dire la grande parola che del resto voi già conoscete? Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile, dell'ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. E non solo una accessibilità quale può essere quella del maestro di logica, o di matematica, che rende, sì, comprensibili i tesori del mondo inaccessibile alle facoltà conoscitive dei sensi e alla nostra immediata percezione delle cose. Voi avete anche questa prerogativa, nell'atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito:  di conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero, questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo.

Questo - coloro che se ne intendono lo chiamano Einfühlung, la sensibilità, cioè, la capacità di avvertire, per via di sentimento, ciò che per via di pensiero non si riuscirebbe a capire e ad esprimere - voi questo fate! Ora in questa vostra maniera, in questa vostra capacità di tradurre nel circolo delle nostre cognizioni - et quidem di quelle facili e felici, ossia di quelle sensibili, cioè di quelle che con la sola visione intuitiva si colgono e si carpiscono - ripetiamo, voi siete maestri. E se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l'arte.

Ora, se questo è, il discorso si dovrebbe fare grave e solenne. Il luogo, forse anche il momento, si presterebbero; non tanto il tempo che Ci è concesso, e non tanto il programma che abbiamo prefisso a questo primo incontro amichevole. Chi sa che non venga un momento in cui possiamo dire di più. Ma il tema è questo:  bisogna ristabilire l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Non è che l'amicizia sia stata mai rotta, in verità; e lo prova questa stessa manifestazione, che è già una prova di tale amicizia in atto. E poi ci sono tante altre manifestazioni che si possono addurre a prova di una continuità, di una fedeltà di rapporti, che testimoniano che non è mai stata rotta l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti. Anche perché, come dicevamo, la Chiesa ne ha bisogno e poi potremmo anche dire di più, leggendovi nel cuore. Voi stessi lo andate cercando questo mondo dell'ineffabile e trovate che la sua patria, il suo recapito, il suo rifornimento migliore è ancora la Religione.

Quindi siamo sempre stati amici. Ma, come avviene tra parenti, come avviene fra amici, ci si è un po' guastati. Non abbiamo rotto, ma abbiamo turbato la nostra amicizia. Ci permettete una parola franca? Voi Ci avete un po' abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane, alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose; ma non più le nostre.

Avremmo altre osservazioni da fare, ma non vogliamo questa mattina turbarvi ed essere scortesi. Voi sapete che portiamo una certa ferita nel cuore, quando vi vediamo intenti a certe espressioni artistiche che offendono noi, tutori dell'umanità intera, della definizione completa dell'uomo, della sua sanità, della sua stabilità. Voi staccate l'arte dalla vita, e allora... Ma c'è anche di più. Qualche volta dimenticate il canone fondamentale della vostra consacrazione all'espressione; non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte anche voi:  ne segue un linguaggio di Babele, di confusione. E allora dove è l'arte? L'arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità. Voi non sempre ce le date questa facilità, questa felicità e allora restiamo sorpresi e intimiditi e distaccati.

Ma per essere sincero e ardito - accenniamo appena, come vedete - riconosciamo che anche Noi vi abbiamo fatto un po' tribolare. Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi - vi si diceva - abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v'è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! E poi vi abbiamo abbandonato anche noi. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose, non vi abbiamo introdotti nella cella segreta, dove i misteri di Dio fanno balzare il cuore dell'uomo di gioia, di speranza, di letizia, di ebbrezza. Non vi abbiamo avuti allievi, amici, conversatori; perciò voi non ci avete conosciuto.

E allora il linguaggio vostro per il nostro mondo è stato docile, sì, ma quasi legato, stentato, incapace di trovare la sua libera voce. E noi abbiamo sentito allora l'insoddisfazione di questa espressione artistica. E - faremo il confiteor completo, stamattina, almeno qui - vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all'"oleografia", all'opera d'arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate; e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l'arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di Dio sono stati male serviti.

Rifacciamo la pace? quest'oggi? qui? Vogliamo ritornare amici? Il Papa ridiventa ancora l'amico degli artisti? Volete dei suggerimenti, dei mezzi pratici? Ma questi non entrano adesso nel calcolo. Restino ora i sentimenti. Noi dobbiamo ritornare alleati. Noi dobbiamo domandare a voi tutte le possibilità che il Signore vi ha donato, e, quindi, nell'ambito della funzionalità e della finalità, che affratellano l'arte al culto di Dio, noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci. E voi dovete essere così bravi da interpretare ciò che dovrete esprimere, da venire ad attingere da noi il motivo, il tema, e qualche volta più del tema, quel fluido segreto che si chiama l'ispirazione, che si chiama la grazia, che si chiama il carisma dell'arte. E, a Dio piacendo, ve lo daremo. Ma dicevamo che questo momento non è fatto per i lunghi discorsi e per fare le proclamazioni definitive.

Però noi abbiamo già, da parte nostra, Noi Papa, noi Chiesa, firmato un grande atto della nuova alleanza con l'artista. La Costituzione della Sacra Liturgia, che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo ha emesso e promulgato per prima, ha una pagina - che spero voi conosciate - che è appunto il patto di riconciliazione e di rinascita dell'arte religiosa, in seno alla Chiesa cattolica. Ripeto, il Nostro patto è firmato. Aspetta da voi la controfirma.

Per ora dunque Ci limitiamo a dei rilievi molto semplici, ma che però non vi faranno dispiacere.

Il primo è questo:  che Ci felicitiamo di questa Messa dell'artista e Monsignor Francia ne sia ringraziato; lui e tutti coloro che lo hanno seguito e che ne hanno raccolto la formula. Noi abbiamo visto nascere questa iniziativa, l'abbiamo vista accolta per primo dal Nostro venerato Predecessore Papa Pio xii, Che ha cominciato ad aprirle le vie e a darle cittadinanza nella vita ecclesiastica, nella preghiera della Chiesa; e perciò Ci congratuliamo di quanto è stato fatto su questo filone, che non è l'unico, ma che è buono e che è bene seguire:  lo benediciamo e lo incoraggiamo. Vorremmo che voi portaste fuori, a quanti avete colleghi, imitatori, seguaci, la Nostra Benedizione per questo esperimento di vita religiosa artistica che ha ancora fatto vedere che fra sacerdote e artista c'è una simpatia profonda e una capacità d'intesa meravigliosa.

La seconda cosa è questa, notissima, ma deve, Ci pare, in questo momento essere ricordata; ed è che, se il momento artistico che si produce in un atto religioso sacro - come è una Messa - deve essere pieno, deve essere autentico, deve essere generoso, deve davvero riempire e far palpitare le anime che vi partecipano e le altre che vi fanno corona, ha altresì bisogno di due cose:  di una catechesi e di un laboratorio.

Non Ci diffonderemo ora a discorrere se l'arte venga spontanea e improvvisa, come una folgorazione celeste, o se invece - e voi ce lo dite - abbia bisogno di un tirocinio tremendo, duro, ascetico, lento, graduale. Ebbene, se vogliamo dare, ripetiamo, autenticità e pienezza al momento artistico religioso, alla Messa, è necessaria la sua preparazione, la sua catechesi; bisogna in altri termini farla prendere o accompagnare dalla istruzione religiosa. Non è lecito inventare una religione, bisogna sapere che cosa è avvenuto tra Dio e l'uomo, come Dio ha sancito certi rapporti religiosi che bisogna conoscere per non diventare ridicoli o balbuzienti o aberranti. Bisogna essere istruiti. E Noi pensiamo che nell'ambito della Messa dell'artista, quelli che vogliono manifestarsi artisti veramente, non avranno difficoltà ad assumere questa sistematica, paziente, ma tanto benefica e nutriente informazione. E poi c'è bisogno del laboratorio, cioè della tecnica per fare le cose bene. E qui lasciamo la parola a voi che direte che cosa è necessario, perché l'espressione artistica da dare a questi momenti religiosi abbia tutta la sua ricchezza di espressività di modi e di strumenti, e se occorre anche di novità.

E da ultimo aggiungeremo che non basta né la catechesi, né il laboratorio. Occorre l'indispensabile caratteristica del momento religioso, e cioè la sincerità. Non si tratta più solo d'arte, ma di spiritualità. Bisogna entrare nella cella interiore di se stessi e dare al momento religioso, artisticamente vissuto, ciò che qui si esprime:  una personalità, una voce cavata proprio dal profondo dell'animo, una forma che si distingue da ogni travestimento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore; è l'Io che si trova nella sua sintesi più piena e più faticosa, se volete, ma anche la più gioiosa. Bisogna che qui la religione sia veramente spirituale; e allora avverrà per voi quello che la festa di oggi, la Ascensione, Ci fa pensare. Quando si entra in se stessi per trovare tutte queste energie e dar la scalata al cielo, in quel cielo dove Cristo si è rifugiato, noi ci sentiamo in un primo momento, immensamente, direi, infinitamente lontani.

La trascendenza che fa tanto paura all'uomo moderno è veramente cosa che lo sorpassa infinitamente, e chi non sente questa distanza non sente la religione vera. Chi non avverte questa superiorità di Dio, questa sua ineffabilità, questo suo mistero, non sente l'autenticità del fatto religioso. Ma chi lo sente sperimenta, quasi immediatamente, che quel Dio lontano è già lì:  "Non lo cercheresti, se già non lo avessi trovato". Parole di Pascal, vero; ed è quello che si verifica continuamente nell'autentica vita spirituale del cristiano. Se ricerchiamo Cristo veramente dove è, in cielo, lo vediamo riflesso, lo troviamo palpitante nella nostra anima:  il Dio trascendente è diventato, in certo modo, immanente, è diventato l'amico interiore, il maestro spirituale. E la comunione con Lui, che sembrava impossibile, come se dovesse varcare abissi infiniti, è già consumata; il Signore viene in comunione con noi nelle maniere, che voi ben sapete, che sono quelle della parola, che sono quelle della grazia, che sono quelle del sacramento, che sono quelle dei tesori che la Chiesa dispensa alle anime fedeli. E basti per ora così.

Artisti carissimi, diciamo allora una parola sola:  arrivederci!


(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2009)
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11/09/2009 05:55

L'incontro con Benedetto XVI il 21 novembre


Gli inviti, circa cinquecento, sono partiti prima dell'estate; cento risposte sono già arrivate. "È l'inizio di un lungo percorso" precisa l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura durante la presentazione dell'incontro del Papa con gli artisti fissato per il 21 novembre prossimo. Accanto a lui, nella Sala Stampa della Santa Sede, erano il vicedirettore padre Ciro Benedettini e monsignor Pasquale Iacobone, incaricato del Dipartimento Arte e Fede del Pontificio Consiglio della Cultura. "In un mondo prevalentemente grigio, le chiese sono state per secoli il regno del colore, un anticipo di paradiso. La gente spesso mi chiede:  perché adesso le chiese sono così tristi?" ha aggiunto il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, entrando nel merito della crisi contemporanea della committenza religiosa. "L'arte non insegna niente, tranne il senso della vita" ha risposto Ravasi, divertendosi a spiazzare un po' i giornalisti in sala con una citazione da Henry Miller.


(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2009)
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11/09/2009 06:00

Trentacinque anni dopo arrivò la lettera di Giovanni Paolo II

La potenza del bene nascosta nella bellezza


Pubblichiamo uno stralcio della Lettera agli artisti di Papa Wojtyla che reca la data del 4 aprile 1999, Pasqua di Resurrezione.
 



Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all'alba della creazione, guardò all'opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l'opera del vostro estro, avvertendovi quasi l'eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.

Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.

In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell'essenza stessa sia dell'esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un'opera:  nell'uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).

Qual è la differenza tra "creatore" ed "artefice?" Chi crea dona l'essere stesso, trae qualcosa dal nulla - ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino - e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell'Onnipotente. L'artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell'uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l'uomo e la donna "a sua immagine" (cfr. Genesi, 1, 27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr. Genesi, 1, 28). Fu l'ultimo giorno della creazione (cfr. Genesi, 1, 28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell'evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l'universo. Al termine creò l'uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.

Dio ha, dunque, chiamato all'esistenza l'uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella "creazione artistica" l'uomo si rivela più che mai "immagine di Dio", e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda "materia" della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull'universo che lo circonda. L'Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all'artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l'infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il cardinale Nicolò Cusano:  "L'arte creativa, che l'anima ha la fortuna di ospitare, non s'identifica con quell'arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione".

Per questo l'artista, quanto più consapevole del suo "dono", tanto più è spinto a guardare a se stesso e all'intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l'espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita:  in un certo senso, egli deve farne un'opera d'arte, un capolavoro.

Nel modellare un'opera, l'artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell'umanità. L'artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell'arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d'espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l'artista parla e comunica con gli altri. La storia dell'arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d'arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l'originale contributo da essi offerto alla storia della cultura. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid:  "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere".

Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull'arte. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella. La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi:  kalokagathìa, ossia "bellezza-bontà". Platone scrive al riguardo:  "La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello".


(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2009)
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13/09/2009 07:14

Monsignor Ravasi presenta l'Incontro del Papa con gli artisti

CITTA' DEL VATICANO, sabato, 12 settembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato dall'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, durante la conferenza stampa di presentazione dell'Incontro con gli artisti che Benedetto XVI celebrerà il 21 novembre prossimo, riportato da “L'Osservatore Romano” nell'edizione del 10 settembre.


* * *

  La grande sfida dell'artista è quella di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». Così, il 7 maggio 1964, Paolo vi nella  cappella  Sistina  si  rivolgeva agli  artisti  da  lui convocati per riprendere un dialogo, anzi, per ristabilire - come egli ribadiva - un'alleanza nuova tra l'ispirazione divina della fede e l'ispirazione creatrice dell'arte.

Come confessava il grande pittore catalano Joan Miró, l'arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l'Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che «l'Arte è l'Inconnu, l'Ignoto, il Mistero». Si deve, invece, riconoscere che da tempo l'alleanza tra fede e arte si è infranta.

L'arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade «laiche» della contemporaneità.

Ha abbandonato la concezione secondo la quale l'opera artistica incarna una visione trascendente dell'essere, anzi, «crea un mondo» per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con l'attesa di una nuova epifania di bellezza e di mistero.

Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all'arido taglio della tela operato da Lucio Fontana che si trasformava, però, in «uno spiraglio per intravedere l'Assoluto». Ora questo non accade più perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell'arte a un messaggio, a una «verità», a una «bellezza». Il pittore Georges Braque in modo folgorante affermava nel suo saggio Il giorno e la notte che «l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura». Ora l'arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull'abisso dell'Infinito, dell'Oltre, dell'Altro.

Di fronte a questa divaricazione tra la fede - o più genericamente la trascendenza - e l'arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto xvi ha voluto riproporre - nelle attuali coordinate culturali lontane quasi un mezzo secolo da quelle del 1964 - un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma variegata che tale termine comporta e che ora va oltre pittori, scultori, architetti, letterati, musicisti, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art e così via. Il 21 novembre prossimo, nello stesso fondale della Sistina, che ammutolisce e incanta con la sua testimonianza di bellezza e di spiritualità suprema, il Papa intesserà un dialogo nella speranza che risorga «un'alleanza feconda», sulla scia anche di un'altra memoria particolare. Infatti, dieci anni fa, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo ii indirizzava una sua Lettera agli artisti, «per confermare la sua stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa».

Noi adesso, in attesa di raccogliere le linee che Benedetto xvi vorrà suggerire lanciando quasi la prima battuta di un dialogo che avrà nei mesi e negli anni avvenire le risposte molteplici degli artisti, espresse anche e soprattutto attraverso le loro opere, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, «i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia». Essa è stata, infatti, l'atlante iconografico per eccellenza, l'«immenso vocabolario» della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel.

 È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d'arte: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede».Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d'Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta: «Se un pagano viene e ti dice: "Mostrami la tua fede!" tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri».

Questo incontro dell'arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell'Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia così: Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d'arte, di letteratura, di musica e persino di un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce «all'etterno dal tempo», per usare un'icastica formula dantesca (Paradiso, xxxi, 38).

Certo, non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all'iconoclasmo dell'viii secolo in Oriente o alla reticenza «ascetica» della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell'arte anche in una certa teologia, timorosa di derive «idolatriche».

D'altronde, è  ben noto il monito biblico del Decalogo a «non farsi immagine alcuna»  di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è necessaria.

Ma si è  andati oltre. Teologia e teologi si sono non di rado votati esclusivamente alla sistematica speculativa, spazzando via segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.

In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del xii secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono «soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri "luoghi" teologici». Alla radice di questo c'è il cuore stesso del messaggio cristiano, l'Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua èik0n, la sua «icona-immagine» perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa umanità l'«immagine e la somiglianza divina» (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (viii-ix secolo) non esitava, seguendo la logica dell'Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, «se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato».

E Dionigi l'Areopagita, pseudonimo di un originale teologo del v-vi secolo, riconoscendo che in Gesù Cristo si ha «il visibile dell'Invisibile», preparava in un certo senso l'analogia dell'arte così come la concepirà Miró nella frase che abbiamo sopra citato. Alla luce di quanto si è detto, si comprendono, allora, le parole della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo ii: «In un certo senso, l'icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell'Incarnazione. Proprio per questo la bellezza dell'icona può essere soprattutto gustata all'interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce».

Tra l'altro, questo è quanto osservava il grande cultore delle icone, oltre che teologo e scienziato, Pavel Florenskij, quando ricordava il nesso tra icona e culto: «Il loro oro barbaro, pesante, futile nella luce del giorno, si ravviva con la luce tremolante di una lampada o di una candela, poiché sfavilla di miriadi di scintille, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste».

Ritorniamo, così, al punto di partenza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra l'artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell'essere, a svelare l'epifania del mistero, a conquistare l'infinito e l'eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. «Estetica», infatti, deriva dal greco àisthesis che è la «percezione»: ecco, è discernere il lato spirituale di ogni atto sensibile, è decifrare il «senso spirituale» che si cela in ogni gesto, evento, realtà che vengono percepiti ed espressi «sensibilmente».

È ciò che lo scrittore Hermann Hesse delineava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».
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23/10/2009 19:48

Verso l'incontro di Benedetto XVI con gli artisti

L'armonia è l'altro volto del bene


di Gianfranco Ravasi

"La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice". Questa deliziosa annotazione dei Saggi di Francesco Bacone è una salutare sferzata sia a un'arte che si raggomitola su se stessa seguendo canoni stilistici sempre più indecifrabili, sia a una critica che adotta un esoterismo oracolare tale da impedire, piuttosto che facilitare, l'accesso al senso profondo dell'opera d'arte. Alle soglie dell'incontro tra Benedetto XVI e gli artisti, che si svolgerà il 21 novembre prossimo in quella vera "ricca gemma" che è la Cappella Sistina, non vogliamo ora riproporre il tema centrale di quell'evento, ossia il rinnovato dialogo tra fede e arte, ritessendo un'alleanza che in quest'ultimo secolo si è infranta, nonostante il vigoroso appello che 45 anni fa, nel 1964, Paolo VI aveva rivolto agli artisti di allora nella stessa straordinaria cornice spaziale.



È nostra intenzione, invece, suggerire una modesta e semplificata analisi su quel "grande codice" della nostra arte che è pur sempre la Bibbia, l'atlante iconografico sfogliato per secoli e ora relegato sullo scaffale polveroso dell'oblio negli atelier degli artisti. Non punteremo però su un'analisi dell'influsso esercitato dalle Scritture Sacre sull'esercizio artistico espresso in un immenso catalogo di opere, quanto piuttosto su un argomento molto delicato e anch'esso accantonato ai nostri giorni, quello della bellezza. Le stesse cattedre o i saggi di estetica cercano di star lontani dall'interrogarsi su questo soggetto così fluido e inafferrabile, anche perché ogni definizione o verifica risulterebbe simile a uno stampo freddo che congela l'incandescenza della bellezza. Aveva ragione Ezra Pound quando nel suo Artista serio osservava che "non ci si mette a discutere su un vento d'aprile:  semplicemente gli si va incontro e si è rianimati. Lo stesso accade quando ci si imbatte in un pensiero di Platone che vola veloce o in un affascinante profilo di un volto o di una statua".

Consapevoli di questo limite, ci accontenteremo di vedere come la Bibbia riesce a dire a suo modo qualcosa sul bello, ovviamente lasciando tra parentesi il bello che tanti autori sacri hanno manifestato attraverso le loro opere "ispirate" (un nome per tutti, Giobbe). "In confronto col pensiero greco colpisce anzitutto la scarsa importanza che il concetto del bello ha nell'Antico Testamento. Complessivamente questo problema non riscuote l'interesse del pensiero biblico". Così scriveva Walter Grundmann nella voce kalòs, "bello", di uno dei monumenti dell'esegesi tedesca, il Grande Lessico del Nuovo Testamento. A lui faceva eco Joachim Wanke quando, in un altro strumento importante come il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, osservava che "in entrambi i Testamenti il bello nel senso della concezione platonica ed ellenistica non è preso in considerazione". Anzi, lo stesso autore - evocando indirettamente le parole paoline sulla croce "scandalo" e "stoltezza" per la cultura ambiente nella quale il cristianesimo è sbocciato e fiorito - notava che "la croce è certo la più radicale dissoluzione del concetto classico di perfezione e bellezza".

Ora, è indubbio che il mondo greco-latino - sia pure in forme molto variegate - ha dedicato al tema del bello riflessioni di straordinaria intensità e fascino, anche se in senso stretto la filosofia estetica è una branca del sapere piuttosto recente, essendo stata codificata - almeno a livello terminologico - solo nel Settecento col pensatore tedesco Alexander Baumgarten. È evidente, però, che la grande metafisica greca e la sua gnoseologia avevano già offerto le basi per esaltare il nesso tra essere, vita e bellezza, così da poter affermare col filosofo Plotino che il bello è "la fioritura dell'essere", la sua perfezione. Inoltre la contemplazione pura e libera dell'armonia delle forme costituiva una componente dell'arte e della letteratura di quella civiltà.

Tutto questo - bisogna riconoscerlo - non appassiona gli autori sacri dai quali è assente l'atteggiamento "romantico" di chi si sofferma abbacinato e affascinato davanti alle meraviglie cosmiche o allo splendore delle forme (anche se qualche eccezione, come vedremo, è possibile). Si ha, infatti, una concezione molto più funzionale del bello, al punto tale che si verifica già a livello lessicale un fenomeno molto significativo. Il principale termine estetico ebraico è tôb:  esso ricorre 741 volte e ha significati molto fluidi che vanno dal "buono" al "bello", all'"utile" e al "vero", al punto tale che la stessa antica traduzione greca della Bibbia detta "dei Settanta" è ricorsa ad almeno tre aggettivi greci diversi per rendere questo vocabolo (agathòs, "buono", kalòs, "bello" e chrestòs, "utile").


 
Similmente nel greco neotestamentario il termine kalòs, che ricorre 100 volte, è normalmente sinonimo dell'altra parola greca, agathòs, "buono", tranne in un unico caso, quando Luca (21, 5) ricorda che, davanti al tempio erodiano di Gerusalemme, "alcuni parlavano delle sue belle pietre (lìthoi kaloì)". Il vocabolo è destinato, invece, sempre a delineare le qualità morali di un atto o di una persona o di una realtà, oppure la sua capacità operativa. Così, tanto per fare qualche esempio, si parla di "opere buone", di "buona condotta", di "buona coscienza", usando sempre l'aggettivo kalòs. Cristo, come è noto, si autodefinisce nel Vangelo di Giovanni (10, 11.14) come "pastore kalòs", ma il significato primario - come si ha nelle versioni - è quello di "buon pastore", e così accade in altri usi di quell'aggettivo ("buon diacono, buon soldato, buoni amministratori, buon maestro").

San Paolo usa il verbo kalopoièin per dire "fare il bene" (2 Tessalonicesi, 3, 13) ed è suggestiva l'esclamazione della folla che, di fronte ai miracoli di Gesù, esclama:  "Ha fatto kalôs ogni cosa!" (Marco, 7, 37), laddove è evidente che quel "bello" è in realtà un "bene". Potremmo andare avanti a lungo in queste esemplificazioni per scoprire sempre che il "bello" neotestamentario - anche su influsso dell'Antico Testamento e dell'ebraico - altro non è che il "buono", il "bene", la bravura, la legittimità o anche l'utilità come "il buon frutto, seme, perla, pesce, albero", sempre espressi con l'aggettivo kalòs. Detto questo, bisogna, però, fare un ulteriore passo. Non è che gli autori sacri ignorino la bellezza in quanto tale, tant'è vero che esiste un altro termine ebraico, jafeh, che significa "stupendo, incantevole, bello" in senso stretto, come na'weh è "affascinante". Solo che raramente la finalità di questa ammirazione è meramente estetica.

Così, quando il salmista "contempla il Tuo (di Dio) cielo, opera delle Tue dita, la Luna e gli astri che tu hai fissato", apparentemente abbandonandosi alla scoperta della bellezza imponente degli spazi siderali, la domanda che si pone rivela la vera finalità di quella contemplazione che è, invece, di taglio teologico-esistenziale:  "Che cos'è mai l'uomo perché te ne ricordi, l'essere umano perché te ne curi?" (Salmo, 8, 4-5). Anche il profeta Geremia - che pure è considerato da alcuni come il poeta biblico più attento alla bellezza della natura e ai suoi ritmi - quando, ad esempio, si sofferma ad ammirare "un ulivo verde e maestoso" o "un tamerisco nella steppa, in luoghi aridi e desertici e in una terra di salsedine" (11, 16; 17, 6), lo fa con un atteggiamento "morale" e non estetico, pronto com'è a cavarne subito una lezione etica per Israele.

Similmente la straordinaria e potente evocazione presente nelle 16 interrogazioni rivolte da Dio a Giobbe nel primo dei due discorsi divini finali di quel libro non ha lo scopo di dipingere un meraviglioso arazzo di scene cosmiche e animali quasi "a colori" - come sembrerebbe al lettore immediato - bensì di rivelare all'uomo l'esistenza di una 'esah, di un "progetto" trascendente insito al creato e di affermarne la legittimità, la coerenza, nonostante l'apparente incomprensibilità per la razionalità umana. Anche un libro che nasce in piena atmosfera greca come quello della Sapienza (siamo verso la fine del I secolo prima dell'era cristiana) non ha dubbi sul fatto che "belle sono le realtà che si contemplano" (13, 7) ma l'autore premette subito questa limpida considerazione:  "Dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per  analogia  si  contempla il loro artefice" (13, 5).  È  quella che la filosofia definirà  appunto  come "l'analogia" per risalire dal creato al Creatore attraverso un percorso di conoscenza "naturale".

Era ciò che appariva simbolicamente in una pagina poetica mirabile, il Salmo 19. Lo sfolgorare del sole, comparato a uno sposo che esce all'alba dalla stanza nuziale o a un eroe atletico che si scatena nella corsa lungo la sua orbita è in realtà epifania di una parola divina cosmica:  "I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l'opera delle sue mani. Il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la conoscenza" (19, 2-3). La colossale coreografia cosmica che il Salmo 148 suppone non è tanto una sfilata di 22 (o 23) creature, tante quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico, da ammirare con stupore; è, invece, un coro di alleluia che si leva al Creatore all'interno di una sorta di cattedrale cosmica. Lo stesso si deve ripetere per altri testi salmici, a prima vista simili a "uno schizzo del mondo, dipinto in pochi tratti", come definiva il Salmo 104 il padre della moderna climatologia e oceanografia, Alexander von Humboldt (1769-1859):  in realtà, anche in quel caso il poeta biblico vuole esaltare l'opera del Creatore  che "manda il suo spirito" per dar origine alla vita e "rinnovare la Terra".

In questa stessa linea dobbiamo collocare anche quella straordinaria capacità narrativa svelata dalle 35 parabole di Gesù (72, se si allarga l'elenco anche alle immagini o alle metafore sviluppate). Sappiamo, infatti, che Cristo è un oratore affascinante. Egli parte dal mondo dei suoi uditori fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di erbacce e di messi, di vigne e di fichi, di pecore e di pastori, di cagnolini, di uccelli, di gigli, di cardi, di senapa, di pesci, di scorpioni, serpi, avvoltoi, tarli, di venti, di scirocco e tramontane, di lampi balenanti e piogge o arsure. Ci sono nei suoi discorsi bambini che giocano sulle piazze, cene nuziali, costruttori di case e di torri, braccianti e fittavoli, prostitute e amministratori corrotti, portieri e servi in attesa, casalinghe e figli difficili, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri ridotti alla fame, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, ci sono monete piccole e grandi, ci sono tesori nascosti e mense con cibi puri e impuri secondo le regole kasher dell'ebraismo e altro ancora.

Tuttavia, noi sappiamo che Cristo non si ferma davanti ai voli degli uccelli o alla fragranza delicata e sontuosa dei gigli del campo per comporre una lirica, bensì per condurre chi li sta contemplando verso altre mete. Non per nulla le parabole iniziano spesso così:  "Il Regno dei cieli è simile a". L'estetica è, quindi, funzionale all'annunzio, bellezza e verità s'intrecciano, l'armonia è un altro volto del bene. In questo senso si ammonisce l'annunciatore a dire Dio in modo bello (quanto questo monito è stato disatteso nella storia della predicazione e lo è ancor oggi, ad esempio, nell'arte sacra!). Non per nulla già il salmista esortava i fedeli così:  "Cantate a Dio con arte!" (Salmi, 47, 8). E la "gloria" divina è sempre raffigurata nella Bibbia come immersa nello splendore della luce e nella pienezza della perfezione.

Dobbiamo, però, riconoscere che si assiste anche a un processo in cui la bellezza acquista un suo spazio rilevante, sia pure sempre nella cornice di quella finalità teologica a cui l'autore biblico tende. È significativo il caso della creazione descritta nel capitolo 1 della Genesi. Là, infatti, al termine dei singoli atti creativi di Dio è apposta una "formula di approvazione", ribadita sette volte (1, 4.10.12.18.21.25.31), che suona così:  "Dio vide che era tôb". Sappiamo già che questo termine significa sia "buono" sia "bello". È evidente che qui l'aspetto estetico, a nostro avviso, ha un certo primato. La "visione" stessa, la soddisfazione per l'opera compiuta, l'immagine del Creatore-artista inducono a rendere quella frase così:  "Dio vide che era bello", oppure:  "Dio vide:  era bello!". Certo, non si esclude la positività dell'essere creato, ma è indubbio che la qualità estetica - come annotava un esegeta, Claus Westermann - "non è qualcosa di aggiunto alla creazione, ma appartiene al suo stesso statuto e alla sua struttura".

Dopo tutto, anche la Bibbia riconosce che "belle" erano Rebecca, Sara, Betsabea, la regina persiana Vasti, Ester, Giuditta, come lo erano anche il piccolo Mosè, Davide, il suo figlio Adonia, i giovani ebrei di Babilonia. È su questa scia che dobbiamo porre quel gioiello poetico che è il Cantico dei cantici nel quale l'accento sulla dimensione estetica della natura e della persona umana è marcato, sia pure senza mai dimenticare la finalità dell'esaltazione dell'amore, la realtà superiore e trascendente celebrata da quei versi mirabili. Al centro, infatti, si ha un "giardino chiuso", anzi, un "paradiso" (pardes) vegetale (4, 13), che spesso si trasforma in vigne lussureggianti con viti in fiore; si ha un vero e proprio "erbario" dominato dal giglio rosso palestinese (o forse l'anemone), accompagnato dal narciso, mentre folto è il bosco dell'amore con cedri, ginepri, meli, melograni, palme, alberi odorosi, fichi, mandragore, rovi, alberi selvatici, noci e così via. Monti, colline, rupi, valli, deserti, campi, sorgenti, fiumi, acque, laghi, fiamme, scintille si stendono davanti al lettore. Su questa terra, avvolta in una dolce primavera (2, 8-17), vola la colomba, l'uccello-simbolo per eccellenza, emblema di amore, tenerezza, bellezza e fedeltà, corrono gazzelle e cerbiatti, altrettanto rilevanti a livello simbolico, appaiono i greggi, i cavalli, i leoni, i leopardi, le volpi, i corvi, mentre latte e miele rimandano a vacche e api.

Ma è soprattutto il corpo umano, femminile e maschile, dipinto in tavole colme di eros (4, 1-5; 5, 10-16; 6, 4; 7, 10), a costituire il vertice della bellezza creata, come è attestato dall'esclamazione stupita e reiterata:  "Quanto sei affascinante (jafah), compagna mia, quanto sei affascinante! (...) Quanto sei affascinante, mio amato, quanto sei incantevole (na'îm)" (1, 15-16). "Tutta affascinante (jafah) sei, compagna mia, difetto non c'è in te!" (4, 7). La stessa natura è descritta nella sua bellezza attraverso una sorta di transfert:  il paesaggio, infatti, si trasforma in uno specchio dell'anima e delle sue sensazioni di felicità, di armonia, di pienezza. Tuttavia, come già si affermava, la dimensione somatica non è mai meramente estetica, ma è il punto di partenza e d'arrivo di un reticolo di relazioni interpersonali, di sensazioni interiori, di esperienze psicologiche e spirituali. Sta di fatto, però, che questa meta trascendente è raggiunta attraverso un'intensa e creativa contemplazione estetica ed estatica della corporeità che, nel mondo biblico, non è mai solo fisicità ma unità psico-fisica della persona.


 
L'esaltazione della bellezza nelle sue epifanie cosmiche ha, però, una sua espressione particolare in una pagina biblica tarda, all'interno di un inno collocato nella sezione finale dell'opera del Siracide, un sapiente del II secolo prima dell'era cristiana. L'inno inizia in 42, 15 e si conclude in 43, 33. La prospettiva, da noi sempre sottolineata, dell'intreccio tra estetica e teologia permane, ma è evidente il fiorire limpido della contemplazione lirica della bellezza del creato. L'aspetto teologico è esplicito in apertura e chiusura del canto allorché Dio si leva sull'universo con l'efficacia della sua parola, lo splendore della sua gloria, la sua trascendenza e onniscienza. Per la Bibbia la natura è sempre "creato", è un "cosmo"  ordinato  che  risponde a un progetto e a un disegno capace di riflettere il suo autore:  "Come il Sole che  sorge  illumina  tutto  il creato, così della gloria del Signore è piena la sua opera" (42, 16). Per questo, di fronte all'architettura cosmica, l'uomo non può che esclamare:  "Egli è tutto!" (43, 27).

Il Siracide, però, rivela in modo più esplicito rispetto alla precedente tradizione un atteggiamento lirico. Egli s'affaccia con stupore sulle meraviglie dell'universo e le fa sfilare davanti ai suoi occhi abbacinati da tanta bellezza. È questo il contenuto della parte centrale, vero cuore poetico dell'inno. Questa sequenza, che è quasi pittorica o filmica, parte dal firmamento limpido e luminoso, nel quale irrompe innanzitutto il Sole a cui è riservato un bozzetto che marca l'incandescenza del suo irraggiarsi (43, 1-5). Subentra naturalmente il quadretto dedicato alla Luna, celebrata soprattutto nella sua funzione "cronologica", essendo la matrice del calendario lunare liturgico e civile (43, 6-8). A essa si associano le stelle, concepite come sentinelle che vegliano nella notte (43, 9-10). Ecco, subito dopo, irrompere maestoso l'arcobaleno, tracciato nel cielo dalla stessa mano divina (43, 11-12). La serie successiva, pur connettendosi alla volta celeste, ha una sua autonomia:  entra, infatti, in scena la meteorologia col suo apparato di fulmini, dotati di "raggi giustizieri", delle nubi che "volano come uccelli da preda", dei chicchi di grandine simili a polvere, del tuono che fa sobbalzare la terra, dei venti impetuosi (43, 13-17).

Sempre lungo il filo dei fenomeni meteorologici, una sorta di deliziosa miniatura è dedicata alla neve la cui caduta lieve è comparata al volo degli uccelli e degli stormi di cavallette:  "il suo candore abbaglia gli occhi e, al vederla fioccare, il cuore rimane estasiato" (43, 18). A essa è associata la brina, simile a grani di sale che rendono brillanti come cristalli i rami su cui essi si posano (43, 19). Queste immagini invernali trascinano con sé l'evocazione della gelida tramontana che fa ghiacciare le superfici delle acque, rivestendole quasi di una corazza (43, 20). Paradossalmente la scena del gelo ha effetti analoghi a quelli estivi perché anch'esso brucia la vegetazione come accade quando domina l'arsura (43, 21):  in tal modo il poeta riesce a trasferire il lettore nell'estate infuocata, ove è attesa la rugiada che feconda la terra riarsa (43, 22). L'ultima sequenza di immagini ci sposta sul mare ove sono "piantate" come oasi o fiori le isole. Del suo mistero fatto di abissi, di tempeste imponenti, di mostri e terrori, ben noti alla cosmologia biblica, restano le testimonianze dei naviganti che possono solo affidarsi alla parola divina che salva (43, 23-26).

L'esclamazione iniziale dell'inno, scandita da un interrogativo retorico, è l'ideale espressione di un'ammirazione lirica che scopre il fulgore della bellezza:  "Ogni opera supera la bellezza dell'altra:  chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?" (42, 25). La dimensione estetica è, quindi, riconosciuta, anche se - lo ripetiamo ancora una volta - essa non è mai del tutto fine a se stessa ma diventa sempre, più o meno esplicitamente, una via pulchritudinis, un percorso bello e glorioso per approdare al Creatore, al suo progetto e alla sua opera. E la stessa bellezza letteraria di molte pagine bibliche ha come meta ultima la proclamazione dell'infinita bellezza e verità della Parola divina.


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)
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Presentato il programma dell'incontro di Benedetto XVI del prossimo 21 novembre

La proposta di dialogo della Chiesa al popolo dell'arte


Nel decennale della Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti e nel 45° anniversario dell'incontro con Paolo VI, il prossimo 21 novembre Benedetto XVI rinnoverà la proposta di dialogo della Chiesa al popolo dell'arte. Le motivazioni e i contenuti dell'iniziativa, che avrà luogo nella cappella Sistina, sono stati presentati nella mattina di giovedì 5, nella Sala Stampa della Santa Sede, dall'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, dal professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, e da monsignor Pasquale Iacobone, incaricato del dipartimento arte e fede del dicastero della Cultura.
Nel corso di questa seconda conferenza - la prima si era tenuta il 10 settembre scorso - sono stati resi noti l'elenco degli oltre 250 artisti che hanno risposto positivamente all'invito, e il programma di massima dell'avvenimento. Cinque le categorie presenti - pittura e scultura; architettura; letteratura e poesia; musica e canto; cinema, teatro, danza e fotografia - con invitati che arriveranno dai contesti geografici, culturali e religiosi più disparati. "Appartengono a tutte le arti - ha puntualizzato monsignor Ravasi - e non saranno solo cattolici, anche se questi ultimi saranno rappresentati in maniera sostanziale. Vengono senza ricevere sussidi né committenze - ha aggiunto - e qualcuno ha anche rinunciato a precedenti impegni pur di esserci".
L'incontro intende rinnovare l'amicizia e il dialogo tra la Chiesa e gli artisti e suscitare nuove occasioni di collaborazione. Non un punto d'arrivo, dunque, ma un inizio, "un seme, un germoglio, un momento - ha spiegato il presidente del Pontificio Consiglio - rappresentativo della volontà di dialogo tra la Chiesa e il mondo delle arti, che dovrà necessariamente svilupparsi in diverse tappe e con diverse modalità, valorizzando di volta in volta le molteplici componenti come anche le istituzioni nazionali o territoriali". Del resto per l'arcivescovo appare evidente il "divorzio" consumatosi nel tempo tra la Chiesa - che dopo aver promosso grandi rivoluzioni in campo artistico "sembra aver finito con l'accontentarsi di luoghi comuni o del pur nobile artigianato" - e gli artisti stessi, sempre più "tentati da sperimentazioni autoreferenziali e provocazioni". Ecco allora la necessità di "ritrovare un punto d'incontro", per "un dialogo comune".
Monsignor Iacobone, da parte sua, si è soffermato sugli aspetti organizzativi. "Prima dell'estate sono stati spediti cinquecento inviti - ha spiegato - ad artisti dei cinque continenti, selezionati da un'apposita commissione in base al prestigio di cui godono, all'alta qualità professionale e al loro impegno. Dopo l'estate sono cominciate ad arrivare le risposte, che hanno permesso di stilare l'elenco attuale. Nonostante i tempi ristretti - ha proseguito - le adesioni sono state al di sopra di ogni previsione", per quello che sarà un vero e proprio incontro e non una semplice udienza. Lo testimonia il programma che si apre nel pomeriggio di venerdì 20, con l'accoglienza dei partecipanti, i quali potranno visitare la Collezione di arte moderna e contemporanea dei Musei Vaticani, realizzata per volere di Paolo VI. In proposito il professor Paolucci ha fatto riferimento al ruolo di Papa Montini. "La questione che Benedetto XVI affronta - ha ricordato - viene da lontano, dal cuore del Novecento, da quel grande intellettuale che fu Giovanni Battista Montini". Un Pontefice - ha aggiunto - che non esitò a esporsi in prima persona intraprendendo con coraggio e lungimiranza un cammino di riavvicinamento. Un Pontefice che il 7 maggio 1964 ricevette proprio nella Sistina gli artisti del tempo, come farà sabato mattina, 21 novembre, Benedetto XVI. Il direttore dei Musei Vaticani ha anche sottolineato la necessità di distinguere tra arte liturgica e arte religiosa, perché è soprattutto quest'ultima che deve cercare contiguità, assonanza con il mondo.
L'incontro degli artisti con Joseph Ratzinger, in quel luogo altamente simbolico ed evocativo in cui egli è stato eletto Papa, sarà scandito da momenti animati dalla cappella musicale pontificia Sistina, che eseguirà due mottetti di Pier Luigi da Palestrina.
Al saluto iniziale rivolto al Pontefice da monsignor Ravasi a nome dei presenti, seguiranno la lettura di brani tratti dalla Lettera agli artisti di Papa Wojtyla (4 aprile 1999) e il discorso di Benedetto XVI.
Alla fine gli artisti si ritroveranno nel braccio nuovo dei Musei Vaticani, dove verrà offerta loro, a nome del Papa, una medaglia appositamente coniata per l'occasione.
Al termine della conferenza stampa, rispondendo alle domande postegli dai giornalisti, l'arcivescovo Ravasi è intervenuto anche sulla discussione di questi giorni seguita alla sentenza della Corte europea di Strasburgo riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. "Spero ci sia la possibilità di riproporre questo che è uno dei grandi simboli della cultura occidentale" ha detto il presule, sottolineando come "L'Osservatore Romano" abbia rievocato giustamente l'intervento di Natalia Ginzburg a difesa del crocifisso pubblicato su "l'Unità" nel 1988. "La Ginzburg - ha concluso - parlava del crocifisso come simbolo culturale e religioso".


(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2009)
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15/11/2009 07:18



Vocazione e risposta come temi dell'arte cristiana

La bellezza del «chiamato»


di Timothy Verdon

Nello stesso anno che ha consacrato ai sacerdoti, il Papa vuole anche rinnovare il dialogo della Chiesa con gli artisti, ricevendone un gruppo rappresentativo il 21 novembre prossimo nella Cappella Sistina, nel decennale della Lettera a loro indirizzata da Giovanni Paolo II, e 45 anni dopo l'analogo incontro di Paolo VI con gli artisti, pure questo nella Sistina.

Si tratta solo di una coincidenza felice, ma, come succede spesso nella vita della Chiesa, la "felicità" si rivela in qualche modo provvidenziale e la "coincidenza" fa scoprire un legame profondo:  quello a cui richiamò l'attenzione lo stesso Paolo VI, considerando gli artisti "sacerdoti" in analogia con i ministri ordinati, con il compito di rendere visibili le verità invisibili di cui questi parlano.

Nella Sistina, sotto gli affreschi di Michelangelo raffiguranti il Dio creatore, Papa Montini prospettò a uomini e donne dotati di umana creatività un utilizzo dei loro talenti al servizio della comunità credente non dissimile al servizio offerto dai sacerdoti, e credo che Benedetto XVI vorrà rievocare questo parallelismo, che illumina non solo la vocazione artistica ma anche quella presbiterale, la cui dimensione creativa troppo spesso è dimenticata.

Anche il prete, infatti, avverte in sé un misterioso potere di trasformare le cose - o, meglio, le persone - la cui sorgente è in Dio; anche il prete si sente chiamato a usare questo potere trasformativo per gli altri. Per lui come per l'artista, il senso della propria vita dipenderà dall'uso che fa del dono che lo esprime come uomo e lo qualifica nel rapporto con i fratelli; per lui come per l'artista il dono inoltre richiede preparazione, sacrificio e costante innovazione:  anche nel sessantesimo anno di sacerdozio, un battesimo, una celebrazione eucaristica o una confessione devono avere la freschezza dei primi giorni dopo l'ordinazione.

All'interno di questo suggestivo parallelismo, è utile considerare come gli artisti abbiano interpretato il momento - comune certo a tutti i cristiani, ma vissuto con particolare intensità da loro e dai sacerdoti - della presa di coscienza del dono e della scelta di accoglierlo e d'usarlo:  della "vocazione" cioè e della "risposta".

Precisiamo che gli artisti, se intuiscono una qualche analogia tra la propria chiamata e quella dei ministri ordinati, capiscono anche che l'esperienza della "vocazione" si verifica più chiaramente, secondo un modello biblico classico, in quanti sono chiamati a impersonare Cristo davanti ai fratelli che non nei collaboratori di vario genere che Dio suscita per loro nella comunità.
Il soggetto iconografico della vocazione infatti si riferisce non agli artisti stessi, anche se questi s'identificano all'esperienza, ma ai ministri che Dio chiama al servizio del suo popolo.

Il maggiore di questi è Cristo stesso, che "prende coscienza" della vocazione del Padre e risponde liberamente accettando da Giovanni il battesimo nel Giordano. Bellissima è la versione di questo tema eseguita da Piero della Francesca, in cui la figura del Salvatore ha una centralità e una dignità associate al dogma dell'incarnazione. L'uomo classicamente bello immaginato dal maestro quattrocentesco afferma infatti la credenza che in Gesù Cristo nato da Maria e cresciuto a età adulta è presente la pienezza della divinità. Egli è vero Dio oltre che vero uomo, e la bellezza attribuitagli esprime l'impareggiabile dignità dell'essere umano la cui natura è stata assunta da Dio; forse ognuno chiamato in Cristo si percepisce analogamente "bello" agli occhi del Padre, elevato e nobilitato dall'Altissimo, al centro di un suo piano.

Ma c'è di più:  nel dipinto di Piero la bellezza attribuita a Cristo è quella derivante dall'antichità - la bellezza di una statua classica, per intendersi - così che l'immagine esprime anche un rapporto con il passato. Nell'umanità di Cristo, Piero sembra dire, è realizzata anche la sensibilità grecoromana:  è valorizzato tutto ciò che, nel culto degli dei antichi, adombrava e preparava la verità evangelica.

Questa tavola di Piero era in origine una pala d'altare, così che l'immagine del corpo umano assunto da Dio doveva essere vista sopra la mensa su cui pane e vino diventavano corpo e sangue dello stesso Figlio di Dio. Il rapporto con un passato lontano implicito nell'evocazione della statuaria antica s'imponeva cioè nel contesto della messa, in cui il tempo è infatti superato e l'evento salvifico dell'offerta di sé compiuto da Cristo viene, non rappresentato, ma ripresentato, reso realmente presente. Ciò significa che, davanti all'abbagliante visione della natura che l'artista ha creato intorno a Cristo, degli elementi naturali - pane e vino fatti dalla terra - diventavano presenza reale della nostra umanità divinizzata.

In Cristo, ogni sacerdote, soprattutto quando celebra l'Eucaristia, è "mediatore" tra i tempi che furono e il presente, come anche tra Dio e il creato.

Piero della Francesca fa vedere cioè il Cristo chiamato dal Padre all'interno di una serie di importanti relazioni:  con la storia passata, con culture lontane e con l'immensità del cosmo. Lo fa vedere soprattutto in relazione con altri uomini, in relazione con se stesso, in relazione stretta con Dio:  questo Cristo accetta il battesimo da Giovanni, ne comprende le implicazioni e ne accetta le conseguenze, e sente allora le parole del Padre suo:  "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Luca, 3, 22). Il Cristo di Piero è perciò - come deve essere per chi lo incontra il sacerdote - un'icona di libertà, d'impegno consapevole, di relazione familiare nell'amore; sa che, facendo questo passo, si sta incamminando verso un altro battesimo - la croce adombrata nell'albero alla sua destra - che lo farà scendere non nell'acqua ma nella morte. Lo sa, lo accetta, sente la vicinanza del Padre e descrive quanto abbia provato quando, poco più di un mese dopo, dice:  "Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore" (Luca, 4, 18-19; cfr. Isaia, 61, 1-2). Non vi è sacerdote di Gesù Cristo che non applichi queste stesse parole alla propria vocazione.



(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2009)
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20/11/2009 19:49



A colloquio con Bruno Cagli, tra gli invitati all'incontro del Papa con gli artisti

Non si può abbandonare la musica sacra all'improvvisazione


di Marcello Filotei

Certe volte le cose entrano nel mito per una dimenticanza. È il caso del convegno che si tenne nel 1985 all'abbazia di Fossanova sul tema "Musica sacra nella società attuale", uno di quegli eventi che chiunque si occupi dell'argomento si sente continuamente citare da quanti hanno avuto la fortuna di assistervi. Purtroppo non esistono gli atti, e questa è la dimenticanza, ma la lista dei partecipanti è di un livello talmente alto che non si fa fatica a credere che le mirabolanti ricostruzioni siano veritiere. Tra i promotori di quell'iniziativa c'era anche Bruno Cagli, musicologo, scrittore e attuale presidente dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, tra gli invitati il 21 novembre all'incontro del Papa con gli artisti. 

Come era 35 anni fa il rapporto tra sacro e musica?

Molto dinamico, ma in un clima di disattenzione da parte delle autorità ecclesiastiche, nel senso che si era aperti a molti esperimenti, ma la riflessione sul sacro in musica era abbastanza limitata. Ad esempio quando organizzavo in quegli anni la messa per la festa di santa Cecilia ci tenevo che fosse cantata in latino. A chi mi chiedeva di scegliere una versione in italiano rispondevo che in repertorio si trovano centinaia di capolavori in latino, mentre ben poco di quel livello è reperibile in volgare. La sproporzione deriva dal fatto che nel passato scrivere musica sacra era un obbligo sociale. Ora non è più così, e questo è un grande vantaggio perché chi oggi affronta la musica sacra lo fa con consapevolezza e per libera scelta. Questo può migliorare sensibilmente il rapporto tra il compositore e il sacro.

In primo luogo, dunque, comprendere a pieno la tradizione.

La discussione aperta nel 1985 si basava su differenti interpretazione dei capolavori del passato. Alcuni consideravano troppo teatrali alcune opere come la Messa da Requiem di Verdi o lo Stabat Mater di Rossini, perché avrebbero utilizzato delle tecniche provenienti dalla lirica. Uno degli atteggiamenti compositivi più avversati era l'uso dei melismi, volute melodiche che secondo alcuni sarebbero state di derivazione pagana. Io ho combattuto questo equivoco perché penso che la visione vada ribaltata. Sono stati i canti alleluiatici a introdurre i melismi nella musica occidentale, solo dopo sono stati ripresi dall'opera. Quindi così come il rapporto del compositore con il sacro è oggi una scelta molto più avvertita che nei secoli scorsi, il rapporto con il repertorio sacro deve essere più consapevole e va rivisto.

In che modo?

Con un'ampiezza di vedute che restituisca la possibilità di eseguire le composizioni del passato con le particolarità stilistiche che qualche falso purista ha cercato di obliare. Per esempio Rossini viene accusato di portare in chiesa atteggiamenti teatrali, quando invece fa esattamente il contrario. Per esempio utilizza nelle opere buffe lo stile "a cappella", proveniente dalla musica sacra.

Insomma, chi ha influenzato chi?

L'influenza autentica è quella della tradizione sacra su quella profana, il contrario non è mai accaduto. La tradizione sacra è all'origine della musica occidentale, anche di quella teatrale che è nata molto tempo dopo e non poteva che fare riferimento a quella storia. Su questi argomenti, per migliorare la qualità delle esecuzioni di oggi, sarebbe utile una apertura da parte dei musicologi.

Quindi un malinteso purismo piuttosto che rinverdire gli stili esecutivi del passato ha finito per appiattire il livello delle esecuzioni?

L'approccio filologico deve essere avvertito e intellettualmente aperto se non vuole rischiare di diventare controproducente. Allo stesso tempo non si può abbandonare il sacro all'approssimazione. Mi è capitato qualche anno fa di entrare il giorno di san Francesco nella basilica dei Frari a Venezia e di uscirne perplesso. In una chiesa dove ci sono capolavori figurativi immortali ascoltare musica di basso livello, inadatta al luogo e al testo intonato, era fastidioso.

Accertato che portare il rock in chiesa non corrisponde a un atteggiamento attento alla modernità, cosa significa andare avanti in questo ambito musicale?

Affrontare un rapporto con il testo che sia dinamico, aperto dal punto di vista stilistico, ma rigoroso. Nessuno può immaginare che Verdi o Rossini affrontassero il sacro senza rigore stilistico pur utilizzando le novità del linguaggio del loro tempo.

Quali compositori si stanno misurando oggi in questo modo con il sacro?

Ce ne sono diversi e Arvo Pärt è uno di questi. Nel 2000 sono stato io a proporre di commissionare proprio a lui un lavoro su Santa Cecilia. L'idea è stata poi accolta dal Comitato per il Giubileo e ne è nato un lavoro molto interessante che ha fatto il giro del mondo. Pärt è attentissimo al recupero della tradizione, la fa con rigore ma in maniera personale e a un livello intellettuale alto. La musica sacra deve essere necessariamente dotta, perché elevato è il testo che utilizza. Questo non significa che non può essere divulgata e divulgativa, ma che deve essere affrontata con rigore. Raffaello nel dipingere l'Estasi di santa Cecilia ha indicato tre gradi di comunicazione:  in alto il canto con gli angeli, al centro l'organo nelle mani della santa, ai piedi di Cecilia la musica profana. Tutto qui.


(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)
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20/11/2009 20:20



Il Papa incontra gli artisti nella Cappella Sistina

Si svolgerà domani mattina nella Cappella Sistina l'atteso incontro tra Benedetto XVI e gli artisti. L'evento si svolge nel decennale della
Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II e a 45 anni dallo storico incontro di Paolo VI con il mondo dell'arte, nel maggio del 1964. L’appuntamento intende rinnovare l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti e suscitare nuove occasioni di collaborazione. Il servizio di Fabio Colagrande:

La Cappella decorata da Michelangelo fu il primo luogo ad ospitare, quasi mezzo secolo fa, l’incontro di un Pontefice con il mondo dell’arte. Fu Papa Montini, proseguendo un riavvicinamento avviato dai suoi predecessori Pio XII e Giovanni XXIII, a volere quell’occasione per lanciare un appassionato appello alla riconciliazione:

“Devo dire la grande parola, che del resto voi già conoscete: Noi abbiamo bisogno di voi! Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Mi permettete? Ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane… Riconosceremo che anche Noi vi abbiamo fatto tribolare, perché abbiamo imposto come canone primo la limitazione, vi abbiamo messo una cappa di piombo addosso – possiamo dirlo: perdonateci! Rifacciamo la pace? Quest’oggi, qui, vogliamo ritornare amici: il Papa diventa ancora l’amico degli artisti! Noi dobbiamo ritornare alleati!”.

Sulla scia di queste vibranti parole di Paolo VI, ribadite l’anno dopo nel messaggio agli artisti in chiusura del Concilio, e della lettera firmata da Giovanni Paolo II nel 1999, si situa l’odierna convocazione di Benedetto XVI. Tra i circa 260 artisti che hanno aderito all’invito del Papa e del Pontificio Consiglio della Cultura, anche il poeta Roberto Mussapi che sottolinea quali spazi si aprono oggi al dialogo tra Chiesa e mondo dell’arte:

“Io credo che sia una necessità reciproca in quanto gli artisti più importanti, quelli a cui mi sento vicino – mi riferisco anche ai registi del cinema, ai pittori – abbiano una esigenza forte di tipo metafisico che rappresenta un ribaltamento rispetto alla sensibilità nichilista dei primi decenni del Novecento. E quindi il loro contributo è fondamentale; dall’altro, hanno bisogno di vedere una Chiesa immersa nell’esperienza artistica che è in sé un’esperienza creaturale ed è un’esperienza di incarnazione nella religione cristiana. La poesia sembra una metafora dell’incarnazione stessa, cioè l’espressione in forme storiche, culturali di domande atemporali e soprannaturali”.
Difficile dire chi trarrebbe oggi maggiore giovamento da una rivitalizzazione della collaborazione tra gli artisti e la Chiesa. Entrambi potrebbero trarne dei vantaggi, come ricorda un altro poeta e scrittore che sarà sabato nella Cappella Sistina ad ascoltare il Papa: Davide Rondoni:

“Sicuramente, chi trova più giovamento nel rapporto tra l’arte e la fede è l’artista, che trova nella fede non tanto un compimento dell’arte come se l’arte dovesse compiersi nella fede; ma piuttosto, la possibilità di vedere sempre quella che il più grande scultore del Novecento italiano, Arturo Martini, chiamava 'la quarta dimensione', la dimensione – cioè – del Mistero in tutto quello che vede. Forse oggi la Chiesa potrebbe essere più attenta alla formazione artistica dei propri sacerdoti, alla formazione umanistica nei propri seminari … A me ha sempre colpito un racconto che faceva don Giussani, che è stato un mio grande amico. Lui diceva che andava a fare la Comunione, da ragazzo, e intanto si ripeteva i versi di Leopardi; perché o Gesù Cristo ha una risposta alle domande di Leopardi, oppure di Gesù Cristo non se ne sarebbe fatto niente. Ecco, forse c’è bisogno di allargare questo tipo di sensibilità, questo tipo di attenzione all’arte come patrimonio di un’esperienza di fede”.

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21/11/2009 10:02

Se la chiesa è un garage mette in fuga anche Dio

di Stefano Zecchi

L’archittetura è un’arte di frontiera, quella più immediata e sensibile nell’accogliere, registrare suggerire una visione dell’abitare o un’idea di città. L’architettura esiste se ha un progetto sociale, e quando è in grado di proporlo diventa un punto focale per comprendere il senso della modernità attraverso l’esperienza estetica. Oggi è di moda parlare più dell’architetto che dell’architettura perché, sono convinto, l’architettura proprio come progetto sociale giace gravemente malata in un letto d’ospedale.
E tuttavia, la sua malattia non impedisce all’architetto di ideare manufatti grandiosi, stravaganti, suggestivi che potrebbero essere collocati ovunque, a New York come a Calcutta, a Pechino come a Parigi. Manufatti che esaltano la fantasia e il talento dell’architetto, dell’archistar come ormai è chiamato chi opera indifferentemente in ogni parte del mondo, perché ovunque può piazzare il suo progetto.
È naturale ascoltare nelle interviste o nelle dichiarazioni degli interessati il rifiuto sdegnato dell’epiteto «archistar», non tanto per un sentimento di modestia di cui proprio sarebbe difficile trovare traccia, quanto piuttosto perché quella stellare definizione sottolinea un modo di pensare l’architettura come un oggetto globalizzato, senza identità, senza anima, avulso dalla tradizione, indifferente al contesto, accettabile ovunque e comunque. L’archistar lavora indifferentemente in tutto il mondo e non intende riconoscere più nessuna differenza tra San Francisco e Madras perché il «suo mondo» non ha storia e lei non ha bisogno di alcun progetto sociale da interpretare architettonicamente.
Soltanto la disorganizzazione e l’approssimazione con cui vengono fatti i concorsi frena l’archistar. E infatti il grande Frank O.Gehry, in occasione di una bellissima esposizione della sua opera alla Triennale di Milano, ha così spiegato al Giornale il motivo per cui nessuno dei suoi progetti è stato realizzato a Venezia, Modena o Milano: «Perché siamo in Italia, e voi conoscete questo Paese meglio di me...». Come dire: a buon intenditor poche parole.
In realtà, quando fui presidente della commissione giudicatrice dei progetti per la nuova sede della Regione Lombardia, io avevo votato per quello di Gehry, ma, credo unico caso in Italia, il presidente, cioè il sottoscritto, venne messo in minoranza e fu approvato un altro progetto.
Comunque, il disordine e la disorganizzazione italiana lamentata da Gehry non ha impedito, in assoluta coerenza con la nuova figura dell’architetto globale, dell’archistar senza confini, la nomina in questa settimana della nuova direttrice del Settore Architettura della Biennale di Venezia. È l’archistar, di comprovata eccellenza, donna, giapponese Kazuyo Sejima che, dopo essersi immediatamente schernita dall’appellativo stellare, subito affiabbiatole dalla stampa, ha dichiarato: «La Biennale deve essere tutto e ogni cosa... Un significativo punto di partenza potrebbe essere il concetto di confine e l’adattamento dello spazio. Questo potrebbe includere sia l’eliminazione dei confini, sia la loro evidenziazione. Qualsiasi componente della molteplicità di adiacenze proprie dell’architettura, può diventare un argomento». Parole chiare e comprensibili a tutti nel programma dell’archistar giapponese, così evidenti e semplici che le consentiranno di giustificare qualsiasi cosa nella prossima 12ª Mostra internazionale di architettura da lei curata.
Chi sembra invece avere i piedi per terra e non volare nell’empireo architettonico, è un folto gruppo di teologi, filosofi, artisti, architetti che hanno rivolto al Papa un appello affinché gli edifici religiosi ritrovino quel sentimento del sacro che l’architettura moderna ha cancellato
.
Il testo dell’appello è un grido di dolore ricco di citazioni e di riferimenti al magistero della Chiesa e rievoca il discorso di Paolo VI agli artisti proprio a pochi giorni dall’incontro tra Papa Benedetto XVI e un eclettico gruppo di artisti, che si terrà nella Cappella Sistina il prossimo 21 novembre.
Chiunque, indipendentemente dalla propria fede, può constatare con quanta superficialità, disattenta o perfino estranea al sentimento religioso, si edificano chiese che sembrano capannoni industriali, case popolari senza nessun rispetto alla simbolicità che dovrebbero avere quelle costruzioni, senza un minimo di attenzione alla ricerca della bellezza.
Dicevo all’inizio che l’architettura vive se ha un progetto sociale, e l’architettura religiosa vive se riesce a cogliere e interpretare il sentimento religioso di un popolo: quanto ciò sia difficile lo testimoniano le esperienze degradanti dei moderni edifici destinati al culto. Il problema è nelle mani della committenza ecclesiastica, spesso suggestionata dalle mode delle archistar e dei loro piccoli imitatoti, ma il problema è anche nella cultura moderna che ha rinnegato il significato simbolico della bellezza e ha esaltato una visione scientifica del mondo che della bellezza non sa cosa farsene.

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Il Papa ama l’arte purché sia arte. Il Pontefice «impregnato di Mozart» incontrerà gli artisti nella Cappella Sistina (Bertoncini)

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INCONTRO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI CON GLI ARTISTI NELLA CAPPELLA SISTINA , 21.11.2009

Alle ore 11 di questa mattina, nella Cappella Sistina, il Santo Padre Benedetto XVI incontra gli Artisti.

Nel corso dell’evento, promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura nel decennale della Lettera di Giovanni Paolo II agli Artisti (4 aprile 1999) e nel 45° anniversario dell’Incontro di Paolo VI con gli Artisti (7 maggio 1964), dopo l’indirizzo di omaggio di S.E. Mons. Gianfranco Ravasi, il Papa rivolge agli ospiti il seguente discorso:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Artisti,
Signore e Signori
!

Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito.

Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali.

Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della
Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II.
Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra "quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza". Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte.
Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo,
si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. "Noi abbiamo bisogno di voi - egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità" (Insegnamenti II, [1964], 313).

Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: "E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte" (Ibid., 314).

In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di "ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti", e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica "rinascita" dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio.

Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia.

Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel "faccia a faccia", in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo
Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: "A voi tutti - egli proclamò solennemente - la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!" (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo" (Ibid.).

Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: "L’umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui". Gli fa eco il pittore Georges Braque: "L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere" (n. 3). E più avanti aggiunge: "In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione" (n. 10). E nella conclusione afferma: "La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente" (n. 16).

Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione.

La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio.

L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di "figure" – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare". La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: "In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa". Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio". Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte" (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: "L’arte ha bisogno della Chiesa?", sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel "grande codice" che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano.

Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita!

La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: "Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza" (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

Je suis heureux de saluer tous les artistes présents. Chers amis, je vous encourage à découvrir et à exprimer toujours mieux, à travers la beauté de vos œuvres, le mystère de Dieu et le mystère de l’homme. Que Dieu vous bénisse !

Dear friends, thank you for your presence here today. Let the beauty that you express by your God-given talents always direct the hearts of others to glorify the Creator, the source of all that is good. God’s blessings upon you all!

Sehr herzlich grüße ich euch, liebe Freunde. Mit eurem künstlerischen Talent macht ihr gleichsam das Schöpferwirken Gottes sichtbar. Der Herr, der uns im Schönen nahe sein will, erfülle euch mit seinem Geist der Liebe. Gott segne euch alle.

Saludo cordialmente a los artistas que participan en este encuentro. Queridos amigos, os animo a fomentar el sentido y las manifestaciones de la hermosura en la creación. Que Dios os bendiga. Muchas gracias.

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21/11/2009 14:51

Papa/ Da Moretti a Zeffirelli,260 artisti incontrano Benedetto XVI

Riuniti nella Cappella Sistina del Vaticano


Roma, 21 nov. (Apcom)

Ci sono Nanni Moretti e Franco Zeffirelli, Sergio Castellitto e Raul Bova, Monica Guerritore e Pupi Avati, Carla Fracci e Roberto Vecchioni e ancora poeti, scrittori, pittori, registi, attori: sono 260 le star che Papa Benedetto XVI sta ricevendo nella Cappella Sistina del Vaticano.
L'incontro si è aperto con la lettura di alcuni brani della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II eseguita da Sergio Castellitto, poi il Pontefice rivolgerà un discorso ai suoi ospiti. "La Chiesa ha bisogno dell'arte" scriveva Giovanni Paolo II, ma è vero anche il contrario perchè "l'artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell'ineffabile".

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Anche agnostici all'incontro del Papa con gli artisti

Monsignor Ravasi: infranto il vincolo fra arte e fede. Rondoni: si ritrovano nell'esperienza


Il Papa ha chiamato a Roma gli artisti, di ogni genere e grado: 500 pittori, scultori, architetti, scrittori, musicisti e cantanti, registi, attori di cinema e teatro, danzatori, persino fotografi. Soprattutto italiani, ma con qualche notevole eccezione. Fra gli invitati oggi in Cappella Sistina (diretta tv su Skytg24, Sat2000, Telepace dalle 10,55) i non cattolici, gli agnostici e anche gli atei sono davvero parecchi, segno che il Papa non vuole parlare ai «suoi». Qualche nome a caso: Chiappori, Jodice, Pomodoro, Mitoraj, Viola, Botta, Gregotti, Libeskind, Arbasino, Bevilacqua, Camon, Mastrocola, Tamaro, Mazzantini, Valduga, Baglioni, Branduardi, Pärt, Venditti, Avati, Banfi, Basilico, Foà, Golino, Guerritore, Ronconi, Scola, Soleri, Taviani, Zanussi, Zeffirelli, Greenaway, Lizzani, Maselli, Monicelli, Moretti…
Sono passati dieci anni dalla Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla in gioventù – caso molto raro per un Papa – era stato davvero un artista, un attore di teatro e scriveva poesie, ma il suo gesto non ha lasciato il segno. Benedetto XVI anche in questo caso si riallaccia idealmente più a Paolo VI, all'apertura verso questo mondo che tentò 45 anni fa, proprio con un analogo invito in Sistina. Montini ottenne qualche risposta più significativa, anche se certo, osservando le chiese e gli oratori di oggi il suo coraggioso «la Chiesa ha bisogno di voi» rivolto agli artisti non sembra aver portato molto frutto.
Monsignor Ravasi, che è l'uomo che Benedetto XVI ha messo a presidiare il côté culturale del suo pontificato, nel convocare gli artisti a Roma non è andato per il sottile. Sulla doppia pagina che domenica 8 novembre Avvenire ha dedicato alla presentazione dell'incontro in Vaticano ha ricordato che san Giovanni Damasceno nell'VII secolo diceva ai cristiani: «Se un pagano viene e ti dice: "Mostrami la tua fede", tu portalo in chiesa e fagli vedere la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri». Oggi a guardare certe figure pseudo-cubiste alle vetrate è più facile convertirsi al nihilismo. Quel «vincolo così stretto» tra arte e fede, «lo si deve realisticamente riconoscere, si è allentato fino al punto di infrangersi», dice il presidente del Pontificio consiglio della Cultura. «Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi delle epoche precedenti, oppure ci si è orientati all'adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell'edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come sarcasticamente diceva padre Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli».
Anche se qualche architettura fa eccezione – è la spietata analisi di Ravasi – «l'arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi» e anche «tutto quel "grande codice" che era stata la Bibbia. Si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell'autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo. Un po' di verità c'era nella definizione coniata da Henri Meyers a proposito dell'artista contemporaneo: "Un uomo che non prostituisce mai la sua arte, eccetto che per denaro"». Ravasi non ha usato il tono felpato curiale. Ha messo le carte sul tavolo: l'incontro in Sistina non sarà un cocktail.
Gli ha risposto, a stretto giro di posta – sullo stesso Avvenire – Davide Rondoni, poeta, anche lui tra gli invitati. Che ha messo in luce un'altra posizione, cattolica ma diversa da quella di Ravasi: «Credo che il punto in cui arte e fede si incontrano sia principalmente l'esperienza umana dell'artista», dice Rondoni. Più che attingere simboli sacri dalla tradizione «l'arte trova il suo rapporto con la fede nella esperienza vitale dell'artista. È la sua esperienza umana il luogo, il campo, il drammatico teatro in cui si gioca il rapporto. Non mi rallegrerei dunque se aumentassero le citazioni dalla Bibbia nell'arte contemporanea. C'è più fede nel Dio dell'Essere in una mela di van Gogh o in una bestemmia di Testori che in mille madonnucce impagliate che vediamo in giro». Rondoni scrive che molti artisti del '900 hanno guardato a Cristo, ma è con la Chiesa che si è consumata la rottura; con una certa pedanteria cattolica: «"Non voglio Cristo come suocero", scrisse Rimbaud. Ma i preti non leggono Rimbaud né Claudel né il gran genio cristiano dell'800 Baudelaire. E quasi non tremano nemmeno per Leopardi».
Un gruppo di studiosi internazionali ha rivolto al Papa un appello «per il ritorno a un'arte sacra autenticamente cattolica». C'è carne al fuoco, insomma.

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L'INCONTRO

Il Papa agli artisti: «Non temete di credere»


"Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito". Sono le
prime parole di Benedetto XVI agli artisti nell'incontro di oggi nella Cappella Sistina. "Con questo incontro - spiega - desidero esprimere e rinnovare l'amicizia della Chiesa con il mondo dell'arte, un'amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza". Secondo il Papa, "questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali.
Ecco - scandisce - il motivo di questo nostro appuntamento".

Con i suoi affreschi nella Sistina, Michelangelo "lancia un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia". Benedetto XVI spiega così la scelta di un Papa di tornare nuovamente a incontrare gli artisti nella Cappella Sistina, a 45 anni dallo "storico incontro con Paolo VI che - ricorda - avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana". "Non è casuale - spiega - il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell'arte". "Qui - ricorda il Pontefice - è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l'anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell'umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch'io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell'apostolo Pietro".

"Cari amici- esorta Ratzinger rivolto agli artisti - lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la mèta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell'umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. [...] Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente".

La lettera di Giovanni Paolo II letta da Castellitto. Il primo a prendere la parola in Sistina per l'incontro tra il Papa e gli artisti è Sergio Castellitto che al micorfono legge alcuni brani della Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti. La sua voce tradisce all'inizio un pò di emozione e molti dei presenti appaiono commossi quando il testo sottolinea che "l'arte continua a costituire una sorta di ponte verso la fede, un appello al mistero" per spiegare perché "la Chiesa ha bisogno degli artisti" e si domanda se "anche gli artisti hanno bisogno della Chiesa?".

Gli artisti presenti al'incontro. Sono 260 gli artisti di questa mattina che partecipano all'incontro con Benedetto XVI nella Cappella Sistina. I nomi, come è ovvio, sono in prevalenza italiani: Vadim Ananiev e Claudio Baglioni aprono l'elenco dei musicisti chiuso da Roberto Vecchioni e Antonello Venditti, nel quale sono compresi anche compositori di fama come Ennio Morricone e Marco Frisina, il cantautore Riccardo Cocciante e Andrea Bocelli; ma i più applauditi al loro passaggio in via della Conciliazione, questa mattina, sono stati i Pooh, così come tra gli attori anche in Vaticano - lo si è visto al suo arrivo - ha molti ammiratori Raul Bova. Amendola e Zeffirelli sono il primo e l'ultimo nome della sezione cinema, teatro, danza e fotografia, nella quale figurano anche due coppie di fratelli: gli Avati e i Taviani.

E poi ballerine di fama mondiale come la Fracci e la Cosi, il direttore della fotografia Rotunno, registi teatrali come Scaparro e Ronconi, registi cinematografici come Mario Monicelli, Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Giuseppe Tornatore, Liliana Cavani e Kryzstof Zanussi. C'è anche Andrej Jr. Tarkovski e non mancano star delle fiction come Terence Hill e Maddalena Crippa, attrici impegnate come Anna Proclemer, Irene Papas, Monica Guerritore e Pamela Villoresi e vecchie glorie come Franco Nero e Arnoldo Foa. Tutti in piedi ad applaudire il Papa al suo ingresso in Sistina alle 11 precise.

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21/11/2009 15:27

"C'è un modo cristiano di essere artisti"

Intervista a padre Fagniez, autore di "Giovanni Paolo II e gli artisti"


ROMA, venerdì, 20 novembre 2009 (ZENIT.org).-

Alla vigilia dell'incontro di Benedetto XVI con gli artisti, questo sabato nella Cappella Sistina, riportiamo un'intervista a padre Pascal Fagniez, autore del libro "Giovanni Paolo II e gli artisti", pubblicato nel 2007 dalle Edizioni dell'Emmanuele.

Pascal Fagniez, disegnatore, fotografo e cantore, è sacerdote della Diocesi di Cahors (Francia), al servizio degli artisti nella Comunità dell'Emmanuele.

Il suo libro è stato scritto in occasione di una ricerca universitaria. Per quale motivo ha scelto questo argomento?

Padre Fagniez: E' stato un caso. Facevo una ricerca sulla santità nella politica, riguardo Edmond Michelet, deportato a Dachau, divenuto Ministro del generale De Gaulle. Per tale motivo studiavo il personalismo nella morale sociale di Giovanni Paolo II, all'Istituto Cattolico di Tolosa. E' stato in questo contesto che ho scoperto la Lettera agli artisti del Papa del 1999. Benché avessi familiarità con gli scritti di Giovanni Paolo II, a volte il suo stile letterario mi lasciava perplesso. Sono quindi rimasto sorpreso leggendo la Lettera agli artisti: ho scoperto un Papa che parlava il mio linguaggio, un artista che parlava agli artisti. Senza alcuna esagerazione posso dire che per me è stata una rivelazione, uno stupore, confermato dalla lettura di molti altri discorsi di questo Papa e dei suoi predecessori agli artisti.

E' notorio un "divorzio" fra la Chiesa e gli artisti; si potrebbe perfino dire che gli artisti oggi non hanno più alcun interesse nel settore della religione. Cosa fa la Chiesa per ovviare a questa situazione?

Padre Fagniez: In effetti si può parlare di divorzio, ma in quanto vi è una storia d'amore fra l'arte e il Vangelo; storia che non si ferma, ve lo assicuro. La Chiesa ha sempre beneficiato del talento degli artisti ed è sempre stata fonte inesauribile di ispirazione. Quando Leone XIII scrive nel 1877 un poema in onore alla fotografia, si è ancora in questa fase di felicità amorosa! Ma è vero che nel 20° secolo avviene la rottura. L'arte ha acquisito autonomia con il rischio di cadere sotto nuovi maestri spietati: il mercanteggiare e l'egocentrismo!

Una delle risposte: il dialogo. Giovanni Paolo II scrive nella sua Lettera agli artisti : "Il Concilio Vaticano II ha gettato le basi di relazioni rinnovate fra la Chiesa e la cultura, con conseguenze immediate per il mondo dell'arte. Sono relazioni contrassegnate dall'amicizia, l'apertura e il dialogo". Con il Concilio si è passati dalla benevolenza paterna al dialogo fraterno.

Può fare qualche esempio di questo dialogo?

Padre Fagniez: In questo dialogo, la Chiesa non si accontenta di dare consigli. Nel 1964, Paolo VI fa un atto di penitenza nell'omelia della "Messa degli artisti" durante il Concilio: "Vi abbiamo recato offesa ricorrendo a dei falsi, all'opera a buon mercato". Saremmo più credibili non ricorrendo a oggetti o musica scadenti o inadatti alle nostre chiese. Con lo stesso spirito, il nuovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, ha dichiarato recentemente al quotidiano "La Croix" che "la Chiesa non deve più limitarsi a un recupero rischioso di stili antichi e a produzioni artigianali senza ambizione".

Lei ha appena detto che gli artisti non si interessano più alla religione. Ma da sempre degli artisti si interessano alla fede senza essere forzatamente credenti. E molti esprimono preoccupazioni umane fondamentali, come la vita e la morte, l'amore e l'odio, la comunione fra gli esseri umani e i poteri dello spirito, ecc. Le loro provocazioni e le loro bestemmie sono a volte perfino delle richieste di aiuto. E così nel 1980 Giovanni Paolo II ravvisa a Monaco l'ecce homo nell'arte moderna, il Cristo sofferente nell'uomo "spoglio da ogni ornamento e ogni trasfigurazione romantica, rappresentato, per così dire, in una nudità realista".

Esiste un'arte cristiana?

Padre Fagniez: "L'arte è di per sé sacra e religiosa", scriveva Pio XII. La Chiesa è quindi benevola verso ogni tipo di arte se è autentica. "Se siete amici dell'arte autentica, siete nostri amici!", dice il Concilio.

Ma esiste un modo cristiano di essere artisti, legato alla vita nello Spirito Santo, con la Fede, la Speranza e la Carità. Le opere di un Claudel o di un Beato Angelico o di un Bach, o più recentemente "L'isola", film di Pavel Lounguine, possiedono una luce che solo il Vangelo può dare. E vi è una forma particolare di arte, l'Arte Sacra, posta direttamente al servizio della liturgia. Tutti i Papi ascoltati nel mio libro danno all'arte in generale un valore quasi sacramentale, conferendo all'artista una dignità quasi sacerdotale (citazione di Beethoven in appoggio!). Ma l'arte raggiunge la sua realizzazione nell'Arte sacra che pone la Chiesa al vertice, poiché questa arte è comunicata da Dio.

Cosa può offrire la Chiesa agli artisti?

Padre Fagniez: Innanzitutto una risposta attraverso l'arte stessa: le opere indimenticabili del passato, il lavoro di qualità degli artisti cristiani di oggi, le commissioni delle chiese o di opere nuove, senza dimenticare la cura quotidiana alle nostre liturgie. E una risposta intellettuale: la riflessione biblica, filosofica e teologica. "La Chiesa è esperta in umanità" scrive Giovanni Paolo II quando crea il Pontificio Consiglio della cultura. La Chiesa, dedicando molto tempo ed energie al pensiero, scruta e osserva il mondo e non mancano i riflessi sull'arte al suo interno.

Vi è tuttavia una cosa che deploro, almeno nel mondo francofono, ed è la scarsezza, anzi l'assenza totale di riferimenti ai discorsi del Papa in questo settore. La mancanza di cultura o, al contrario, la frode elitaria di una certa arte contemporanea spiegano, a mio avviso, questa mancanza. Mi auguro che il mio libro stimoli l'interesse per questa ricca parola dei Papi agli artisti.

Cosa pensa del rapporto di Benedetto XVI con gli artisti?

Padre Fagniez: Benedetto XVI è un teologo abituato alle dispute intellettuali serrate ed è un pastore che si esprime con dolcezza.

Come pastore, non smette di andare incontro alle persone e in particolare agli artisti, con in più una credibilità d'artista perché è un pianista. Persegue il dialogo come emerso dal Vaticano II, e l'incontro di sabato prossimo non è il primo, anche se ha una portata particolare.

Come teologo, Benedetto XVI ha già stravolto il conformismo esasperato di una certa arte contemporanea nel suo discorso ai Bernardini a Parigi. Come tante persone che hanno ascoltato questo discorso, sono rimasto un po' sconcertato e sopraffatto dalla densità del contenuto.

Rileggendolo con calma, vi ho già scoperto una risposta alle grandi questioni contemporanee di cui gli artisti sono i portavoce: la tensione tra la soggettività e la ricerca di legami unificatori, il rapporto dell'uomo con il cosmo, gli approcci pluralistici alla realtà, l'intelligibilità e la comunicabilità degli esseri, il corpo e la storia, la ricerca interiore e la rappresentazione di me stesso... Di fronte a un ambiente culturale ossessionato dalla "decostruzione" e dalla "sovversione", Benedetto XVI scardina con pazienza questi nuovi conformismi affermando che c'è un Verità che unisce tutte le creature e che è accessibile nella storia attraverso la bellezza e la ragione.

Benedetto XVI, che si fa anche commentatore delle opere, come a Mariazell, in Austria, chiede che al di là delle forme ci si nutra del contenuto di "quest'arte miracolosa" ispirata dalla Chiesa. Questo contenuto è il Vangelo. Formarsi all'arte e formarsi all'incontro con Cristo sono aspetti inseparabili dopo l'incarnazione del Logos divino.

Il Vangelo può essere servito dagli artisti pagani come ha indicato Benedetto XVI a proposito delle tradizioni precolombiane in America o come ha manifestato nella sua visita ad Auschwitz citando l'Antigone di Sofocle, "Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare".
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Un'alleanza nuova


La vicinanza tra Chiesa e arte è antica. Quasi come la tradizione cristiana alla quale, però, le diverse espressioni artistiche sono storicamente legate più che non a qualsiasi altro mondo religioso. E tuttavia questa prossimità, maturata già nella tarda antichità, si è affievolita nel corso dell'Ottocento, fino a tramutarsi spesso in lontananza nel Novecento e più ancora oggi, quando la bellezza disinteressata "ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi", come notava Hans Urs von Balthasar citato da Benedetto XVI davanti agli artisti riuniti nella Cappella Sistina.
Là dove Paolo VI nel 1964 propose agli artisti di rilanciare un'alleanza che aveva lasciato frutti durevoli nel corso di quasi venti secoli, il suo attuale successore ha di nuovo invitato donne e uomini d'arte - di Paesi, culture e religioni diverse, "forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica" - all'amicizia, al dialogo, alla collaborazione. Rinnovando l'invito in un luogo carico di simboli come la Sistina, dove ha risuonato e di frequente risuona la musica al servizio della liturgia, cioè di Dio, la "fonte di ogni altra bellezza" intravista da sant'Agostino.
Sulle tracce del suo predecessore Giovanni Paolo II - "anch'egli artista" che agli artisti volle indirizzare un solenne documento papale - e con la stessa apertura mostrata da Paolo VI, senza nascondersi le attuali difficoltà, il Papa ha riproposto l'alleanza di un tempo:  "Noi abbiamo bisogno di voi", perché se "voi siete amici della vera arte, voi siete nostri amici". Parole contenute nel messaggio del concilio Vaticano II agli artisti. Sì, perché la bellezza, come la verità, infonde gioia nel cuore degli uomini. E dunque vale la pena un'alleanza tra i custodi della bellezza e quanti, nell'umile quotidianità, sono chiamati a testimoniare e a servire la verità.

g. m. v.


(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009)
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Il saluto dell'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura

Rimosse le macerie delle incomprensioni la "via pulchritudinis" è ancora aperta


All'inizio dell'udienza l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha rivolto al Papa un saluto.

Santità,
è arduo per me dare voce ora a questa folla di artisti provenienti da tutto il mondo, in rappresentanza anche di tanti altri loro colleghi. Un'emozione profonda percorre, infatti, l'animo di tutti davanti a questo grandioso e glorioso fondale michelangiolesco, simbolo supremo dell'incontro tra arte e fede, e di fronte al successore di Pietro che incarna la storia secolare della Chiesa. 

Quarantacinque anni fa, il 7 maggio 1964, in questa stessa straordinaria cornice, il Papa Paolo VI con un appassionato discorso si rivolgeva agli artisti, ricordando loro che la sfida ultima della creazione estetica è quella di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Nello stampo limitato della parola, della forma, dell'immagine, del suono, l'artista cerca, infatti, di far balenare l'infinito e l'eterno. Come affermava uno di loro, il catalano Joan Miró, l'arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile l'Invisibile, si affaccia sugli abissi dell'essere e dell'esistere, varca i confini dell'evidenza immediata per penetrare nelle regioni dell'assoluto e della trascendenza.

Dieci anni fa, Santità, il Suo venerato predecessore Giovanni Paolo II, il giorno di Pasqua del 1999, scriveva la sua Lettera agli artisti "per confermare a loro la stima ma anche per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa", così da rinverdire "quel fecondo colloquio che in duemila anni di storia non si è mai interrotto". Alle nostre spalle c'è, infatti, quell'immensa e mirabile eredità che faceva dire a Goethe:  "La lingua materna dell'Europa è il cristianesimo". Marc Chagall era convinto - come lei ha ricordato Santità lo scorso mercoledì - che per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che erano le pagine bibliche. Ma già nell'VIII secolo il cantore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, non aveva esitato a suggerire:  "Se un pagano viene e ti dice:  Mostrami la tua fede! tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri" (pg, 95, 325).

Questo vincolo così stretto, a partire dal secolo scorso, si è molto allentato. Da un lato, la riflessione spirituale non ha sempre seguito la via dell'"estetica teologica" e in ambito ecclesiale si è spesso ricorso al mero ricalco di stili e generi delle epoche precedenti; oppure non di rado ci si è adattati alla bruttezza che assedia le nuove città. D'altro lato però l'arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure di quel codice culturale che è stato per secoli la Bibbia. Si è spesso dedicata solo all'effimero e a esercizi stilistici sempre più provocatori e autoreferenziali e si è talora asservita a mode e a logiche di mercato.

Eppure c'è in tutti il desiderio di ritessere quel "fecondo colloquio". E gli artisti attendono ora che Lei, Santità, con le Sue parole pronunci la prima battuta di questo nuovo dialogo, nel quale - come Lei già affermava - si possono incrociare "estetica ed etica, bellezza, verità e bontà". Rimosse le macerie delle incomprensioni e delle distanze, la via pulchritudinis è ancora aperta sia davanti al credente sia all'artista. La meta da raggiungere è quella che delineava lo scrittore Hermann Hesse quando - nel suo saggio Klein und Wagner - offriva questa sorprendente definizione:  "Arte significa:  dentro a ogni cosa mostrare Dio", cioè l'Eterno e l'Infinito. È ciò che auspicava Giovanni Paolo II nella sua Lettera:  "L'arte contribuisca all'affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell'eterno". E ora, Santità, mentre La ringraziamo per il dono che ha voluto che, a Suo nome, io consegnassi a ciascun artista al termine di questo incontro, noi tutti La preghiamo di illuminarci su questo cammino di bellezza e di luce, con la Sua parola che ascolteremo con intensa simpatia e viva partecipazione.


(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009)
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21/11/2009 19:17



Un arrivederci che segna la storia tra arte e fede


Un lungo applauso al termine del discorso di Benedetto XVI è stata l'espressione più autentica dell'esperienza vissuta dai numerosi artisti che, nella Cappella Sistina, sabato mattina 21 novembre hanno incontrato il Papa. Duecentocinquanta circa tra pittori, scultori, architetti, cantanti, compositori, registi, attori, musicisti, ballerini provenienti da ogni parte del mondo si sono raccolti sotto lo sguardo dei personaggi del Giudizio Universale di Michelangelo per ascoltare il Pontefice. Si è rinnovato così quel colloquio amichevole tra i rappresentanti delle discipline artistiche e il Successore di Pietro, già avvenuto il 7 maggio 1964 con Paolo VI. E le parole del servo di Dio, fatte proprie da Benedetto XVI, sono risuonate ancora una volta come un invito al dialogo:  "Noi abbiamo bisogno di voi. Il nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione".

L'incontro odierno si è inserito dunque nella secolare tradizione di amicizia tra Chiesa, cultura e arte. Una composizione del maestro Giovanni Pierluigi da Palestrina, Domine, quando veneris, eseguita dalla Cappella musicale Pontificia Sistina, ha preceduto la lettura, da parte dell'attore e regista Sergio Castellitto, di alcuni brani della Lettera agli artisti, che Giovanni Paolo II indirizzò loro il 4 aprile 1999.
Anche nelle parole dell'arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, è risuonata l'eco della Lettera di Papa Wojtyla e si è rinnovato il ricordo dello storico incontro con Paolo VI.

Dopo il saluto rivoltogli da monsignor Ravasi, il Pontefice ha tenuto il suo discorso. La benedizione apostolica e l'esecuzione del Veni dilecte mi del Palestrina hanno concluso l'incontro.
Successivamente l'arcivescovo Ravasi ha consegnato, a nome del Papa, una medaglia ricordo a ogni partecipante. Molti gli artisti sfilati davanti al presidente del Pontificio Consiglio della Cultura:  da Claudio Baglioni a Vadim Ananiev, da Roberto Vecchioni ad Antonello Venditti, da Ennio Morricone a Riccardo Cocciante, da Andrea Bocelli a Raul Bova, e poi ancora Giuseppe Tornatore, Liliana Cavani, Marco Bellocchio, Mario Monicelli, Kryzstof Zanussi, Terence Hill, Irene Papas, Monica Guerritore, Arnoldo Foà, Franco Nero, Anna Proclemer, i fratelli Taviani e Pupi Avati, solo per citarne alcuni.

Tra i presenti erano i cardinali Giovanni Lajolo, Paul Poupard e Francesco Marchisano; gli arcivescovi Fernando Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, Mauro Piacenza, segretario della Congregazione per il Clero, Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali; padre Bernard Ardura, segretario del Pontificio Consiglio della Cultura, l'abate Michael John Zielinski, vice presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, e Francesco Buranelli, suo predecessore alla guida dei Musei Vaticani.
Il Papa era stato accompagnato dall'arcivescovo James Michael Harvey, prefetto della Casa Pontificia, dal vescovo Paolo De Nicolò, reggente, dai monsignori Georg Gänswein, segretario particolare del Papa, Alfred Xuereb della segreteria particolare, e Petar Rajic.

Dopo l'udienza, nei Musei Vaticani, l'arcivescovo Ravasi ha salutato i partecipanti all'incontro, sottolineando l'importanza della parola "Arrivederci" pronunciata dal Papa nel congedarsi, così come aveva fatto Paolo VI con i loro predecessori quarantacinque anni fa:  essa è "soprattutto un impegno per voi e per me". "Vedremo - ha aggiunto - di poter fare qualche altro incontro, magari ancora con il Papa". Ma - ha concluso l'arcivescovo - quell'"arrivederci" va inteso in particolare come l'inizio di un dialogo nuovo basato sulla fraternità tra fede e arte "che esiste non perché l'arte deve essere apologetica della fede, ma perché l'arte di sua natura tende a rompere lo schema piccolo e limitato attraverso degli stampi che sono finiti, e a rappresentare l'eterno e l'infinito. È per questo che da oggi in poi vorremmo rafforzare questa solidarietà tra noi, che cerchiamo il trascendente e lo chiamiamo con un nome, Dio, e voi che cercate il trascendente per un'altra via. Insieme potremmo forse fare qualcosa". Il presule ha poi annunciato, anche se in modo informale, la possibile presenza della Santa Sede con un suo padiglione alla Biennale di Venezia.


(©L'Osservatore Romano - 22 novembre 2009)
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