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UNA GIORNATA CON... PADRE ALDO TRENTO

Ultimo Aggiornamento: 12/09/2009 07:46
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12/09/2009 07:46

Tracce N.8, Settembre 2009

UNA GIORNATA CON... PADRE ALDO TRENTO
La cittadella della resurrezione
Roberto Fontolan

L’amicizia con don Giussani gli ha salvato la vita. Da allora si prende cura degli incurabili del Paraguay. Il silenzio all’alba, la casetta degli orfani, la gratitudine dei politici. E la pizzeria. Poi la vita in clinica, a fianco di chi ha i giorni contati. Abbiamo seguito il “prete dei guaranì” nel cuore della sua opera. Dove «riaccade il mistero che permette al mondo di andare avanti»

A San Rafael la vita comincia presto. Ancora nella luce diafana dell’alba si intravedono i passi svelti di chi inizia la giornata nella cappellina del Santissimo. Che in realtà è aperta sempre, giorno e notte. Il guardiano ha l’ordine di aprire il cancello esterno a chiunque voglia pregare. Anche alle tre del mattino. Padre Aldo ama questa stanza, una decina di sedie e un minuscolo altare, per il silenzio. Qui, nel pieno della sua solitudine («padre Alberto se ne era appena andato e io - io! - mi sono trovato parroco») “nominò” il Signore stesso parroco di San Rafael e se medesimo sacrestano; così come nella clinica è Lui il direttore e padre Aldo cappellano.
In certi lunedi, è un’automobile quella che si ferma davanti all’ingresso della parrocchia. Puntuale alle 6.30 il vicepresidente del Paraguay, Federico Franco, recita le Lodi assieme ai padri (oltre ad Aldo, Paolino Buscaroli e Ferdinando Dell’Amore, noto come Daf). Il vicepresidente è un grande amico di San Rafael. Prendendo un veloce caffè, prima di correre al palazzo della vicepresidenza nel centro di Asunción, commenta: «Questa parrocchia è la chiara dimostrazione di come in Paraguay, un Paese povero, si può assistere l’essere umano in un modo eccellente, di prim’ordine, e si può privilegiare la persona in qualsiasi situazione. La clinica come un hotel a cinque stelle, la scuola con docenti preparati. Gli abbandonati, i bambini della strada, gli anziani, i moribondi, gli ammalati che tutti gli ospedali rifiutano qui sono di casa. È il passaggio evangelico: gli ultimi saranno i primi. Gli ultimi tra i paraguayani sono i meglio assistiti a San Rafael, e questo si deve al temperamento, alla forza, all’affetto, al carisma di padre Aldo e di Comunione e Liberazione. Sappiate che oggi in Paraguay molta gente povera sorride e dice grazie per l’aiuto che riceve da voi dall’Italia».

«La spina dentro di me». Padre Aldo: «Per tanto tempo all’alba ho fatto almeno un’ora di silenzio. Volevo entrare nella giornata preparato agli attacchi di tutto ciò che mi vuole staccare da Lui. Le preoccupazioni e il calcolo sulle cose, sui progetti, i soldi, le persone. Insomma ogni giornata presenta occasioni per dire sì o per dire no. Io mi preparavo, lavoravo per il mio sì. Oggi devo fare più in fretta perché devo assolutamente dedicare mezz’ora alla ginnastica, magari una corsetta, a causa della mia salute; così uso questo tempo per recitare il Rosario, non posso iniziare la giornata senza contemplare quel vangelo dei poveri che è il Rosario. Non ho mai perso la certezza di Cristo. Tuttavia, dentro di me sento ancora una spina che ogni giorno mi accompagna, come scrive San Paolo, e se non avessi la preghiera e la forza dell’Altissimo non riuscirei ad andare avanti neanche un secondo».
Tra poco apre i battenti la scuola, che conta 250 bambini. Il secondo appuntamento nella giornata di padre Aldo è quello alla casetta di Betlemme, prima delle 8. Vestiti di blu, i bambini aspettano impettiti e allegri. La casita è nata per ospitare due orfani di una mamma morta nella clinica. Ora i bambini sono una ventina, affidati dal Tribunale, e curati da Cristina, che nella clinica ha perso due figlie per una malattia congenita gravissima. «Mi chiedeva perché, mi supplicava di darle una risposta - ricorda Aldo -, ho potuto dire solo che dovevamo stare insieme davanti a quei fatti: le sue figlie andate in cielo, degli orfani che restavano con noi sulla terra. Cristina, le ho detto, continua a essere madre».
Le preghiere e le voci dei bambini salgono dal cortile della parrocchia verso le stanze asettiche della clinica per malati terminali dedicata a San Riccardo Pampuri. È il cuore profondo e discreto di tutta la vita parrocchiale, è il termine di paragone per i sacerdoti, i volontari, i giovani, i fedeli, i catechisti. Dice l’infermiera Beatriz Gomez: «Se uno non ha Cristo nel suo cuore, è difficile che possa affrontare una realtà che molte volte è dura. Fa male vedere un bambino agonizzante o una persona come Marciana, che ha 21 anni e se ne sta andando (nel frattempo è morta; ndr). Come infermiera mi sento felice. Faccio il mio lavoro senza che nessuno mi obblighi, voglio che il mio paziente sia pulito, che stia bene, che sia in ordine, che sorrida. Ecco tutto».

Ogni capello è contato. Aggiunge il primario: «Per tanti medici avere un paziente malato terminale è un fallimento. Io non mi propongo di guarire le persone, so che questo non è possibile. Allora il mio obiettivo è che quella persona stia bene, che i sintomi siano controllati, che non abbia dolore, nausea, vomito. Questo posso farlo e mi dà felicità, gioia. La fede mi sostiene tanto. È importante anche quando parlo ai malati; la fede aiuta a vivere bene questi momenti di sofferenza, incertezza, paura di fronte alla morte».
Anche per Aldo la clinica è il centro di tutto: «Vedo nei malati non solo la condizione dell’uomo in sé, ma la bellezza della misericordia di Dio fatta carne in Cristo, misericordia che salva l’uomo e che mostra che tutto è positivo. Mi impressiona il modo stesso con cui Dio salva coloro a cui non importa nulla di Dio. Quando vedo i miei bambini incoscienti, ridotti allo stato vegetativo, capisco che loro sono il riaccadere del crocefisso e del calvario, e di quel mistero di morte e resurrezione che permette al mondo di andare avanti. La clinica mi prende tanto tempo e tanto cuore. Spesso ci sono riunioni, con i medici o le infermiere, o i volontari o il personale amministrativo. Oggi ad esempio c’è il comitato tecnico: settimana dopo settimana passiamo in rassegna ogni ammalato, per monitorarne i progressi e le difficoltà, nell’aspetto fisico e umano. Poi il direttivo della clinica nuova e la commissione edilizia per la costruzione in corso. L’anno prossimo dovremmo inaugurarla. L’edificio è quasi alla fine. Guarda la facciata, imita quella della Riduzione di Trinidad, ricordi? Gli angeli musicanti scolpiti sui muri della grande chiesa, la pietra rossa, bellissima, stagliata contro il cielo azzurro. Come sai, ho imparato moltissimo dai gesuiti e dalla loro politica culturale tutta orientata alla bellezza».
Nella vita dei padri il pomeriggio è dedicato «all’incontro con Cristo e alla nostra compagnia», dice padre Paolino: «Dall’una alle quattro e mezza e tutto il lunedì. So che dal punto di vista dell’efficienza sembriamo più passivi che attivi, ma ne abbiamo bisogno, un bisogno profondissimo». Aldo aggiunge: «Ho sperimentato il buio, la tristezza, il dolore e l’angoscia. Certe volte anche una mosca mi fa male. Se non fosse per la certezza di essere amato da Cristo e posseduto da Dio, e di avere accanto la compagnia di Paolino e Daf, sentirei proprio di non farcela. Tutti gli istanti devo dire a Dio “sei Tu che mi fai, anche i capelli del mio capo sono contati”, altrimenti farei fatica a resistere e ad affrontare tutto. È il dramma, dentro e fuori di noi: da un lato assisti alla nascita di realtà positive; dall’altra, ti rendi conto che il positivo nasce lottando con la fatica, l’incomprensione e a volte anche con il pregiudizio».
Un caffé o un cappuccino al Caffè letterario Van Gogh introduce il pomeriggio. Il locale è in una baita dolomitica di grandi tronchi. Adornata di libri e cd, è il punto di riferimento per tanti dibattiti e appuntamenti culturali. E anche della piccola redazione dell’Observador, il settimanale curato qui a San Rafael e allegato al quotidiano nazionale La Ultima Hora: un giornale battagliero e pedagogico, noto in tutto il Paraguay per l’originalità delle sue posizioni. Natalia, Guillermo, padre Paolino ne costituiscono il nucleo ideativo. La vita della parrocchia, e spessissimo della clinica con tutta l’esperienza del dolore che viene raccontata e approfondita, si trasfonde negli eventi nazionali e internazionali, nella realtà della Chiesa, nei grandi interventi del Papa. Nell’ultimo anno molti articoli sono stati dedicati a Marcos e Cleuza Zerbini. «Ci siamo conosciuti nel novembre del 2008 - racconta Aldo sfogliando la raccolta - e da allora siamo inseparabili, anche se viviamo lontano. Ci uniscono due cose: l’amore per la realtà e per l’uomo che nasce dalla passione per Cristo, e l’amicizia e la volontà di prendere sul serio tutto ciò che Carrón ci dice attraverso un lavoro personale e un lavoro tra di noi. Ci ha colpito la sua affermazione: manca l’umano. Credo che la debolezza del cristianesimo sia fotografata da questa frase. Si guarda a Cristo prescindendo dall’uomo. Questo lo vedo in America Latina, dove è dominante il moralismo, e anche in Europa. Ma ciò che ha caratterizzato il cristianesimo sin dall’inizio è la passione per l’uomo. Ed è ciò che motiva il rapporto tra me, Marcos, Cleuza e gli altri: la passione che abbiamo per l’uomo, nel nostro caso l’uomo povero e sofferente, ci porta a desiderare che Cristo sia tutto».
Da tempo la parrocchia è diventata un viavai di visitatori da ogni parte. Apprendisti nella clinica, politici nazionali, universitari. Il desiderio è conoscere e vivere l’esperienza della parrocchia, a volte per lenire un certo dolore, un certo malessere. Qui incontri sempre qualcuno che ti vuol bene, non sei mai lasciato solo. Da quando è intervenuto al Meeting dell’anno scorso, padre Aldo ha ricevuto più di seimila email. «Rispondo come posso, una quindicina al giorno. Tutti chiedono un aiuto. Penso che vedano in me una persona che ha sofferto, che non ha negato la sofferenza, che non l’ha chiusa in sé o se ne è vergognato. Qual è il senso della vita, come posso dire che una crisi è una cosa buona, che la depressione è una grazia, perché c’è tanto dolore, come è possibile vivere la fedeltà e come perdonare il male dell’altro… Sono i temi del cuore, i temi dell’uomo. Nonostante tutti i preti e gli esperti che ci sono in giro, mi rendo conto che l’uomo di oggi è veramente solo nel suo problema esistenziale, e che proclamarsi cristiano non basta a risolverlo. Io ho avuto la grazia di vedere come don Giussani viveva intensamente e stupendamente ogni avvenimento della vita. È stato il mio sostegno».

La sfida di ’O sole mio. La sera a cena è molto facile incontrare i sacerdoti di San Rafael alla pizzeria ’O sole mio, creata nella parrocchia per dare lavoro a dei giovani e produrre qualche utile. Ci vanno con i bambini orfani o con i malati della clinica che ce la fanno (oltre che naturalmente con visitatori e parrocchiani). Una festa per tutti loro, una sfida per tutti gli altri clienti.
E il futuro della parrocchia? «Quest’opera dipende interamente da Dio che l’ha voluta e continua a mantenerla in vita. Se Lui ne vede l’utilità la porterà avanti, la gente capace di farlo c’è. Persone in grado di mendicare realmente Cristo e di consegnarsi virtuosamente a Lui. Certo, se qui non ci sarà una persona innamorata di Cristo, Lui non scenderà di persona dal Paradiso per portare avanti la parrocchia. Noi padri ben sappiamo che quest’opera è nata dalla fede, quindi è solo la mancanza di fede che può distruggerla». Aldo chiude in fretta il discorso, ora arriva per lui il momento più bello della giornata: correre alla casita per dare la buonanotte ai bambini.
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