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GRAVISSIMO APPELLO DEL PATRIARCA DI GERISALEMME fate conoscere

Ultimo Aggiornamento: 18/12/2009 06:24
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18/09/2009 23:07

Riporto questa AGGHIACCIANTE notizia (seppur non nuova) dal blog di Padre Giovanni Scalese


Che ne sarà dei cristiani di Terra Santa?

L’altro giorno l’agenzia ZENIT ha riferito del discorso pronunciato dal Patriarca latino di Gerusalemme (a proposito: come mai i Patriarchi latini di Gerusalemme non diventano mai Cardinali? La Chiesa-madre della cristianità non merita forse una porpora?), Mons. Fouad Twal, l’8 settembre scorso a Londra nella Cattedrale di Westminster. Non mi pare che tale intervento abbia avuto la risonanza che avrebbe meritato. Pertanto mi permetto di farvi eco, nel mio piccolo, perché non voglio, come ho già ripetuto altre volte, che qualcuno possa dire un giorno: “Non sapevamo...”.

Il Patriarca ha, innanzi tutto, lanciato un grido di allarme circa il futuro della Chiesa in Terra Santa:


«Il Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, ha avvertito che il futuro della Chiesa in Terra Santa è a rischio. Per questo motivo, ha chiesto ai cristiani di tutto il mondo di unire i propri sforzi per aiutare i fedeli della terra di Gesú.

[...] Il Patriarca ha sottolineato che l’emigrazione ha ridotto drasticamente il numero dei cristiani sia in Israele che in Palestina. Secondo il presule, ricorda l’associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), che ha organizzato l’incontro londinese, si pensa che i fedeli di Gerusalemme diminuiranno dai 10.000 attuali a poco piú di 5.000 nel 2016. In tutta la Terra Santa, ha aggiunto, i cristiani sono scesi dal 10 al 2% in 60 anni, anche se altre prove mostrano che il declino potrebbe essere superiore».


Si noti che “in 60 anni” significa: “dalla creazione dello Stato di Israele” (1948). Se le statistiche hanno un senso, le conclusioni dovrebbero essere ovvie.

Mons. Twal ha quindi descritto la reale situazione dei cristiani e delle altre minoranze in Terra Santa:

«Il Patriarca ha confessato che fino ad ora il pellegrinaggio svolto da Benedetto XVI in Terra Santa a maggio non ha portato a una minore oppressione delle minoranze e che “la continua discriminazione in Israele minaccia sia i cristiani che i musulmani”.

“Tra la limitazione degli spostamenti e la noncuranza per le necessità abitative, le tasse e la violazione dei diritti di residenza, i cristiani palestinesi non sanno da che parte voltarsi”.



Il Patriarca Twal ha condannato in particolare il muro eretto da Israele intorno alla West Bank, affermando che oltre a ostacolare la libertà di movimento “ha chiuso molti palestinesi in zone-ghetto in cui l’accesso al lavoro, all’assistenza medica, all’istruzione e ad altri servizi di base è stato gravemente compromesso”.

“Abbiamo una nuova generazione di cristiani che non può visitare i Luoghi Santi della sua fede anche se distano solo pochi chilometri dal luogo in cui risiede”, ha denunciato. [...]

Nei Territori Occupati, ha aggiunto, la gente “è completamente alla mercé dell’Esercito israeliano, e al momento la Striscia di Gaza vive sotto un assedio imposto da Israele, che ha provocato una drammatica crisi umanitaria”».


C’era qualcuno che si era illuso che la visita del Papa in Terra Santa avrebbe cambiato qualcosa? Basta vedere che cosa stanno facendo in questi giorni gli israeliani con gli insediamenti: bloccarli — ha detto Netanyahu — sarebbe contro la pace!!!

Mons. Twal ha infine fatto una amara riflessione che tutti faremmo bene a fare insieme con lui:

«Se in 61 anni non siamo riusciti a ottenere la pace, vuol dire che i metodi che abbiamo usato erano sbagliati».


(tremenda affermazione!!! )

Penso proprio che il Patriarca abbia ragione: i metodi finora usati — non solo dai poveri cristiani di Terra Santa, ma dalla Chiesa intera e dalla fantomatica “comunità internazionale” — erano sbagliati. Che significa?
Significa che bisogna cambiare politica nei confronti dello Stato di Israele.
Non è possibile continuare a seguire una politica di formale “equidistanza”, che di fatto si risolve in un sostegno incondizionato per Israele a danno dei palestinesi.
Non è possibile continuare a riaffermare il “sacrosanto diritto di Israele all’esistenza” e il (non altrettanto sacrosanto) “diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato”. Sono chiacchiere. È giunta l’ora di prendere una posizione netta a favore degli oppressi contro l’oppressore.
Anche perché Israele approfitta della timidezza della Chiesa e della comunità internazionale (che tiene sotto ricatto con l’arma dell’antisemitismo) per fare i propri comodi.

Personalmente sono convinto che, se tutti avessero un po’ piú di coraggio, Israele non potrebbe permettersi di fare quello che sta facendo. Ma — argomentano i pusillanimi — Israele è una potenza nucleare; potrebbe distruggerci tutti in un batter d’occhio. Per me, è solo un gigante dai piedi di argilla. Quando ero giovane, esisteva l’Unione Sovietica: sembrava una superpotenza invincibile, che terrorizzava i popoli con le sue armi. A Roma aspettavamo, da un giorno all’altro, che i cosacchi si accampassero in Piazza San Pietro. Li stiamo ancora aspettando. Dov’è finita nel frattempo l’Unione Sovietica? È finita nel nulla, dalla sera alla mattina.

Prima o poi, se Israele continuerà con la sua politica criminale, farà la stessa fine; e i suoi abitanti se ne fuggiranno uno a uno all’estero, dove hanno una seconda cittadinanza. Il bello sarà, a quel punto, che tutti se ne laveranno le mani, e l'unica su cui ricadranno tutte le colpe sarà, come al solito, la Chiesa cattolica, che verrà accusata di aver sostenuto il regime israeliano.

Quanto ci volete scommettere?


**********************************

Caro Padre Giovanni ti anticipo la mia solidarietà perchè questa volta, il tuo scrivere "SENZA PELI SULLA LINGUA" ti potrebbe creare molto dolore e molta sofferenza per le grandi verità che hai scritto seppure TUTTI le conoscono ma parlarne E' TABU'.......non voglio scommetterci nulla, prego anche che le profezie di non pochi PADRI DELLA CHIESA sul futuro degli Ebrei in materia di fede, non si avverino....perchè se così fosse, quanto detto dal Patriarca è solo l'inizio dei dolori....ma "qualcuno" ammonì contro i "profeti di sventura"....proprio nel discorso di apertura del Concilio e per le cui parole rispose il card. Biffi nel suo libro: memorie di un cardinale italiano:

C’era, per esempio, il giudizio di riprovazione sui "profeti di sventura".

L’espressione divenne e rimase popolarissima ed è naturale: la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici a chi avanza timori e riserve. E anch’io ammiravo qui il coraggio e lo slancio, negli ultimi anni della sua vita, di questo “giovane” successore di Pietro.

Ma ricordo che una perplessità mi prese però quasi sùbito. Nella storia della Rivelazione, annunziatori anche di castighi e calamità furono solitamente i veri profeti, quali adesempio Isaia (capitolo 24), Geremia (capitolo 4), Ezechiele (capitoli 4-11).

Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i “profeti di sventura”: le notizie di futuri successi e di prossime gioie non riguardano di norma l’esistenza di quaggiù, bensì la “vita eterna” e il “Regno dei Cieli”.

A proclamare di solito l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti (si veda il capitolo 13 del Libro di Ezechiele).

La frase di Giovanni XXIII si spiega col suo stato d’animo del momento, ma non va assolutizzata. Al contrario, sarà bene ascoltare anche quelli che hanno qualche ragione di mettere all’erta i fratelli, preparandoli alle possibili prove, e coloro che ritengono opportuni gli inviti alla prudenza e alla vigilanza.






O Maria, regna sull'universo! Sovrana del cielo e della terra, venga il tuo regno per affrettare la venuta del regno di Gesu'. O Maria, impadronisciti di tutti i cuori!
O Maria, apri gli occhi al mondo! Riconoscano tutti finalmente la Regalita' universale del tuo divin Figlio e la tua.
O Maria, fa' che tutta l'umanita' si immerga con amore nel Cuore Sacratissimo di Gesu' e nel tuo Cuore Immacolato. Si', bisogna che tutti i cuori s'infiammino all'amore di Dio! O Cuore Immacolato di Maria, salva il mondo!
Amen. Ave Maria!


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19/09/2009 07:07

Qualcuno, non ricordo chi, disse che che Israele è l'orologio del mondo, in effetti condivido questa espressione, dato anche dal fatto che Israele con la sua futura conversione, in base alle parole dell'apostolo Paolo, inizierà l'era finale della storia dell'umanità....

Direi che nelle parole di padre Giovanni ci siano troppe esagerazioni, paragonare Israele con l'URSS mi sembra un tantino esagerato....
A livello legislativo in Israele non c'è alcuna restrizione sulla libertà religiosa, questa restrizione è dovuta a un fondamentalismo insito negli Ebrei ortodossi e a remote questioni del passato con il popolo cristiano.
Certo ci aspetteremmo che da un popolo che decanta la propria libertà religiosa e sociale avvennisse che anche loro in coerenza alle proprie richieste adempino verso gli altri questa libertà.
Che i cristiani in medio oriente, compreso in Palestina (mica i musulmani li trattano meglio!), soffrono è un dato di fatto che tutti ignoriamo, in primis le gerarchie ecclesiastiche che sembrano tenere più conto verso a fare dei concordati con il governo israelita, concordati di livello economico, concordati giusti, ma questi dovrebbero venire in secondo piano nei confronti del popolo cattolico che soffere tanto a causa della sua fede CATTOLICA.
Ha ragione padre Giovanni a criticare questa tiepidezza in seno alla Chiesa, guardiamo come la comunità ebraica reagisce quando viene "attaccata", all'unisono alzano la voce per difendere i propri diritti, ed essi sono pur sempre una comunità numericamente più piccola al confronto dei musulmani e dei cristiani.
La Chiesa, intesa non solo come gerarchia ma come popolo di Dio, dovrebbe fare lo stesso, credo che nel mondo, non solo in Israele, molte cose cambierebbero, ma se già, sia noi cattolicia, sia le comunità internazionali, snobbano le persecuzioni in Asia e in alcuni paesi islamici, come possiamo pensare che, queste comunità redarguiscono Israele, l'unico paese amico dell'Occidente in medio oriente?

Ancora più pesanti sono gli ostracismi nei confronti di chi Ebreo diviene cristiano, questi vengono totalmente esclusi dalla comunità sociale, ma a differenza di molti paesi islamici, l'esclusione non avviene appoggiata dalla Legge e dalle autorità, ma dalla società, così da poter negare a livello governativo delle azioni di violazione dei diritti fondamentali dell'uomo.

Sullo stato palestinese, beh il discorso è molto lungo e direi che ci sono parecchie domande che bisogna porsi su questa questione come ad esempio; come mai i palestinesi non si trovano nel Cisgiordania, zona geografica che fu destinata a loro nei trattati internazionale e che il governo Giordano non permise loro di arrivarci lasciandoli in Palestina?
Come mai gli aiuti umanitari ai palestinesi sono per la quasi totalità opera dell'Occidente, compreso Israele, e solo raramente arrivano aiuti dalla Lega Araba, loro confratelli, mentre in compenso pretendono che la Palestina sia uno stato?
I palestinesi, lo dico per provocazione, non saranno stati messi li come strumento anti-israelita?

In definitiva, ma tutto ciò, può distogliere noi cristiani dal curare e difendere i diritti dei nostri fratelli in medio oriente?

Io direi di no! 
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05/11/2009 09:47

Israele pone problemi ai visti di sacerdoti e religiosi


Denuncia del Nunzio Apostolico e del Custode di Terra Santa


CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 4 novembre 2009 (ZENIT.org).-
 
Vari esponenti della Chiesa cattolica in Terra Santa hanno denunciato i nuovi problemi che il Governo di Israele sta ponendo alla consegna di visti per sacerdoti e religiosi.

Come hanno confermato il Nunzio Apostolico in Israele, l'Arcivescovo Antonio Franco, e il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa OFM, le difficoltà sono poste dal Ministero dell'Interno da quando è passato sotto il controllo di Eli Yishai, leader del partito religioso Shas.

“Ci sono delle difficoltà che cercheremo di superare”, ha spiegato monsignor Franco, che è anche delegato apostolico per Gerusalemme e la Palestina, in alcune dichiarazioni al servizio di informazione religiosa della Conferenza Episcopale Italiana, SIR.

“Se prima i visti rilasciati, anche ad europei, avevano la durata di due anni, adesso hanno validità di un solo anno”, ha avvertito il presule, riconoscendo che queste restrizioni potrebbero causare problemi allo svolgimento del lavoro di pastorale ordinaria della Chiesa.

In passato si era verificato addirittura un blocco dei visti e alla guida del Ministero degli Interni c’era il partito religioso Shas, come adesso.

“E’ un dato di fatto – afferma il Nunzio –. Ora dobbiamo chiederci il perché di queste restrizioni e cosa si può fare per ritornare alla prassi precedente, più aperta”.

Il problema è sorto mentre procedevano positivamente i negoziati della Commissione bilaterale tra la Santa Sede e Israele per l'applicazione dell'Accordo Fondamentale (Fundamental Agreement), firmato nel 1993, che ha permesso di intavolare relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Israele.I negoziatori stanno analizzando l'Accordo Economico, con il quale si regoleranno il regime fiscale e le proprietà della Chiesa.

L'ultimo incontro della Commissione bilaterale ha avuto luogo il 29 ottobre. E' stato deciso un incontro plenario per il 10 dicembre in Vaticano, in cui la delegazione vaticana sarà guidata dal nuovo Sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, monsignor Ettore Balestrero.

Monsignor Franco ha spiegato che “il negoziato in corso tra Israele e Santa Sede sull’Accordo Fondamentale non è sui visti ai religiosi. Questa è una materia che dovremo trattare per verificare se si può arrivare a qualcosa di meglio, ma fino ad oggi non vediamo niente”.

“L’atmosfera è quella di lavoro in salita”, riconosce.

Padre Pierbattista Pizzaballa ha confermato in alcune dichiarazioni al SIR che “i problemi ci sono e sono oggettivi, risalgono a prima di Shas anche se con Shas sono diventati più evidenti”.

“È un problema vecchio, se ne parla da molto tempo. E’ da più di un anno, ormai, che la durata dei visti è passata da due anni ad uno. E’ difficile parlare di questa situazione poiché alcuni visti vengono concessi, altri no o restano in attesa. C’è un po’ di confusione: non si sa se dipende da una politica ministeriale o dalla burocrazia di alcuni funzionari. Forse è una ambiguità lasciata volutamente così”.

Sta di fatto che, spiega Pizzaballa, “è molto difficile per le Chiese programmare il proprio lavoro se non si sa con certezza se i religiosi, i sacerdoti arriveranno o meno”. Nel caso della Custodia, aggiunge il frate francescano, “quest’anno abbiamo avuto visti concessi a religiosi provenienti dai Paesi arabi ma non dall’Africa. Due frati dal Congo non hanno avuto il visto. In passato accadeva il contrario. Viviamo, dunque, nell’incertezza, la burocrazia è diventata più complicata”.

Arieh Cohen ha spiegato all'agenzia cattolica AsiaNews.it che “ciò che è in gioco è il carattere internazionale della presenza della Chiesa cattolica nella Terra Santa. Come Roma, anche la Terra Santa è un luogo dove appare evidente l’universalità della Chiesa cattolica”.

“Se a seminaristi, preti, religiosi da tutto il mondo si rende impossibile il lavoro, la preghiera, la pastorale in Terra Santa, in pratica si minaccia questo carattere specifico (universalità) della presenza della Chiesa nella terra del Redentore”.

Il frate francescano p. David Maria A. Jaeger, noto esperto nelle relazioni Chiesa-Stato in Israele, ha riferito ad AsiaNews che “lo Stato di Israele può in buona fede rifiutare il permesso di entrata a individui che potrebbero mettere a rischio la sicurezza pubblica; ma d’altro canto, lo Stato non può sostituirsi al giudizio della Chiesa per ciò che riguarda il personale che essa voglia ‘dispiegare’ in Israele per le sue istituzioni e per i suoi scopi, da qualunque parte del mondo essi vengano”.

“Ho fiducia che la chiave per la soluzione di ogni difficoltà su questo punto sta proprio nell’Accordo Fondamentale del 1993”, ha sottolineato come giurista.
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19/11/2009 11:26

In Terra Santa un Centro cristiano aiuterà a costruire il futuro

Iniziativa congiunta delle comunità cristiane della zona


ROMA, martedì, 17 novembre 2009 (ZENIT.org).-
 
Per guarire le ferite generate dalla divisione religiosa in Terra Santa e fermare l'esodo dei cristiani dalla regione, si è pensato di creare il Centro Pastorale Diocesano Maronita del Buon Pastore, un edificio di quattro piani in costruzione sul Monte Carmelo, nel nord di Israele.

Il Centro, che ospiterà ritiri, conferenze, servizi di assistenza e riunioni per i giovani di varie religioni, dovrebbe essere inaugurato alla fine del 2011.

Parlando all'associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), l'Arcivescovo maronita Paul Sayah di Haifa e della Terra Santa ha affermato che l'obiettivo principale del progetto è aiutare a rinnovare la fiducia dei maroniti e degli altri cristiani dissuadendoli dall'emigrazione.Il presule ha descritto il Centro come “la spina dorsale della nostra infrastruttura pastorale” e ha aggiunto: “Abbiamo sperimentato nel corso degli anni che molti cristiani vogliono andarsene. Sentono di non essere valorizzati”.

“Dobbiamo essere certi che sentano di avere un ruolo da giocare e le opportunità di ottenere una formazione educativa e spirituale. Il Centro del Buon Pastore mira proprio a questo”.

Il complesso, ha rivelato l'Arcivescovo, ha ricevuto un forte sostegno da parte dei drusi, un gruppo religioso derivato dall'islam che rappresenta la maggior parte della poplazione di Isfya, il villaggio in cui è in costruzione. Molti leader drusi della zona hanno anche firmato un documento per supportare il progetto.In questo contesto, l'iniziativa vuole anche promuovere le relazioni tra drusi e cristiani, che hanno raggiunto un nuovo punto di crisi nel febbraio 2005 a Mughar, sempre nel nord di Israele, quando una disputa nella città ha portato i drusi a una reazione violenta che ha costretto metà della poplazione cristiana a fuggire per salvarsi la vita. Da allora molti sono tornati, ma i problemi permangono.

Secondo l'Arcivescovo Sayah, è importante soprattutto far capire ai cristiani che hanno un grande valore.

“Non serve limitarsi a predicare alla nostra comunità cristiana”, ha riconosciuto. “Dobbiamo educare e sviluppare le persone perché possano avere buoni rapporti con i membri di altre religioni. In caso contrario, la nostra comunità non sopravviverà”.

Il progetto del Centro, che ha già ricevuto da Aiuto alla Chiesa che Soffre 15.000 euro, somma alla quale dovrebbero aggiungersi ulteriori sovvenzioni, avrà due dormitori, stanze per i supervisori, refettorio, cappella, sala conferenze, stanze per l'assistenza e un appartamento per il Vescovo.

“Stiamo mantenendo i costi al livello più basso possibile”, ha detto l'Arcivescovo, ricordando che finora le spese non arrivano a due milioni di dollari. Per questo, si stanno coinvolgendo le comunità locali, ottenendo il doppio vantaggio di disporre di manodopera più economica di quella esterna e di creare posti di lavoro, “generando sostegno da parte delle stesse persone che il Centro vuole aiutare”.

I maroniti sono una delle più piccole comunità cattoliche della regione. Secondo dati diffusi nel maggio scorso dall'Arcivescovo Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, i cristiani in Palestina non arrivano oggi a 50.000.
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20/11/2009 11:05

Le storie mai raccontate dei martiri di Israele

Per la prima volta, in un libro, i ritratti delle vittime dell'odio islamista. Giovani e vecchi, uomini e donne. Abbattuti sull'autobus, al bar, al mercato. Uccisi per la sola "colpa" di essere ebrei

di Sandro Magister




ROMA, 7 novembre 2009 – Oggi gli ebrei di tutto il mondo commemorano i loro martiri della "notte dei cristalli", cioè le vittime del pogrom nazista della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, in Germania.

Di quel massacro e poi del tremendo successivo sterminio degli ebrei ad opera del Terzo Reich oggi si fa universale e penitenziale memoria.

Non accade invece lo stesso, in Europa e in Occidente, per le numerose altre vittime ebree che cadono da anni in Israele, abbattute dal terrorismo musulmano.

Ogni volta che qualcuno di loro viene ucciso, entra nelle notizie e presto ne esce. Finisce sommerso nell'indistinto della "questione palestinese", letta da molti come prodotto della "colpa" di Israele.

Intanto, una famiglia israeliana su trecento è stata già colpita da un attentato. Le azioni terroristiche si contano a migliaia. Gli attentati suicidi andati a bersaglio sono più di 150 e per ogni attentato eseguito la polizia israeliana calcola di averne prevenuti altri nove. A tutt'oggi, il totale dei morti è di 1723, di cui 378 donne. I feriti sono più di diecimila.

Alla distrazione dell'occhio occidentale e cristiano di fronte a questo stillicidio di vittime, colpite sistematicamente nel tran tran quotidiano, sugli autobus, nelle caffetterie, nei mercati, in casa, reagisce un libro che per la prima volta racconta le loro storie. Ci dice finalmente chi sono.

Il libro è uscito da un mese in Italia e presto sarà tradotto a New York e Londra. Ha per titolo "Non smetteremo di danzare". E per sottotitolo: "Le storie mai raccontate dei martiri di Israele".

L'autore, Giulio Meotti, è già noto ai lettori di www.chiesa per due suoi reportage che hanno avuto grande risonanza: sulla città più islamizzata d'Europa, Rotterdam, e sui "giovani delle colline", i coloni israeliani dell'ultima generazione.

Questo suo ultimo libro si apre con una prefazione del filosofo inglese Roger Scruton e con una lettera di Robert Redeker, lo scrittore francese che vive in una località segreta da quando è stato minacciato di morte da islamisti fanatici.

Ecco qui di seguito un estratto del primo capitolo.

__________
 


I sommersi di Israele

di Giulio Meotti

Da "Non smetteremo di danzare", pp. 26-36



Perché questo libro? Perché non vi era neppure una storia dei morti d’Israele. È stato scritto senza alcun pregiudizio contro i palestinesi, è un racconto mosso dall’amore per un grande popolo e la sua meravigliosa e tragica avventura nel cuore del Medio Oriente e lungo tutto il XX secolo. Ogni progetto di sterminio di una intera classe di esseri umani, da Srebrenica al Ruanda, ha avuto la sua migliore narrativa. A Israele non sembra concesso, dalla storia si è sempre dovuto lavare via in fretta il sangue degli ebrei. Ebrei uccisi perché ebrei e le cui storie sono state ingoiate nella disgustosa e amorale equivalenza fra israeliani e palestinesi, che non spiega nulla di quel conflitto e anzi lo ottunde fino ad annullarlo. Il libro vuole salvare dall’oblio questo immenso giacimento di dolore, suscitando rispetto per i morti e amore per i vivi. [...]

Il più bel regalo, in questi quattro anni di ricerche, me lo hanno fatto gli israeliani che hanno aperto il loro mondo martoriato alla mia richiesta di aiuto, sono rimasti nudi con il proprio dolore. Ero io a bussare alla loro porta, un estraneo, un non ebreo, uno straniero. Ma mi hanno teso tutti una mano e parlato dei loro cari per la prima volta. [...]

Ho deciso di raccontare alcune grandi storie israeliane vivificate  dall’idealismo, dal dolore, dal sacrificio, dal caso, dall’amore, dalla paura, dalla fede, dalla libertà. E dalla speranza che, nonostante tutto questo silenzio, Israele alla fine vinca. [...] Ci sono persone incredibili come l’ostetrica Tzofia, che ha perso il padre rabbino, la madre e un fratellino, ma oggi aiuta le donne arabe a far nascere i loro bambini. [...] C’è il copista di Torah, Yitro, che si convertì all’ebraismo e il cui figlio è stato rapito e giustiziato da Hamas. C’è Elisheva, proveniente da una famiglia di pionieri agricoltori che ha perso tutti ad Auschwitz e una figlia incinta al nono mese per mano di terroristi spietati, perché "voleva vivere l’ideale ebraico". [...] A Tzipi hanno pugnalato a morte il padre rabbino e dove un tempo c’era la sua stanza da letto oggi sorge un’importante scuola religiosa. Ruti e David hanno perso rispettivamente il marito e il fratello, un grande medico umanista che si prendeva cura di tutti, arabi ed ebrei. C’è il rabbino Elyashiv, a cui hanno strappato un figlio seminarista ma che continua a credere che "nella vita tutto rafforza il forte e indebolisce il debole". Poi c’è Sheila, che parla sempre dell’arrivo del Messia e di come suo marito si prendeva cura dei bambini Down. Menashe ha perso il padre, la madre, il fratello e il nonno in una notte di terrore, ma continua a credere nel diritto di vivere dove Abramo piantò la tenda. [...] Elaine ha perso un figlio durante la cena di shabath e per oltre un anno non ha cucinato o emesso suoni. Ci sono gli amici di Ro’i Klein, scudo umano che saltò su una mina recitando lo Shema’ Israel e salvando la vita dei compagni di brigata. Yehudit ha perso la figlia troppo presto, al ritorno da un matrimonio assieme al marito. Anche a Uri, che ha fatto alyah dalla Francia, hanno portato via la figlia, volontaria fra i poveri.

Orly ha vissuto felice in un caravan, ma suo figlio non fece in tempo a rimettersi in testa la kippah prima di essere ucciso. C’è Tehila, una di quelle donne timorate ma moderne che popolano gli insediamenti, moglie di un idealista che "viveva la terra", amava i ciuffi rosa e celesti dei fiori della Samaria. [...]. C’è anche il meraviglioso Yossi, suo figlio ha sacrificato la propria vita per salvare quella degli amici e ogni venerdì andava a distribuire doni religiosi ai passanti. Rina aveva creato una perla nel deserto egiziano, si credeva una pioniera e si è vista portare via un figlio con la moglie incinta. [...] C’è Chaya, che ha abbracciato il giudaismo assieme al marito, la conversione per loro "era come sposarsi con Dio". [...] Tutte queste storie ci raccontano di questo Stato unico al mondo, nato da un’ideologia laica ottocentesca come il sionismo, che sulle ceneri dell’Olocausto radunò sulla sua terra d’origine un popolo esiliato duemila anni prima e sterminato per più della metà. Storie che ci dicono del coraggio, della disperazione, della fede, della difesa della propria casa cercando, anche se a volte si sbaglia, di mantenere la "purezza delle armi" nell’unico esercito che consente di disubbidire a un ordine disumano. [...]

La storia di queste vittime ebree non è soltanto una storia di eroi. È quasi sempre gente indifesa. [...] Il Centro di Studi Antiterrorismo di Herzliya, il più importante istituto di analisi in Israele, ha calcolato che soltanto il 25 per cento delle vittime israeliane erano militari. La maggioranza erano e sono ebrei in abiti civili. Fra gli israeliani, le donne costituiscono il 40 per cento delle vittime totali. Gli europei credono che Israele sia il soggetto forte, la patria e la guarnigione in armi che ha dalla sua il controllo del territorio, la tecnologia, i soldi, il sapere consolidato, la capacità di usare la forza, l’amicizia e l’alleanza con gli Stati Uniti. E che contro di esso si erga la struggente debolezza di un popolo che rivendica i suoi diritti, disposto al martirio per ottenerli. Ma non è così. Le storie di questi nuovi "sommersi" lo dimostrano.

Gli israeliani hanno dimostrato di amare la vita più di quanto temano la morte. I terroristi hanno ucciso centinaia fra insegnanti e studenti, ma le scuole non hanno mai chiuso. Hanno ucciso medici e pazienti, ma gli ospedali hanno sempre funzionato. Hanno massacrato esercito e polizia, ma la lista di chi si offre volontario non è mai diminuita. Hanno preso a fucilate i bus di fedeli, ma i pellegrini continuano ad arrivare in Giudea e Samaria. Hanno fatto stragi nei matrimoni e costretto le giovani coppie a sposarsi nei bunker sotto terra. Ma la vita ha sempre vinto sulla morte. Come quando, alla festa notturna al Sea Market Restaurant di Tel Aviv, Irit Rahamim festeggiava l’addio al celibato. Quando il terrorista comincia a sparare e a lanciare granate sulla folla, Irit si butta a terra, e sdraiata sotto il tavolo chiama il futuro marito e gli dice che lo ama. Fra le urla. E la morte.

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Il libro:

Giulio Meotti, "Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele", Lindau, Torino, 2009, pp. 360, euro 24,00.

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Due altri testi dell'autore del libro, rilanciati da www.chiesa:

> I giovani delle colline. Reportage dalla Giudea e dalla Samaria (20.8.2009)

> L'Eurabia ha una capitale: Rotterdam (19.5.2009)

__________


Tutti i servizi di www.chiesa sul tema:

> Focus su EBREI
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27/11/2009 07:05




Riunione del gran magistero dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme

Luci e ombre per i cattolici in Terra Santa


di Gianluca Biccini

Le luci e le ombre della situazione dei cattolici in Terra Santa sono state illustrate nei giorni scorsi dal patriarca di Gerusalemme dei Latini, Fouad Twal, durante la sessione autunnale del gran magistero dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro. All'incontro, svoltosi a Roma sotto la presidenza del gran maestro, cardinale John Patrick Foley, il patriarca ha tracciato un bilancio del 2009 che sta per concludersi:  un anno segnato in negativo dai drammatici avvenimenti di Gaza e in positivo dal pellegrinaggio di Benedetto XVI in Giordania, Israele e Territori palestinesi. Tra le ombre denunciate da Twal "la mancanza di giustizia, di pace e di sicurezza. L'ottimismo iniziale per l'elezione del presidente Obama negli Stati Uniti d'America e per la visita del Papa non si è dissolto completamente - ha spiegato - ma non si sono ancora visti passi concreti per alleviare la sofferenza e per spingere le parti verso negoziati seri".

In concreto, per il capo spirituale dei cattolici di Terra Santa - che è gran priore dell'istituzione gerosolimitana - "la situazione si sta deteriorando di nuovo. Inizialmente i palestinesi hanno tratto conforto dal cosiddetto Rapporto Goldstone sulla missione delle Nazioni Unite per l'accertamento dei fatti nel conflitto di Gaza. Tuttavia, questo conforto si è trasformato in indignazione". 

Nelle ultime settimane, inoltre, si sono riacutizzate le tensioni tra palestinesi e israeliani - con scontri alle frontiere e lanci di razzi - a motivo "della demolizione di abitazioni, degli espropri e di nuovi progetti per Gerusalemme, che stanno minacciando non solo la pace della Città Santa, ma anche la sua identità pluriconfessionale. Un segmento importante di questa terra appartiene, infatti, a differenti Chiese". Oltre a ciò, prosegue "l'insediamento ebraico nella Gerusalemme orientale araba", attraverso la costruzione di quartieri e l'ampliamento di quelli esistenti. "Il fatto più preoccupante è che l'Haram al-Sharif, il Monte del Tempio, sta diventando di nuovo un luogo di tensione".

Dal punto di vista ecclesiale l'instabilità dell'area ha portato a un afflusso di rifugiati nel territorio del Patriarcato. Uomini e donne - ha denunciato Twal - che "vivono in condizioni disagiate e noi dobbiamo aiutarli, occuparci delle loro esigenze pastorali e fare loro posto nelle nostre parrocchie:  in Giordania ci sono centinaia di migliaia di iracheni e fra loro decine di migliaia di caldei; in Israele, migliaia di sudanesi e di lavoratori filippini per la maggior parte cattolici".
Le conseguenze di tale contesto si riflettono sui fedeli cristiani che - ha argomentato il patriarca di Gerusalemme - "si demoralizzano sempre più e hanno la tentazione costante di cercare un futuro altrove. Le nostre comunità si stanno restringendo e dobbiamo raddoppiare gli sforzi per persuadere i cristiani a restare".

Nonostante queste difficoltà, monsignor Twal intravede luci di speranza. "La visita del Pontefice - ha detto - continua a ispirarci. Sebbene, prima del suo arrivo, molti fossero pieni di dubbi, al momento del congedo erano pieni di gratitudine per quel tempo prezioso in cui la voce della Chiesa aveva consolato, incoraggiato e parlato profeticamente".

Un altro passo positivo è stato l'incontro, svoltosi quest'estate, del Consiglio delle istituzioni religiose della Terra Santa. L'assemblea di leader religiosi ha deciso di promuovere lo studio comune di libri musulmani ed ebraici. Un progetto molto concreto - ha commentato il patriarca - che "potrebbe recare frutti importanti per l'insegnamento della tolleranza. È stato incoraggiante osservare l'atteggiamento aperto fra i presenti e il loro impegno a promuovere la coesistenza".

Altro segno importante della vitalità della Chiesa di Terra Santa, il progetto dell'Università di Madaba in Giordania, della quale il Papa ha benedetto la prima pietra. "Siamo convinti che il nostro sistema scolastico cattolico ampio, ben radicato e rispettato, abbia sortito un effetto positivo e significativo sulla vita e sulla cultura giordane - ha detto Twal - e sia stato un fattore non trascurabile del ruolo del Paese quale forza di moderazione e di tolleranza in Medio Oriente. Desideriamo estendere quell'effetto aprendo questo ateneo, che ci aspettiamo attragga studenti di tutta la regione". Da qui l'esortazione rivolta agli stati generali dell'Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme "a prendere a cuore questa iniziativa. Impegno - ha spiegato - significa anche aiuto a creare forti legami con altri atenei europei e americani. Auspichiamo che dame e cavalieri riescano a facilitare la formazione professionale del nostro personale, a esortare le università nella regione a una maggiore collaborazione con quella di Madaba e a sostenere i nostri studenti cristiani con borse di studio". In proposito, monsignor Twal ha fatto riferimento all'opera delle scuole del Patriarcato finanziate dall'ordine equestre. "Crediamo davvero - ha concluso - di poter cambiare le cose nella nostra regione grazie a queste scuole".

Alla sessione del gran magistero sono intervenuti, tra gli altri, il luogotenente generale Peter Wolff Metternich, che ha ricevuto l'onorificenza della Palma d'oro di Gerusalemme per i cinquant'anni di ininterrotto servizio, diciotto membri - otto dall'Italia, tre dagli Stati Uniti d'America, due dalla Germania e uno ciascuno per Australia, Belgio, Canada, Austria e Regno Unito - e l'amministratore generale del Patriarcato Humam Khzouz, con il direttore generale delle scuole Majidi Syriani.

Il cardinale Foley ha ricordato come settanta fra cavalieri e dame dei cinque continenti abbiano seguito il Pontefice in tutti i luoghi visitati in Terra Santa e come l'ordine abbia sostenuto l'organizzazione delle cerimonie offerte dal patriarcato durante il viaggio del Papa. "Tutti i membri - ha assicurato - perseverano nelle preghiere, perché il pellegrinaggio di Benedetto XVI possa produrre frutti di giustizia e di pace nella Terra di Cristo. Qui infatti - ha riferito - i cristiani continuano a soffrire per la mancanza di mobilità, di opportunità e di speranza".

Alla vigilia della riunione, il cardinale Foley aveva celebrato in San Pietro, all'altare della cattedra, la messa per i venticinque anni di episcopato. Con il porporato hanno concelebrato numerosi cardinali, presuli e prelati della Curia Romana - tra i quali il decano del Collegio cardinalizio Angelo Sodano - e del clero statunitense, come il cardinale Justin Francis Rigali, arcivescovo di Philadelphia.

E nell'arcidiocesi della Pennsylvania che gli ha dato i natali il cardinale Foley è tornato con la memoria all'omelia, parlando della propria consacrazione episcopale, conferitagli in cattedrale l'11 maggio 1984 dal cardinale John Krol, il quale lo aveva anche ordinato sacerdote, nello stesso luogo, ventidue anni prima. Quindi ha spiegato come non abbia potuto celebrare la data effettiva della ricorrenza, trovandosi ad Amman in occasione del pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terra Santa. Il porporato ha anche ricordato come abbia vissuto i suoi venticinque anni di episcopato tutti a Roma, dapprima come arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, quindi come cardinale gran maestro dell'Ordine gerosolimitano. Un servizio - ha concluso - "per sostenere la vita spirituale di coloro che le Scritture definiscono le "pietre viventi" di Terra Santa, cioè i cristiani discendenti dai primi discepoli di Gesù".


(©L'Osservatore Romano - 27 novembre 2009)
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“Morte ai cristiani”. La chiesa al Cenacolo diventa un bersaglio (Tornielli). Attendiamo opportune reazioni

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I cristiani in Terra Santa, testimoni coraggiosi del perdono
Intervista a fra Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa

di Chiara Santomiero

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 17 dicembre 2009 (ZENIT.org).-

La piccola comunità cristiana di Terra Santa, circa 120 mila in Israele e 40 mila nell’Autonomia palestinese (pari all’1% della popolazione complessiva), resiste tra mille difficoltà nei luoghi che hanno visto l’Incarnazione e l’esperienza umana di Gesù, offrendo una testimonianza non scontata di coraggio e di fede.

Per saperne di più ZENIT ha intervistato il Custode di Terra Santa, fra Pierbattista Pizzaballa ofm, in occasione della sua presenza al convegno nazionale degli educatori dell’Azione cattolica ragazzi italiana “Come vasi di creta. La qualità della relazione educativa per dare forma alla vita”, svoltosi a Roma dal 6 all’8 dicembre scorsi.

Una domanda non nuova: qual è il senso della presenza cristiana in Terra Santa?

Pizzaballa: E’ una domanda che ci facciamo e dobbiamo farci sempre perché la risposta non è mai la stessa. Cambia, infatti, la mia percezione personale rispetto ad essa, la nostra di Chiesa, cambiano le dinamiche, le situazioni e ogni volta è una questione da porre. A partire dall’interrogativo di Gesù: “voi chi dite che io sia?”. Cosa ci dice Gesù oggi? Le riposte possono essere diverse.

Io so cosa concretamente “non” possiamo essere: non possiamo essere ponte tra la società israeliana e quella palestinese. Il Papa ha detto: non di muri, ma di ponti ha bisogno la Terra Santa ed è verissimo. Ma la comunità cristiana non può svolgere una funzione di ponte tra le due società, perché è composta prevalentemente di arabo-palestinesi. Il ponte invece deve stare un po’ di qua e un po’ di là, altrimenti non può unire. La comunità cristiana esprime quindi una realtà sola, però ha un compito alto di testimonianza. Innanzitutto è una comunità pacifica, non violenta, propositiva. Non costituisce una minaccia per nessuno e questo è un segno molto importante. Grazie alla presenza della comunità cristiana arrivano milioni di pellegrini che recano benessere economico e sociale e anche questo è positivo. La nostra testimonianza, tuttavia, si esprime innanzitutto stando lì, semplicemente, come cristiani, cercando di vivere il Vangelo e il valore che ci viene chiesto di offrire è quello del perdono. Gesù sulla croce - dal punto di vista puramente umano -, è morto per una terribile ingiustizia, a causa di un processo falsato; eppure da quel luogo e da quell’ingiustizia, lui ha perdonato.

Questo è l’ambito nel quale muoverci. Il perdono non si può regalare, nemmeno imporre, è un percorso da fare. Non si presta a semplificazioni; prima di perdonare bisogna capire e guardare in faccia il male, definirlo con molta verità. Bisogna avere rispetto della sofferenza delle persone a cui è stata inferta una ferita. Allo stesso tempo, dobbiamo essere consapevoli che la capacità di perdonare deve orientare il nostro sguardo sulla realtà.

Questo è anche il senso della presenza della Custodia di Terra Santa. Siamo una piccola comunità di 300 frati, di 32 nazioni diverse - una specie di Babele !- che cerca di volersi bene, recando proprio la testimonianza che nonostante la diversità è possibile stare insieme. Vorremmo aiutare la gente, senza la presunzione di rivoluzionare o di cambiare il mondo, ma ponendo un piccolo segno di condivisione e perdono.

Quali rapporti intercorrono con i musulmani e gli ebrei?

Pizzaballa: Sono due mondi molto diversi tra loro. Con i musulmani il rapporto è plurisecolare; i cristiani sono arabi palestinesi e vivono con i musulmani che sono arabi palestinesi: fedi diverse ma un unico popolo che vive nelle stesse zone. Si tratta di un rapporto che passa attraverso le istituzioni, in primo luogo la scuola.

Uno degli aspetti fondamentali della comunità cristiana di Terra Santa infatti – che sebbene piccola è molto vivace e attiva -, è proprio la scuola. Le circa 80 scuole cristiane esistenti, sono frequentate sia da cristiani che da musulmani e svolgono quindi un ruolo di mediazione sociale molto importante. Dove opera la scuola cristiana, il rapporto tra musulmani e cristiani è armonico, c’è un riflesso importante nella vita pubblica perché le famiglie si incontrano grazie alle attività scolastiche e si crea relazione e fiducia tra i due gruppi. Abbiamo constatato che dove la scuola cristiana non c’è, i rapporti sono più difficili da costruire, mancano le occasioni pubbliche. Ciò che definiamo dialogo interreligioso, in Terra Santa passa attraverso la vita di tutti i giorni, le attività della Chiesa e in particolare la scuola.

Con l’ebraismo è il rapporto è diverso: non c’è possibilità di incontro attraverso le istituzioni della Chiesa perché Israele ha le proprie. L’unica forma di dialogo, anche se non facile, è quello di tipo culturale. Recentemente, ad esempio, abbiamo ricevuto in dono dalla Provincia di Padova una riproduzione della cappella degli Scrovegni che adesso è in mostra al museo di Tel Aviv. L’iniziativa sta attirando ogni giorno migliaia di persone che, con l’ausilio di una visita guidata, leggono la storia della salvezza dal punto di vista cristiano.

Non va dimenticato che il conflitto in corso ha il suo peso: un cristiano palestinese, quando dice Israele, non pensa all’Israele biblico di Gesù, ma ai check point.

E’ possibile intravedere una prospettiva politica di pace in Terra Santa?

Pizzaballa: In questo momento non sembrano vedersene molte, per più ragioni. Innanzitutto, perché c’è una grande stanchezza da parte di tutti e due i popoli; il secondo motivo è che non ci sono - né dall’una né dall’altra parte - leader carismatici forti con una chiara visione della pace, capaci di trascinare la popolazione a fare anche i necessari compromessi. La società palestinese è a sua volta divisa in due parti tra le quali esiste una profonda frattura. La comunità internazionale, infine, al di là di tanti discorsi non sembra ancora intenzionata a passi concreti di pressione sulle due autorità politiche per spingerle alla pace. Siamo ancora nella fase lunghissima, che sembra non finire mai, di tattiche, di dichiarazioni, ma nulla di tangibile che possa far intuire che ci possa essere un cambiamento a breve.

La visita del Papa dello scorso maggio ha lasciato degli echi positivi di dialogo?

Pizzaballa: La visita di Benedetto XVI è servita molto a chiarire le relazioni sia con la comunità ebraica che con quella islamica. Tuttavia l’impatto maggiore lo ha avuto sulla comunità cristiana che ne parla ancora oggi con accenti molto positivi, per i discorsi e i gesti che il Papa ha posto in essere e per le messe pubbliche celebrate con la partecipazione di migliaia di persone. E’ stato un momento forte che ha incoraggiato molto e ha unito la comunità cristiana, notoriamente divisa.

La Terra Santa è l’unico paese al mondo dove vivono insieme tutte le confessioni cristiane, dalle più grandi alle più piccole, e rimanere ben distinte fa un po’ parte del ruolo di custodi di luoghi e tradizioni, anche se c’è modo e modo di custodire. Tuttavia, nonostante parentesi incresciose che si sono viste anche in televisione, i rapporti sono abbastanza cordiali. Anzi proprio dopo quegli episodi che hanno fatto il giro del mondo, forse un po’ per la vergogna che ha scosso la coscienza di molti, c’è stato un impulso maggiore a cambiare registro.

Lei era a Betlemme per l’inizio delle celebrazioni di Avvento: come viene vissuto questo tempo nella città stretta dal muro di separazione con Israele?

Pizzaballa: E’ toccante constatare ogni volta la fede della gente. In queste situazioni così difficili, ci si ritrova sempre nella preghiera. C’è molta partecipazione alle celebrazioni e ai riti tradizionali che preparano al Natale e così pure alle stazioni che si fanno in tutta la città per ricordare i diversi episodi evangelici. Pregare diventa un altro modo per stare insieme e ritrovarsi.

C’è un messaggio che ci viene da Betlemme, il luogo dell’Incarnazione, per Natale?

Pizzaballa: Il messaggio è ancora quello di sempre: Dio continua a visitarci attraverso Gesù che continua a nascere e a essere fonte di novità. Anche se le cose restano sempre le stesse, può cambiare il nostro modo di vederle. Nonostante tante violenze e segni di morte, ci sono ancora molte persone che hanno desiderio di mettersi in gioco e spendersi per la loro terra, per la loro gente, per la Chiesa. Esse sono segno di forza, di novità e di speranza per la Terra santa e spero anche per gli altri. La Terra Santa ci appartiene, noi apparteniamo alla Terra Santa, la nostra fede è nata lì e continua a nascervi. Per questo ciò che accade in Terra Santa ci riguarda tutti da vicino.

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