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Il Concilio (Vaticano II) e la crisi della vita devota

Ultimo Aggiornamento: 18/06/2010 20:28
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18/06/2010 20:26

il Concilio e la crisi della vita devota

Il Santo Padre Benedetto XVI nella Lettera alla chiesa d'Irlanda del 19 marzo individuava nella diminuzione della vita devota una delle cause dello scadimento morale del clero: "Molto sovente - scriveva il Papa - le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese. Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo fu a volte frainteso e in verità, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si stavano verificando, era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti. In particolare, vi fu una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari". Fu un fraintendimento del Concilio o il Concilio vi ha messo del suo? Ecco il primo di una serie di contributi per riflessione sul tema.


LA CRISI DELLA VITA DEVOTA E LE RESPONSABILITÀ DEL CONCILIO

1. APPARENTE SCOMPARSA DELLA VITA DEVOTA IN SENSO PROPRIO

È opinione sempre più diffusa che uno dei segni evidenti dell’ odierna crisi della Chiesa sia rappresentato dalla sostanziale assenza di riferimenti al Sovrannaturale e alla Grazia nella prassi ecclesiale quotidiana, ivi compresi documenti ufficiali del Magistero. Quali le cause di questo silenzio? La causa remota è da ricercarsi, ad avviso di molti, nell’antropomorfismo penetrato nella dottrina e nella pastorale della Chiesa a partire dal Vaticano II, il cui “spirito” è notoriamente risultato essere quello di una conciliazione-compromesso dei valori del Cristianesimo con quelli del mondo, anziché quello di un rinnovato slancio missionario per convertire il mondo.

Tra le cause prossime, possiamo annoverare il declino della vita devota presso il clero ed i fedeli, con le sue tradizionali pratiche, pubbliche e private. Grazie a queste ultime, il singolo credente si manteneva in costante contatto giornaliero con il Sovrannaturale, le cui Grazie, indispensabili alla salvezza della sua anima, erano continuamente da lui impetrate, con il dovuto timore e rispetto e nello stesso tempo con fiducia. Tra le varie pratiche (orazioni, meditazioni, mortificazioni, digiuni) la preghiera costituiva l’elemento fondamentale. Onde l’antica massima: “chi non prega, si danna”.

La preghiera nel senso della vera devozione cristiana non è da intendersi come mero omaggio formale, esteriore alla divinità al fine di ingraziarsela per riceverne benefici, incluse le grazie necessarie alla nostra santificazione individuale. Nel senso più autentico, essa è invece da intendersi come manifestazione dell’interiore e più profondo significato di una vita devota, improntata, giusta la celebre definizione di S. Francesco di Sales, a quella pietas che altro non è se non il vero amor di Dio: “La vera e viva divozione, o Filotea, vuole prima di tutto l’amore di Dio, anzi non è altro che vero amor di Dio; ma non è però un amore mediocre. Devi sapere che l’amore divino, in quanto abbellisce le anime nostre, si chiama grazia, perché ci rende simili alla divina Maestà; in quanto ci comunica la forza di operare il bene, dicesi carità; ma quando è arrivato a tal grado di perfezione, che, oltre a farci fare il bene, ce lo fa fare con diligenza, assiduità e prontezza, allora piglia il nome di divozione [...] A dirla in breve, la divozione è un’agilità e vivacità spirituale, con cui la carità opera in noi e noi operiamo nella carità prontamente e con trasporto, cosicché, mentre è ufficio della carità farci osservare i comandamenti di Dio, è poi ufficio della devozione farceli osservare con prontezza e diligenza.

Dunque chi non osserva tutti i comandamenti di Dio, non può esser giudicato né buono né divoto: non buono, perché a essere buono si richiede la carità; non divoto, perché a essere divoto, oltre la carità, ci vuole anche ardore e speditezza a fare le azioni proprie della carità”.
La vita devota è, pertanto, quella che si svolge all’insegna della carità ovvero in spirito di preghiera poiché è guidata dall’intenzione di chi, volendo fare in tutto la volontà di Dio, allo stesso modo di Nostro Signore, per amor di Dio e per la Sua Gloria, impetra ogni giorno l’aiuto di Dio a questo scopo.

Il surrogato: i cosiddetti “movimenti ecclesiali”

Lo spirito di preghiera non può mantenersi senza il pregare effettivo, costituito dalle nostre orazioni quotidiane con le loro connesse meditazioni. In passato, meditazioni e preghiere trovavano la loro perfetta sintesi negli esercizi spirituali condotti secondo il metodo di S. Ignazio di Loyola, riconosciuto e raccomandato dalla Chiesa come il migliore nel suo genere, anche nella versione ridotta ad una sola settimana. Ma oggi, a quanto sembra, sono pochi quelli che si affidano ancora alle pratiche tradizionali della vera devozione cattolica. Quest’ultima trovava il suo humus nella ricca vita liturgica delle parrocchie di un tempo. Oggi, invece, la povertà spirituale della vita parrocchiale è desolante, devastata com’è dalla creatività liturgica e dalle molteplici iniziative “ecumeniche” cui sono costretti i parroci. È comprensibile che i fedeli cerchino di surrogare questo vuoto partecipando ai movimenti carismatici o all’ambiguo cattolicesimo per così dire di gruppo di Comunione e Liberazione o dei Focolarini. La vera devozione privata cattolica è stata sostituita dalla devozione pubblica nel movimento, o nel gruppo-movimento, nel cui ambito si prega e si canta collettivamente, con slancio, per così dire ntusiastico, al fine di ottenere un beneficio, una guarigione o comunque per sentirsi “illuminati” dallo spirito, possibilmente illico et immediate.

Questi “movimenti”, le cui “liturgie” molti aderenti surrogano a quella della Messa, provengono originariamente, come sappiamo, dalla multiforme frangia coribantica del protestantesimo ed è alquanto improbabile che sia possibile ritornare per loro tramite alla vera devozione cattolica. Il rito del Novus Ordo ha di fatto tolto la Santa Croce (il santo sacrificio propiziatorio della misericordia divina per i nostri peccati) dal centro della Messa stessa, con il presentarla quale assemblea che celebra, sotto la presidenza del sacerdote, il memoriale del Mistero Pasquale ovvero della Resurrezione di Cristo. Allo stesso modo, la devozione dei fedeli ha in sostanza perduto il suo fondamentale carattere di pietas individuale e privata, di culto interno orientato all’amor di Dio e quindi all’imitazione quotidiana della S. Croce, con metodo e disciplina approvati dalla Chiesa, per attuarsi oggi sempre più spesso nelle forme del collettivo rappresentato dal “movimento”, il quale dal suo canto persegue un rapporto spurio, chiaramente non-cattolico, con il Sovrannaturale (di frequente sostituito dal preternaturale diabolico).

(tratto da Sì Sì No No del 15 febbraio 2009)

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18/06/2010 20:27

il Concilio e la crisi della vita devota (2)

LA CRISI DELLA VITA DEVOTA E LE RESPONSABILITÀ DEL CONCILIO


2. RESPONSABILITÀ DEL CONCILIO


Dobbiamo addossare al Vaticano II anche la colpa dell’attuale crisi della devozione, in tutte le sue forme, e in particolare in quella rappresentata dalla pietas privata dei fedeli? A prima vista la cosa non sembrerebbe possibile, dal momento che il Concilio ribadisce la necessità e l’importanza della preghiera personale e propugna il mantenimento delle tradizionali pratiche della devozione cattolica. Del resto, avrebbe forse potuto passarle sotto silenzio?

Ciò risulta, in particolare, dagli articoli 11, 12 e 13 della Sacrosanctum Concilium, la costituzione che ha stabilito i princìpi della riforma della liturgia.Tuttavia i testi conciliari mostrano omissioni e sfumature, non prive di ambiguità, che sembrano voler svalutare l’ importanza di queste forme tradizionali di pietà, inglobandole nella liturgia, contro l’ insegnamento tradizionale del Magistero.

La dottrina tradizionale richiamata da Pio XII nella Mediator Dei

Sappiamo che l’enciclica Mediator Dei di Pio XII, del 20 novembre 1947, dedicata alla sacra liturgia, analizzava a fondo il rapporto tra il culto esterno ed il culto interno, mostrando la necessità del loro intimo equilibrio alla luce del concetto che “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”, al quale appartiene la pietà privata tipica della vita devota. Se così non fosse, la religione diventerebbe “un formalismo senza fondamento e senza contenuto”.

Il culto interno deve naturalmente attuarsi sempre “in intima congiunzione con il culto esterno”. La Mediator Dei condannava perciò l’errore dei panliturgisti, apparso già in alcune componenti del Movimento Liturgico alla fine degli anni venti del secolo XX, secondo il quale errore a contare era soprattutto la cosiddetta “pietà oggettiva”, quella cioè che si attuava nel culto esterno e pubblico, grazie all’efficacia ex opere operato dei Sacramenti e del Sacrificio dell’altare, a scapito del culto privato o pietà sprezzantemente detta “soggettiva”. Incentrando tutta la pietà cristiana “nel mistero del Corpo Mistico di Cristo, senza nessun riguardo personale e soggettivo”, costoro ritenevano, precisava l’enciclica, “che si debbano trascurare le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche e compiute al di fuori del culto pubblico”.

Ai panliturgisti il Papa ricordava che i Sacramenti e il Sacrificio dell’altare, “per avere la debita efficacia esigono le buone disposizioni dell’anima nostra”, tant’è vero che “nessuno può ricevere validamente e tanto meno degnamente e con frutto un Sacramento se non è nelle condizioni necessarie” (Allocuzione ai sacerdoti e predicatori della Quaresima, tenuta il 17.2.1945 a Roma, in La Liturgie, Les Enseignements Pontificaux, Desclée, 1961, pp. 304-306). Non bisogna mai dimenticare, proseguiva, che “l’opera della redenzione, in sé indipendente dalla nostra volontà, richiede l’intimo sforzo dell’anima nostra (internum animi nostri nisum) perché possiamo conseguire l’eterna salvezza”. Questo “intimo sforzo”, al quale il nostro libero arbitrio non può sottrarsi e che la tradizione cattolica ha sempre concepito ed attuato nel giusto equilibrio di ragione, volontà e sentimento religioso, l’enciclica lo illustrava e chiarificava in una pagina esemplare per chiarezza e perspicuità di analisi: “Se la pietà privata e interna dei singoli trascurasse l’augusto Sacrificio dell’altare e i Sacramenti e si sottraesse all’influsso salvifico che emana dal Capo nelle membra, sarebbe senza dubbio riprovevole e sterile; ma quando tutte le previdenze e gli esercizi di pietà non strettamente liturgici (sed cum omnia pietatis consilia et opera, quae cum Sacra Liturgia arcte non coniunguntur) fissano lo sguardo dell’animo sugli atti umani unicamente per indirizzarli al Padre che è nei cieli, per stimolare salutarmene gli uomini alla penitenza e al timor di Dio e, strappatili all’attrattiva del mondo e dei vizi, per condurli felicemente per arduo cammino al vertice della santità, allora sono non soltanto sommamente lodevoli, ma necessari, perché scoprono i pericoli della vita spirituale, ci spronano all’acquisto delle virtù e aumentano il fervore col quale dobbiamo dedicarci tutti al servizio di Gesù Cristo.

La genuina pietà, che l’Angelico chiama “devozione” e che è l’atto principale della virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto [ST, II-II, q. 82, a. 1], ha bisogno della meditazione delle realtà soprannaturali e delle pratiche spirituali perché si alimenti, stimoli e vigoreggi, e ci animi alla perfezione. Poiché la religione cristiana debitamente praticata richiede soprattutto che la volontà si consacri a Dio e influisca sulle altre facoltà dell’anima. Ma ogni atto di volontà presuppone l’esercizio dell’ intelligenza, e, prima di darsi a Dio per mezzo del sacrificio, è assolutamente necessaria la conoscenza degli argomenti e dei motivi che impongono la religione, come, per esempio, il fine ultimo dell’uomo e la grandezza della divina maestà, il dovere della soggezione al Creatore, i tesori inesauribili dell’amore col quale Egli ci vuole arricchire, la necessità della grazia per giungere alla meta assegnataci, e la via particolare che la divina Provvidenza ci ha preparata unendoci tutti come membra di un Corpo a Gesù Cristo” (Mediator Dei, cit., pp. 30-32).

Il Concilio fa sparire il concetto di “culto interno”

Il Concilio, cosa ha mantenuto di tutto questo? L’articolo 12 della Sacrosanctum Concilium (=SC), pur esprimendosi in termini molto più generici di quelli della Mediator Dei, sembra indubbiamente contenere un forte e tradizionale richiamo alla necessità della preghiera personale.

E tuttavia si cercherebbe invano, nei testi del Concilio, un concetto fondamentale come quello secondo il quale “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”: at praecipuum divini cultus elementum internum esse debet. Dell’esistenza di un culto esterno ed interno non si parla nemmeno e la nozione di “culto interno” sembra del tutto scomparsa. Non solo. I “distinguo” introdotti nei testi conciliari tendono a svalutare la pietà privata nei confronti della liturgia e a far prevalere la pietà cosiddetta “oggettiva” su quella “soggettiva”, andando quindi proprio nella direzione condannata dalla Mediator Dei.

Cominciamo dall’art. 11 della SC. Esso afferma esser indispensabili “le disposizioni di un animo retto” al fine di ottenere la “piena efficacia” del culto pubblico. Nella nozione di queste “disposizioni” è forse racchiusa quella del culto interno? Lo si può ritenere, pur trattandosi in ogni caso di un riferimento che resta generico, visto che la SC di “culto interno” non parla mai. Tuttavia, si nota, a mio avviso, un’ambiguità di fondo. Secondo l’insegnamento tradizionale, ribadito da Pio XII, nessuno, come si è visto, può ricevere validamente, degnamente e con i dovuti frutti un Sacramento, se non si trova nelle “condizioni necessarie”, condizioni ovviamente costituite ad opera del culto interno, mediante la vita devota. Nel testo della SC si parla, invece, di “piena efficacia” : le “disposizioni di un animo retto”, che vuole “cooperare con la grazia”, non sarebbero condizioni di valida e degna recezione del Sacramento, ma lo sarebbero solo della sua “piena efficacia”.

Non mi sembra che in tal modo la dottrina tradizionale sia qui resa fedelmente. Infatti, un conto è affermare, senza sfumature di sorta, che la disposizione interiore del soggetto è condizione di valida e degna recezione del Sacramento, che solo in tal modo può quindi essere efficace per chi lo riceve; un altro è affermare che è condizione della sua “piena efficacia”. Con la seconda formulazione, si verrebbe di fatto ad ammettere questa interpretazione: che il Sacramento, per esempio l’Eucaristia, è comunque di per sé efficace anche se in modo non pieno e quindi (se ne deve concludere) anche se il credente lo riceve con animo non retto. Si è visto che, secondo la Mediator Dei, i Sacramenti, “per avere la debita efficacia (debitam efficaciam) esigono le buone disposizioni dell’anima nostra (rectae animae nostrae dispositiones)”. La SC, al posto della “debita efficacia”, ci propone la “piena efficacia”. Mi sembra che l’ambiguità nasca proprio dall’uso di questo aggettivo: piena. Il culto interno, anonimamente riproposto nell’art. 13 della SC, risulta pertanto alquanto sminuito rispetto alla concezione tradizionale perché la funzione che ora gli viene attribuita non è più quella di concorrere in modo decisivo all’ efficacia dei Sacramenti, non è più quella di essere “l’elemento precipuo” della Liturgia, senza il quale essa decade a vuoto “formalismo” (vedi sopra), ma è solo quella di contribuire alla “piena efficacia” del culto e quindi dei Sacramenti.

Il culto interno, o ciò che ne resta, sembra perciò ridotto a un semplice ausiliare, utile unicamente per raggiungere la “piena efficacia” dei Sacramenti, i quali manterrebbero comunque un’efficacia, anche se non “piena”, in quanto atti del culto pubblico esterno. Ma come si dovrebbe intendere il concetto di un’efficacia non piena dei Sacramenti? Ad ogni modo, il culto interno viene posto in posizione subordinata rispetto a quello esterno, pubblico; esso viene anzi oscurato in modo sostanziale nella SC, risultando del tutto assente dalla definizione della Liturgia. Per meglio dire: assente dalla sua descrizione, poiché la SC (artt. 6-10) non ha voluto dare una vera definizione della liturgia, semplicemente descritta, invece, tramite immagini nell’insieme tradizionali, nelle quali si sente, però, alitare uno spirito nuovo, quello degli ammodernanti. Nella Mediator Dei, invece, come si è visto, il culto interno era parte integrante della definizione stessa della Liturgia, e quindi del suo concetto, del quale veniva addirittura a costituire “l’elemento precipuo”.

(tratto da Sì Sì No No del 15 febbraio 2009)

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il Concilio e la crisi della vita devota (3)

Il Concilio volle inglobare gli “exercitia pietatis” nella liturgia

L’art. 13 della SC si muove nella stessa direzione, cercando addirittura di inglobare i “pii esercizi” nella liturgia. È vero che esso raccomanda “vivamente” i “pii esercizi del popolo cristiano”, purché naturalmente “conformi alle leggi e alle norme della Chiesa”, ed in particolare quelli “che vengono compiuti per disposizione dei Vescovi”; tuttavia, esso ordina che tali esercizi “siano regolati tenendo conto dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la Liturgia; derivino in qualche modo (quodammodo) da essa e ad essa introducano (manuducant) il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi”. Oltre che “armonizzarsi” con la liturgia (necessità della quale nessuno in passato aveva mai dubitato), le pratiche della devozione privata ed in sostanza il culto interno devono “in qualche modo” derivare dalla liturgia e, ciò che più conta, “introdurre ad essa” i fedeli, condurveli come per mano. E questo obiettivo è giustificato con la constatazione, tutto sommato abbastanza ovvia, che “la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi”. Ma in tal modo, l’art. 13 toglie al culto interno la sua propria autonoma finalità, facendone (di nuovo) un semplice strumento liturgico, un ausiliare della liturgia, dal momento che esso deve servire soprattutto di “introduzione” ad essa.

Infatti, se tale culto, oltre a derivare dalla liturgia, deve condurre ad essa, allora non possiede più quel fine rappresentato dall’elevazione del nostro animo a Dio mediante la purificazione interiore ricercata ed attuata grazie alle varie forme degli exercitia pietatis, che richiedono, come ha bien spiegato la Mediator Dei, “l’esercizio” della nostra intelligenza, volontà e ragione. Questo attribuire un fine liturgico al culto interno, oltre a contraddire l’ insegnamento costante della Chiesa, dissolve – cosa gravissima – la fondamentale caratteristica della pietà privata cattolica, che non è mai stata quella di una contemplazione sentimentale o di un’esperienza di tipo mistico, che rappresenta sempre uno sviluppo eccezionale: è sempre stata quella, invece, di uno sforzo congiunto della nostra anima e del nostro intelletto, sforzo quindi all’insegna della volontà e della ragione, che ricercano coscientemente l’aiuto dello Spirito Santo al fine di lasciarsi umilmente guidare da esso. Lo scopo rappresentato dal nostro perfezionamento individuale, dalla nostra santificazione, ossia il fine specifico della vita devota, non è un fine che, come tale, si debba ricondurre alla liturgia, che pure fornisce, nei riti dei Sacramenti, della Messa, nel rito in generale, strumenti fondamentali per il suo raggiungimento. Alla luce della retta dottrina della Chiesa, incomprensibile mi sembra perciò il dettato finale dell’art. 13 della SC. Esso non sembra rispettare affatto il principio ribadito da Pio XII, sempre nella Mediator Dei, secondo il quale, “farebbe cosa perniciosa e del tutto erronea chi osasse temerariamente assumersi la riforma di tutti questi esercizi di pietà per costringerli nei soli schemi liturgici”; è sufficiente che “lo spirito della Liturgia ed i suoi precetti influiscano beneficamente su di essi, per evitare che vi si introduca alcunché di inetto o di indegno”. Ma l’art. 13 della Sacrosanctum Conciluium non si limita di certo a questo; vuole apertis verbis che lo scopo stesso degli esercizi, e quindi del culto interno, sia quello di condurre i fedeli
alla liturgia!

Il carattere “pernicioso” della riduzione degli esercizi di pietà del culto interno “nei soli schemi liturgici”, profeticamente denunciato da Pio XII, è confermato dal fatto che il vero spirito degli esercizi di pietà sembra essersi oggi dissolto, sostituito da quello di un’esperienza interiore tendente al liturgico e quindi di tipo misticheggiante, di quel misticismo spurio che abbonda nella liturgia del Novus Ordo, la quale, come si è ricordato, ha messo protestanicamente al centro dell’ azione liturgica la comunità, il “popolo di Dio” riunito “in assemblea” per “sentire” la presenza di Nostro Signore già nella Sua Parola e farsi possedere da essa, credendo di attuare già in tal modo la propria salvezza.

Il Concilio volle far scaturire lo spirito di preghiera dalla prassi di vita

A che serve, mi chiedo, che la Sacrosanctum Concilium raccomandi vivamente i tradizionali esercizi della pietas cristiana per i seminaristi, i sacerdoti, i laici, se poi ne stravolge il fine, nel modo che si è visto, alterandone perciò lo spirito? O se cerca nello stesso tempo di diminuirne comunque l’importanza rispetto alla prassi rappresentata dalla vita conforme al Vangelo? Si veda ad esempio quanto scrive l’art. 8 del decreto Optatam totius sulla formazione sacerdotale: “Siano vivamente inculcati gli esercizi di pietà raccomandati dalla veneranda tradizione della Chiesa; bisogna curare però che la formazione spirituale [dei seminaristi] non consista solo in questi esercizi, né si diriga al solo sentimento religioso. Gli alunni imparino piuttosto (discant potius) a vivere secondo il Vangelo, a radicarsi nella fede, nella speranza e nella carità, in modo che attraverso l’ esercizio di queste virtù possano acquistare lo spirito di preghiera [Giovanni XXIII, Enc. Sacerdotii Nostri Primordia AAS, 51, 1959, p. 559 ss.], ottengano forza e difesa per la loro vocazione, rinvigoriscano le altre virtù e crescano nello zelo di guadagnare tutti gli uomini a Cristo”.

La “formazione spirituale” dei seminaristi non deve esser affidata ai soli “esercizi”? Ciò avveniva forse in passato? Non credo lo si possa affermare, anche se gli “esercizi” occupavano certamente un posto importante nel loro culto privato (così come lo occupavano in quello di molti devoti fedeli). Comunque sia, appare singolare voler sottrarre proprio alle pratiche della devozione privata il merito di contribuire in maniera essenziale all’acquisto dello spirito di preghiera e alla fortificazione delle virtù cristiane; merito che si vuol attribuire, invece, all’esercizio delle tre virtù teologali nella vita di tutti i giorni. Lo spirito di preghiera dovrebbe pertanto formarsi soprattutto nella prassi, nell’azione, rappresentata ovviamente dalla vita condotta “secondo il Vangelo”. Impostazione ancora una volta diversa da quella della Mediator Dei, che, come abbiamo visto, rivendicava all’interiorità del credente il suo diritto alla meditazione sulle verità eterne e alla comprensione razionale della fede, con l’ausilio dell’introspezione di sé, dei ritiri spirituali, del Rosario, dell’ adorazione del Santissimo; tutte cose che non ci sono offerte come tali dalla vita nostra di tutti i giorni ma presuppongono invece una nostra separazione da essa, sia sul piano spirituale che su quello materiale (nel caso dei ritiri o esercizi spirituali).

Mi sbaglierò, ma quanto affermato qui dal Concilio mi ricorda un concetto fondamentale de L’Action di Blondel: “ l’atto è in un certo senso il pedaggio ed il passaggio della fede: presuppone l’ abdicazione totale del significato intrinseco [che, a quanto pare, apparirebbe solo nell’ azione]; esso esprime l’umile raggiungimento di una verità che non proviene dal solo pensiero; immette in noi uno spirito diverso dal nostro. Fac et videbis”. Fac et orabis, dunque. L’azione prima del Verbo, contro tutto il plurisecolare modo di sentire e di essere della Chiesa. L’azione ossia il dialogo, che è l’ unica forma d’azione che la Gerarchia formatasi nello spirito del Vaticano II riesce a concepire : dialogo e non più missione. L’azione che si costituisce nel riconoscimento dell’altro, affinché la fede risulti arricchita dei valori di quest’ultimo; azione, dunque, non per convertirlo alla vera fede ma per lasciarsi educare dai suoi valori, ad essa fede o indifferenti od ostili! L’azione, il cui scopo è manifestamente rovesciato rispetto a quello attribuito da Nostro Signore alla Santa Chiesa, da Lui stesso fondata!

In ogni caso, anche se non si vogliono qui ammettere retroterra blondeliani, rimane netta l’ impressione che questo testo conciliare – dopo averli vivamente raccomandati – tenti di sminuire l’ importanza degli exercitia pietatis nella formazione dei seminaristi, ritenendoli come tali insufficienti a far acquistare loro lo “spirito di preghiera” e a rafforzarne la vocazione e le virtù. Sembra quasi che il testo voglia vedere una sorta di contrapposizione tra gli “esercizi di pietà” ed il “vivere secondo il Vangelo”, come se le pratiche del culto interno non fossero già un “vivere secondo il Vangelo”, non mostrassero già in atto l’esercizio delle virtù teologali. La contrapposizione risulta, a mio avviso, dal lessico, con l’impiego dell’avverbio potius:discant potius, “imparino piuttosto...”. Che cosa? Evidentemente, qualcosa di meglio degli “esercizi”; imparino piuttosto a vivere effettivamente secondo il Vangelo etc. Come se gli exercitia pietatis rendessero di per sé difficile ai seminaristi vivere secondo il Vangelo!

E l’articolo si appoggia in nota all’Enciclica che Giovanni XXIII dettò per commemorare il centenario della morte di S. Giovanni Maria Battista Vianney, il santo curato d’Ars. Ma se uno va a controllare le pagine richiamate nel testo del Concilio (si tratta del par. II dell’enciclica, op. cit., pp. 558 -566) a mio avviso non trova alcun riscontro a dualismi di sorta tra exercitia pietatis e spirito di preghiera.
Infatti, quel Papa vi esortava i sacerdoti a sviluppare e mantenere lo “spirito di preghiera” nonostante le cure pastorali sempre più assorbenti imposte dal mondo moderno ed indicava loro ad esempio il santo curato d’Ars, il quale eccelleva in esso, nonostante le cure pastorali estremamente assidue (confessava in continuazione, sino a quindici ore al giorno, come poi S. Leopoldo da Padova e San Padre Pio). Egli traeva grande forza spirituale dalla frequente adorazione del Santissimo nel Sacro Tabernacolo e dalla pratica delle mortificazioni. Certo, si può dire che lo “spirito di preghiera” del curato d’Ars traesse alimento in misura prevalente dalla prassi della sua vita sacerdotale, dal momento che egli trascorreva gran parte della sua giornata in confessionale. Ma dopo aver posto loro come esempio ai sacerdoti la vita devota particolare ed eccezionale del curato d’Ars, quel Papa rammentava loro come esistessero da sempre “varia sacerdotalis pietatis exercitia”, i quali “massimamente producono e conservano quella assidua unione con Dio”, che viene spiritualmente in essere grazie alla preghiera. Massimo elogio degli esercizi di pietà, dunque, da parte del Papa, e nessunissimo accenno ad una loro possibile inadeguatezza a far acquistare e mantenere lo “spirito di preghiera”, né ad un loro possibile antagonismo con la vita cristiana. E l’enciclica ricordava i più importanti, che la Chiesa, con le sue “sapientissime leggi”, aveva reso obbligatori per i sacerdoti: “la sacra meditazione giornaliera, le visite al Tabernacolo, la recitazione del Rosario Mariano, il diligente esame di coscienza”. L’eventuale negligenza nell’osservanza di queste pratiche, essa concludeva, era in ogni caso da attribuirsi esclusivamente a quei sacerdoti che si fossero lasciati travolgere dal “vortice” delle cure esteriori, e alla fine sedurre dalle lusinghe del mondo (terrenae huius vitae illecebris allecti).

Fonte: Una Fides
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