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Risurrezione e storia

Ultimo Aggiornamento: 07/06/2010 13:16
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Risurrezione e storia

Di Daniele Di Sorco


Negli ultimi decenni sembra essersi diffuso uno strano «metodo» di analisi esegetica, che tende a distinguere due «verità» nella Scrittura: una teologica, l'altra esegetica (storico-critica). Si tratta di un problema molto serio, che riguarda non solo l'ambito esegetico ma anche quello apologetico e teologico, poiché dall'attendibilità dei racconti scritturistici, in particolare di quelli evangelici, dipende l'esistenza stessa della nostra fede (1). Nonostante questo, si ha l'impressione che oggi molte persone, anche tra il clero, non abbiano le idee molto chiare in proposito. Ciò, probabilmente, è dovuto alla sostanziale ambiguità di tale «metodo». Infatti, se ci si fosse limitati a negare, sic et simpliciter, una verità scritturistica, sarebbe stato piuttosto semplice accorgersi dell'errore, mentre operando una sottile distinzione tra «verità teologica» e «verità storica» si è ottenuto il duplice effetto di accontentare (almeno in apparenza) sia coloro che negano sia coloro che affermano la veridicità di un certo episodio contenuto nella Bibbia.

Possiamo fare un esempio pratico di questo «metodo» riferendoci a un articolo di Ravasi sulla resurrezione il quale, a sua volta, riprende un'istanza esegetica del gesuita Léon-Dufour. Secondo questi due studiosi, la resurrezione, come tutti gli eventi soprannaturali riportati nella Bibbia, non può essere considerata un fatto storico (in senso stretto), bensì un fatto metastorico. Vedremo più oltre perché questa distinzione non ha senso. Per il momento basti dire che un simile «metodo» esegetico non è affatto nuovo (e non lo era neppure negli anni successivi al Concilio), ma risale, nientemeno, alla scuola razionalistica tedesca del XIX secolo, da cui passò successivamente nel protestantesimo liberale e nel modernismo.

S. Pio X ne parla nell'enciclica Pascendi, di cui riporto alcuni passi:

«I primi tre canoni di questi tali storici o critici sono quegli stessi principî, che sopra riportammo dai filosofi: cioè l'agnosticismo, il teorema della trasfigurazione delle cose per la fede, e l'altro che Ci parve poter chiamare dello sfiguramento
. Osserviamo le conseguenze che da ciascuno di questi si traggono.

Dall'
agnosticismo
si ha che la storia, non meno che la scienza, si occupa solo dei fenomeni. Dunque, tanto Dio quanto un intervento qualsiasi divino nelle cose umane deve rimandarsi alla fede come di esclusiva sua pertinenza. Per lo che se trattasi di cosa in cui s'incontri un duplice elemento, divino ed umano, come Cristo, la Chiesa, i Sacramenti e simili, dovrà dividersi e sceverarsi in modo che ciò che è umano si dia alla storia, ciò che è divino alla fede. Quindi quella distinzione comune fra i modernisti, fra un Cristo storico ed un Cristo della fede, una Chiesa della storia ed una Chiesa della fede, fra Sacramenti della storia e Sacramenti della fede e via dicendo.

Dipoi questo stesso elemento umano, che vediamo lo storico prendersi per sé quale esso si porge nei monumenti
[cioè nelle fonti storiche]
, deve ritenersi sollevato dalla fede per trasfigurazione al di là delle condizioni storiche. Conviene perciò separarne di nuovo tutte le aggiunte fattevi: così, trattandosi di Gesù Cristo, tutto quello che passa la condizione dell'uomo sia naturale, quale si dà dalla psicologia, sia risultante dal luogo e dal tempo in che visse.

Di più, pel terzo principio filosofico, pur quelle cose che non escono dalla cerchia della storia, le vagliano quasi e ne escludono, rimandandolo parimenti alla fede, tutto ciò che, secondo quanto dicono, non entra nella logica dei fatti o non era adatto alle persone. Di tal modo, vogliono che Cristo non abbia dette le cose che non sembrano essere alla portata del volgo. Quindi dalla storia reale di Lui cancellano e rimettono alla fede tutte le allegorie che incontransi nei suoi discorsi. Si vuol forse sapere con quali regole si compia questa cernita? Con quella del carattere dell'uomo, della condizione che ebbe nella società, della educazione, delle circostanze di ciascun fatto: a dir breve con una norma, se bene intendiamo, che si risolve per ultimo in mero
soggettivismo
. Si studiano cioè di prendere essi e quasi rivestire la persona di Gesù Cristo; ed a Lui ascrivono senza più quanto in simili circostanze avrebbero fatto essi stessi.

Così dunque, per conchiudere,
a priori, come suol dirsi, e coi principî di una filosofia, che essi ammettono ma ci asseriscono d'ignorare, nella storia che chiamano reale
affermano Cristo non essere Dio né aver fatto nulla di divino; come uomo poi aver Lui fatto e detto quel tanto, che essi, riferendosi al tempo in cui Egli visse, Gli consentono di aver operato e parlato.

Come poi la storia riceve dalla filosofia le sue conclusioni, così la critica le ha a sua volta dalla storia. Essendoché il critico, seguendo gli indizi dati dallo storico, di tutti i documenti ne fa due parti. Tutto ciò che rimane, dopo il triplice taglio or ora descritto, lo assegna alla storia
reale; il restante lo confina alla storia della fede, ossia alla storia interna [cioè a quella che oggi definiremmo verità o dimensione teologica]. Giacché queste due storie distinguono diligentemente i modernisti; e, ciò che è ben da notarsi, alla storia della fede contrappongono la storia reale in quanto è reale. Perciò, come già si è detto, un doppio Cristo; l'uno reale, l'altro che veramente non mai esisté ma appartiene alla fede; l'uno che visse in determinato luogo e tempo, l'altro che solo s'incontra nelle pie meditazioni della fede; tale, per mo' d'esempio, è il Cristo descrittoci nell'Evangelio giovanneo, il qual Vangelo, affermano, non è che una meditazione» (2).

Lo storico e il critico «modernista» partono dal presupposto razionalista (non storico-critico, quindi, ma filosofico) per cui tutto ciò che è soprannaturale o ha attinenza col soprannaturale non può essere classificato come «storico», ossia, dal punto di vista della storia, non è mai avvenuto. Tutt'al più si potrà dire che è avvenuto dal punto di vista della fede, cioè della teologia.

Ora, una simile distinzione, se a prima vista può apparire soddisfacente perché non elimina il soprannaturale ma lo relega in un ambito separato, ad un'analisi più approfondita rivela tutta la sua incoerenza logica. La storia, infatti, per chi ne ha una sana concezione (3), è l'esposizione, lo studio e l'interpretazione dei fatti (avvenuti nel passato). Per «fatto» bisogna intendere, ovviamente, qualche cosa di realmente avvenuto. Di conseguenza, qualunque «fatto» è, per ciò stesso, storico, oggetto della storia. Se non è storico, non è neppure fatto: è una fantasia, un errore, un'invenzione di qualcuno.

Alla luce di queste considerazioni, non ha senso parlare di «fatto storico» contrapponendolo a «fatto metastorico, sovrastorico, teologico». Si potrà, tutt'al più, dire che certi fatti hanno un significato metastorico, ecc., ma ciò in aggiunta, non in sostituzione, al loro valore storico.

Alcuni obiettano che un fatto storico, per essere tale, dev'essere dimostrabile e quindi il soprannaturale, non essendolo, non può rientrare nel novero dei fatti storici. Ma anche qui si tratta di una considerazione filosofica, non storica. Sostenere che il soprannaturale non esiste o non è storicamente dimostrabile è una proposizione della filosofia razionalista, fatta in base a considerazioni di tipo speculativo, non di tipo storico. Compito dello storico, in senso stretto, è indagare sui fatti a partire dalle loro fonti. Che poi questi fatti siano naturali o soprannaturali, comuni (cioè rientranti nella «media» del comportamento umano) o straordinari, non è cosa che debba importargli. Altrimenti si sostituisce la storia con la filosofia. È ovvio che lo storico razionalista ricostruirà il passato partendo dal presupposto che il soprannaturale non esista, ma ciò non significa che il suo «metodo» sia corretto né, tanto meno, che coincida col «metodo storico» tout-court.

Un'altra comune obiezione può essere formulata in questo modo: poiché molti, anche tra gli studiosi, non credono nel soprannaturale (poiché una siffatta credenza implicherebbe una fede religiosa che non tutti hanno), i fenomeni soprannaturali non possono essere considerati storici. Qui ci troviamo di fronte a un doppio errore.

Primo, che l'esistenza di un fenomeno soprannaturale presupponga una fede religiosa. Molti studiosi onesti riconoscono la straordinarietà (cioè la trascendenza rispetto alle leggi di natura) di certi avvenimenti, senza per questo attribuire loro una causa divina. Allo storico spetta indagare sul fatto in quanto tale. Quali poi siano le sue cause, è compito dello scienziato (per le cause prossime), del filosofo o del teologo (per le cause remote) determinarle.

Secondo, che per classificare un fatto come storico si richieda un qualche consenso tra gli studiosi o tra la massa. Si tratta di un'idea diffusa, ma falsa. L'opinione di alcuni, di molti o anche di tutti non cambia la realtà delle cose. Certi storici, adducendo vari argomenti, negano che gli americani siano sbarcati sulla luna o che i nazisti abbiano sterminato gli ebrei. Ciò, però, non significa che questi eventi non siano accaduti né impedisce ad altri storici di presentarli come «fatti» a tutti gli effetti. La stessa divergenza di opinioni si riscontra a proposito di migliaia di altri eventi. Bisogna forse dedurne che essi non possono essere considerati storici?

Abbiamo visto che la distinzione tra «fatto storico» e «fatto sovrastorico» contraddice alla sana logica. La conseguenza per la Sacra Scrittura è che i racconti in essa riportati, fermo restando il loro valore metafisico, vengono divisi in due generi: storici, cioè realmente accaduti, e non-storici, cioè fittizi. Ora, che nella Scrittura vi siano testi con valore puramente didattico, senza riscontro fattuale, è una verità che la Chiesa ha sempre professato. Ma deve essere la Scrittura stessa ad autorizzarci a fare una deduzione di questo tipo. Altrimenti si resta nel campo dell'arbitrio, come se qualcuno affermasse che Tacito non ha avuto intenzione di scrivere la storia romana di un certo periodo, ma semplicemente di redigere una favola allegorica o edificante. Stante questo presupposto, i Vangeli, poiché ci vengono presentati come resoconti storici e non esiste alcuna ragione seria per mettere in dubbio questa loro caratteristica, sono storici (ad eccezione delle parti, come le parabole, la cui natura fittizia risulta evidente dal contesto).

Ora, se i Vangeli sono storici, i fenomeni soprannaturali in essi riportati – miracoli, resurrezione, ecc. – sono realmente avvenuti. Il fatto che ci siano poche o molte persone che li negano, non cambia la realtà delle cose (contra factum non fit argumentum).

Per il cattolico questa è anche una verità di fede, sia perché alcuni fatti narrati nella scrittura sono oggetto di definizioni dogmatiche o insegnamento solenne (resurrezione, miracoli, ecc.), sia perché il fatto stesso dell'ispirazione e quindi dell'inerranza è un dogma (4).

Di fronte a questa considerazione elementare, i modernisti hanno cercato l'escamotage di distinguere il piano teologico da quello storico-critico. È un po' lo stesso tentativo che fecero i Corinti di fronte all'evangelizzazione: poiché trovavano difficile, secondo la mentalità greca, ammettere la resurrezione (reale) dai morti, la rimpiazzavano con una resurrezione solo simbolica, avente cioè valore solo sul piano teologico. Che cosa risponde S. Paolo a costoro? Che, se Gesù Cristo non è risorto dai morti, la nostra fede è vana (5). Generalizzando il concetto: se la Scrittura, nel riferire i fondamenti della divina Rivelazione, non riferisce fatti storici realmente accaduti ma favole simboliche senza alcun fondamento in re, la nostra fede è vana, poiché una fede rivelata si basa sulla manifestazione (reale) di Dio nella storia (6).

I Vangeli, come tutti i testi biblici, hanno la prerogativa dell'ispirazione, che porta con sé quella dell'inerranza. Ciò significa che, per il cattolico, essi sono non solamente testi storici (nel senso della storia profana), ma anche testi che, nel senso voluto e inteso dalla agiografo, non contengono errori di sorta (7). Non è lecito, quindi, negare un fatto o una serie di fatti che l'agiografo presenta come avvenuti, neppure mantenendo la sostanza generale del discorso. Del resto, rendiamoci conto di questo: se il Vangelo non è attendibile in un punto, anche piccolissimo, potrebbe non esserlo anche in tutti gli altri. Furono per primi i razionalisti a scartare dal testo biblico, con presunte ragioni storico-critiche, tutto ciò che non si accordava alla loro idea di Bibbia o di cristianesimo. Lo stesso, oggi, fanno i vari «nuovi esegeti», mossi dalle più svariate ragioni filosofiche e teologiche (tra cui l'ecumenismo). C'è stato chi ha negato l'autenticità paolina – e implicitamente il valore ispirato – a certi passi delle lettere pastorali in cui si esprimono concetti contrari alla mentalità femminista moderna. I risultati di un simile modo di procedere, ognuno li immagina.


APPENDICE: documenti del Magistero ecclesiastico sulla storicità della Resurrezione e dei miracoli biblici in genere.

1. Suprema Sacra Congregazione del Sant'Uffizio, Decreto Lamentabili (8 luglio 1907). Errori dei modernisti sulla Chiesa, la rivelazione, il Cristo, i sacramenti. N. 36 (Denz. 2036): «La risurrezione del Salvatore non è un fatto di ordine propriamente storico, ma un fatto di ordine puramente soprannaturale, non dimostrato né dimostrabile, che la coscienza cristiana ha fatto progressivamente derivare da altri fatti» (proposizione condannata).

2. S. Pio X, Enciclica Pascendi (8 settembre 1907). Cfr. il testo citato nel corpo dell'articolo.

3. S. Pio X, Motu proprio Sacrorum antistitum (1 settembre 1910). Giuramento contro gli errori del modernismo (Denz. 2146). «[...] Riprovo altresì l'errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana. – Disapprovo pure e respingo l'opinione di chi pensa che l'uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati. [...] Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l'insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull'origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell'aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l'esame di qualsiasi altro documento profano. [...]».

4. Pio XII, Enciclica Humani generis (12 agosto 1950). «Con audacia alcuni pervertono il senso delle parole del Concilio Vaticano con cui si definisce che Dio è l'Autore della Sacra Scrittura, e rinnovano la sentenza, già più volte condannata, secondo cui l'inerranza della Sacra Scrittura si estenderebbe soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione e la morale. Anzi falsamente parlano di un senso umano della Bibbia, sotto il quale sarebbe nascosto il senso divino, che è, come essi dichiarano, il solo infallibile. Nell'interpretazione della Sacra Scrittura essi non vogliono tener conto dell'analogia della fede e della tradizione della Chiesa; in modo che la dottrina dei Santi Padri e del Magistero dovrebbe essere misurata con quella della Sacra Scrittura, spiegata, però, dagli esegeti in modo puramente umano; e non piuttosto la Sacra Scrittura esposta secondo la mente della Chiesa, che da Cristo Signore è stata costituita custode e interprete di tutto il deposito delle verità rivelate. Inoltre il senso letterale della Sacra Scrittura e la sua spiegazione elaborata, sotto la vigilanza della Chiesa, da tali e tanti esegeti, dovrebbe, secondo le loro false opinioni, cedere il posto ad una nuova esegesi, chiamata simbolica e spirituale; secondo quest'esegesi i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti. In questo modo - essi affermano - svaniscono tutte le difficoltà alle quali vanno incontro soltanto coloro che si attengono al senso letterale delle Scritture. Tutti vedono quanto tutte queste opinioni si allontanino dai principi e dalle norme ermeneutiche giustamente stabilite dai Nostri Predecessori di felice memoria: da Leone XIII nell'Enciclica Providentissimus Deus, da Benedetto XV nell'Enciclica Spiritus Paraclitus, come pure da Noi stessi nell'Enciclica Divino afflante Spiritu» (Denz. 2315-2316).

5. Pontificia Commissione Biblica (8), Istruzione Sancta Mater Ecclesia sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile 1964). N. 1: «[...] Alcuni fautori di questo metodo [della storia delle forme], spinti da pregiudizi razionalistici, si rifiutano di riconoscere l'esistenza di un ordine soprannaturale, l'intervento nel mondo di un Dio personale per mezzo di una vera e propria rivelazione, la possibilità e l'esistenza dei miracoli e delle profezie. Altri procedono da una falsa nozione di fede, come se essa non avesse a che fare con la verità storica o non potesse conciliarsi con essa. Altri negano quasi a priori il valore e l'indole storica dei documenti della rivelazione. Altri, infine, sminuendo l'autorevolezza degli Apostoli in quanto testimoni di Cristo e il loro ruolo e influsso sulla comunità primitiva, esagerano la potenza creatrice di tale comunità. Tutte queste opinioni non solo si oppongono alla dottrina cattolica, ma sono anche prive di fondamento scientifico ed estranee ai principî di un sano metodo storico» (A.A.S. 56 [1964] 713).


NOTE

(1) S. Paolo esprime molto chiaramente questo concetto, relativamente alla risurrezione del Cristo, nella 1ª Lettera ai Corinzi: «Vorrei ora, o fratelli, mettere a voi in chiaro l'evangelo che già vi annunziai, che voi accoglieste, nel quale perseverate e grazie al quale siete sulla via della salvezza, se, come suppongo, lo ritenete nei termini in cui ve lo annunziai, a meno che abbiate aderito alla fede invano» (15, 1-2). Secondo i commentatori, i Corinzi non negavano la risurrezione in quanto tale, ma la intendevano in senso metaforico e spirituale, mentre S. Paolo, ben conscio del pericolo che tale convinzione comportava per la fede, nella sua lettera ne ribadisce il carattere reale, fisico, storico. Annotando il passo in questione, N. PALMARINI scrive: «Per influsso di certe correnti filosofiche e religiose, alcuni cristiani di Corinto, pur ammettendo la risurrezione di Cristo, dovevano stimare più dignitoso ammettere la sola immortalità dell'anima. La risurrezione della carne o si riteneva impossibile, o almeno indesiderabile, essendo il corpo fonte di peccato. L'errore non era forse ancora giunto al punto cui giungerà più tardi (cfr. 2 Tim. 2, 17); tuttavia metteva implicitamente in discussione la stessa risurrezione di Cristo e le basi del cristianesimo. Ecco perché Paolo rivendica energicamente la verità» (La Sacra Bibbia, tradotta dai testi originali e commentata, a cura di Mons. S. GAROFALO, Torino, Marietti, 1960, vol. III, ad locum).

(2) S. PIO X, Enciclica Pascendi (8 sett. 1907): Denz. 2096-2097.

(3) «La storia, narrazione di fatti, deve – ed è questa la sua legge principale – coincidere con questi fatti, come realmente si sono verificati» (BENEDETTO XV, Enciclica Spiritus Paraclitus, 15 sett. 1920: Ench. Bibl., 457).

(4) Cfr. CONCILIO VATICANO I, sess. III, cap. 2 (Denz. 1787): «I libri dell'antico e del nuovo Testamento, presi integralmente con tutte le loro parti – così come sono elencati nel decreto dello stesso Concilio [di Trento] e come sono contenuti nell'antica edizione della Volgata – devono esser accettati come sacri e canonici. La Chiesa non li considera tali perché, composti per iniziativa umana, siano stati poi approvati dalla sua autorità, e neppure solo perché contengono la rivelazione senza errore, ma perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa.»; ibid., can. 4 (Denz. 1809): «Se qualcuno non riconosce come sacri e canonici i libri della sacra Scrittura completi e con tutte le loro parti, come sono stati elencati dal santo concilio di Trento o dice che essi non sono divinamente ispirati, sia anatema». – L'inerranza, in quanto necessaria conseguenza dell'ispirazione (LEONE XIII, Enciclica Providentissimus, Denz. 1951), è definita «dogma cattolico» in un documento della Pontificia Commissione Biblica (Denz. 2180), ai tempi in cui essa era ancora un organo del Magistero ecclesiastico.

(5) Cfr. sopra, nota 1.

(6) Questo concetto, fondamentale per la dottrina cattolica, è stato riassunto in maniera molto efficace da R. DE VAUX in un suo articolo sulla storia dell'antico Testamento: «Bisogna intendersi: se si tratta di determinare ciò che gli Israeliti credevano, riconosco che è secondario – anche se interessante – domandarsi in quale misura tale credenza avesse fondamento nella realtà. Ma se si vuole fare una “teologia” dell'antico Testamento, che studia e presenta la rivelazione fatta da Dio agli uomini, prima a Israele e poi, per suo tramite, a noi, e se si ammette, come fa von Rad, che questa rivelazione si è compiuta nella storia e per mezzo della storia, allora diventa essenziale sapere se questa rivelazione “storica” è storicamente fondata. G. von Rad identifica la confessione fondamentale della fede d'Israele col “credo” di Deut. XXVI, 5-9, che è stato menzionato all'inizio di questo articolo: “Mio padre era un Arameo errante...”. Se questo riassunto di “storia santa” è contraddetto dalla “storia”, se questa professione di fede non corrisponde ai fatti, la fede d'Israele è vana, e anche la nostra. Il rapporto dei Patriarchi ebrei con la storia non è soltanto un problema di erudizione» (Studii Biblici Franciscani Liber Annuus, 13 [1962-1962] 296).

(7) Cfr. sopra, nota 4.

(8) Alla data in cui fu emanata questa istruzione, la Pontificia Commissione Biblica era ancora un organo del Magistero ecclesiastico.
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