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Il dramma di Antigone. Lettera di un Sacerdote

Ultimo Aggiornamento: 18/08/2010 14:20
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18/08/2010 14:20

Il dramma di Antigone. Lettera di un Sacerdote

Riceviamo e pubblichiamo questa lettera scritta da un sacredote nostro lettore. In essa sono contenute alcune riflessioni personali concernenti la distrbuzione della Comunione sulla mano rivelatrici del fatto che tale prassi, oltre ad essere discutibile, e di fatto molto discussa, ingenera non pochi disagi anche tra le file del clero.
D.F.



Gentile Redazione,
Cari lettori,

Non avrei scritto queste brevi riflessioni se non fossi convinto che esse valichino potenzialmente i limiti della mia coscienza e possano costituire un elemento di riflessione per molti, anche per qualche mio confratello che si trova su posizioni diverse od opposte rispetto alle mie.
Ho scelto il titolo, non senza amara ironia, per allegoriam: Antigone, protagonista dell’omonima tragedia sofoclea, consuma il proprio dramma divisa tra l’obbedienza alla legge del tiranno Creonte e il sentimento insopprimibile della pietas che emerge prepotente dalla propria coscienza e la sospinge a dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, contravvenendo in tal modo ai comandi del re. Nomos ed Ethos, legge e coscienza entrano in contrasto e fomentano un’aspra contesa nel cuore della fanciulla che infine dà sepoltura al corpo esanime del fratello e accetta l’orribile sentenza di morte che le viene comminata.
Dopo aver tratteggiato, con l’aiuto dell’allegoria, il quadro in cui si colloca quanto sto per dire, entro nel merito della questione che è oggetto delle mie riflessioni e del mio personale “dramma d’Antigone”: la Comunione sulla mano.


Certamente l’argomento non è nuovo. Molto è stato scritto e molto è stato detto pro aut contra. Io, pro mea parte, non intendo affatto ripercorrere le motivazioni storiche, teologiche, “pastorali” o spirituali che giustificano o che condannano tale prassi; io intendo dare la mia testimonianza, la testimonianza di un giovane sacerdote, circa il grave dilemma che sorge nel mio animo tutte le volte che mi trovo nella situazione di dover distribuire l’Augustissimo Sacramento nelle mani dei fedeli.
Preciso subito che tale situazione è per me infrequente; nella comunità in cui celebro abitualmente ho attuato una forte opera di persuasione affinché tutti si decidessero a ricevere l’Eucaristia in bocca per rispetto al Sacramento. Non si pensi che quest’opera di persuasione sia stata semplicissima: spesso ho dovuto fronteggiare reazioni assai virulente da parte di qualche fedele indispettito dalle mie raccomandazioni accorate, altre volte ho dovuto sedare la fronda dei più “insospettabili” (si veda a titolo di esempio la suora con sessant’anni di vita consacrata o la nonnina che, paradosso!, sgrana quindici rosari al giorno…) ma alla fine – argue, obsecra, increpa – ho riportato vittoria.


Tuttavia il dilemma mi si ripresenta in tutta la sua urgenza ogni volta che mi trovo a celebrare extra moenia. “Ma quale dilemma?” potrà forse domandarmi qualcuno; lo accontento subito. Il dilemma di vivere un’insanabile scissura interiore tra l’obbligazione della legge che concede al fedele il “diritto” di ricevere la Particola sulle mani (e, per conseguenza, impone a me sacerdote il dovere di accondiscendere) e l’obbligazione della mia coscienza che mi comanda di cessare immediatamente l’orribile sacrilegio: il sacrilegio, dico, di posare insieme con la Particola una moltitudine di frammenti chiaramente visibili ad occhio nudo sulle palme dei fedeli (molte volte inavvertiti, altre volte distratti) con la certezza che essi cadranno per terra e verranno conculcati. Come si può vedere, nessun’argomentazione storico-dogmatica-pastorale, ma la constatazione di un fatto tanto banale quanto gravissimo: il Corpo di Cristo sacramentato, conservando la specie del pane, perde frammenti esattamente nella maniera in cui il panino posto sulla tovaglia fa le briciole. Contra factum non valet argumentum. Chi negasse ciò (e qualche mio confratello ardisce negare col dire : “I frammenti li vedi solo tu!”) potrebbe ugualmente impegnarsi a negare che il Sangue di Cristo sotto la specie del vino, qualora, Dio non voglia, sia rovesciato sulla tovaglia, impregni il tessuto e macchi!
Non prendo neppure in considerazione le febbrili farneticazioni di quel ben noto liturgista che propone di paragonare la dispersione dei frammenti eucaristici ai “frammenti della Parola” che inevitabilmente cascano nell’indifferenza di chi non porge attenzione alla proclamazione delle letture! Nella mia mente risuona come un martello la perentoria voce di San Tommaso: “Quando spezzi il Sacramento, non vacillare ma ricordati che Cristo è tanto nel frammento quanto nell’intero!” (Sequenza Lauda Sion).
Una volta ho esposto ad un pio sacerdote il mio disagio; mi ha risposto che, essendo involontaria, tale dispersione eucaristica non provoca alcuna colpa morale. Sfortunatamente un po’ di teologia l’ho studiata anch’io e, se ben ricordo, occorre distinguere la “colpa in atto” e la “colpa in causa”. Provo ad esemplificare: se viaggiando in macchina travolgo e uccido involontariamente una persona, non ne ho colpa in atto: è un incidente. Ma se tale incidente è accaduto perché io in precedenza avevo bevuto sostanze alcoliche che avevano ridotto la reattività dei miei riflessi e ciò mi ha impedito di frenare, sorge una colpa in causa e l’omicidio sarà colposo. Certamente il sacerdote che distribuisce la Comunione sulle mani non ha “colpa in atto” per la dispersione dei frammenti, giacché essa è dovuta all’inavvertenza propria e del fedele. Ma si può escludere anche la “colpa in causa”? Detto altrimenti, ha quel sacerdote compiuto ogni sforzo preventivo affinché il sacrilegio prevedibile fosse evitato? Evidentemente no, giacché solamente la sospensione della prassi incriminata sarebbe una misura sufficiente per evitare anche solo il pericolo di una tale profanazione eucaristica.
Alcuni osservano che la Comunione sulla mano è antichissima e solo molto tardi fu abrogata; ora, tralasciando il fatto che le attestazioni non sono poi così sicure (come dimostrava Padre Zoffoli in un prezioso opuscoletto sull’argomento), sappiamo per certo che la prassi sacramentale della Chiesa dei primi secoli era infinitamente più rigida rispetto all’attuale; la consapevolezza dell’essere cristiani era certamente più radicata tra i fedeli e le conseguenze che ne derivano erano vissute con una severità a noi oggi sconosciuta (si pensi all’unicità della Penitenza post-battesimale); quand’anche questa prassi sia effettivamente esistita nell’antichità, dobbiamo pensare che si svolgesse in modo tale da essere totalmente fugato il pericolo di ingiuria al Sacramento, cosa che oggi non avviene più.

Quando sono “costretto” a distribuire l’Eucaristia sulla mano questi pensieri agitano la mia mente; allora, per trovare un po’ di serenità, mi dico che in fondo tale prassi è una disposizione dei Superiori e che la responsabilità ricadrà su di essi; ma questo scaricare il barile non mi soddisfa affatto. Mi chiedo se la mia obbedienza sia veramente virtuosa o, più verosimilmente, colposa. Mi domando come mai si esiga da me l’obbedienza ad una legge alla quale per primo il Superiore dei superiori – mi si passi quest’insolita espressione per alludere al Romano Pontefice – non si sottomette. “Il Papa fa ciò che vuole!” mi ha detto un confratello; “il Papa non è l’eccezione, ma la norma della liturgia romana” gli ho risposto io.
Un altro sacerdote ha risolto da anni il problema: distribuisce l’Eucaristia esclusivamente sotto le due specie. La soluzione è politically correct ma, oltre alla risibile assurdità di doversi fare utraquisti per rimanere fedeli a Trento, nascono molti problemi pratici, tra cui un pericoloso acrobatismo digitale per sorreggere contemporaneamente il Calice e la Pisside, col rischio di rovesciare et-et. Alcuni amici sacerdoti (e sinceramente tra i più coerenti), ignorando le “pargolette mani” dei fedeli tese verso di loro, muovono risolutamente la Particola Santa verso la bocca del comunicando. “Voi non ne avere il diritto!” protestano gli altri; ma essi inconcussibili rispondono che non conoscevano il fedele, che c’era pericolo di profanazione, che le palme presentate erano sporche, etc… Ma non si può nascondere che tale atteggiamento provoca talvolta delle reazioni in grado di turbare il sereno svolgimento della Celebrazione.


Le mie riflessioni non possono concludersi se non con un accorato appello al Papa e ai Vescovi affinché ripensino ed eradichino definitivamente una prassi così deleteria. Abitualmente e rettamente questa supplica viene giustificata con la necessità di ridonare alla liturgia delle forme che contribuiscano all’edificazione della fede del popolo; poche volte si dice che le forme liturgiche sono necessarie anche per l’edificazione dei sacerdoti. Antigone non si è piegata alla legge ed è stata rinchiusa in una caverna e lasciata morire di fame. Tanti sacerdoti come me possono scegliere di piegarsi alla legge o di farsi rinchiudere (emarginare): il rischio però, nell’uno o nell’altro caso, è il medesimo: l’estinguersi della vita soprannaturale nei loro cuori.

Un Sacerdote

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