20.11.2009
di Giuseppe GRAMPA
Parroco di S. Giovanni in Laterano, Milano
Semplici e insieme solenni le parole con le quali Marco apre il suo evangelo. Inizio dell’evangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio. Tutto è detto in queste poche parole. Forse avete notato l’uso da parte mia del termine evangelo, in luogo del più comune vangelo. Una stranezza, un capriccio linguistico? No, il termine evangelo ci restituisce meglio l’originale greco: eu-angelion, appunto buon annuncio, lieta notizia. Il prefisso eu dice buono, bello e lo ritroviamo in diversi termini come per esempio eutanasia, la buona o bella morte. Oppure eugenetica, il tentativo di selezionare la specie mettendo al mondo solo creature belle, riuscite, magari bionde e con gli occhi azzurri. Scusate questa introduzione che può sembrare pedante, ma io sono davvero affezionato a questo termine che mi ricorda come il mio compito in questo momento e nell’intera mia vita di prete sia quello di ridire sempre e solo l’evangelo, la buona, la bella notizia. Altro non ho da dire. Non devo essere profeta di sventura, minacciare castighi e annunciare catastrofi. Questo non sarebbe evangelo. Nemmeno devo enunciare precetti, stabilire doveri, mettere, come si dice, i paletti contro il permissivismo dilagante. Questo non sarebbe evangelo. Ma allora che cosa è l’evangelo? Marco lo dice con chiarezza: Gesù Cristo è il figlio di Dio. Due millenni di cristianesimo ci hanno abituati a questa formula al punto che essa non suscita alcuna emozione, nessun brivido di stupore. E invece la buona, la bella notizia è che nell’uomo Gesù, Dio, l’Eterno si è a noi comunicato. Dopo aver molte volte parlato attraverso tanti uomini suoi portavoce, suoi emissari a cominciare da Abramo, adesso parla a noi nel Figlio.
Inizio dell’evangelo vorrei leggere questa parola anche così: in principio, all’inizio c’è l’evangelo, così come la prima parola del Libro sacro è: In principio Dio. L'esperienza religiosa per la Bibbia è in assoluto esperienza che Dio fa di noi, non un'esperienza che noi facciamo di Dio.
Dio si interessa dell’uomo
Almeno 350 volte leggiamo nella Bibbia l’affermazione: "Io sono il Signore Dio tuo".Quasi come sigla possiamo prendere la parola di Isaia: "Israele, non sei tu che ti interessi di Dio, é Dio che si interessa di te". E Paolo è stupito di fronte alla parola che Isaia mette in bocca a Dio: “Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano". E' Dio che per primo si interessa dell'uomo, lo ricerca. Allora: "L'importante non è conoscere Dio, è essere conosciuti da lui" (Gal 4,9). E sempre Paolo, raccoglierà l’intera sua avventura con le parole: "Sono stato afferrato-impugnato da Cristo" (Fil 3,12).
Abbiamo appena iniziato il nostro cammino di Avvento: ma non siamo noi ad andare verso il Signore e il suo Natale, è lui che viene a cercarci. Questa è la buona, bella notizia, l’evangelo. Questo, solo questo dobbiamo tutti dire senza stancarci.
Eppure, subito dopo questo annuncio ci viene incontro la figura aspra di Giovanni il Battista. Ne conosciamo bene l'aspetto esteriore, i rozzi indumenti il nutrimento poverissimo. Giovanni è l'uomo del deserto. E' l'uomo dell'essenziale. Possiamo dire che Giovanni Battista è un grande moralista che conosce il male e le sue radici nel cuore dell'uomo e sa che per combatterlo occorrono uomini intransigenti con se stessi e con il proprio io egoista, arrogante, sempre pronto al compromesso. Giovanni ci appare così come il campione di una religiosità che ha nello sforzo morale dell'uomo il suo cardine, una religione affidata alla durezza della disciplina.
L’apripista
Ma Giovanni avverte altresì il suo limite, il suo esser chiamato a fare solo da apripista che deve preparare ad un Altro la via, un Altro più forte di lui.
Giovanni infatti si presenta come colui che è totalmente relativo a Gesù, come colui che mette sulla strada dell'incontro con Gesù. In due modi Giovanni descrive la sua relazione con Gesù. Anzitutto il suo battesimo è nell'acqua, segno esteriore del desiderio di conversione, ma incapace di realizzare efficacemente tale conversione. Battesimo d'acqua appunto e non di Spirito Santo. Solo il dono dello Spirito di Gesù conferirà forza ri-creativa al battesimo. Inoltre Giovanni si pone rispetto a Gesù come il servo, anzi in posizione, se possibile, di ulteriore inferiorità. Slegare i legacci dei sandali era compito così umiliante che lo si poteva esigere solo da uno schiavo. Un giudeo non lo poteva pretendere da un servo giudeo. E Giovanni si presenta come indegno di compiere verso Gesù questo gesto perché Colui al quale prepara la strada è più forte di lui. Giovanni rappresenta lo sforzo umano, l'impegno umano per conseguire la giustizia mediante le opere della penitenza. Sta qui la sua grandezza e insieme il suo limite. Con Gesù noi sappiamo ormai che la salvezza prima che conquista mediante i nostri sforzi è dono, è grazia, è evangelo, da accogliere a braccia aperte e con cuore libero. Non siamo noi gli artefici della nostra salvezza, dobbiamo invocarla come un dono.