"Il farmacista di Auschwitz" di Dieter Schlesak

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S_Daniele
00giovedì 12 novembre 2009 18:52



"Il farmacista di Auschwitz" di Dieter Schlesak

Agghiacciati di fronte alla banalità del male


di Gaetano Vallini

"Sono stata deportata con i miei genitori e mia sorella ad Auschwitz nel giugno del 1944. Arrivammo che era buio... dovevano essere le tre o le quattro. I lampioni erano ancora accesi. Entrambi i miei genitori conoscevano da tempo il dottor Capesius, che si presentava spesso nel loro studio quale rappresentante dei prodotti della IG-Farben. Quando mia madre vide l'ufficiale che si occupava della selezione dei prigionieri, disse:  "Ma quello è il dottor Capesius di Klausenburg". Io credo che lui allora abbia riconosciuto mia madre, perché fece un cenno di saluto con la mano. Ma poi spedì a sinistra, nel gas, mia madre e mia sorella, io invece fui mandata a destra, cosicché potei vivere. Più tardi ho incontrato un conoscente che era accanto a mio padre alla selezione. Mi raccontò che mio padre aveva salutato Capesius e gli aveva chiesto dove fossero sua moglie e la sua figlioletta di undici anni. E Capesius gli avrebbe risposto:  "Mando anche lei là dove si trovano sua moglie e la sua bambina, è un bel posto"".

L'agghiacciante testimonianza della dottoressa Adrienne Krausz, riportata da Dieter Schlesak nel libro Il farmacista di Auschwitz (Milano, Garzanti, 2009, pagine 446, euro 18,60), descrive efficacemente il protagonista di questo romanzo-documento, un uomo che incarna alla perfezione quella che Hannah Arendt aveva identificato come "la banalità del male". Viktor Capesius dal 1943 è il farmacista della più gigantesca fabbrica della morte della storia dell'umanità. Sulla famigerata banchina dove giungono i convogli carichi di ebrei, seleziona personalmente le vittime, fa loro lasciare i bagagli e le manda a morire. Ed è sempre lui a distribuire i barattoli di Zyklon b che viene immesso nelle camere a gas.

Fra le persone che destina alla morte con inumana indifferenza ci sono non soltanto persone a lui sconosciute, ma anche alcuni suoi antichi vicini di casa a Sighisoara, gli stessi che in una fotografia del 1929 lo circondano sorridenti nella scuola di nuoto della cittadina romena, la Schässburg dell'impero austroungarico. Sono suoi compaesani, come Ella Salomon, che da ragazzina entrava nella sua farmacia per ricevere una caramella o un bloc-notes in regalo e che rivede arrampicarsi alla piccola feritoia del vagone deportati alla ricerca di un po' di aria; conoscenti come il dottor Mauritius Berner, che appena arrivato al campo si vede strappare dalle braccia le sue gemelline di soli sei anni, mute e atterrite, che moriranno poche ore dopo con la mamma soffocate dal gas, e al quale dice come fosse la cosa più normale del mondo:  "Andate soltanto a fare un bagno, fra un'oretta vi rivedrete tutti".

È un libro durissimo, crudo, quello di Schlesak, che presenta un solo personaggio inventato:  Adam, colui che in qualche modo fa da voce narrante in un crescendo di testimonianze e resoconti allucinanti, tratti da verbali di interrogatori e dalle udienze al processo ai carnefici di Auschwitz svoltosi nel 1964 a Francoforte. A lui - deportato costretto a far parte del Sonderkommando, un uomo che custodisce ricordi che sono come "bestie nere", che gli stanno alle costole, e ridono, e ghignano, ogni notte, atrocemente - lo scrittore affida le sue riflessioni.

Nato anch'egli nella transilvana Schässburg-Sighisoara, Schlesak conosce bene Victor Capesius. La sua trasformazione in mostro diviene oggetto di studio. Del resto nessuno avrebbe potuto farlo meglio di lui, "notevolissimo scrittore che ha vissuto - come rileva Claudio Magris nella interessante prefazione al libro - le contraddizioni della sua identità di autore di lingua tedesca in Romania come un destino di frontiera. Non certo solo quella geopolitica della sua vicenda personale, bensì la frontiera esistenziale che nella storia contemporanea attraversa e divide così spesso non soltanto i territori, ma anche e soprattutto le persone, il loro cuore e la loro intelligenza".

Per Schlesak, come per il grande poeta tedesco Paul Celan, nato in Bucovina, che perse la mamma proprio ad Auschwitz, la madrelingua diviene la lingua degli assassini. Ma non riesce a rinnegarla. "È comunque la mia madrelingua! - fa dire ad Adam - l'ho difesa anche là. Anche nel campo di concentramento io non la odiavo come i miei compagni polacchi, russi, francesi. E scrivevo in tedesco. Tacere non era bene". E spiega:  "Sono convinto che sia l'unica lingua che può colpire il centro (...) Non perché sia la mia madrelingua, no, ma per recuperare il dono perduto di parlare di Dio, perché certamente Dio a partire da Auschwitz si è ritratto dall'ambito dell'esperienza umana. E un ritorno dovrebbe provenire dall'idioma stesso della morte".

Un ritorno che lo scrittore vuole dunque far passare anche attraverso la narrazione di ciò che molti hanno definito indicibile, ma che pure deve essere raccontato. E lo fa ricostruendo la "metamorfosi infame" di Capesius, secondo l'efficace definizione di Magris, attraverso la quale l'idillio di provincia diviene "il più atroce e fetido mattatoio della storia", in cui "i commensali di liete tavolate domenicali nelle colline transilvane si dividono in assassini e assassinati".

Per mezzo di quell'anonimo farmacista, arruolatosi come ufficiale nelle ss, Schlesak cerca una spiegazione a come sia stato possibile lo sterminio di milioni di uomini. Soprattutto cerca di capire come un uomo normale possa essersi trasformato, al pari di migliaia di altri, in "volenteroso carnefice", per dirla con Daniel Goldhagen.
Convinto di comportarsi da buon tedesco, Capesius è diligente nell'eseguire gli ordini che gli vengono impartiti, perché, come dice lui stesso al processo, "non si poteva fare altrimenti". E comunque manca il senso della colpa. "Sempre di nuovo questo urto fra la normale vita quotidiana - racconta Adam - e ciò che incarna, che è effettivamente l'uniforme delle ss. Con il suo modo di fare gioviale, Capesius agiva sempre come se non fosse successo niente, come se tutto fosse assolutamente normale". È indubbiamente un uomo che ha difficoltà a capire il male che si sta compiendo e che lui contribuisce a compiere. "Io - risponde al giudice che gli chiede se quanto accadeva ad Auschwitz gli sembrasse illegale - sono cresciuto in Transilvania, con la più grande venerazione per il germanesimo. Nella casa paterna lo stato tedesco mi fu presentato come stato modello. Mio padre, in particolare, mi ha sempre spiegato che la Germania è un modello di ordine e di legalità. Sulla base di questo atteggiamento ho ritenuto che ciò che accadeva ad Auschwitz fosse legale, benché mi sembrasse crudele (...) Io non  ho  mai pensato  che  in Germania  fosse  possibile una cosa del genere senza  una legge corrispondente".

Per Capesius, dunque, non si può scegliere, bisogna obbedire; e comunque lo sterminio non può essere in discussione se ad attuarlo è la Germania. "Non prova neppure sentimenti di colpa o di rifiuto e di orrore per ciò che ha visto e a cui ha partecipato. Lui - si legge - ha dovuto partecipare, e basta. Ricorda sempre e solamente il comando, l'ordine, il regolamento e le date, e i numeri, e il calendario. Rammenta solo dettagli burocratici univoci e comprensibili:  per lui sono tutta la realtà".

Ma certamente dopo la guerra, sfuggito temporaneamente alla giustizia, gode di alcuni vantaggi tratti dalla sua permanenza ad Auschwitz. "Durante le mie ore di lavoro - racconta un deportato selezionato per il lavoro nella farmacia del campo - guardavo cosa facesse e ho visto che Capesius selezionava gli oggetti più preziosi e i pezzi di maggior pregio, li infilava nelle valigie di cuoio migliori e più tardi le portava via con sé (...) Del resto noi dovevamo ripartire i medicinali in diverse stanze. In una di queste notai venticinque, quaranta valigie con migliaia di singoli denti strappati via e intere protesi. Questi denti provenivano da prigionieri uccisi nelle camere a gas". Come altri, quindi, anch'egli si appropria dei beni dei deportati assassinati. Protesi d'oro, in particolare. E con quell'oro insanguinato dopo la guerra si ricostruisce una vita rispettabile e più che agiata a Stoccarda, dove apre una farmacia e un salone di bellezza, si sposa e ha tre figlie. Dopo un primo arresto senza conseguenze penali nel 1948, viene riarrestato nel 1959 e al processo è condannato a nove anni di carcere. Muore a Göppingen il 20 marzo 1985.

Ripercorrendo la vicenda del dottor Capesius, nella quale compaiono personaggi tristemente noti, come "l'angelo della morte" Josef Mengele, "l'assassino per bene" Fritz Klein e il comandante del campo Rudolf Höss, lo scrittore ricostruisce la terrificante storia di Auschwitz:  il trauma dell'arrivo, lo strazio delle selezioni, l'orrore delle gassazioni e delle cremazioni; crimini che non hanno bisogno di iperboli per essere raccontati. Per questo Schlesak scrive con uno stile asciutto, quasi con il distacco del cronista, consegnandoci un'altra impressionante testimonianza sulla banalità del male. Un libro che conferma quando a  volte la verità sia più inimmaginabile della più orribile fantasia.


(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2009)
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