Lettera ai ROMANI ( dal cap. 12 alla fine)

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Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:35
ESORTAZIONE APOSTOLICA
(12,1-15,13)

Col cap. 12 inizia la quarta parte della lettera ai Romani. Essa ha il carattere di esortazione e di incoraggiamento e presenta le conseguenze e le applicazioni alla vita pratica del kerigma.

1) La caratteristica fondamentale della vita cristiana (12,1-2)

1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:38

V. 1 - Il testo contiene due esortazioni. Questi ammonimenti hanno il senso di una deduzione da quanto precede, specialmente dai cap. 5-8. La frase: Ora io vi esorto, fratelli, attraverso la misericordia di Dio significa che per mezzo di Paolo la misericordia e la pietà di Dio fanno sentire il proprio incoraggiamento e la propria esigenza. Paolo è colui del quale si serve la misericordia di Dio, la quale parla attraverso la parola di lui. L’esortazione apostolica è la chiamata - che richiede, comanda, scongiura e incoraggia - della sempre preveniente misericordia di Dio.

Questa esortazione mira prima di tutto a ottenere che i cristiani offrano i loro corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. Quindi la misericordia di Dio esige e richiede l’offerta di un sacrificio, di un sacrificio corporeo, dell’offerta dell’intera vita della persona. Il corpo è l’uomo nella sua presenza corporea. La misericordia di Dio esige che questo corpo in carne e ossa si doni in sacrificio, che ognuno offra concretamente in sacrificio se stesso. Paolo esorta i cristiani di Roma ad essere al tempo stesso sacerdoti e vittime.

Questo sacrificio è vivente, santo e gradito a Dio perché viene offerto da viventi, santi e graditi a Dio. I viventi sono i battezzati che conducono la nuova vita escatologica sotto l’impulso dello Spirito (Rm 6,1 ss; 8,1 ss). Questi viventi sono anche i santi, che per Paolo significa: i chiamati alla santificazione (1Ts 4,7; 2Ts 2,13), i santificati nel battesimo (1Cor 6,11). Questo sacrificio santo è gradito a Dio. Questa dedizione di se stessi a Dio è il culto razionale, spirituale, morale o mistico, in cui l’uomo si offre come un essere simile a Dio.

V. 2 - Una componente del sacrificio vivente, santo e gradito a Dio è il non conformarsi a questo mondo, il non comportarsi secondo la logica del mondo che non conosce Cristo.

Nei confronti di questo mondo occorre un radicale non conformismo. Il non conformarsi al mondo esige anzitutto non di trasformare il mondo, ma di trasformare se stessi. E questa trasformazione non si compie una sola volta per tutte, ma deve avvenire sempre di nuovo. Questa radicale e fondamentale metamorfosi esistenziale si compie innanzitutto attraverso il rinnovamento del pensiero. Secondo Col 3,10 l’uomo nuovo rivestito nel battesimo viene rinnovato per mezzo di una piena conoscenza in modo da diventare immagine del suo Creatore. Ma nel battesimo viene rinnovato non solo l’essere del cristiano, ma anche il suo modo di esistere. La rinascita nel battesimo è una nuova creazione prodotta dallo Spirito santo che Dio ha riversato abbondantemente su di noi per opera di Gesù Cristo. Questa nuova creazione in Rm 12,2 riguarda il modo di pensare, è un nuovo modo di pensare. La trasformazione sempre nuova del cristiano consiste primariamente nell’incessante rinnovamento del pensiero, del modo di valutare che deve manifestarsi nelle scelte pratiche. Questo modo nuovo di pensare e di valutare sta alla base di tutto il resto. Questo pensiero rinnovato è il modo di pensare proprio della carità. Questa nuova mentalità serve per poter distinguere la volontà di Dio da ogni altra esigenza e decidersi a suo favore. Tale volontà di Dio è la santificazione (1Ts 4,3) e può essere parafrasata con le parole di 1Ts 5,17: Siate sempre lieti, pregate incessantemente, rendete grazie per tutto; questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù per voi. La volontà di Dio che il pensiero rinnovato sa discernere e per la quale esso riesce a decidersi è ciò che è buono e gradito e perfetto. Ma che cosa è vero, giusto e puro? È ciò che i cristiani hanno imparato, ricevuto e udito da Paolo e visto in lui: Ciò che avete imparato, ricevuto e ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare (Fil 4,9).

Il tèleion (= ciò che è perfetto) è il fine da perseguire ininterrottamente (cf. Col 1,28). Solo l’amore rende perfetti (Col 3,14).

Riassumendo: la misericordia divina esorta i cristiani alla vera donazione di sé, al sacrificio vivente, al culto di Dio spirituale, morale, mistico. Per fare ciò occorre una distanza critica e non un conformismo rispetto al mondo presente e una novità nel pensare che dia al cristiano la possibilità di vedere e di fare la volontà di Dio.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:38

2) Esortazioni alla ponderatezza e all’amore (12,3-21).

3Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. 4Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, 5così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. 6Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; 7chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; 8chi l’esortazione, all’esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.
9La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; 10amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. 12Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, 13solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità.
14Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. 16Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
17Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. 18Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. 19Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. 20Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. 21Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.

Il v.2 non era ancora un’indicazione di che cosa sia in concreto il sacrificio vivente richiesto dalla misericordia di Dio, ma ci mostrava in forma negativa e positiva il suo tratto essenziale: distanza critica nei confronti di questo mondo e una costante trasformazione dell’esistenza mediante il rinnovamento del pensiero per comprendere e fare la volontà di Dio.

Ora Paolo procede all’illustrazione di questo enunciato, per non rimanere nella pura teoria.

L’esortazione dell’apostolo mira a sollecitare e a risvegliare incessantemente il pensiero e la vita attiva dei cristiani, indirizzandoli verso il senso vero e proprio dell’esistenza cristiana: quel sacrificio che rende liberi e altruisti.

V. 3 - La grazia di Dio si esprime in parole per mezzo di Paolo. Facendo cadere il discorso sulla grazia che gli è stata concessa da Dio, Paolo intende parlare, oltre che del vangelo dell’apostolato, anche della grazia che si è manifestata efficacemente attraverso la sua autorità di apostolo. Paolo possiede uno speciale dono di grazia per edificare le chiese (Barrett). Questa parola della grazia che gli è stata concessa viene comunicata da Paolo a ciascuno nella comunità cristiana di Roma.

Tutti hanno bisogno di lui, sebbene alcuni - ad esempio tra i carismatici - potessero credersi autosufficienti. L’aspirare oltre la misura consentita è un’ambizione sconsiderata, irragionevole e errata. La misura della fede viene dosata individualmente da Dio a ogni singolo credente. Ognuno deve stare dentro i limiti della rispettiva misura personale di fede.

Ciò che qui è detto in un modo alquanto sottinteso, lo capiremo meglio un poco più avanti.

Vv. 4 - 5 - La comunità è paragonata al corpo umano. Solo la fede coordina nell’unità la molteciplità dei membri e dei loro misteri e doni. Paolo chiarirà il suo pensiero nei Vv.6-8. Egli ha presenti i diversi carismi e carismatici e teme che essi si sottraggano alla limitazione imposta dalla fede donata loro da Dio e così distruggano non solo i loro doni, ma anche l’unità del corpo della comunità. Paolo insiste perché ognuno valorizzi il suo carisma, ma anche perché se ne accontenti.

V. 6 - Ognuno ha dei carismi diversi, che variano secondo la grazia che ci è stata data. Essi sono la dimostrazione della grazia di Dio. I detentori valorizzino questi doni dello Spirito, loro concessi, nella giusta misura e nella loro limitazione nei confronti con gli altri. Se ciò avviene, si dimostrerà quel pensiero rinnovato, quell’esistenza trasformata, quella distanza critica dallo spirito mondano, il quale vuole sempre più di quanto gli si dà, e infine la libertà della donazione di sé.

Come primo carisma è nominata la profezia. Essa serve all’insegnamento, all’incoraggiamento, alla consolazione e, come tale, all’edificazione della chiesa (1Cor 14,3ss). Se ne deve controllare l’autenticità, perché c’è anche una falsa profezia (1Cor 12,10). Essa non è propriamente una predizione del futuro, ma un annuncio della volontà di Dio (1Cor 14,24-25). Quindi Paolo vuol dire: se un membro di una comunità ha il dono della profezia, rispetti il limite personale che la fede gli impone. Sia prudente. Solo così il suo carisma è un vero carisma che serve per l’unità della comunità.

Vv. 7 - 8 - Per diakonìa si intende ogni prestazione di servizio alla comunità. Chi possiede questo dono lo metta in pratica e si limiti ad esso; non vada in cerca di altri carismi, che forse sono più apprezzati o più vistosi o di maggior soddisfazione personale. Il dovere di chi ha ricevuto in dono il lavoro diaconale è che questi faccia il suo servizio. Non deve profetare o insegnare o governare, ma servire, e in tal modo egli agisce come la misura di fede donatagli gli consente e gli richiede (Schlatter). Però dobbiamo ricordare che anche l’insegnare o il governare rientrano nella diakonìa. Anche gli insegnanti si occupino del loro carisma e non vogliano per esempio, governare la chiesa. La didaskalìa è l’insegnamento didattico sul patrimonio della tradizione cristiana (H. W. Schmidt). Il medesimo principio della limitazione a un solo carisma vale anche per il parakalòn il quale è probabilmente quello che noi chiamiamo pastore d’anime, ossia colui che incoraggia, consolando e ammonendo.

Mentre finora Paolo ha raccomandato che ciascuno serva Dio entro i limiti delle sue capacità, ora passa a presentare lo stato d’animo con cui si devono compiere queste prestazioni di servizio carismatiche. Chi si prende cura dei poveri lo faccia con semplicità, senza secondi fini. La semplicità è quella libertà interiore che non rende il dare solenne e non rende amaro il ricevere, ma fa del dare e dell’accettare una testimonianza dell’imperscrutabile semplicità di Dio (Barth). Anche l’ufficio di capo è un carisma. Questo incarico deve essere esercitato con sollecitudine, con serietà e diligenza, con abnegazione e non pigramente. Le opere assistenziali e l’ufficio di responsabile non consentono per loro natura, il quieto vivere.

Colui che fa opere di carità di ogni genere, o èleon, agisca con serenità e gioia, non per costrizione o di malavoglia. Paolo si riferisce a Pr 22,8: Dio ama il donatore gioioso. Egli stesso cita la frase in 2Cor 9,7. La gioia di chi dona manifesta che, chi usa misericordia, dà agli altri con riconoscenza ciò che egli stesso ha ricevuto e così, con l’assistenza compassionevole fa capire che cosa sia la misericordia.

Il sacrificio a cui si è esortati dalla misericordia di Dio, secondo Rm 12,3 ss, comporta anzitutto che ogni componente della comunità si mantenga nei limiti della sua dotazione di fede e valorizzi i diversi doni per quel che sono e non li falsifichi con un entusiasmo da esaltato e neppure con modi di sentire inopportuni, mettendo così in pericolo l’unità della comunità.

V. 9 - A partire da questo versetto non si tratta più di servizi carismatici ma di sentimenti e disposizioni comuni a tutti. Al vertice si trova l’agàpe, l’amore sincero, genuino. L’amore non recita, non fa messe in scena, non dà spettacolo. Esso si sposa sempre con la verità.

Nella realizzazione del sacrificio richiesto dalla misericordia di Dio rientra anche la risolutezza nei confronti del male: Aborrite il male.

V. 10 - Paolo sottolinea la reciproca cordialità dell’amore fraterno, che deve regnare nella comunità. Essa è infatti la famiglia di Dio. Per quanto riguarda l’onore, o la deferenza, non basta tributarlo agli altri ma prevenire gli altri, ritenendoli superiori a se stessi (Fil 2,3; 1Ts 5,13).

Il rendere onore non è soltanto una convenzione, ma un precetto.

Anche la cortesia va connessa col disinteresse. In senso più profondo essa è umiltà.

V. 11 - All’indolenza Paolo contrappone l’ardore dello Spirito santo e l’entusiasmo dello zelo per il Signore.

V. 12 - La speranza, che anche nella sofferenza suscita la gioia, si basa nella speranza nell’invisibile e nell’eterno. A questo concorrono anche la pazienza e la preghiera. Per resistere pazientemente nella tribolazione è necessaria la preghiera assidua e costante.

V. 13 - L’amore sincero deve portare a prendersi cura delle necessità di ogni genere dei fratelli cristiani e a praticare l’ospitalità. L’ospitalità era molto apprezzata nel mondo antico perché la possibilità di trovare alloggio in strutture alberghiere era molto limitata e precaria.

Con l’ospitalità si può realizzare il sacrificio voluto dalla misericordia di Dio.

V. 14 - La misericordia di Dio esige che il cristiano preghi per la salvezza del suo nemico e faccia scendere la pace su di lui (Mt 10,13; Mc 6,10) e non - come la sinagoga - invochi su di lui la maledizione.

V. 15 - È un’esortazione tradizionale, il che però non sminuisce affatto la sua importanza. Il Sir 7,34 dice: Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Il gioire e il piangere insieme significa il vivere l’uno per l’altro. È l’abnegazione spinta a un punto tale che l’altro sono io e io sono l’altro, e così vivo la vita dell’altro (Fil 2,17-18).

V. 16 - Si succedono tre esortazioni a sé stanti. La prima mira alla concordia della comunità. Essa consiste nell’avere un medesimo fine e nell’usare gli stessi mezzi per raggiungerlo. Tale concordia si realizza quando si ha un unico modo di sentire in Cristo (Fil 2,5).

I credenti devono evitare la superbia e cercare l’umiltà. E tutto questo esige un rinnovamento del pensiero. Diversamente chi può essere attratto da ciò che è umile, da ciò che è di poco conto o insignificante o piccolo? Senza un rinnovamento nella visuale di fondo della propria vita, chi rinuncia veramente a una qualsiasi rinomanza o a una posizione di rilievo o in genere a una certa superiorità, sia mondana o spirituale o ecclesiastica? Con una nuova ammonizione si pone termine a queste esortazioni: Non vi considerate saggi a vostro giudizio (cfr Pr 3,7).

Questa frase equivale press’a poco a: non curarsi del vangelo predicato da Paolo (del mistero che solo lui conosce) proponendo delle rivelazioni personali spacciandole come vangelo; oppure non curarsi del parere di un altro fratello, ma ostinarsi a seguire la propria opinione, come fa chi rifiuta per principio la tradizione nel puro entusiasmo che presume di sapere già tutto in virtù di una ispirazione privata.

Vv. 17 - 18 - Questo testo fa ricordare Mt 5,38-39 dove Gesù respinge il principio occhio per occhio, dente per dente. L’idea è formulata da Paolo anche in 1Ts 5,15 e da Pietro in 1Pt 3,9. A questo comandamento, espresso in forma negativa, segue un comandamento in forma positiva: Mirate al bene davanti a tutti gli uomini.

La misericordia di Dio invita a conservare la pace non solo con quelli che sono personalmente ben intenzionati, ma con tutti. Spesso i cristiani sono odiati, calunniati, perseguitati e nel nemico non c’è alcuna intenzione di rappacificarsi. La volontà di pace del cristiano dev’essere illuminata, ma non deve credere utopisticamente di poter giungere alla conciliazione in ogni caso. Se non è possibile e se non dipende da lui raggiungere la pace, il cristiano deve sopportare con pazienza e vedere in ciò la volontà di Dio.

V. 19 - Abbiamo ancora un incitamento negativo e uno positivo. Colui al quale fu fatto del male non deve vendicarsi (Lev 19,18), ma lasciar posto al giudizio dell’ira di Dio, che ristabilisce la giustizia. Il NT non ammette alcuna restrizione a questo comandamento. Il sacrificio richiesto è radicale anche in questo caso.

V. 20 - Per la comunità cristiana il nemico è colui che la perseguita o la calunnia. Ma qui può essere anche il nemico personale. Il nemico saziato dall’amore giungerà a pentirsi e diventerà un amico. Quest’ultima esortazione approfondisce ancor più l’amore richiesto dalla misericordia di Dio, radicalizzandolo fino all’amore per il nemico. Il sacrificio richiesto dalla misericordia di Dio è l’amore verso il nemico, che è contemporaneamente impossibile e possibile: impossibile all’uomo carnale, possibile all’uomo spirituale.

V. 21 - Con un’esortazione negativa e positiva espressa all’imperativo il v.21 conclude anzitutto il brano dei Vv.17-21, ma anche l’intera pericope: Vv.3-21. Si tratta di una massima conclusiva di stile sapienziale.

Paolo esorta la comunità di Roma alla resistenza e alla vittoria sul male e le insegna come effettivamente si riporta questa vittoria: contrapponendo al male il bene.

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00mercoledì 26 novembre 2008 10:39

3) Il rapporto dei cristiani con le autorità politiche (13,1-7)

1Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. 2Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. 3I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. 5Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. 6Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. 7Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto.

L’esortazione di Paolo prosegue. Senza alcun collegamento, seguono inviti alla docile subordinazione di tutti alle autorità politiche, comandata da Dio.

E come sorprende l’inizio, così sorprende la conclusione nel v.7.

V. 1 - Ogni uomo, chiunque egli sia, quindi anche il cristiano, deve sottomettersi alle autorità politiche. Paolo parla dei detentori del potere politico, dei titolari delle più alte cariche civili nel vasto apparato statale dell’impero romano. Questa sottomissione viene motivata con formulazioni positive e negative. Prima di tutto l’autorità civile è istituita da Dio. Paolo parla delle autorità di fatto esistenti e quindi fa capire che non si tratta di una teoria, ma di un comportamento concreto nei confronti dei governanti che sono al potere. Proprio costoro sono stati insediati da Dio. Dunque, ne consegue che l’insubordinazione ai dirigenti politici è opposizione all’ordinamento di Dio.

V. 2 - Perciò chi disubbidisce si trova ad affrontare il giudizio di Dio. L’autorità civile che impartisce disposizioni è essa stessa un ordinamento, una disposizone di Dio, tanto che opporsi all’autorità costituita equivale a ribellarsi alla disposizione di Dio, rappresentata dai capi politici. Quindi Paolo, con termini di carattere prevalentemente giuridico e politico, afferma che ogni cittadino e ogni schiavo deve assoggettarsi ai detentori del potere politico, i quali sono addirittura disposti da Dio. Chi oppone resistenza a loro, si oppone alla disposizone di Dio e, per conseguenza, si attirerà il giudizio di Dio.

Vv. 3 - 4 - Ma perché tutti, anche i cristiani, devono sottoporsi ai rappresentanti del pubblico potere? Prima si è detto: perché incarnano l’ordinamento di Dio. Qui viene ricordato anche un secondo motivo: l’autorità è per te ministra di Dio in vista di un bene. Le autorità non fanno paura quando si agisce bene. Se non le vuoi temere, fa il bene, e ciò ti procurerà da parte loro una pubblica lode. Ma l’autorità politica è alle dipendenze di Dio anche nel punire chi fa il male. E la motivazione è: coloro che detengono il potere non portano la spada inutilmente. Lo ius gladii indica l’ordinaria giurisdizione capitale sui cittadini romani esercitata dall’imperatore e dai governatori.

V. 5 - Ma poiché il rappresentante del potere statale nel suo duplice operato verso i buoni e verso i cattivi è servitore di Dio, ci si deve sottomettere a lui anche per motivi di coscienza. La coscienza, che secondo Rm 2,15, è la testimonianza mediatrice della legge scritta nel cuore per i pagani e quindi per gli uomini in genere, vincola l’uomo alla sottomissione della legge, ossia a ciò che gli viene imposto come comando di Dio dalle disposizioni dell’autorità civile. La sottomissione all’autorità, disposta da Paolo nel bel mezzo della sua esortazione sulla carità, non è pura rassegnazione nei confronti dei poteri superiori, ma un’adesione alla coscienza, la quale vi percepisce qualcosa della legge di Dio.

V. 6 - Perciò tale subordinazione o adesione è prestata proprio anche da parte dei cristiani romani, come dimostra il loro operato concreto. Essi pagano anche le imposte e riconoscono così le autorità come leitourgoì theou, liturghi, impiegati di Dio. A quanto pare, il concetto che Paolo ha delle autorità statali è tale che egli, nel contesto delle sue esortazioni all’obbedienza nei loro confronti, non si stanca di sottolineare i rapporti che la loro funzione ha con Dio e con il mondo profano.

V. 7 - Il v.7 trae la conclusione. È dovere di coscienza rendere a tutti ciò che è loro dovuto. Questi doveri sono menzionati in una doppia coppia di membri: 1. pagare le imposte, dirette e indirette; 2. riconoscere lo ius gladii e, in genere il potere punitivo, e tributare quelle dimostrazioni di onore che erano abituali per il cittadino romano nei confronti delle sue autorità. Tra i doveri dei cittadini cristiani c’è anche quello della preghiera per le autorità civili (1Tm 2,2; 1Pt 2,17).

4) Il precetto dell’amore nell’ora escatologica (13,8-14).

8Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. 9Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. 10L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore.
11Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. 12La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. 13Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. 14Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri.

Vv. 8 - 10 - In questi versetti Paolo si rifà a 12,9 dimostrando così ancora una volta che l’agàpe è il tema fondamentale dell’esortazione che sta scrivendo. Paolo conclude le esortazioni accentuando ora esplicitamente il precetto dell’amore come tale. Viene anzitutto l’ammonizione negativa non siate debitori di nulla a nessuno. Poi segue quella positiva sull’amore reciproco. Questo viene motivato affermando che chi ama l’altro, adempie la legge. Tutti i comandamenti hanno il loro compendio nel precetto della carità. Ogni precetto è un comandamento dell’amore. L’amore non fa nulla di male al prossimo.

V. 11 - I cristiani di Roma sono al corrente del tempo escatologico nel quale vivono. Paolo li invita a ricordarsi della loro situazione. Lo svegliarsi dal sonno si realizza con ciò che viene detto nel v.12: Deponiamo le opere della tenebra e rivestiamoci delle armi della luce.

È un gesto fondamentale che è identico al distacco da questo mondo e al rinnovamento del pensiero ricordati in 12,2. Dall’immagine tradizionale del sonno si può dedurre che ogni conformismo al mondo è un dormire col mondo o anche un sognare con esso. L’ora che è scoccata è quella della risurrezione da questo sonno mondano, che è un sonno di morte.

È vero che una volta siamo stati svegliati da questo sonno nel battesimo, ma si deve rimanere svegli, risollevarsi in continuità da tale sonno del mondo così avvilente.

V. 12 - La notte del mondo non è ancora finita, ma sta per finire. Il giorno del Signore si è avvicinato e la sua luce risplende. Continuare a dormire significherebbe perdere il giorno che sta sorgendo. Giorno dopo giorno aumenta la vicinanza della salvezza. Destarsi dal sonno significa deporre le opere della tenebra e rivestire le armi della luce, indossare il Signore Gesù Cristo e non darsi per la carne quella sollecitudine che favorisce le concupiscenze. In Gal 5,19 le opere della tenebra vengono descritte come azioni provenienti dalla natura egoistica dell’uomo.

V. 13 - Paolo parla degli eccessi sfrenati a cui ci si abbandona nei conviti. Il giorno è prossimo a sorgere e si avvicina anche per le orge notturne, per le loro sregolatezze e per i continui litigi dovuti alla gelosia, con cui il mondo cerca di passare il tempo.

V. 14 - Il cristiano ha indossato Cristo come un abito, ossia è stato assunto nell’essere e nel modo di essere di Cristo. Coloro che hanno indossato Cristo Gesù, lo devono continuamente indossare di nuovo e dimostrare sempre nuovamente il loro essere nel Signore Gesù Cristo. Questo aspetto dell’indossare in continuità il Cristo indossato una volta, si trova esposto esplicitamente, con riferimento all’uomo nuovo, in Col 3,9-10 e in Ef 4,22. Ogni volta che si parla del cristiano il discorso ritorna sul battesimo. Il battezzato deve realizzare nella propria vita ciò che gli è accaduto nel battesimo, entrando sempre di nuovo nell’essere di Cristo. Ma cosa significa indossare Cristo? Vuol dire - nell’esortazione negativa - che non ci si deve preoccupare per la propria carne. La carne è l’uomo egoista. La sollecitudine dei cristiani non deve favorire la natura umana così com’è, esigente ed egoista. Se si cura e si tratta bene la carne, cioè l’egoismo, si giunge a quelle concupiscenze che reclamano continuamente di essere accontentate. Il cristiano deve preoccuparsi del Signore, per rimanere sotto il suo potere e nella sua salvezza.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:48

5) I forti e i deboli nella comunità cristiana (14,1-12).

1Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. 2Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro invece, che è debole, mangia solo legumi. 3Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché Dio lo ha accolto. 4Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone; ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di farcelo stare.
5C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però cerchi di approfondire le sue convinzioni personali. 6Chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore e rende grazie a Dio. 7Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. 9Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
10Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, 11poiché sta scritto:
Come è vero che io vivo, dice il Signore,
ogni ginocchio si piegherà davanti a me
e ogni lingua renderà gloria a Dio.
12Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso.

V. 1 - Paolo tiene presente anzitutto il debole nella fede e sollecita i membri della comunità romana a prendersene cura amichevolmente e in maniera servizievole, come fa Dio (v.3) e Cristo (15,7). I cristiani di Roma devono prendersi cura dei deboli nella fede, ma non per discutere le loro scrupolose convinzioni o opinioni, ma per rispettarli nella loro debolezza.

V. 2 - I deboli sono dunque dei vegetariani per motivi religiosi.

In seguito le informazioni su di loro diventeranno un po’ più chiare: per paura di una contaminazione rituale, essi non mangiano carne e non bevono vino (14,15-21), mentre i forti non se ne danno pensiero, ma mangiano di tutto. Nel v.5 si dice che i deboli distinguono determinati giorni e preferiscono un giorno all’altro, o certi giorni a certi altri.

Vv. 3 - 4 - Nessuno giudichi o disprezzi l’altro per cose opinabili che non attengano alla sostanza della fede. Nessuno subentri come giudice al posto del Signore.

V. 5 - Paolo invita i deboli e i forti ad avere una coscienza pienamente convinta nel loro modo di agire. La fede autentica non viene neppure sfiorata da questi comportamenti, e quindi l’unità della comunità di Roma non corre alcun pericolo per questi motivi.

V. 6 - Chi non mangia lo fa per il Signore, chi mangia lo fa per il Signore. Tutti e due si trovano uniti nell’esprimere la loro gratitudine al Signore.

Vv. 7 - 9 - Al di là dei riferimenti ai giorni o al mangiare e al bere, il fatto importante è che tutti esistono per il Signore perché egli è il Signore di tutti. Vivendo o morendo siamo per il Signore e presso il Signore e quindi non siamo mai soli. Noi non apparteniamo a noi stessi ma al Signore, e totalmente, nel vivere e nel morire. Questa frase di Paolo si avvicina molto a Ab 4,29: I nati sono destinati a morire, i morti a ridiventare vivi; questi viventi a essere giudicati. Si deve riconoscere, sapere e sperimentare che Dio è il plasmatore, il creatore, il giudice e il testimone e accusatore onniscente e il giudice futuro. Al suo cospetto non c’è ingiustizia né dimenticanza né favoritismo né corruzione. Tutto è veramente suo. Ma questo essere proprietà del Signore è per Paolo la conseguenza e il risultato della sua morte e risurrezione.

Cristo è morto ed è ritornato in vita per essere il Signore di tutti. La morte e la risurrezione del Signore avvennero per instaurare la sua signoria sui morti e sui viventi. Egli non conosce alcun limite nel suo dominio.

V. 10 - Se Cristo è il Signore e tutti i battezzati vivono e muoiono con lui e per lui e sono sua proprietà, come può esserci ancora un condannare da parte dei forti e un disprezzare da parte dei deboli? Soltanto il giudizio di Cristo è determinante. A lui il forte dovrà rendere conto della sua libertà e il debole della sua scrupolosità.

Vv. 11 - 12 - Ognuno lodi Dio con timore reverenziale, sapendo di dover comparire davanti a Dio giudice, di fronte al quale ogni giudizio dell’uomo viene annientato. Il giudizio di un uomo su un altro non ha alcun valore. Ciascuno deve rispondere di se stesso.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:48

6) Il cristiano non deve dare scandalo al fratello (14,13-23).

13Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello.
14Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è immondo in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come immondo, per lui è immondo. 15Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto! 16Non divenga motivo di biasimo il bene di cui godete! 17Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: 18chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. 19Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole. 20Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo! Tutto è mondo, d’accordo; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. 21Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi.
22La fede che possiedi, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non si condanna per ciò che egli approva. 23Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce per fede; tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato.

V. 13 - Da quanto è stato detto nei Vv.1-12, il v.13 trae una deduzione riassuntiva, rivolta a tutti. I due gruppi della comunità romana hanno tra loro un rapporto critico che non è affatto normale nella comunità cristiana.

Il giudicarsi l’un l’altro e il processarsi a vicenda non deve più avvenire. Invece di criticarsi badino criticamente a non porre inciampo e scandalo al fratello.

V. 14 - Per Paolo le cose stanno così: 1. in se stesso nulla (nessun cibo) è impuro; 2. ciò non è solo convinzione personale di Paolo, ma egli può anche giurarlo nel Signore Gesù (cfr Mc 7,14-23).

Ma per colui che considera il cibo come impuro, per lui il cibo è impuro. Perché non è più una questione di cibo, ma di coscienza: questione da deboli, ma che tuttavia non si può trascurare. Infatti l’uomo è vincolato alla sua coscienza. Anche l’oggettività (che nessun cibo è impuro) ha i suoi limiti. Questa oggettività della verità nell’ambito della convivenza umana non è superiore alla carità.

V. 15 - Dare scandalo al fratello a motivo del cibo, ossia facendo prevalere il (giusto) giudizio del forte, è un rattristarlo, un affliggerlo. Ma ciò equivale a ledere la carità. Procurare scandalo a un fratello, nel senso in cui si è detto, non è certo un atto di carità, ma un atto che rovina il fratello. E questo fratello è uno per il quale Cristo morì. Se si affligge il fratello o lo si manda in rovina, si disprezza anche la morte di Cristo in croce, che avvenne proprio a vantaggio di tutti gli uomini ed è quella che fa di ogni uomo il fratello di Cristo e del cristiano. Mettendo in evidenza la propria convinzione (in se stessa giusta) contro la coscienza del fratello, ci si può anche rivoltare contro l’azione salvifica di Cristo.

V. 16 - La salvezza cristiana o l’agàpe viene bestemmiata se - per così dire - il cibo è ritenuto più importante dell’una o dell’altra. I non cristiani guardano con disprezzo e scherno la comunità cristiana divisa dai litigi a causa del mangiare e la oltraggiano.

V. 17 - Questo versetto dà la motivazione dei Vv.15-16. Il regno di Dio non è cibo e bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo!

V. 18 - Colui che serve Cristo in questo modo è gradito a Dio. Ma viene riconosciuto anche dai cristiani e dai non-cristiani, ed è apprezzato da loro perché agisce con fede autentica, la quale manifesta la sua efficacia nella carità.

V. 19 - Paolo trae la conseguenza che si conclude con l’esortazione ad aspirare a tutto ciò che contribuisce alla pace e di servire in questo modo all’edificazione reciproca e alla costruzione della comunità. Paolo non si stanca di insistere in questo suo intento e così fa capire quanto si presenti pericolosa per lui la situazione della comunità di Roma, proprio con particolare riferimento ai forti.

Vv. 20 - 21 - L’opera di Dio che i cristiani di Roma non devono distruggere per un semplice cibo è la pace della comunità. Il cristiano che mette al di sopra di tutto l’agàpe non può scandalizzare un fratello che ritiene una cosa cattiva mangiare carne o bere vino o fare qualunque altra cosa da cui tuo fratello riceva scandalo. Paolo esige che il forte non si imponga contro la convinzione del fratello, mettendolo così in pericolo.

Vv. 22 - 23 - Perciò il forte deve tenere per sé la sua fede, che gli è assegnata su misura (12,3), cioè averla davanti a Dio e non mostrarla davanti agli uomini. Qualsiasi azione che non sia compiuta nella fede e non sia sorretta dall’obbedienza di fede è peccato. La fede è il vincolo con il Signore Gesù. Se questo vincolo si interrompe e se il giudizio e il comportamento non sono più ispirati dalla fede, allora tutto ciò che si pensa e si fa è autocompiacimento esplicito o nascosto (15,1) e perciò peccato. Disprezzando il debole e scandalizzandolo, il forte agisce contrariamente alla carità nella quale opera la fede. Ma il peccato è una minaccia anche per il debole, perché egli giudica il forte, perché non tiene conto della sua fede che lo fa superiore a tutte le questioni del mangiare e del bere.

7) Cristo, modello per i forti (15,1-6).

1Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. 2Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. 3Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me. 4Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza. 5E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, 6perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

V. 1 - In questo versetto si pensa ancora alla situazione particolare, di cui si parlava nel capitolo precedente. Ma gradualmente la pericope passa ad enunciati che valgono per la totalità della chiesa come tale. Paolo si pone tra i forti e li esorta a farsi carico della debolezza degli impotenti e incapaci. Questo farsi carico consiste nel non cercare il proprio compiacimento, il che prepara già l’accenno alla condotta di Cristo del v.3: Infatti il Cristo non piacque a se stesso, ma, come sta scritto: "Gli insulti di quelli che insultavano te ricaddero su di me". Si tratta di sopportarsi a vicenda e del cercare il piacere e l’interesse del prossimo. Questo comportamento è il nostro dovere.

V. 2 - In questo versetto si ribadisce positivamente il verso precedente: Ciascuno di noi viva per compiacere il prossimo. Dal punto di vista cristiano, si tratta in primo luogo del prossimo che ci sta a fianco, e non di chi è lontano, che diventa facilmente una realtà astratta.

V. 3 - Il Cristo additato come modello è colui che non visse per il proprio tornaconto, ma per soddisfare Dio e gli uomini: il Cristo altruista nel senso più alto e fondamentale. Questo Cristo altruista è presentato con una citazione del Sal 69,10, che compare anche in Rm 11,9-10 e in molte altri parti del NT: Gli insulti di quelli che insultarono te (Dio) ricaddero su di me (Cristo).

V. 4 - L’AT è stato scritto per il nostro ammaestramento. Le scritture dell’AT ci ammaestrano mediante l’esempio o anche per mezzo di una parola di Cristo che ci riguarda personalmente, affinché noi con queste parole di consolazione abbiamo speranza operando con paziente perseveranza.

Vv. 5 - 6 - Con questa preghiera Paolo auspica per la comunità cristiana una omogeneità di sentimenti che devono trovare la sua espressione nell’unanime lode cultuale. La preghiera è rivolta al Dio della pazienza e della consolazione, quindi a colui che suscita la pazienza e che elargisce la consolazione. Dio conceda ai componenti della comunità di essere di un’unica idea, d’avere i medesimi sentimenti, quindi si invoca per loro ciò che da essi si esige e si spera. Non si tratta però di una concordia qualsiasi, ma di un pensare e volere omogeneo della fede che si indirizza a Cristo ed è operato da Cristo. Egli è il fondamento e il criterio dell’unità donata da Dio. Paolo invoca questo solo tipo di unità per la comunità cristiana. Una tale concordia di sentimenti può e deve dimostrarsi nella comune e concorde glorificazione che la comunità eleva a Dio.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:49

8) L’accettazione dei giudei e dei pagani da parte di Cristo (15,7-13).

7Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. 8Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore della veracità di Dio, per compiere le promesse dei padri; 9le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto:
Per questo ti celebrerò tra le nazioni pagane,
e canterò inni al tuo nome.
10E ancora:
Rallegratevi, o nazioni, insieme al suo popolo.
11E di nuovo:
Lodate, nazioni tutte, il Signore;
i popoli tutti lo esaltino.
12E a sua volta Isaia dice:
Spunterà il rampollo di Iesse,
colui che sorgerà a giudicare le nazioni:
in lui le nazioni spereranno.
13Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo.

V. 7 - Con i Vv.7-13 Paolo giunge all’ultimo brano della sua attuale esortazione dei cap. 14-15. Cristo è la salvezza per i giudei e per i pagani. L’imperativo accoglietevi gli uni gli altri non è rivolto solo ai forti e ai deboli, ma a tutta la comunità, cioè ai suoi componenti giudeo-cristiani ed etnico-cristiani, gruppi che sono stati entrambi accolti da Cristo con la sua fedeltà e la sua misericordia. La visuale si allarga nuovamente all’intera umanità e prende in considerazione l’evento fondamentale della riconciliazione dei giudei e dei pagani, un tempo divisi per quanto riguardava la storia della salvezza.

L’invito ad accogliersi vicendevolmente viene motivato con l’esempio di Cristo. Coloro che sono stati accolti da Cristo, devono accogliersi tra di loro. L’accettazione ebbe luogo nella croce di Cristo. Essa avvenne a gloria di Dio. La gloria di Dio risplende in questo avvenimento, che mediante Cristo doveva portare a salvezza il mondo intero.

V. 8 - Tale accoglienza viene più precisamente caratterizzata dal v.8. Essa ebbe luogo per il fatto che, in Cristo, ai giudei fu manifestata la verità di Dio e furono adempiute le promesse fatte ai padri, e ai pagani fu concessa la misericordia di Dio.

Vv. 9 - 11 - Già negli scritti dell’AT i pagani venivano esortati a unirsi coralmente a Israele nel canto di glorificazione a Dio. A maggior ragione oggi che sono stati associati nel nuovo popolo di Dio. Tutti i popoli del mondo sono invitati a partecipare all’esultanza del servizio cultuale cristiano. La lode della liturgia cristiana è universale (Käsemann).

V. 12 - La parola di Isaia è una promessa, già realizzata in Cristo. Cristo ha realizzato ciò che tutti i popoli speravano. Perciò anche i popoli pagani possono lodare Dio per la sua misericordia.

V. 13 - Il Dio della speranza viene ancora invocato da Paolo per i cristiani di Roma, provenienti dal giudaismo e dal paganesimo, perché conceda loro il dono di una pienezza di speranza. E questa speranza straripante è dono dello Spirito santo. È significativo che l’ultimo brano teologico di questa lettera si concluda con la preghiera per la speranza e così tocchi ancora una volta l’unico grande tema: la comunione di giudei e gentili in Cristo, l’unione di tutti i popoli in lui.

LA CONCLUSIONE DELLA LETTERA
(15,14 -16,27)

1) Compito e opera dell’apostolo (15,14-21).

14Fratelli miei, sono anch’io convinto, per quel che vi riguarda, che voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro. 15Tuttavia vi ho scritto con un po’ di audacia, in qualche parte, come per ricordarvi quello che già sapete, a causa della grazia che mi è stata concessa da parte di Dio 16di essere un ministro di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo. 17Questo è in realtà il mio vanto in Gesù Cristo di fronte a Dio; 18non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, 19con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito. Così da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. 20Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui, 21ma come sta scritto:
Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunziato e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno.

V. 14 -Questo verso è una captatio benevolentiae che contiene una buona dose di complimenti, ma che tuttavia è dettata da sincerità. Se i cristiani di Roma sono già pieni di bontà e ricolmi di ogni conoscenza, perché Paolo ha scritto loro questa lettera? Perché il suo apostolato si estende a tutto il mondo. E di questo ora vuole parlare.

V. 15 - L’audacia di Paolo riguarda sia il fatto di aver scritto una lettera a una comunità cristiana che non ha fondato e che non conosce con precisione, sia per la sua vasta e profonda tematica e la sua teologia della grazia senza compromessi. La grazia ricevuta da Paolo è il Cristo che rifulse nel suo cuore (2Cor 4,6) e che ha avuto l’incarico di annunciare a tutti per mezzo del suo apostolato.

V. 16 - Paolo è il ministro (leitourgos) di Gesù Cristo per i pagani, il sacerdote di Dio che predica il vangelo e in questo modo presenta a Dio i popoli come offerta a lui gradita. Nel suo ufficio sacerdotale Paolo compie il grande sacrificio del mondo per Dio. Per questo non poteva non indirizzare una lettera anche alla comunità cristiana di Roma. La missione di Paolo è un servizio divino, pubblico e ufficiale. La sua azione sacrificale non è un’iniziativa personale-carismatica, ma l’esecuzione di un mandato autorizzato, legittimato e delegato a Paolo da Dio.

Il sacrificio gradito a Dio non viene più offerto con un apparato rituale nel tempio di Gerusalemme, ma consiste nell’offerta dei popoli: essi sono il sacrificio santificato dallo Spirito santo, il quale agisce efficacemente nel vangelo. Questa universalità viene particolarmente accentuata in questo testo. Tre volte nei Vv.16.18 sono menzionati i popoli. Nei Vv.19 ss questa universalità diventa addirittura il tema principale. Paolo si presenta come il sacerdote che offre a Dio il sacrificio di tutto il mondo rinnovato dal vangelo di Cristo.

Vv. 17 - 18 - L’attività di Paolo si svolge nella totale obbedienza a Cristo. Egli non si azzarda di lasciar parlare qualcun altro che non sia il Cristo. Egli non parla di se stesso a da se stesso. Egli osa parlare solo di ciò che Cristo ha operato per mezzo suo per suscitare e ottenere l’obbedienza dei popoli al vangelo. È Cristo che parla in lui e annuncia il vangelo.

V. 19 - Il versetto parla di un lògos, di una parola accompagnata da segni e prodigi, di una proclamazione fatta con la forza di potenti azioni prodigiose, che secondo 1Ts 1,5 fanno apparire come possente la Parola del vangelo. I segni e i prodigi, con la cui forza Paolo predica il vangelo, avvengono nella potenza dello Spirito. Con questa forza Cristo stesso autorizza Paolo a pronunciare la sua parola, che suscita l’obbedienza dei popoli. Paolo è lo strumento di Cristo per la salvezza delle genti.

Vv. 20 - 21 - Fino a questo momento Paolo si era lasciato guidare dal principio di annunciare il vangelo solo nei luoghi dove il nome di Cristo non era ancora stato annunciato. Il suo principio, secondo il quale egli agisce rivolgendo la sua proclamazione a tutto il mondo, è già attestato nella Scrittura (Is 52,15 LXX). Ciò non vuol dire che Paolo rivendichi per sé il ruolo del Servo di Dio. L’accento della parola della Scrittura cade per lui unicamente sull’affermazione che mediante il suo annuncio apostolico si è adempiuta la promessa per i pagani. Essi, ai quali finora non è stato annunciato nulla di Cristo, vedranno, ed essi, che non hanno udito nulla, capiranno. Quest’ora adesso è giunta, e Paolo, che accetta la promessa di quest’ora come ordine, ne è lo strumento.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 10:50

2) Annuncio del viaggio in Spagna passando per Roma e Gerusalemme (15,22-32).

22Per questo appunto fui impedito più volte di venire da voi. 23Ora però, non trovando più un campo d’azione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, 24quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo avere goduto un poco della vostra presenza.
25Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio a quella comunità; 26la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme. 27L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali. 28Fatto questo e presentato ufficialmente ad essi questo frutto, andrò in Spagna passando da voi. 29E so che, giungendo presso di voi, verrò con la pienezza della benedizione di Cristo. 30Vi esorto perciò, fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e l’amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio, 31perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme torni gradito a quella comunità, 32sicché io possa venire da voi nella gioia, se così vuole Dio, e riposarmi in mezzo a voi. Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen.

V. 22 - Probabilmente Paolo si riferisce ai suoi impegni in Oriente. Egli è stato più volte impedito di venire a Roma perché aveva molto da fare e perché c’erano ostacoli frequenti e di vario genere.

Vv. 23 - 24 - Ma attualmente questi ostacoli non ci sono più. In queste regioni orientali, cioè nel campo della sua missione durata finora, egli non ha più spazio di agire. D’altra parte il suo desiderio di venire da loro dura da tanti anni nel suo cuore e non si è spento. Il nuovo viaggio che sta programmando però lo porterà soltanto di passaggio per Roma, e in tale occasione egli vuole fare la loro conoscenza. Ma egli vorrebbe anche essere accompagnato da loro in Spagna. Probabilmente Paolo non conosceva per nulla la Spagna, in cui si trovava un certo numero di comunità giudaiche, né i paesi occidentali, né il Mediterraneo occidentale. Ma il suo progetto prevede anche che prima e in una certa misura egli si possa saziare di loro, cioè possa soddisfare il desiderio di uno scambio spirituale, come già accennava in 1,11-12.

V. 25 - Ma prima del viaggio a Roma egli deve andare a Gerusalemme per consegnare a quelle comunità la colletta degli etnico-cristiani.

Di questa colletta si parla anche in 1Cor 16,1 ss; 2Cor 8-9; At 20,4.

Essa, come mostra Gal 2,10, è intesa dalla comunità di Gerusalemme o dai suoi rappresentanti come un obbligo giuridico, che Paolo dovette assumersi personalmente.

Vv. 26 - 27 - Paolo non parla della sua grande partecipazione a questa colletta (2Cor 8-9), ma la presenta piuttosto come una decisione delle comunità della Macedonia e dell’Acaia. E per rendere questa colletta ancora più accettabile ai cristiani di Roma, Paolo aggiunge che gli etnico-cristiani sono obbligati a fare questa offerta per la ragione indicata dal v.27b: essi sono debitori alla comunità di Gerusalemme perché hanno partecipato ai loro beni spirituali, cioè hanno ricevuto da essa il dono del vangelo e di tutto quanto esso comprende.

V. 28 - Questo versetto conclude il corso dei pensieri e ritorna di nuovo al viaggio in Spagna con tappa a Roma. Quando avrà compiuto il suo servizio per i santi e avrà consegnato in buone mani la colletta a Gerusalemme, allora Paolo partirà per la Spagna passando da Roma.

V. 29 - Paolo mette in evidenza nei confronti della comunità romana il suo mandato apostolico e l’abbondanza della sua efficacia nello Spirito, ricevuta da Cristo. Ma il pensiero rivolto a Gerusalemme non gli dà ancora pace. Egli sa della difficoltà e pericolosità della sua impresa, la quale, se fallisce, può far fallire anche i suoi progetti per l’Occidente.

Perciò nei Vv.30-33 si abbandona a una commovente richiesta di preghiera ai cristiani di Roma per la buona riuscita dei suoi progetti apostolici.

V. 30 - Paolo si presenta come il portavoce dell’amore dello Spirito santo e del Signore Gesù Cristo. Sono Gesù e lo Spirito che domandavano per mezzo suo la preghiera della comunità per lui. Essa deve lottare assieme a lui nelle preghiere davanti a Dio. La situazione richiede un combattimento di preghiere a sostegno e a difesa di Paolo.

V. 31 - Nella lotta della preghiera si chiedono due cose: anzitutto che Paolo sia salvato dagli increduli di Giudea, ossia dai giudei che non hanno accolto il vangelo e ora sono diventati nemici mortali dell’apostata Paolo. Ma esiste un secondo pericolo: che il servizio apostolico della colletta destinata ai cristiani di Gerusalemme non sia soddisfacente; in altre parole: che essi rifiutino la colletta degli etnico-cristiani, che Paolo sta portando loro, e così strappino quell’ultimo vincolo concreto ancora esistente tra lui e la comunità di Gerusalemme, per consolidare il quale Paolo aveva impiegato tanta fatica.

V. 32 - Ma la comune lotta di preghiere che Paolo implora ha ancora un altro scopo. I futuri avvenimenti in Geursalemme saranno decisivi anche per il suo viaggio a Roma.

V. 33 - In vista del prossimo futuro, Paolo ricorre a una formulazione tradizionale di saluto e di benedizione. Il Dio che è pace e dona pace, che riversa sui popoli la potenza salvifica della pace, sia anche con la comunità romana. Un Amen liturgico, in cui la comunità conferma l’invocazione dell’Apostolo, conclude questa parte della lettera.

3) Raccomandazione di feBe (16,1-2).

1Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre: 2ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso.

V. 1 - Febe potrebbe essere la portatrice della lettera di Paolo ai romani. Essa è nostra sorella, quindi un membro della comunità cristiana. È diàkonos della comunità cristiana di Cencre, il porto orientale di Corinto sul golfo di Saronico (cf. At 18,18). In questa comunità cristiana c’è dunque una donna diàkonos, la quale svolge un servizio permanente ed è riconosciuta con un titolo ufficiale. La chiesa primitiva conosce anche funzioni femminili, però soltanto diàkonoi e non epìskopoi.

V. 2 - La raccomandazione di Febe mira a farla accogliere nel Signore, come si addice ai santi. La comunità deve dare a Febe ogni sostentamento di cui possa aver bisogno. Essa è veramente una sorella, una diàkonos ma non solo: essa si è dimostrata patrona di molti cristiani e dello stesso Paolo, cioè ha procurato a loro aiuto e protezione. Ciò deve persuadere la comunità, a cui è rivolta la lettera, ad accogliere presso di sé questa sorella e diaconessa e a provvedere a tutte le sue necessità.

4) Saluti apostolici (16,3-16).

3Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, 4e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; 5salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa.
Salutate il mio caro Epèneto, primizia dell’Asia per Cristo. 6Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. 7Salutate Andronìco e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me. 8Salutate Ampliato, mio diletto nel Signore. 9Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio caro Stachi. 10Salutate Apelle che ha dato buona prova in Cristo. Salutate i familiari di Aristòbulo. 11Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narcìso che sono nel Signore. 12Salutate Trifèna e Trifòsa che hanno lavorato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside che ha lavorato per il Signore. 13Salutate Rufo, questo eletto nel Signore, e la madre sua che è anche mia. 14Salutate Asìncrito, Flegònte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. 15Salutate Filòlogo e Giulia, Nèreo e sua sorella e Olimpas e tutti i credenti che sono con loro. 16Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le chiese di Cristo.

Vv. 3 - 4 - L’elenco delle persone da salutare comincia con la coppia di sposi Prisca e Aquila, che sono noti dagli Atti degli Apostoli. At 18,1 ss. ricorda che Paolo aveva incontrato questa coppia di coniugi giudeo-cristiani a Corinto dopo la loro espulsione da Roma, avvenuta in seguito all’editto di Claudio. Questa coppia insieme con Paolo era andata ad Efeso. Da questa città essi e la loro comunità domestica mandano saluti alla comunità di Corinto (1Cor 16,19). Di queste due persone si ricorda che esse per la vita di Paolo hanno rischiato il collo, cioè la loro vita.

V. 5 - Assieme a Prisca e Aquila dev’essere salutata anche la loro comunità domestica, ossia i cristiani che si radunano nella loro casa per il culto liturgico. Al saluto rivolto alla coppia Prisca e Aquila, segue il nome di Epeneto. Egli è il primo convertito in Asia, come, secondo 1Cor 16,15, Stefana è la prima convertita dell’Acaia. Paolo sottolinea questa prerogativa con una certa solennità: egli è la primizia dell’Asia in Cristo.

V. 6 - Dopo di lui viene nominata anzitutto una Maria che si è data molta premura per la comunità.

V. 7 - Vengono ora salutati Andronico e Giunia. Essi si erano distinti per essere stati in carcere a motivo di Cristo e perché erano stati probabilmente annunciatori itineranti del vangelo.

vv. 8 - 16 - La lunga lista di nomi che seguono non ha motivo di essere analizzata in modo particolare. Alla fine Paolo invita i membri della comunità a salutarsi reciprocamente col bacio santo. Esso è un’espressione del sacro vincolo che unisce i membri della comunità tra loro (cf. 1Pt 5,14).

Paolo conclude mandando alla comunità di Roma il saluto delle chiese sorelle in Cristo. Tutte le comunità di Cristo si rivolgono per mezzo suo alla comunità destinataria della sua lettera.

5) Ammonimento a guardarsi dai falsi maestri nella comunità e benedizione (16,17-20).

17Mi raccomando poi, fratelli, di ben guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro la dottrina che avete appreso: tenetevi lontani da loro. 18Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre e con un parlare solenne e lusinghiero ingannano il cuore dei semplici.
19La fama della vostra obbedienza è giunta dovunque; mentre quindi mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. 20Il Dio della pace stritolerà ben presto satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi.

V. 17 - Paolo rivolge un’implorazione pressante ai fratelli di Roma perché facciano attenzione a certe persone che provocano nella comunità scissioni e scandali, e precisamente a guardarsi da coloro che contraddicono la dottrina che essi come cristiani hanno imparato.

V. 18 - Questi falsi maestri non servono il Signore nostro Gesù Cristo, ma il loro ventre. Inoltre il loro parlare è allettante e melodioso; usano parole untuose ma menzognere.

V. 19 - Per quanto riguarda l’obbedienza della comunità Paolo non ha da biasimare. Essa è nota a tutti e la sua fama si è diffusa dappertutto (1,8). La comunità non è ancora turbata né tanto meno divisa. Essa però è insidiata da un pericoloso avversario, e quindi non dev’essere ingenua, ma saggia.

V. 20 - Il Dio della pace si dimostrerà tale quando annienterà Satana, che sta dietro la tentata disgregazione della comunità, e i cristiani metteranno i loro piedi sul nemico vinto e lo calpesteranno; e ciò accadrà tra breve tempo.

6) Saluti dalla cerchia di Paolo (16,21-23).

21Vi saluta Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giàsone, Sosìpatro, miei parenti. 22Vi saluto nel Signore anch’io, Terzo, che ho scritto la lettera. 23Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità. Vi salutano Erasto, tesoriere della città, e il fratello Quarto.[24]

Vv. 21 - 23 - In questi versi mandano i saluti quelli della cerchia di Paolo.

Tra questi Erasto, tesoriere della città di Corinto (che oggi corrisponderebbe all’assessore alle finanze). Secondo Schlatter dopo il saluto dello scrivano (Terzo) Paolo presenta i cittadini principali della comunità di Corinto.

7) La dossologia (16,25-27).

25A colui che ha il potere di confermarvi
secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di
Gesù Cristo,
secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli
eterni,
26ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture
profetiche,
per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti
perché obbediscano alla fede,
27a Dio che solo è sapiente,
per mezzo di Gesù Cristo,
la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Vv. 25 - 27 - Questa dossologia è rivolta a colui che ha il potere di rafforzare la comunità per mezzo del vangelo di Gesù predicato da Paolo, che è la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni. Questo mistero è ora venuto alla luce per mezzo degli scritti del NT, tra i quali è annoverata anche la lettera ai romani. Questo annuncio mediante gli scritti profetici è avvenuto per ordine dell’eterno Dio. Con questo attributo Dio è qualificato come il Dio dei tempi primordiali e dei tempi finali, il Dio di tutte le epoche. La proclamazione dell’avvenuta rivelazione del mistero di Dio finora tenuto nascosto deve estendersi per ordine di Dio a tutto il mondo con la predicazione della parola e gli scritti profetici.

Nell’ultima frase della dossologia si dice infine chi è colui che è assolutamente capace di rafforzare la comunità: è l’unico Dio sapiente.

A questo Dio potente e sommamente sapiente appartiene la gloria dei secoli, che risplende mediante Gesù Cristo. La dossologia si conclude con un Amen di conferma.

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