"Dalla Fede il Metodo"

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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 08:58
"DALLA FEDE IL METODO"
Esercizi della Fraternità
di Comunione e Libarazione
Rimini 2009

Città del Vaticano, 20 aprile 2009
Reverendo
Don Juliàn Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Occasione Esercizi spirituali Fraternità di Comunione e Liberazione sul tema «Dalla fede il metodo», Sommo Pontefice rivolge ai numerosi partecipanti cordiale e beneaugurante saluto con assicurazione Sua spirituale vicinanza, e mentre auspica che provvido incontro susciti rinnovata fedeltà a Cristo per sempre, più generoso impegno nell'opera di evangelizzazione, invoca larga effusione favori celesti e di cuore invia a Lei e ai responsabili Fraternità e convenuti tutti speciale benedizione apostolica.

Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità
(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:05
Venerdì 24 aprile 

All'ingresso e all'uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra n. 23
in la maggiore, KV 488
Wilhelm Kempff- Ferdinand Leitner - Bamberg Simphony Orchestra
Deutsche Grammophon


INTRODUZIONE


Juliàn Carrón. Ognuno di noi sa quante fatiche ha fatto per essere qua ora.
Tutte queste fatiche sono la prima espressione del nostro grido, della nostra domanda a Cristo. Invochiamo lo Spirito Santo, invochiamo il Suo aiuto perché porti a compimento questo nostro tentativo, questo nostro grido.

 
Discendi Santo Spirito


Diamo a tutti il benvenuto e salutiamo i nostri amici che sono collegati via satellite: ventitré Paesi in diretta e, successivamente, quaranta Paesi, per un totale di sessantatré.
 Per la prima volta è collegata in diretta con noi Malta.
Incomincio questo nostro incontro dando lettura del telegramma che ci ha mandato il Santo Padre:
«Occasione Esercizi spirituali Fraternità di Comunione e Liberazione sul tema "Dalla fede il metodo", Sommo Pontefice rivolge ai numerosi partecipanti cordiale e beneaugurante saluto con assicurazione Sua spirituale vicinanza, e mentre auspica che provvido incontro susciti rinnovata fedeltà a Cristo per sempre, più generoso impegno nell'opera di evangelizzazione, invoca larga effusione favori celesti e di cuore invia a Lei e ai responsabili Fraternità e convenuti tutti spe-ciale benedizione apostolica. Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato».

1. «Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama.
 Se il cristianesimo è annuncio del fatto che il Mistero si è incarnato in un uomo, la circostanza in cui uno prende posizione su questo, di fronte a tutto il mondo, è importante per il definirsi stesso della testimonianza".
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:12
Tutti noi sappiamo bene quali sono queste circostanze, che ci hanno sfidato lungo questo anno: la crisi economica, il terremoto dell'Abruzzo, le tante forme di dolore che ci hanno fatto riflettere (soprattutto la vicenda di Eluana), il vedere crollare un mondo davanti ai nostri occhi con leggi che non sanno più difendere il bene della vita o della famiglia, il trovarsi sempre di più a dover vivere la nostra vita "senza patria", le circostanze drammatiche personali e sociali - dalla malattia alle difficoltà, alla perdita del lavoro, se non addirittura alla perdita di tutto, come i nostri amici in Abruzzo -.
Per questo, le circostanze per cui Dio ci fa passare - ci dice don Giussani - «sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione».
Dunque per noi le circostanze non sono neutre, non sono cose che capitano senza alcun senso; cioè non sono cose soltanto da sopportare, da subire stoicamente.
Sono parte della nostra vocazione, della modalità con cui Dio, il Mistero buono, ci chiama, ci sfida, ci educa.
Per noi queste circostanze hanno tutto lo spessore di una chiamata, perciò sono parte del dialogo di ciascuno di noi con il Mistero presente.
Così - ci diceva don Giussani quindici anni fa, introducendo gli Esercizi della Fraternità del 1994 - la vita è un dialogo.
«Non è tragedia la vita: la tragedia è ciò che fa finire tutto nel niente.
La vita, sì, è dramma: è drammatica perché è rapporto tra il nostro io e il Tu di Dio, il nostro io che deve seguire i passi che Dio segna».
E' questa Presenza, questo Tu che fa cambiare la circostanza, perché senza questo Tu tutto sarebbe niente, tutto sarebbe il passo verso una tragedia sempre più oscura.
Ma proprio perché esiste questo Tu la circostanza ci chiama a Lui, è Lui che ci chiama attraverso di essa, è Lui che ci chiama al destino attraverso ogni cosa che capita.
Noi non siamo esenti dal rischio che don Giussani segnalava anni fa: vivere la vita soccombendo all'anestesia totale che crea la nostra società:
«II vero pericolo della nostra epoca, diceva Teiihard de Chardin, è la perdita del gusto del vivere.
Ora, la perdita del gusto del vivere implica il non sentimento di sé, [...] la non affezione a sé. Però, occorrerebbe fare un'anestesia totale perché un uomo perda integralmente, interamente il senso dell'attaccamento a se stesso e perciò una, almeno embrionale, emozione per se stesso, una preoccupazione di se stesso; occorrerebbe un'anestesia totale.
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:17
Il tipo di società in cui viviamo riesce a realzzare queste anestesie totali (e noi lo sappiamo bene, perché in tante occasioni siamo come addormentati nel nostro torpore, nella nostra distrazione, nella fuga da noi stessi, dove la cosa più lontana è questa affezione a sé; basta pensare a quando fu l'ultima volta che ciascuno ha avuto (lo dico per primo a me stesso) un istante vero di tenerezza con se stesso, ha sentito vibrare dentro di sé questa tenerezza verso se stesso], però non possono essere permanenti.
Anche queste anestesie totali estremamente diffuse - perciò è una società caratterizzata totalmente dalla alienazione - hanno un limite, non possono essere permanenti e per questo la sofferenza [...] non è evitabile.
La sofferenza [...] indica la sospensione o la rottura o la fine di un'anestesia totale».

Attraverso queste circostanze il Mistero ci vuole ridestare da questa anestesia, educarci alla consapevolezza di noi stessi, alla nostra verità, ci ridesta alla coscienza per cui siamo fatti, non ci lascia andare verso il niente senza preoccuparsi di noi, per una passione per la nostra vita che è il segno più potente della tenerezza di Dio per noi.
 E come ci educa?
Non attraverso un discorso, non attraverso una riflessione - che tante volte noi non vogliamo ascoltare -, ma attraverso l'esperienza del reale, attraverso le circostanze a cui ci chiama, ci scuote («Ma ti rendi conto?!»).
L'abbiamo letto nella Scuola di comunità:
«La vita la impari nel concreto, non teoricamente», e un pezzo di realtà vale più di mille parole. Allora - amici - le circostanze, le sofferenze, le difficoltà ci mettono davanti alla serietà della vita, che tante volte noi vogliamo censurare.
«Normalmente nella vita, per tutta la gente, è serio il problema dei soldi, è serio il problema dei figli, è serio il problema dell'uomo e della donna, è serio il problema della salute, è serio il problema politico: per il mondo, tutto è serio eccetto che la vita.
Non dico la vita - la vita come salute è una cosa seria, facilmente -, ma "la vita" [occorrerebbe sentire vibrare don Giussani mentre dice:
 "La vita", e allora percepiremmo tutta la vibrazione della Sua passione per ciascuno di noi].
Ma cosa è "la vita" più che la salute, i soldi, il rapporto tra l'uomo e la donna, i figli, il lavoro? Cos'è la vita più di questo? Che cosa implica?
 La vita implica tutto questo, ma con uno scopo di tutto, con un significato».
E le circostanze ci sfidano a scoprire questo significato.
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:22
2. Il vero problema, allora, non è la crisi, non sono queste circostanze più o meno drammatiche, che ci toccano in un modo o in un altro, ma è come noi ci troviamo ad affrontare queste circostanze, come stiamo davanti a esse.
Vediamo come tante volte queste circostanze sono l'occasione di renderci conto che siamo spaesati, smarriti. Perché?
«La realtà della Chiesa, come avvenimento quotidiano in cui si rende presente l'Avvenimento originale, si pone oggi davanti al mondo, non dico dimenticando, ma dando come per supposto e per ovvio, metodologicamente almeno, il contenuto dogmatico del cristianesimo, la sua ontolo-ia, perciò semplicemente l'avvenimento della fede».
A noi può capitare lo stesso: di metterci davanti alle circostanze, non dico dimenticando, ma dando come per supposto, per ovvio l'avvenimento della fede.
E ci sentiamo smarriti. Proprio per questo, le circostanze che ci sfidano fanno venire a galla - come vedremo in questi giorni - il percorso fatto in questo anno, perché don Giussani ci insegna che la circostanza è il luogo in cui uno prende posizione di fronte al mondo nel modo di viverla.

Per chi ha ricevuto l'annuncio cristiano - «il Mistero si è incarnato in un uomo» - ogni circostanza è l'occasione in cui ciascuno mostra la sua posizione davanti a questo annuncio, a questo fatto. Noi diciamo davanti a tutti che cosa è per noi Cristo nel modo con cui viviamo le circostanze. Ciascuno può guardare se stesso, può sorprendersi in azione, perché ciascuno si è mosso dentro queste circostanze.
Tutti ci siamo mossi, tutti siamo stati sfidati in un modo o in un altro da queste circostanze. Siamo stati tutti costretti a venire allo scoperto - a nessuno è stato risparmiato -, e noi abbiamo detto che cosa significa per noi la vita, che cosa è Cristo, a che cosa teniamo più di qualsiasi altra cosa, al di là delle nostre intenzioni.
Dico al di là delle nostre intenzioni, perché tante volte noi confondiamo le intenzioni con la realtà.
 Le intenzioni tante volte sono giuste, ma poi scopriamo che nella realtà noi ci muoviamo secondo un'altra logica.
Per questo, dal modo con cui noi affrontiamo le circostanze da cui siamo sfidati, noi affermiamo qual è la nostra appartenenza:
«Anzi, da come si ottiene questa posizione in noi si capisce se e quanto viviamo l'appartenenza, che è radice profonda di tutta l'espressione culturale».
Cioè, noi diciamo a noi stessi qual è la nostra cultura, che cosa e chi amiamo di più e abbiamo di più caro, nel modo in cui noi affrontiamo le circostanze.
È davanti alle vere sfide del vivere che si pone in evidenza la consistenza di una posizione culturale, la sua capacità di reggere davanti a tutto, anche davanti al terremoto.
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:27
Di questo abbiamo ricevuto una testimonianza impressionante dai nostri amici dell'Abruzzo, che scrivevano così in questi giorni:
«Lunedì 6 aprile è stato il giorno dello sgomento.
 La prima mossa tra di noi è stata quella di cercarci, rintracciarci, e fare la conta.
Quindi lo stupore e la gratitudine di essere stati tutti preservati: il primo grande miracolo.
 Già da subito è accaduta la disponibilità, in ogni parte della regione, di farsi carico dei vari bisogni che intercettavamo.
Questo tentativo di abbracciare, con tutta la nostra inadeguatezza, chi sta nel dolore è stato fondamentale, perché attraverso il semplice rapporto siamo stati introdotti a scorgere nelle "macerie" della nostra compagnia e del popolo abruzzese fatti che macerie non erano affatto.

La dinamica di condivisione ci ha facilitato a scorgere inaspettati e inimmaginabili spettacoli di bellezza umana che hanno iniziato, da subito, a farci vedere un'eccezionaiità.
 Stava accadendo qualcosa di grande.
 Proprio in un momento dove credevamo non potesse accadere nulla.
Proprio tra la gente di cui pensavamo di sapere tutto (le nostre comunità e gli sfollati aquilani) è emersa una commovente e imprevedibile autorevolezza.
Che possiamo seguire.

In particolare ci colpisce Marco con sua moglie Daniela, che il giorno dopo il terremoto hanno deciso di ristabilirsi in camper a L'Aquila.
Ieri sera ci ha commosso quando ha detto:
"Ciò di cui il mio cuore ha bisogno è presente! Il terremoto lo ha reso presente! Tra le macerie stanno sbocciando dei fiori. Il fiore non è un'emozione, è una cosa presente. 
Il fiore sono Gino e Grazia, è mia moglie, i camper che ci hanno donato, la Via Crucis, questo luogo di comunione, o Teresa, che dopo un anno e mezzo che era andata via, è tornata a riabbracciarci dicendoci: ci voleva un terremoto per farmi tornare! Il fiore è don Eugenio, Ugo, Manlio e gli altri della birra e di Rimini".
Uno spettacolo continuo di resurrezione dopo una settimana di passione.
 Ci vorrebbero tante pagine per raccontare i fatti che abbiamo visto, perché il terremoto ha fatto emergere tutta la nostra povertà e ci ha fatto tornare alla memoria tutte le volte che abbiamo sperato in cose materiali, che ora il terremoto ci ha tolto.
E tante pagine per raccontare come Gesù si sta mostrando risorto tra noi.
Vengono le lacrime quando Lui ci fa visita facendosi bellezza imparagonabile proprio in alcuni di noi che giudicavamo "normali" o addirittura "macerie".
L'unità e l'appartenenza alla compagnia data sono l'altro aspetto del miracolo che stiamo vedendo.
Chi lo avrebbe immaginato di vedere alcuni di noi prendere alla lettera quello che ci diciamo! [Qui, davanti alle circostanze così drammatiche si vede chi prende sul serio quello che ci diciamo.]
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:34
Ieri Marco, riferendosi a un colloquio tra noi due, ha detto:
"Se parto da me ottengo uno, se parto dagli altri ottengo cinque.
Non lo so perché, ma funziona. Appartenere fino a macerare nell'unità, vedo, che fa rinascere". L'evidenza è che siamo fessi come prima, ma Uno ci rende uniti.

Ci stiamo radunando molto spesso e in vari modi.
Non con il desiderio di rimettere su le case o la regione (che possono crollare in qualsiasi momento di nuovo), ma con un desiderio nuovo: poter godere del fascino di Cristo che ricostruisce a Suo modo e non mollarlo.
Ora la terra continua a tremare e ad aggiungere la paura al dolore.
Ce l'abbiamo tutta la tentazione di voler girare pagina dicendo:
"Speriamo che finiscano presto queste scosse, almeno possiamo ricominciare", nonostante Egli, in contemporanea, stia facendo nuove tutte le cose.

Dice la Scuola di comunità: "I nemici di questa fedeltà nell'appartenenza, i nemici più rilevabili sono la fatica e il dolore".
Noi questi nemici li tocchiamo con mano tutti i giorni e spesso ci sconfiggono. Che il Signore ci perdoni.
Che voi tutti, insieme a Carrón ci possiate perdonare.
Dando la vostra vita per farci rimanere in Cristo».

Chi non desidererebbe un'amicizia così? Amici che chiedono di dare la vita per rimanere in Cristo.
 
Gli amici arrivano da tutte le parti, anche dall'Uganda. Mi scrive Rose:
   «Alle cento donne del Meeting Point di Kireka, quartiere di Kampala (dove le donne spaccano le pietre per guadagnare qualche soldo), giovedì dopo il terremoto ho letto - quando me lo hanno inviato dalla segreteria in italiano -, il volantino del movimento.
In lingua acholi mi hanno detto:
"Questi sono dei nostri, questa volta hanno toccato i nostri. Dobbiamo fare qualcosa". Mi hanno chiesto se c'era modo di andare ad aiutarli, di arrivare con il pullman.
I giornali raccontavano che le persone erano ancora sotto le macerie, e loro volevano andare in Abruzzo per spaccare le macerie e tirare fuori i corpi.
Ho detto loro che era impossibile, perché l'Abruzzo era lontanissimo, l'unico mezzo di trasporto era l'aereo.
E loro: "Dobbiamo fare qualcosa, perché questi sono dei nostri, almeno mandare qualcosa per mostrargli che sono dei nostri, ci appartengono". Una donna ha detto:
"Sono quelli della tribù di don Giussani".
Erano così toccate, che quando stavo andando via mi hanno dato l'equivalente di duecentocinquanta euro, una cifra altissima per loro.
 E mi hanno detto di farli avere subito, se si poteva, magari per pagare qualcuno per aiutare a tirare fuori le persone dalle macerie.
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:38
Quel giorno non abbiamo fatto le attività - collane, danza, football - perché le donne volevano ricordare.
Abbiamo parlato, e quando hanno capito che erano italiani hanno detto che erano la tribù di don Giussani, la nostra. Loro si considerano della tribù di don Giussani.
Stanno ancora raccogliendo soldi.
Spesso mi chiedono dei nostri amici perché loro non sanno bene dov'è l'Abruzzo, pensano che tutta l'Italia sia coinvolta nel terremoto e quindi i loro amici.
Adesso vogliono scrivere una lettera.
Se devo commentare: è proprio una commozione, è proprio vero che dalla fede c'è un metodo. Quando sei immerso nel Mistero non puoi, accorgendoti di quello che c'è, non commuoverti. Queste donne mi sfidano a commuovermi.
Loro non si muovono perché il movimento ha inviato il volantino, per una indicazione: loro si commuovono e quindi si muovono.
Se il cuore è commosso ci si muove».
 
A chi non sarebbe piaciuto avere vibrato così? A chi non piacerebbe vibrare così?
Chi ha potuto evitare, ascoltando questo - io no -, di sentire tutta la vergogna della distanza davanti a questa esperienza che ci arriva dai nostri amici dell'ultimo punto del mondo?

Rose mi ha allegato anche una lettera di Alice:
«Cara Rose, qualcuno mi ha aperto gli occhi e mi ha fatto scoprire chi sono io.
Così preziosa e amata.
Posso dire che siamo la tribù di don Giussani e del Papa, che ci hanno amato e che sicuramente darebbero e hanno dato tutto per la nostra vita: questo è ciò da cui abbiamo imparato.
Coloro che stanno soffrendo per il terremoto sono della nostra tribù, io voglio mandare quello che sente il cuore e il mio amore per loro, il mio contributo è un segno di questo.
Tu sai, Rose, che una persona che non ha mai sperimentato l'amore non può capire cosa noi sentiamo per queste persone. Perché l'amore è il movimento del cuore che nessuno può spiegare.
Le persone che non amano possono rispondere solo in modo meccanico; invece è una cosa così grande che qualcuno si sia mosso per te e pianga con te così come è accaduto a noi. Di' a quelle persone, se puoi, che noi le amiamo e apparteniamo a loro.
Noi sentiamo il loro dolore perché è qualcosa attraverso cui noi siamo passati.
Possa Dio essere in loro in questo momento di difficoltà, li protegga e li consoli da parte nostra. Alice».
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:41
Per questo, all'inizio di questo nostro gesto degli Esercizi sentiamo l'urgenza di una conversione. Davanti a questo inizio possiamo avere quei due atteggiamenti, quei due tipi di atteggiamento che don Giussani rintracciava in quelli che incominciavano a seguire Gesù:
«Da una parte, vi erano quelli che già avevano la soluzione delle cose in tasca o per lo meno che già sapevano quali fossero gli strumenti per affrontare il problema dell'uomo e del popolo (gli scribi e i farisei), e con loro tutta la gente che partecipava dello spirito di questo atteggiamento.
Immaginatevi come erano là a sentirlo; appunto, come pietre su cui le sue parole cadevano inutilmente o come pietre che contraddicevano quelle parole, scetticamente oppure con una dialettica radicalmente opposta: la pietra di quell'atteggiamento rintuzzava l'offerta di quel discorso, lo contraddiceva o lo lasciava cadere.
Invece, proviamo a immaginarci l'altra gente, la povera gente.
 Non "povera gente" perché povera - Nicodemo non era un povero e tanti altri, nota il Vangelo, non erano poveri -, ma povera gente come cuore, che andavano a sentirlo perché "mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!", cioè perché erano, si sentivano animati, toccati nell'affezione, si sentivano rinnovati nell'affezione a se stessi, nella loro umanità, nel sentimento della propria umanità.
Questa gente lo seguiva [...] dimenticandosi anche di mangiare.
E qual era il primo fattore che definiva quel fenomeno? "Gesù Cristo"? No!
Il primo fattore che definiva quel fenomeno è che erano povera gente che sentiva [...] la pietà verso di sé, era gente che aveva fame e sete - come Lui dirà nelle "beatitudini".
Fame e sete cosa vuole dire? Avere fame e sete di "giustizia" [...] vuole dire desiderare l'avverarsi della propria umanità, l'emergere del sentimento vero della propria umanità. [...J Uno, per desiderare, per avere fame e sete del compiersi della propria umanità, deve sentire se stesso, deve sentire la propria umanità».
 
Incominciamo questo gesto con la coscienza di questo nostro bisogno.
Incominciamo da bisognosi: tesi, per questa coincidenza con noi stessi e con il nostro bisogno, a essere aperti a tutto quanto questo nostro gesto implica.
Perché è come una domanda il sacrificio che dobbiamo fare per costruire questo gesto. Dal silenzio ai disagi degli spostamenti, tutto fa parte di questo nostro grido, di questa nostra povertà, affinchè il Signore abbia pietà di noi.
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(Zacuff)
00venerdì 21 agosto 2009 09:45
SANTA MESSA

OMELIA DI DON MICHELE BERCHI


Duemila anni fa come oggi, partecipiamo allo stesso avvenimento fatto più grande, fatto più vero; e duemila anni fa come oggi Gesù ci sfida: dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?
Gesù sfida tutti i nostri calcoli, tutte le nostre immagini, tutta la nostra anestesia, tutta la durezza del nostro cuore, tutta la mancanza di speranza.

Duemila anni fa come oggi.
Gesù, in questi tre giorni, in tutti i giorni della nostra vita, ci sfida, e questa sfida è la nostra salvezza, è la tenerezza nei confronti del nostro cuore perché si spacchi la nostra misura, perché la nostra misura diventi la Sua misura, perché molto di più, infinitamente più bello del pane moltipllcato è potere partecipare al grande avvenimento del miracolo della Sua presenza.

Che la nostra vita, il nostro niente, possa essere strumento di questa Sua esplosiva presenza. Questo è ciò che chiediamo alla Madonna per questi tre giorni, come per tutti i giorni della nostra vita: che il nostro niente serva la Tua presenza nel mondo, Signore.


(continua)
(Zacuff)
00mercoledì 2 settembre 2009 21:14
Sabato 25 aprile
All'ingresso e all'uscita:
Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n. 38 in rè maggiore, K504 "Praga",
Wiener Phiiharmoniker - Karl Bohm
Deutsche Grammophon

Don Pino. Che cos'è la vita? La vita è un dialogo, non è tragedia la vita. La tragedia è ciò che fa finire tutto nel niente. La vita è drammatica perché è rapporto tra il nostro io e il Tu di Dio, il nostro io che deve seguire i passi che Dio segna.

Angelus
Lodi

• PRIMA MEDITAZIONE
Juliàn Carrón

«Noi abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il Santo di Dio»

(Gv 6, 69)

1. «Il crollo di antiche sicurezze religiose»

a) La scissione tra sapere e credere
II contesto in cui ci troviamo ad affrontare le sfide di cui parlavamo ieri sera è quello del crollo delle antiche sicurezze religiose.
Nel suo libro Fede, Verità, Tolleranza, l'allora cardinale Ratzinger riferisce un episodio - narrato da Werner Heisenberg - molto significativo, accaduto a Bruxelles nell'ambito di una discussione tra scienziati.
«Ci si trovò a discutere del fatto che Einstein parlava spesso di Dio e Max Planck sosteneva l'opinione che non ci sia alcuna contraddizione tra scienze della natura e religione [...1. Secondo Heisenberg, a fondamento di tale apertura [di Planck] stava la concezione che scienze naturali e religione sono due sfere totalmente diverse, che non sono in concorrenza reciproca: quel che conta nelle scienze naturali è l'alternativa tra vero e falso, nella religione tra bene e male, tra valore e disvalore. [...]
 "Le scienze naturali sono, in certo senso, il modo con cui andiamo incontro al lato oggettivo della realtà [...].
La fede religiosa, viceversa, è l'espressione di una decisione soggettiva, con la quale stabiliamo quali debbano essere i nostri valori di riferimento nella vita". [...]
A questo punto Heisenberg aggiunge:
"Devo ammettere che non mi trovo a mio agio con questa separazione.
Dubito che, alla lunga, delle comunità umane possano convivere con questa netta scissione tra sapere e credere".
A un certo punto interviene Wolfgang Pauli e raf-| forza il dubbio di Heisenberg, addirittura lo eleva al grado di certezza:
"La separazione completa tra sapere e credere è soltanto un espediente d'emergenza per un tempo molto limitato. Per esempio, nell'ambito; culturale occidentale, potrebbe venire in un futuro non troppo lontano! il momento in cui le parabole e le immagini della religione qual è stata: finora non possiederanno più alcuna forza di persuasione neppure per la gente semplice; allora, temo, anche l'etica finora vigente in breve tempo crollerà e accadranno cose di una atrocità che non ci possiamo neppure | immaginare"».
 " Era il 1927. Quello che è successo dopo lo sappiamo tutti.
Continuai Ratzinger:
«Nella ripresa del dopoguerra, era viva la fiducia che tale vicenda non potesse più accadere.
La legge costituzionale allora approvata nella "responsabilità davanti a Dio" voleva essere espressione del legame di diritto e politica con i grandi imperativi morali della fede biblica. Oggi, nella crisi morale dell'umanità che assume forme nuove e inquietanti, la i fiducia di allora svanisce.
Il crollo di antiche sicurezze religiose, che settant'anni addietro sembravano ancora reggere, nel frattempo è diventato i un fatto compiuto» (e questo lo diceva quindici anni fa; immaginiamo adesso...).
Questa è la situazione in cui ci troviamo ad affrontare le sfide della realtà: il crollo delle sicurezze religiose.
 Ma questa separazione tra sapere e credere ha un'origine ancora più lontana:
«L'Illuminismo aveva come bandiera l'ideale della 'religione nei limiti della pura ragione'. Tuttavia questa religione della pura ragione si disgregò rapidamente, ma soprattutto non aveva la forza di sostenere la vita. [...]
Così, dopo la fine dell'Illuminismo, [...] si è cercato un nuovo spazio per la religione [...]. Pertanto alla religione era stato assegnato il 'sentimento' come suo proprio ambito di esistenza nella vita umana.
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(Zacuff)
00mercoledì 2 settembre 2009 21:18
Schleiermacher fu il grande teorico di questo nuovo concetto di religione:
"La prassi è arte, la speculazione è scienza, la religione è senso e gusto dell'infinito", egli afferma.
È divenuta classica la risposta di Faust alla domanda di Margherita sulla religione: -II sentimento è tutto il nome e rumore e fumo..."».
La netta separazione tra sapere e credere, tra conoscenza e fede è una sintesi delle decisioni che attraversano e caratterizzano l'epoca moderna.
Tale separazione definisce - come abbiamo visto - da una parte una sfera del sapere in cui domina una concezione razionalistica della ragione (una ragione come «misura del reale», la chiamava don Giussani), che non ha niente a che fare con la questione del significato ultimo della vita, con il Mistero e con la fede; e, dall'altra parte e corrispondentemente, una sfera del credere inteso come ambito non razionale del sentimento, di decisioni soggettive sui valori, in cui viene confinato tutto il fenomeno religioso.
Il credere, dunque, si trova in drastica opposizione a un sapere razionalisticamente concepito.

b) «Strappare dall'uomo l'ipotesi della fede cristiana»
Ma c'è ancora qualcosa d'altro che per noi è cruciale. Insieme a questa riconduzione di tutta l'esperienza religiosa alla sfera del sentimento ne avviene un'altra, più insidiosa, denunciata più volte da don Giussani: quella della fede cristiana («riconoscere come vero quello che una Presenza storica dice di sé») alla dinamica del senso religioso e della religiosità («domanda di totalità costitutiva della nostra ragione presente in ogni azione»).
«Per l'uomo moderno, la fede" non sarebbe genericamente altro che un aspetto della "religiosità", un tipo di sentimento con cui vivere l'irrequieta ricerca della propria origine e del proprio destino, che è appunto l'elemento più suggestivo di ogni "religione" utta la coscienza moderna si agita per strappare [questa è la questione) dall' uomo l'ipotesi della fede cristiana e per riconduria alla dinamica del senso religioso e al concetto di religiosità, e questa confusione penetra purtroppo anche la mentalità del popolo cristiano».
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(continua)
(Zacuff)
00giovedì 3 settembre 2009 13:36
Che questo strappo dall’ipotesi cristiana è avvenuto lo si vede dal fatto che la stragrande maggioranza del popolo cristiano affronta il reale senza avere negli occhi la tradizione cristiana, cioè senza vivere pienamente la memoria.
Non è più questa tradizione il criterio con cui entrare nel reale, non è più il punto di partenza.
Mi sono reso conto dell'impressione che mi faceva sentire ancora di recente, nella Liturgia, il racconto della Creazione.
L'avrò ascoltato tantissime volte, e ancora una volta mi colpiva che razza di compagnia e di educazione ha operato la Chiesa con le persone.
Eppure questo ormai viene meno.
L'abbiamo visto in tante occasioni in questo anno: quello che prima era normale - persone che percepiscono la realtà con all'origine un volto buono, un Padre - è diventato quasi una eccezione.
Proprio in questo contesto possiamo capire tutta la portata del tentativo di don Giussani, che ha accettato la sfida di questo modo di concepire che abbiamo descritto.
Il movimento è nato rispondendo a questa sfida dalla prima ora di religione al Berchet, quando uno studente gli disse che fede e ragione non c'entrano niente l'una con l'altra.
Don Giussani non ha accettato mai la riduzione della fede a sentimento, ne della ragione a misura, e questo ha generato una modalità di vivere l'esperienza cristiana che l'ha fatta diventare interessante per noi, quando l'abbiamo incontrata.
Nella nostra vita questa tradizione, che in tanti è sparita, è diventata di nuovo interessante grazie all'incontro cristiano con il movimento.
 Altrimenti anche noi saremmo come tanti nostri contemporanei, smarriti.
 
2. Un crollo che ci riguarda

Come ci ha insegnato sempre don Giussani, uno non può vivere in una situazione senza esserne influenzato. Per questo tante volte sorprendiamo noi stessi a reagire come tutti.
Da che cosa si vede? La realtà è il luogo della verifica della fede.
Perciò, nelle vicende che ci siamo trovati ad affrontare quest'anno, il punto cruciale e drammatico continuamente emerso è la questione della fede e il nesso tra la fede e la speranza. Il confronto con il capitolo sulla speranza ha portato a galla una fragilità riguardo alla fede, che emerge in primo luogo come difficoltà a guardare l'esperienza che si fa, come debolezza di giudizio, come reticenza a compiere quel percorso di conoscenza che certi avvenimenti e certi fatti, che profondamente ci colpiscono, esigono.
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(Zacuff)
00giovedì 3 settembre 2009 13:39
Ci sono tantissimi esempi che documentano questo.
Ne cito uno, a partire da una lettera che mi è stata scritta:
«La Scuola di comunità sulla speranza è entrata nella mia vita come una sassata.
Fino a prima di Natale la vita andava bene.
Mi ero sposato da oltre un anno.
Ad aprile è nata la mia prima figlia, bellissima, ho un lavoro a cui sono appassionato, aiutavo gli insegnanti in Gs, facevo tantissime cose.
Poi, prima di Natale, è successo qualcosa [e mi racconta una situazione che l'ha spiazzato...]. Dominavano l'insoddisfazione e la tristezza.
Mi chiedevo: per cosa mi spendo ogni giorno?
E mi tornavano alla mente le tue parole, quando dici che la nostra fede ha una data di scadenza.
Dopo un tot di anni passati a fare il bravo ciellino, mi ritrovavo con la fede traballante, non poggiante su nulla, e quindi il futuro era tutto una nebbia».
E questo lo diciamo dopo che siamo stati tutti davanti a una proposta.
L'anno scorso abbiamo fatto tutto il percorso nella Scuola di comunità, e anche agli Esercizi: la fede come metodo di conoscenza.
Di tanti di voi io sono testimone che si è lavorato sul serio, ma quando la realtà stringe, quello che domina è ciò che abbiamo appena ascoltato: tutto svanisce.
Come diceva Franco Nembrini, raccogliendo tutti i contributi che erano arrivati in occasione del mio incontro con gli insegnanti delle scuole:
«C'è una valanga di bene, di verità, di tentativi, ma anche di certezza.
Ecco, moltissimi di questi racconti parlano, e non da visionar!, di un miracolo presente; ma è come se soffrissero di un'ultima incertezza [...].
Quasi che il mattino dopo ci si potesse alzare e l'imponenza dell'esperienza fatta svaporasse, potesse svanire».
E così prevale lo smarrimento.
Come se tutto il percorso fatto sulla fede come metodo di conoscenza fosse cancellato in un colpo.
Questo ci rende consapevoli, amici, della lunga marcia che ancora c'è da fare, e ci testimonia che ci troviamo nella situazione di tutti.
E operiamo tré gravi riduzioni.

a) Riduzione della fede a senso religioso
 
Anzitutto la riduzione della fede a senso religioso.
Il cristianesimo tante volte tra di noi viene ridotto al senso religioso.
17
(Zacuff)
00giovedì 3 settembre 2009 13:43
Il cristianesimo tante volte tra di noi viene ridotto al senso religioso.
Nella nostra vita quotidiana ciò si traduce nel fatto che la fede è vissuta come una delle tante ipotesi che possiamo formulare per affrontare la situazione, come se non fosse accaduto nulla e ci trovassimo sempre da capo davanti all'ignoto: io, con il mio senso religioso, cercando a tentoni di costruire il nesso con questo ignoto.
 E da che cosa si vede?
Potrei raccontare episodi uno dopo l'altro: dal fatto che il punto di partenza per affrontare la giornata non è qualcosa conosciuto con certezza, e la ragione nascosta è che questo qualcosa non ci sembra abbastanza reale da non trascurarlo.
Ci sorprendiamo che è una ipotesi che non ci viene neanche in testa: ci vengono in mente tutte le altre possibilità, prima della fede.
 Perché? Perché la fede non equivale a vera conoscenza.
Ecco il "crollo delle antiche sicurezze".
Qualsiasi cosa ci sembra più reale della Presenza riconosciuta dalla fede.
L'incertezza e la fragilità sono l'inevitabile conseguenza della separazione della conoscenza e della fede.
Allora, invece di partire da una Presenza incontrata e amata, si parte da un'assenza, dall'ignoto. Tutto il contrario per colui per il quale la fede è vera conoscenza, è conoscenza di qualcosa di reale!
Infatti don Giussani afferma che «il primo gesto di pietà verso te stesso, la prima espressione dell'amore alla tua origine, al tuo cammino e al tuo destino [...] è [...] confessare questo Altro [che hai riconosciuto nella fede.
Questo è il primo gesto di pietà, prima di qualunque coerenza.
Si vede proprio quando uno parte da qualcosa di conosciuto con certezza. Come mi scrive questa ragazza:
 «Succedono tante cose, cose belle, che mi commuovono, e cose meno belle, dolorose, che invece mi feriscono, ma io ho tra le mani un tesoro che è una cosa pazzesca perché ho la possibilità di guardare tutto, di entrare in tutto. Innanzitutto di guardare, che non è scontato, di guardare tutto in una maniera diversa, diversa e che ti fa respirare rispetto a tutto il resto del mondo».
Un nota bene: malgrado accada questa riduzione, questo non ci impedisce di continuare a usare le parole cristiane o a frequentare certi gesti cristiani, ma è come se tutto acquistasse un altro significato.

b) Riduzione della fede a sentimento
 
La seconda riduzione è quella della fede a sentimento.
Può affermarsi anche tra di noi questa concezione sentimentale o emozionale della fede, dove il credere, invece di un riconoscimento della Presenza incontrata, diventa un "salto", un atto irrazionale, un atto della volontà senza fondamento, in cui, alla fine, è la fede che genera il fatto e non viceversa.
Rudolf Bultmann - l'esegeta che diceva che è la fede che genera il fatto cristiano – non è così lontano dalla nostra vita.
18
(Zacuff)
00giovedì 3 settembre 2009 13:48
Guardate che capovolgimento!
In una concezione sentimentale della fede è la forza del sentimento, è la «volontà di verità» - siamo messi male! - che crea il suo oggetto.
Come aveva scritto uno studente di sinistra sotto un volantino dei nostri amici universitari: «Questo che voi dite è una evidenza o un credo?».
Tante volte per noi non è conoscenza vera, ma è un credo: la fede apparterrebbe a un credere che non ha nulla a che vedere con il conoscere, con l'uso della ragione.
Esattamente la prima obiezione che si è sentito rivolgere don Giussani nella prima ora di religione!
Altro che fede come metodo di conoscenza!
E questo succede dopo un anno di Scuola di comunità sulla fede!
Allora quando si parla di Cristo, dell'oggetto della fede, non si parla di realtà, dunque non è coinvolta la ragione, e per questo non ci viene in mente per affrontare la sfida della vita.
Il contenuto della fede non lo riteniamo reale: la fede è ridotta a sentimento.

e) Riduzione del cristianesimo a etica o cultura

E, infine, la terza riduzione della fede a etica.
Quello che resta sono alcuni valori della cultura cristiana o qualche regola dell'etica cristiana.
Ci siamo sorpresi tante volte quest'anno a difendere questi valori, ma senza il bisogno di parlare di Lui, della Presenza riconosciuta e amata.
Si difende la vita, ma chi di noi riuscirebbe a stare davanti a un dramma come quello di Eluana soltanto difendendo la vita?
Chi di noi, se non ci fosse la compagnia di Uno presente, riconosciuto e amato?
Se non ci fosse la "carezza del Nazareno", chi sarebbe in grado di stare davanti a un dramma così?!
Se non c'è questa Presenza, crolliamo noi per primi.
Noi respiriamo - dentro e fuori della Chiesa - questa riduzione, la fede ridotta a una determinata visione del mondo e della vita, a una morale o a un insieme di valori che, come tale, può essere stimata o combattuta: c'è chi, come i cristiani o certi laici, la sostiene, e chi la combatte in nome del principio di autodeterminazione radicale dell'individuo.
Il cristianesimo dei valori è una tentazione a cui noi non siamo estranei.
 E ciò che don Giussani denunciava già nel 1982, quando ai responsabili degli universitari amaramente diceva che «è come se il movimento di Comunione e Liberazione, dal '70 in poi, avesse lavorato, costruito e lottato sui valori che Cristo ha portato, mentre il fatto di Cristo [...] "fosse rimasto parallelo"».
Ma un cristianesimo così è insufficiente a sostenere la vita, e appena la vita si complica, l’incertezza prende il sopravvento.
19

(continua)
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 19:50
3. L'irriducibilità di un fatto

 Si domandava Ratzinger:
«Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo [anche in noi]? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. [...]
Nell'uomo vi è un'inestinguibile aspirazione nostalgica verso l'infinito.
Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell'ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l'uomo».
Come tutte queste riduzioni non hanno preso il sopravvento in noi? Lo sappiamo bene: perché il Fatto che abbiamo incontrato è - grazie a Dio, letteralmente - assolutamente irriducibile.
Non siamo in grado di cancellarlo.
Noi oggi - non nel passato, oggi! - siamo davanti a un fatto assolutamente irriducibile, pieno di testimoni, e questo è il segno più palese che il Mistero continua ad avere pietà di noi.
C'è un passaggio in Si può vivere così? - a tutti noto - che ha un'immensa portata, poiché contiene tutta l'originalità e la razionalità della fede, tutta la sua differenza da un sentimento religioso, da un credere opposto al conoscere:
«Qual è la prima caratteristica della fede in Cristo?
PerAndrea e Giovanni qual è la prima caratteristica della fede che hanno avuto in Gesù? [...] La prima caratteristica è un fatto!
 Qual è la prima caratteristica della conoscenza?
È l'impatto della coscienza con una realtà».
Il fatto che continua a sfidare ciascuno di noi è il punto di partenza per cui ancora ritorniamo qui quest'anno: il presentimento di una corrispondenza che non possiamo toglierci di dosso, perché è l'imbattersi in una diversità umana: «L'avvenimento di Cristo diventa presente "ora" in un fenomeno di umanità diversa: un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita [...].
Quest'imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare, che viene prima di tutto, di ogni catechesi, riflessione e sviluppo: è qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto, intercettato, che suscita uno stupore, desta una emozione, costituisce un richiamo, muove a seguire, in forza della sua corrispondenza all’attesa strutturale del cuore.
20
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 19:52
Senza questa contemporaneità della Sua presenza nel fenomeno di una umanità diversa, non sarebbe possibile la fede cristiana.
 E la contemporaneità di Cristo oggi è questo fatto di umanità diversa - che tanti di voi mi testimoniate -, fatto che sfida la mia ragione e la mia libertà.
Ma come mai - se è così palese questa testimonianza, se siamo circondati da una così grande quantità di testimoni -, come mai dopo un po' siamo di nuovo smarriti, incastrati nel nostro sentimento, soffocati nella circostanza?
Ciò che manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da testimoni!); manca l'umano.
Se l'umanità non è in gioco, il cammino della conoscenza si ferma.
Amici, non manca la Presenza, manca il percorso, manca che noi ci decidiamo a fare tutto il percorso della fede come ci è stato annunciato, perché da questa situazione, da questo contesto in cui ci troviamo a vivere la fede (che incide su di noi molto più di quanto ne siamo consapevoli), noi non possiamo venire fuori automaticamente, scaldando la sedia, senza un lavoro.
 «È una schiavitù da cui non ci si libera automaticamente, ci si libera con una ascesi [...j: l'ascesi è una applicazione che l'uomo fa delle sue energie in un lavoro su se stesso, intelligenza e volontà».
L'esperienza fatta in questi anni ci rende consapevoli che non basta ripetere certe frasi di don Giussani - riducendo così la sua persona a un catalogo di discorsi - o partecipare a momenti belli.
Occorre impegnarsi seriamente in un cammino, in un lavoro, e la sfida davanti a cui ci tro-viamo è se prendere sul serio o no la proposta che ci ha rivolto don Giussani. Smettiamola di prenderci in giro! Pochi luoghi nella Chiesa di Dio hanno avuto il coraggio di accettare la sfida dei tempi moderni come ha fatto l'esperienza nata da don Giussani.
 Ma noi tante volte la riduciamo a una serie di iniziative, a partecipare a certi gesti, però senza fare un cammino umano, cioè della ragione e della libertà: l'abbiamo presa un po' "sportivamente", quasi non veramente consapevoli della situazione drammatica in cui ci troviamo, che invece chiede tutto l'impegno della persona nella verifica. Proprio lui ce l'aveva predetto già tanti anni fa:
 «Se il movimento non è un'avventura per sé e non è il fenomeno d'un allargarsi del cuore, allora diventa il partito [...] che può essere sovraccarico di progetti [che non mancano tra di noi], ma nel quale la singola persona è destinata a rimanere sempre più tragicamente sola [insieme, ma sola!] e individualisticamente definita».
 Ma quale percorso manca, quale avventura?
21
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 19:56
a) a) Percorso della fede
Voglio risottolineare due aspetti del percorso della fede che ritengo decisivi.
 
1 ) Corrispondenza
La prima difficoltà che vedo è che ci manca la consapevolezza di quello che chiamiamo "corrispondenza", che è la parola più confusa di tutto il vocabolario ciellino.
Guardate che don Giussani avverte che «il motivo per cui la gente non crede più o crede senza credere (riduce il credere a una partecipazione formale, ritualistica, a dei gesti, oppure a un moralismo) è perché non vive la propria umanità [manca l'umanoi, non è impegnata con la propria umanità, con la propria sensibilità, con la propria coscienza, e quindi con la propria umanità».
 «Cioè, l'impegno nel cammino umano è condizione perché abbiamo a essere all'erta quando Cristo ci offre il suo incontro».
Quando manca l'impegno della nostra umanità, il risultato è questo che lui descrive in un suo intervento a Chieti nel novembre del 1985:
«Noi cristiani nel clima moderno siamo stati staccati non dalle formule cristiane, direttamente, non dai riti cristiani, direttamente, non dalle leggi del decalogo cristiano, direttamente.
Siamo stati staccati dal fondamento umano, dal senso religioso [dal nostro umano]. Abbiamo una fede che non è più religiosità.
Abbiamo una fede che non risponde più come dovrebbe al sentimento religioso; abbiamo una fede cioè non consapevole, una fede non più intelligente di sé.
Diceva un mio vecchio autore, Reinhold Niebuhr:
 "Nulla è tanto incredibile come la risposta ad un problema che non si pone".
Cristo è la risposta al problema, alla sete e alla fame che l'uomo ha della verità, della felicità, della bellezza e dell'amore, della giustizia, del significato ultimo.
Se questo non è vivido in noi, se questa esigenza non è educata in noi, che ci sta a fare Cristo?
Cioè, che ci sta a fare la Messa, la confessione, le preghiere, il catechismo, la Chiesa, preti e Papa?
Sono trattati ancora con un certo rispetto a seconda delle aree di vita del mondo, sono conservati per un certo periodo di tempo per forza d'inerzia ma non sono più risposte ad una domanda, perciò non hanno più lunga sopravvivenza luna data di scadenza, appunto]. [...] Così il cristianesimo è diventato Parola, parole". Chiacchiere...
22
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 19:59
L'importanza di questo l'aveva già colta Ratzinger tantissimi anni fa:
«La crisi della predicazione cristiana, che da un secolo sperimentiamo in misura crescente, dipende in non piccola parte dal fatto che le risposte cristiane trascurano gli interrogativi dell'uomo; esse erano giuste e continuavano a rimanere tali; però non ebbero influenza in quanto non partirono dal problema e non furono sviluppate all'interno di esso.
Perciò è una componente essenziale della predicazione stessa il prendere parte alla ricerca dell'uomo, perché solo così parola (Wort) può farsi risposta (Ant-wort)».
Questa è la decisione che ciascuno di noi deve prendere: o partecipare all'avventura della conoscenza, prendendo sul serio le proprie domande umane, o ripetere un discorso imparato, compiendo gesti formali e organizzativi.
Per questo don Giussani ci ha sempre invitato a prendere sul serio l'umano, cioè l'affezione a sé:
«La prima condizione perché l'avvenimento, il movimento come avvenimento, come fenomeno imponente, si realizzi, la prima condizione è proprio questo sentimento della propria umanità [...]: l'"affezione a sé"».
 E questa affezione a sé cosa significa?
 Non è un sentimentalismo: «L'affezione a sé ci riconduce alla riscoperta delle esigenze costitutive, dei bisogni originali, nella loro nudità e vastità [...]: un'attesa senza confine. [...]
Questa è l'originalità dell'uomo; e infatti l'originalità dell'uomo è l'attesa dell'infinito». Ma questo è ciò che manca tante volte tra di noi, questo senso del mistero, per cui alla fine, mancando il Mistero, tutto ci "corrisponde" perché tutto è lo stesso.
«È questo il guaio dei moderni: non hanno il senso del mistero».
Tante volte, sentendo parlare tra di noi, questa è la cosa che più manca.
23
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 20:02
Non manca Lui, manca il senso del Mistero.
 Per questo mi viene sempre in mente quella frase di Gilbert Chesterton: «I sapienti - si sente dire - non vedono risposta all'enigma della ragione. 
Il male non è che i sapienti non vedono la risposta, ma che non vedono l'enigma», non percepiscono l'enigma, non percepiscono il Mistero.
Per questo Martin Heidegger diceva che «nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l'uomo».
Tanto è vero che tutto si riduce al sentimento di piacere o di dispiacere.
Guardate che cosa diceva Immanuel Kant (possiamo quasi riconoscerei in queste parole):
 «In che cosa, cioè, ciascuno debba riporre la propria felicità, dipende dal sentimento di piacere o di dispiacere proprio di ciascuno [...]; e quindi una legge necessaria soggettivamente (come legge di natura) è, oggettivamente, un principio pratico del tutto accidentale, che in soggetti diversi può e deve essere diversissimo, e pertanto non può mai fornire una legge».
Il criterio di giudizio è assolutamente soggettivo, e per questo la parola "corrispondenza" (che qui è ridotta a ciò che confa a questo sentimento soggettivo) viene manipolata da ciascuno, dalla scelta di ciascuno.
Per questo vi riporto quello che dice don Giussani in Si può (veramente?!) vivere così? rispetto all'esperienza della corrispondenza, perché mi ha fatto colpo rileggendolo: «II contenuto dell'esperienza è la realtà.
Un uomo è innamorato della tal ragazza: questo è un fatto, è un fenomeno. Il poeta va in giro con le mani in tasca e giunge a questo fatto.
Questo fatto entra sotto il giro d'orizzonte dei suoi occhi, cioè entra dentro l'ambito del suo conoscere.
 Siccome è un fenomeno reale, diventa oggetto di conoscenza. Questo è l'inizio del fenomeno, ma non è tutto.
Di fronte a questo oggetto di conoscenza, gli occhi del poeta si incendiano di curiosità, di simpatia, di approvazione, perché nel fenomeno vede qualcosa che garberebbe avere anche a lui, mentre essendo piccolo poeta quindicenne non l'ha ancora così.
Prova una nostalgia: prova, cioè reagisce con un senso di invidia e con un desiderio di avere anche lui quel fenomeno».
Qui dovrei fermarmi e domandarvi: questo è esperienza?
E questa la corrispondenza? Scommetto che la stragrande maggioranza risponderebbe di sì: provo una nostalgia, provo questa curiosità, provo questa simpatia, dunque mi corrisponde.
E questa è la giustificazione; uno può andare dietro a qualsiasi cosa, e poi giustificare qualsiasi tipo di naturalismo (andare fino in fondo alle proprie nostalgie sentimentali) in nome della corrispondenza, e giustificare anche tra noi qualsiasi stupidaggine in nome della corrispondenza. Spesso per noi corrispondenza è sinonimo di desiderio di avere.
Ma attenzione a come prosegue don Giussani:
24
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 20:06
«Fin qui non è esperienza, ma qualcosa che si prova, [...j
 "E soddisfazione reale? È risposta vera al mio bisogno?
È felicità? È verità e felicità?".
 Queste sono le esigenze che non nascono in ciò che prova, ma nascono in lui davanti a ciò che prova, in lui impegnato in ciò che prova.
 Queste domande giudicano quello che prova».
Questa, sì, è la corrispondenza!
«Qui diventa esperienza il puro e il mero provare. [...]
 Diventa esperienza quando il provare è nel contempo giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice. In base a queste domande ultime del cuore, a questi criteri ultimi del cuore, l'uomo governa la sua vita».
Altrimenti è un moccioso che segue quello che prova senza giudicarlo!
Per questo la confusione del provare con la corrispondenza è quello che ci impedisce, alla fine, di riconoscere qual è la corrispondenza di Cristo.
Non è soltanto che sbaglio in continuazione - che già sarebbe abbastanza -, ma che non capisco qual è la novità che Cristo introduce.
Per questo pensiamo di non vedere la risposta, ma in realtà non vediamo l'enigma. Infatti «una risposta è capita solo nella misura in cui uno sente la domanda addosso a sé». Solo costui capisce la risposta.
Per questo niente è più incredibile di una risposta data a un problema che non si pone.
 E tu vedi subito quando una persona ha questa umanità, quando c'è l'umano e quando no. Sempre mi ricordo dell'esempio di Cleuza, che un istante dopo avere ascoltato che perfino i capelli del proprio capo sono numerati - ed eravamo li in settecento a sentirlo - ha subito sperimentato la corrispondenza impossibile.
«Possiamo tornare a casa», ha detto a Marcos.
 Perché ha capito? Perché?
Perché sentiva l'enigma molto di più che tanti tra noi sapienti che eravamo lì, molto di più! Da cosa si è visto che lei ha capito, cioè che per lei la fede era conoscenza?
 Da come l'ha giocata nel reale davanti a tutti e molto più di tutti.
Il giudizio sulla eccezionaiità di Cristo, sulla corrispondenza impossibile, è possibile soltanto a chi ha questo umano.
Se manca l'umano, anche se abbiamo davanti la Presenza, la scambiamo con qualsiasi soddisfazione a buon mercato.
Allora la fede per noi non è conoscenza, rimaniamo smarriti come tutti.
In fondo non capiamo: noi che siamo i sapienti non capiamo un cavolo.
25
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 20:09
2) Chi è costui?
Il secondo punto su cui volevo soffermarmi, dopo la corrispondenza, è che questo è l'inizio di un percorso, che culmina nella domanda: chi è Costui che mi corrisponde così?
 Noi siamo circondati, come dicevamo prima, da fatti eccezionali, che a volte fanno scattare la domanda; ma spesso noi questo percorso non lo facciamo e siamo lì, come i giudei, sospesi.
«Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano:
"Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso?
 Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente"».
Vogliono, cioè, una risposta che risparmi loro l'impegno del proprio umano, della propria ragione e della propria libertà.
Ma Gesù non cede - mi dispiace... -:
«Gesù rispose loro: "Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore.
 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.
Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.
Io e il Padre siamo una cosa sola"».
Aveva detto in precedenza: «Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
Noi siamo, come i giudei, davanti a delle opere, a dei fatti, a dei testimoni, a questa diversità umana. Vediamo una valanga di segni di un miracolo presente; ma c'è come una paura di perderlo un istante dopo.
 Perché non sappiamo di che si tratta (se uno ha fatto esperienza che l'acqua bagna, è possibile che il giorno dopo abbia il dubbio se bagnerà ancora?).
Cioè, non è conoscenza.
 La nostra paura incomincia nell'istante in cui blocchiamo il percorso della conoscenza, della co-noscenza di quella bellezza che mi ferisce, che io non posso evitare di avere davanti.
A chi può venire la paura che non rimanga, che svanisca dopo un po'? A chi non è arrivato alla fede.
A chi non percepisce in queste opere, in questa bellezza il segno della Sua presenza. E perché non lo percepisce?
Perché si arresta all'apparenza, come i giudei: vedono le opere, ma non arrivano a riconoscere l'origine ultima di esse.
 Per noi è come se questa bellezza che abbiamo davanti fosse staccata da Lui, non fosse documentazione di Lui all'opera in mezzo a noi: stacchiamo sempre il segno dalla sua origine.
Allora i segni non ci confermano che Egli è all'opera, la fede non è una conoscenza di Lui attraverso quello che fa.
Se è Lui, sarà Lui a preoccuparsi di darmi ancora altri segni, sarà Lui a preoccuparsi di rimanere presente, perché è l'unico che ha detto - se noi arrivassimo a riconoscere Chi fa questa bellezza che ci troviamo davanti, non ci verrebbe neanche un pensiero su come rimane - che sarà con noi fino alla fine del mondo.
Come Lui sarà con noi non è un nostro problema.
Se non arriviamo a questa conoscenza vera, siamo sempre nei guai dell'incertezza.
26
(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 20:12
b) Verifica della fede
Ma il percorso non finisce qui.
Una volta riconosciuto, occorre fare la verifica nell'esperienza di questa Presenza che abbiamo riconosciuto.
Dice ancora Ratzinger:
«La fede cristiana non è un sistema [non è un pensiero].
Non può essere presentata come un edificio teorico chiuso.
 È una via, e una via si riconosce solo imboccandola e percorrendola.
Questo vale in un duplice senso: il fatto cristiano non si dischiude a nessuno se non nell'esperienza dell'accompagnarvisi [non si svela Cristo davanti ai nostri occhi se non nella misura in cui si manifesta nel come Lui ci cambia e ci accompagna]; e nella sua totalità consente di essere colto soltanto come cammino storico».
Occorre perciò che noi lasciamo alla fede lo spazio per dischiudere la sua verità, perché si possa mostrare in grado di sostenere la vita, di reggere davanti alle circostanze.
Il nostro Dio è un Dio che si rivela nella storia, non nei nostri pensieri.
 È lì dove svela la Sua diversità rispetto a tutti i nostri idoli.
 Perciò se uno non rischia nel reale, nel lavoro, nella crisi, nella malattia, nei rapporti, nelle circostanze, non potrà venire fuori l'evidenza di cui abbiamo bisogno per aderire ragionevolmente a Cristo.
Perché quello di cui noi abbiamo bisogno è l'evidenza di Cristo nella nostra esperienza, non di ripetere un discorso.
 E non abbiamo bisogno che un altro ce lo spieghi, ma abbiamo bisogno di vederlo noi: che regge alle circostanze, che è in grado di sostenere la vita.
Non abbiamo bisogno della direzione spirituale, ma dell'invito a una verifica nelle circostanze.
 Esattamente questo ci può dare quella certezza di cui abbiamo bisogno.
Solo chi rischia questa verifica può arrivare alla certezza della conoscenza di cui abbiamo tutti bisogno: potere verificare che chi crede nel Figlio ha la vita eterna e fa esperienza del centuplo quaggiù.
Senza di questo l'adesione alla fede non è ragionevole, perché non L'abbiamo conosciuto all'opera. Invece chi verifica può trovare quella certezza.
Scrive a un'amica una mamma che ha avuto un figlio bellissimo, ma con la sindrome di Down:
 «Quello che vorrei dirti è che in questi tre mesi di ospedale io e mio marito siamo stati alle circostanze che si presentavano con un desiderio di abbracciare tutta la realtà per come si è rivelata.
Da circa venti anni io ho incontrato Comunione e Liberazione, ma solo in questa circostanza, in questo fatto, mi si è svelato il mistero della grande Presenza.
Egli c'è, è un fatto, come è un fatto mio figlio. Da questa nostra posizione sono nati tanti bellissimi incontri, rapporti, si è svelata l'unità con i nostri amici. Per questo mi ha colpito la Scuola di comunità che diceva: "stare dentro la realtà chiedendoci chi ce la dà, standoci fino in fondo e chiedendo, domandando fino in fondo da che cosa sono costituita, desiderando, attendendo Colui che mi fa"».
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(Zacuff)
00lunedì 21 settembre 2009 20:16
e) La fede è un metodo di conoscenza
Così la fede può tornare a essere conoscenza.
La fede è un metodo di conoscenza!
Questo cammino drammatico fa parte della certezza, amici, del superamento della separazione fra sapere e credere.
 La storia non è inutile, le circostanze attraverso cui il Mistero ci fa passare non sono inutili; sono la possibilità di vedere, che si sveli davanti ai nostri occhi chi è Colui in cui crediamo.
Attraverso questa storia noi abbiamo conosciuto Colui in cui crediamo.
Crediamo, come i discepoli, perché abbiamo visto; non crediamo per un sentimentalismo o perché abbiamo deciso di credere, di creare la fede.
Lo abbiamo visto all'opera, le Sue opere parlano di Lui.
Questo è il superamento della separazione tra sapere e credere.
 Noi abbiamo visto, quando abbiamo fatto questo percorso, i tratti inconfondibili della Sua presenza. Altro che riduzione della fede al senso religioso e al sentimento!
Chi ha accettato questa sfida che ci ha fatto don Giussani, chi ha accettato di percorrere tutto il cammino della fede come cammino di conoscenza, potrà testimoniarlo, come tanti ce lo testimoniano.
 Perché, nelle circostanze che ognuno ha da vivere, che cosa viene fuori?
Che nessuno, quando ha fatto questo percorso, può fare fuori l'esperienza di corrispondenza che ha vissuto e che vive.
La corrispondenza è il segno che attraverso i fatti (una quantità sterminata di esperienze, di eventi e di prodigi) abbiamo potuto toccare con mano la Sua presenza in mezzo a noi (tanto è vero che sono rimasti nella memoria, sono penetrati in ogni fibra del nostro essere).
La corrispondenza in ogni singola persona - perché uno può stare in piedi solo grazie a questo -: è il Signore di ogni cuore, e per questo è il Signore di tutti.
Il cristianesimo, quando facciamo questa strada, è un fatto che nessuno può strapparci di dosso, che resiste a qualsiasi crisi, a qualsiasi crollo, a qualsiasi terremoto. Anzi, qualsiasi crisi, qualsiasi sfida, è l'occasione per riconoscerLo all'opera.
 È lo spettacolo della Sua presenza all'opera nel reale, non nei nostri pensieri.
È la certezza di Lui che cresce.
 E per questo c'è una gratitudine infinita nei Suoi confronti, per Lui che si rende così presente nella nostra vita.
Che cosa si è rivelato più consistente di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi sfida?
Questa appartenenza a Lui, come ci testimoniavano i nostri amici di L'Aquila: un'appartenenza alla Presenza che nessuno può sconfìggere. La consistenza della nostra vita dipende dal rapporto con questa Presenza.
Il valore della nostra vita dipende da questo rapporto, da questa familiarità: ma chi sei Tu che ti prendi cura così del mio niente?
Questa è la grandezza del carisma a cui apparteniamo: appartenere a una storia, a un'esperienza di fatti che ci rendono protagonisti, non nel senso di avere potere, ma di riconoscere una Presenza che risponde, che corrisponde all'attesa del nostro cuore, anche in mezzo a tutte le difficoltà e a tutte le condizioni.
Per questo tutto mi è dato per riconoscere i tratti inconfondibili della Sua presenza in mezzo a noi, che si rivelano non nei nostri pensieri, ma nella vita.
Si capisce perché san Paolo diceva con gratitudine:
«È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati».
Per questo domandiamo: non lasciarmi mai, Presenza che sempre mi sorprendi !
29
29
(Zacuff)
00martedì 22 settembre 2009 13:25
Tralascio la lezione di Sabato pomeriggio che tratta "La contemporaneità di Cristo".
Passo direttamente alle domande di Savide Prosperi (uno dei tanti presente agli Esercizi della Fraternità di CL

e relative risposte di don Carron.



 Domenica 26 aprile

 Don Pino. Non sappiamo come è accaduto duemila anni fa, in quale ora, in quale angolo della casa della Madonna, ma nel nostro nulla, nel nostro bisogno di significato, di verità, di affezione, di positività, siamo umilmente certi che quello che accade ora è quello che è iniziato in quell'istante.
Non "come" è accaduto, ma "quello che" è accaduto accade.

Angelus

Lodi

ASSEMBLEA

Davide Prosperi. Sono arrivate molte domande, e abbiamo constatato che la maggior parte convergevano su tre questioni, fondamentalmente: primo, che cos'è la corrispondenza?
Secondo, una richiesta di approfondimento su un punto ripetuto più volte in entrambe le lezioni, che cioè manca l'umano.
Terzo, il lavoro dell'ascesi.
Evidentemente questo colpisce perché, ripensando al cammino fatto in questi anni con l'insistenza continua sull'io, viene da domandare: perché continuiamo a non capire?
Allora comincio subito con la prima domanda:
«Abbiamo capito cosa non è la corrispondenza, abbiamo intuito che ciò che corrisponde istintivamente va sottoposto a un giudizio per diventare esperienza.
Cos'è, allora, la corrispondenza?».

Juliàn Carrón. Ci soffermiamo a spiegare che cos'è l'esperienza, perché senza prenderci il tempo per capire che cosa essa è, noi non abbiamo lo strumento per fare un cammino umano.È da qui che provengono tutti i guai, nel modo con cui facciamo la Scuola di comunità, nel modo in cui viviamo.
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(Zacuff)
00martedì 22 settembre 2009 13:49
Così niente è utile, perché se tutto quello che viviamo non è giudicato - e non si capisce come si può giudicare senza vedere la corrispondenza o meno -, allora non facciamo un cammino umano.
Io ricordo che questa per me è stata forse la questione più rilevante dell'incontro con il movimento: che metteva nelle mie mani uno strumento per fare il mio cammino umano. Senza questo non si capisce nemmeno la fede.
Perciò, prendiamoci un attimo di tempo per ripartire da questo.
 Perché non si tratta dell'ultima nota dell'ultima pagina del ventesimo libro di don Giussani!
È l'inizio del PerCorso: che cosa è l'esperienza.
Allora, servendoci dei mezzi tecnici adeguati, proviamoci: ritorniamo a scuola, amici !


ESPERIENZA

 L'esperienza, dice don Giussani (come abbiamo sentito ieri), di solito la riduciamo a provare.
Questo mi sembra che dalla domanda si capisca: perché ci sia esperienza, non basta provare.

PROVARE

Ai miei studenti facevo questo esempio: immaginate che stiamo imparando un certo tipo di problema di matematica e l'insegnante, dopo avercelo spiegato, ci dia da svolgere un esercizio a casa.
Vi ricordate come facevate quando eravate piccoli?
Portavate a casa il compito e provavate a cercare di rispondere al problema.
Voi, finito di fare il compito, eravate sicuri di avere risolto il problema in modo adeguato? Evidentemente no.
 E facendolo cinque volte invece di una, avreste saputo se la quinta era risolto meglio che la prima? No.
E facendolo duecentomila volte? No.
 Che cosa vuoi dire questo?
Che solo provando (cioè facendo duecentomila volte il tentativo di risolvere il problema) io non sono sicuro di avere imparato niente.
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(Zacuff)
00martedì 22 settembre 2009 13:54
La vita può diventare questo: un insieme di prove, di tentativi da cui non impariamo niente.
Capite perché don Giussani insiste?
Se noi rimaniamo soltanto nel provare, non impariamo niente della vita, non facciamo esperienza.
Perché questo provare diventi esperienza occorre - secondo fattore - emettere un giudizio.


PROVARE + EMETTERE UN GIUDIZIO

Rimaniamo al nostro esempio: tornavamo il giorno dopo a scuola e facevamo il paragone tra il tentativo che noi avevamo fatto e la soluzione illustrata dall'insegnante alla lavagna. Così potevamo fare il paragone tra il nostro tentativo (la nostra prova) e la risposta esatta.
Senza giudicare io non capisco, non posso essere certo. E chiaro fin qua?
Allora si capisce perché don Giussani insiste sul fatto che noi non possiamo imparare niente, non possiamo fare veramente esperienza, se rimaniamo soltanto al provare e non emettiamo un giudizio su quello che proviamo.
Ma per emettere un giudizio - evidentemente - occorre un criterio di giudizio.

CRITERIO DI GIUDIZIO

Nel nostro esempio, chi ci dava il criterio di giudizio? L'insegnante.
Ma qui sorge la grande questione che affronta don Giussani: c'è qualche insegnante che possa darmi il criterio di giudizio per quello che io provo nella vita?
 Se c'è qualche guru che ha questa pretesa, è un presuntuoso e mi prende in giro.
Sarebbe come dire: «Poverino, tu non capisci: te lo spiego io».
E questo è quello che succede quando noi affidiamo a qualcun altro il criterio di giudizio.
E se noi affidiamo a qualcun altro il criterio di giudizio, siamo schiavi di un altro, siamo - spiega don Giussani - alienati.
E perciò si può difendere la persona, si possono difendere tutti i diritti dell'uomo, tutto quanto volete, ma se togliamo alla persona il criterio di giudizio, le togliamo la dignità. Perché è come dire: «Tu sei scemo: te lo spiego io».
C'è una modalità di stare tra di noi che è proprio questa: «
Tu non capisci, te lo spiego io».
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(Zacuff)
00martedì 22 settembre 2009 13:59
Questo non va bene, perchè ci fa rimanere sempre infantili, alienati: dobbiamo sempre chiedere al capo, Io a un movimento così non ci sto!
Perché va contro il criterio di giudizio della prima pagina del PerCorso, capite?
Va contro, cioè, quello che don Giussani ci ha proposto.
Allora, qual è il criterio di giudizio?
Il criterio di giudizio non può essere fuori di noi, perché altrimenti saremmo alienati.
Allora il criterio di giudizio ha una prima caratteristica: è dentro di noi.


CRITERIO DI GIUDIZIO
• Dentro di noi

Vi faccio degli esempi, perché così capiamo tutti.
 Poniamo che Davide, per un infortunio, abbia il braccio ingessato.
Va dal medico dicendogli: «Guardi, il gesso mi fa un male tremendo, ho molto dolore». Il medico gli risponde: «Non ti fa male. E impossibile che ti faccia male: sono il Premio Nobel del gesso! E impossibile che ti faccia male».
Davide tornerebbe a casa e direbbe: «Non mi fa male: è il Premio Nobel del gesso, non mi fa male»? Io posso anche essere scemo, ma so, eccome, quando il gesso mi fa male, capite?
Il criterio è dentro di me, non in qualche guru o esperto fuori di me.
Tanto è vero che se insiste, vado a cercarmi un altro medico! E qualcun altro che mi dice quando qualcosa mi fa male o io - pur essendo, magari, scemo - fin li ci arrivo?
Si potrebbe obiettare: «Eh, certo, l'esempio del gesso è facilissimo perché si capisce, ma la libertà?».
Se qualcuno viene da me e mi dice che la libertà è che io rimanga in carcere per tutto il resto della vita, perche nell'ultimissimo congresso di filosofia i più grandi geni dell'universo hanno stabilito così?
Andrei in carcere?
Sappiamo tutti che cos e la libertà, o andiamo in carcere perché l'hanno deciso gli esperti? Potremmo fare degli esempi fino a mezzanotte.
Il criterio è dentro di noi.
Allora - e qui viene la seconda caratteristica - ciascuno decide a sua discrezione?
No: il criterio è dentro di noi, ma non lo decidiamo noi!
 (continua)
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(Zacuff)
00mercoledì 23 settembre 2009 12:42
cRITERIO DI GIUDIZIO
• Dentro di noi •
Ma non lo decidiamo noi

 Il criterio di giudizio non lo decidiamo noi. Noi non decidiamo - è l'esempio che ho sempre fatto - neanche il numero delle nostre scarpe. Il criterio per le scarpe adeguate è dentro di me, ma non lo decido io.
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