A vent'anni dalla caduta del muro di Berlino

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S_Daniele
00venerdì 6 novembre 2009 20:58


A colloquio con Viktor Zaslavsky a vent'anni dalla caduta del muro di Berlino

L'insostenibile pesantezza dell'impero sovietico


di Andrea Possieri

La caduta del muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, rappresenta uno spartiacque fondamentale nella storia politica del Novecento. Segna la fine di un'epoca, della contrapposizione tra il modello liberal-democratico supportato da un'economia di mercato e il modello marxista-leninista a economia pianificata, e identifica anche l'inizio di una nuova fase delle relazioni internazionali. Un cambiamento epocale che investì la geografia politica mondiale innescando una serie di processi a catena, tra i quali la riunificazione della Germania e il collasso dell'Unione sovietica (Urss). Due storici mutamenti politici raggiunti nel volgere di pochissimo tempo e, fatto non secondario, senza spargimento di sangue. Ne parliamo con Viktor Zaslavsky, docente di Sociologia politica presso la Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli (Luiss) di Roma, autore di molti studi sulla storia dell'Urss e dei rapporti fra il Partito comunista italiano e l'Unione sovietica, e, soprattutto, ex cittadino sovietico che nel 1974 venne espulso dall'Urss. "Non ho fatto niente di particolarmente eclatante per essere espulso - afferma pacatamente Zaslavsky - non ero un dissidente ma solo un intellettuale che pensava con la propria testa. E anche questo era potenzialmente pericoloso per un regime come quello sovietico. Soprattutto nella città in cui vivevo, Leningrado, dove esisteva un rigido controllo ideologico". 

A distanza di venti anni da quel 9 novembre del 1989 possiamo tracciare un primo bilancio di quello storico evento. Che cosa ha significato la caduta del muro di Berlino?

La caduta del muro di Berlino rappresenta il simbolo del crollo del comunismo. O meglio, è una sintesi politico-simbolica di tutti i processi che si innescano nel biennio 1989-1991. Quello che accade in questi anni, infatti, è il risultato di almeno due processi tra loro strettamente collegati, ma allo stesso tempo molto differenti. Prima di tutto avviene il crollo del sistema sovietico e, poi, il crollo dell'impero sovietico. Il sistema sovietico è entrato in crisi a causa dei propri limiti strutturali ed è arrivato al collasso proprio a ragione di questi difetti congeniti alla natura stessa del regime. In altre parole, il sistema sovietico è crollato a causa della propria inefficienza, dello spreco di ingenti risorse economiche e dello sperpero di moltissime energie umane. In definitiva, il regime sovietico è imploso schiacciato dalle stesse contraddizioni che lo alimentavano:  un sistema politico con un regime monopartitico; un sistema economico con una rigida pianificazione centrale e una colossale militarizzazione della vita sociale. Queste tre caratteristiche della società sovietica hanno portato al collasso dell'Urss.

Seppellendo il mito-modello dell'Urss che per decenni ha fatto proseliti in tutto il mondo.

Nel biennio 1989-1991 non è soltanto crollato il muro di Berlino, con tutte le sue conseguenze in ambito internazionale, ma è anche crollato, dimostrando la sua impossibilità di sopravvivere, il sistema sovietico inteso come modello politico alternativo a quello liberal-democratico. Se vogliamo usare le parole dell'epoca è crollato il modello politico del "socialismo realizzato" segnandone, una volta per tutte, il fallimento.

Il sistema sovietico, quindi, crolla per un collasso sistemico. Quali sono le cause, invece, che portano all'esaurimento dell'impero sovietico?

Il crollo dell'impero sovietico è collegato alla crisi del sistema sovietico ma necessita di un altro angolo di visuale per essere spiegato. Prima di tutto, bisogna specificare che quando parliamo di Unione sovietica ci riferiamo a due tipi di impero:  uno interno ai propri confini e uno esterno, che si estendeva principalmente nei Paesi dell'Europa orientale, e rappresentava la grande conquista della seconda guerra mondiale. Dopo la conclusione del conflitto - che ha sancito il predominio sovietico su un vastissimo territorio che spaziava dall'area danubiano-balcanica e arrivava fino ai Paesi baltici - l'impero esterno è stato mantenuto da due fattori. Prima di tutto dalla forza militare. E per capire la capillarità e la pervasività della presenza militare sovietica è sufficiente ricordare, a titolo di esempio, che sul territorio della Germania orientale, che aveva una popolazione di soli 17 milioni di abitanti, erano presenti qualcosa come 355.000 militari sovietici, con un potenziale bellico formidabile costituito da carri armati, trasporto truppe corazzati, aerei e tutto l'arsenale militare sovietico. Si trattava quindi di un esercito enorme. Tuttavia, oltre alla presenza militare c'è anche un altro elemento che ha avuto un peso fondamentale nei rapporti tra i Paesi del blocco sovietico e l'Urss:  i sussidi economici che l'Unione sovietica corrispondeva alle cosiddette democrazie popolari. Ed è proprio questo fattore che entra in crisi alla fine degli anni Ottanta.

E che quindi anticipa i fatti del 1989.

Il crollo dell'impero esterno iniziò nel 1987 quando questo tipo di aiuti - soprattutto risorse energetiche vendute a prezzi assolutamente inferiori rispetto ai prezzi del mercato mondiale - rappresentarono un fardello che l'Unione sovietica non era più in grado di sopportare. Il tentativo di creare un mercato interno al blocco socialista, praticamente mantenuto dai sussidi sovietici, era del tutto insostenibile per l'Urss. Dopo due anni di perestrojka, dunque, ci si accorse che il sistema stava crollando. Da un lato, Mosca non poteva permettersi di vendere queste risorse energetiche a un prezzo che, molto spesso, rappresentava soltanto una piccola frazione del costo sul mercato mondiale, dall'altro lato, i Paesi dell'Europa orientale erano costretti a volgere il proprio sguardo verso Occidente. Di conseguenza, veniva a mancare uno dei fattori che legava i Paesi dell'Europa orientale all'Urss.

Si può affermare, quindi, che anche da parte dell'Urss esisteva una volontà di modificare le relazioni internazionali con i Paesi del blocco orientale?

Molti hanno detto, e ancora oggi lo sostengono, che Gorbaciov non era consapevole dei possibili risultati della sua politica in Europa orientale. In realtà, non è proprio così. Gorbaciov ripeteva regolarmente ai suoi collaboratori vicini - e lo ripeté poi nel luglio 1991 anche a Helmut Kohl - una frase memorabile a proposito dei rapporti tra Urss e i Paesi dell'Europa orientale:  "Loro sono stufi di noi ma anche noi siamo stufi di loro".

Una ammissione dello stato di crisi?

Direi piuttosto uno stato di intolleranza reciproca. Nella vita di molti imperi arriva il momento in cui la periferia diventa un fardello, un peso inutile e non più una conquista. In quel momento, per l'Unione sovietica era praticamente impossibile mantenere la periferia dell'impero, ovvero l'Europa orientale.

In questo conteso, che ruolo ha avuto un Papa come Giovanni Paolo II?

Entro i confini della Polonia, che era uno dei Paesi chiave del Patto di Varsavia, Giovanni Paolo II ha avuto un ruolo straordinario. La sua elezione a Papa ha prodotto una esplosione di entusiasmo, di patriottismo e di orgoglio nazionale che per un certo periodo ha cancellato tutta la paura accumulata nei decenni precedenti di dominio assoluto del partito unico e del suo apparato repressivo. La Chiesa cattolica in Polonia ha rappresentato, senza dubbio, la base attorno a cui si è coagulata tutta l'opposizione al regime. Non c'è niente di simile, invece, in Unione sovietica dove la Chiesa ortodossa è stata sempre, non solo schiacciata, ma completamente soggiogata dallo Stato-partito. In Polonia non è stato così, per cui il ruolo del Papa è stato grandioso.

La Polonia richiama subito alla mente il massacro di Katyn.

Quella strage è uno di quegli eventi paradigmatici della storia del Novecento che, purtroppo, è ancora scarsamente conosciuto. Di recente, in una trasmissione televisiva, un conduttore ha chiesto a un gruppo di giovani se conoscevano la tragedia del campo di concentramento di Auschwitz e tutti hanno saputo rispondere. Dopodiché, quando il medesimo presentatore ha chiesto agli stessi ragazzi se conoscevano Katyn nessuno di loro sapeva di cosa si stesse parlando. Nessuno era a conoscenza dell'uccisione di migliaia di cittadini polacchi, tra militari e civili, nella primavera del 1940, per mano delle truppe sovietiche che nel settembre del 1939 avevano invaso la Polonia.


Un'invasione, è bene ricordarlo, preceduta il 23 agosto del 1939 dal patto Molotov-Ribbentropp, ovvero dall'alleanza tra Unione sovietica e Germania nazista.

Nell'ambito del dibattito sui totalitarismi e sui sistemi totalitari del XX secolo il massacro di Katyn rappresenta un caso emblematico di pulizia di classe, mentre Auschwitz si configura come un caso di pulizia etnica. Due politiche gemelle che accomunano il totalitarismo nazista e quello sovietico.

La caduta del muro, infine, oltre all'Europa dell'est influenza notevolmente anche lo scenario politico occidentale. Pensiamo, per esempio, all'unione della Germania. In Italia quali ripercussioni ebbe sul sistema politico?

In Italia il crollo del muro di Berlino ha una conseguenza diretta e immediata:  la fine del Partito comunista italiano, il più grande partito comunista d'Occidente. Il 9 novembre del 1989 vengono aperti i varchi del muro di Berlino e pochissimi giorni dopo il segretario del Partito comunista italiano (Pci), compie la cosiddetta svolta della Bolognina che porterà, nel volgere di poco più di un anno, alla nascita di un nuovo partito, il Partito democratico della sinistra. Il Pci, nel corso della sua storia, aveva avuto diverse possibilità di staccarsi dall'Unione sovietica. Per esempio nel 1956 dopo la rivolta in Ungheria o nel 1968 dopo la Primavera di Praga. Rivolte popolari contro i regimi comunisti entrambe soffocate con forza dall'Armata rossa. Tuttavia, in nessuna di queste occasioni il Pci ebbe la forza e la volontà di compiere un atto politicamente importantissimo:  rompere definitivamente il legame con l'Unione sovietica. Questo distacco, purtroppo, è avvenuto solo all'ultimo momento, dopo il crollo del muro di Berlino, quando, ormai, non c'era più niente da spezzare.


(©L'Osservatore Romano - 7 novembre 2009)
S_Daniele
00venerdì 20 novembre 2009 19:36



A vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino

La gioia sconvolgente di poter viaggiare


Il 20 novembre nel Palazzo Diaconale di Santa Maria in Cosmedin, sede del Circolo di Roma, l'Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede tiene una conferenza sui vent'anni dal crollo del Muro di Berlino. La pubblichiamo quasi per intero.

di Hans-Henning Horstmann

Quest'anno noi tedeschi ricordiamo la fondazione della Repubblica Federale di Germania nel 1949 e la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Queste due date storiche per noi, sono date di gratitudine e di gioia. Il 23 maggio del 1949 e il 9 novembre del 1989 rappresentano soprattutto un appello alla responsabilità dei tedeschi per la pace, un appello per i diritti umani, per la libertà e per il grande progetto dell'unificazione europea. 

Dal 1945 i politici tedeschi hanno imparato e hanno tratto le consequenze dalle esperienze della Repubblica di Weimar e della dittatura nazista. La costituzione del 1949 è chiara nella suddivisione dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario. Vorrei menzionare soprattutto l'articolo chiave della costituzione, cioè l'articolo 1 che stabilisce:  "La dignità dell'uomo è intangibile". Per tutti i governi tedeschi da Konrad Adenauer fino ad Angela Merkel è ovvio che questo significa la dignità di tutti gli uomini.

Siamo grati ai nostri amici degli Stati Uniti, il presidente Truman, il segretario di Stato George Marshall, il generale Lucius D. Clay. Furono essi a rendere possibile che un popolo privo di onore si rialzasse e costruisse una democrazia. Noi siamo grati anche a grandi politici d'Europa come Schuman, Monnet, de Gaulle, De Gasperi, Bech, Spaak e Churchill, che ebbero fiducia in Konrad Adenauer.

La sua politica d'integrazione con l'Occidente non era priva di contestazioni poiché si intravedeva, in questo collegamento ad ovest, anche il pericolo della perpetuazione della divisione della Germania. In retrospettiva, ciò fu la base per la Ostpolitik di Willy Brandt e Walter Scheel. Nell'agosto del 1970 venne stipulato l'accordo di base fra la Repubblica Federale di Germania e l'Unione Sovietica. All'atto della firma dell'accordo, il Governo federale consegnò una lettera sull'unità tedesca che, tra l'altro, stabiliva:  "Quest'Accordo non è in contrasto con il fine politico della Repubblica Federale di Germania di adoperarsi per ristabilire una condizione di pace in Europa in cui il popolo tedesco possa riacquisire la propria unità attraverso la libera autodeterminazione". Ancora nel mese di novembre del 1970 fu siglato l'accordo di base con la Polonia con cui venne suggellata politicamente la rinuncia agli ex territori tedeschi a est della linea Oder-Neisse. Seguirono gli accordi con la Cecoslovacchia, la Bulgaria e l'Ungheria nel 1973 - con la Romania erano state allacciate relazioni diplomatiche già nel 1967.

La firma dell'atto finale di Helsinki nel 1975 diede una legittimazione di diritto internazionale all'operato dei coraggiosi attivisti per i diritti dell'uomo provenienti da ogni ambito sociale, ma soprattutto anche dalla Chiesa e da Solidarnosc in Polonia.

Vent'anni fa Guyla Horn e Alois Mock avevano aperto la cortina di ferro al confine austroungarico. Con il famoso pic-nic europeo nell'agosto 1989 a Sopron e il passaggio dei cittadini della Repubblica democratica tedesca (Ddr) via Austria in Germania dell'Ovest era cominciata la caduta del Muro. Il 30 settembre 1989 Hans-Dietrich Genscher non poteva concludere il suo saluto ai fuggitivi sul balcone dell'Ambasciata a Praga:  la gioia di poter viaggiare era sconvolgente. Il 9 novembre cadeva il muro di Berlino.

Non possiamo immaginare il 9 novembre senza il coraggio dei polacchi, senza la prudenza di Papa Giovanni Paolo II, senza la lungimiranza di Gorbaciov, senza la fermezza di George Bush e senza l'umanesimo di Václav Havel. Ci ricordiamo con gratitudine dei coraggiosi attivisti per i diritti civili, in particolare dei cittadini di Dresda, di Lipsia e di Berlino. Anche le preghiere di pace nella Ddr che avevano preso avvio già negli anni Settanta e le manifestazioni del lunedì del 1989 nella Ddr sono meriti storici per la pacifica unificazione tedesca. La Chiesa evangelica luterana e la Chiesa cattolica nella Ddr hanno prestato un appoggio importante, benevolo ed efficace a queste attività così coraggiose. Le forze di sicurezza nella Ddr avevano un chiaro ordine di sparare se l'ordre publique, definito dal regime comunista, fosse minacciato. La paura di un massacro accompagnava ogni manifestante. I generali delle forze di sicurezza erano in stretto contatto con le Chiese che potevano di giorno in giorno convincere gli attivisti di rimanere pacifici.

La caduta del Muro sorprese quasi tutti. Soprattutto noi tedeschi fummo colti alla sprovvista. Soltanto alcune personalità negli Stati Uniti aspettavano già nell'anno 1988 il crollo della Ddr. Mi ricordo bene quando nel settembre 1988 la grande signora dei media americani Katherine Graham, dopo il mio arrivo a Washington, mi chiese, nella mia veste di portavoce dell'Ambasciata tedesca, di venire a trovarla nel suo ufficio. Eravamo solo in due. Dopo una breve introduzione lei mi domandò:  "Quando si riuniscono i due stati tedeschi?". Parlai mezz'ora per convincerla che la mia generazione non avrebbe visto l'unificazione tedesca. In occasione di un ricevimento di congedo prima del mio ritorno in Germania nel 1991 un giornalista americano, prendendo la parola, disse:  You were excellent in talking us out of German unity.

Dal 1970 la politica tedesca aveva cercato di rendere più umano il disumano regime di confine, rappresentato dalla cortina di ferro. Aveva mirato a instaurare più strette relazioni fra i due Stati tedeschi in un'Europa in via di integrazione. Per noi l'unificazione europea precedeva sempre l'unità tedesca.

Geremek, poi ministro degli Esteri polacco, nell'agosto del 1989 scrisse:  "La nuova classe dirigente polacca ritiene che la riunificazione tedesca sia inevitabile". È stato uno dei grandi meriti dei consiglieri di Solidarnosc aver considerato che l'unità tedesca fosse nell'interesse polacco. Si opposero ai tentativi sovietici di strumentalizzare l'atavica paura dei polacchi rispetto ai loro vicini tedeschi. Solidarnosc si rese conto che con l'unità tedesca non si avvicinava solo la Germania. Anche la Nato e gli Usa diventavano suoi vicini.

I tedeschi reagirono alle affermazioni di Geremek dicendo che i polacchi avevano una propensione al romanticismo politico. Tuttavia, a novembre questo presunto romanticismo iniziò a divenire realtà. Nella ddr lo slogan che veniva scandito non era più "Noi siamo il Popolo", bensì "Noi siamo un unico Popolo"; il 6 novembre a Lipsia la gente gridava "Germania, patria unita". Il 28 novembre 1989, Helmut Kohl presentò al Bundestag tedesco il suo Programma di dieci punti per il superamento della divisione della Germania e dell'Europa. I colloqui di Helmut Kohl e Hans-Dietrich Genscher con Gorbaciov e Eduard Shevardnadze come pure la forza trainante di George Bush senior e James Baker plasmarono i colloqui 2+4, cioè i negoziati tra i due Stati tedeschi nonché gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica, la Francia e la Gran Bretagna.

In Germania tornò la laicità cooperativa fra lo Stato, la Chiesa cattolica e quella protestante il che risultò essere una buona base per questa sfida senza precedenti storici. Fu possibile farcela grazie all'apporto di molti in seno a governo, economia e scienza, ma anche grazie a coraggiose decisioni di singole persone e soprattutto grazie all'operato di Kohl, Bush e Gorbaciov. Il 3 ottobre 1990 la Germania realizzò la sua unità statale.


(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)
S_Daniele
00giovedì 26 novembre 2009 06:52




Ricordo di Benigno Zaccagnini a vent'anni dalla morte

Il profeta del muro caduto


di Eliana Versace

"Vi è una barriera che, per noi, tutte le simboleggia:  il Muro di Berlino, un muro che per la prima volta nella storia non serve per impedire che altri dall'esterno penetri, ma per impedire che chi soffre dentro la città di Berlino Est possa uscire ed evaderne. Noi sappiamo che anche questo muro verrà abbattuto:  e non verrà abbattuto dai carri armati, ma dal cammino travolgente delle idee di libertà, di giustizia e di pace che ovunque avanzano nel mondo". A pronunciare queste parole, nel luglio del 1963, rivolte polemicamente al segretario del Partito Comunista italiano (Pci) Palmiro Togliatti, era stato l'allora presidente dei deputati democristiani, Benigno Zaccagnini.

Ispirato da una incrollabile fiducia nella forza e nella vitalità delle idee democratiche, Zaccagnini non farà in tempo a vedere attuata la sua profezia. Morirà infatti il 5 novembre 1989, solo quattro giorni prima della caduta del Muro di Berlino.

Nei giorni scorsi, in Italia, diverse commemorazioni, organizzate ai massimi livelli istituzionali, con la partecipazione di tutte quelle forze politiche che, in misura diversa, discendono dalla Democrazia cristiana (Dc) e a quella esperienza storica si richiamano, hanno rievocato la figura dell'uomo politico romagnolo, che fu segretario nazionale della Dc e a cui, negli anni Settanta - nel momento di maggior prova per la ancora giovane democrazia, gravata da una pesante crisi economica e minacciata dalla violenza del terrorismo - venne affidato il compito di rinnovare il partito dei cattolici italiani.
Anche la biografia di Zaccagnini, come quella dell'intera classe dirigente democristiana che ha guidato l'Italia e per un cinquantennio si intreccia, in maniera inestricabile, con i grandi avvenimenti storici del secolo scorso.

Una sincera fede religiosa animava quest'uomo, nato nel 1912 a Faenza - in quella Romagna che fu terra natale anche del fucino Igino Righetti il quale, accanto a Giovanni Battista Montini, negli anni Venti, darà nuova impronta alla Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) - e vissuto quasi ininterrottamente a Ravenna, a stretto contatto con i vescovi della città. Se l'arcivescovo Antonio Lega lo aveva voluto presidente della Gioventù diocesana di Azione Cattolica e poi, per naturale conseguenza, presidente diocesano dell'Azione Cattolica ravennate, all'insistente esortazione del suo successore, il giovane arcivescovo di Ravenna Giacomo Lercaro, si deve l'ingresso di Zaccagnini in politica, secondo una prassi, allora piuttosto diffusa, per cui erano i Pastori delle varie diocesi a individuare le migliori intelligenze cristiane e ad avviarle verso un serio e rigoroso impegno politico. Quasi contemporaneamente e in maniera analoga, anche a Bari fu l'arcivescovo del capoluogo pugliese, Marcello Mimmi, a incoraggiare alla militanza nella Dc il giovane Aldo Moro che, in seguito, sarà legato a Zaccagnini da un intenso sodalizio umano e politico, protrattosi nel tempo fino al drammatico epilogo finale.

Ma prima ancora di approdare alla politica, negli anni tormentati della seconda guerra mondiale, Benigno Zaccagnini compì la scelta della lotta partigiana, capeggiando il Comitato di liberazione nazionale di Ravenna col nome fittizio di "Tommaso Moro", scelto per omaggiare quel santo che, nel rispetto delle diverse prerogative, era stato "fedele alla Chiesa fino al sacrificio della vita".

Eletto all'Assemblea costituente, Zaccagnini - come anche Moro - all'interno della Dc si avvicinò al gruppo che faceva riferimento a Giuseppe Dossetti e si poneva in dialettico confronto con la linea politica portata avanti dal fondatore del partito, Alcide De Gasperi. Ma quando Dossetti, pochi anni dopo, abbandonò la vita politica, Zaccagnini, si ritrovò con molti dossettiani a rappresentare la "seconda generazione" democristiana, diversa rispetto alla prima, quella degli antichi esponenti del Partito Popolare che, riuniti attorno a De Gasperi, avevano costituito la Democrazia cristiana. Col leader trentino, Zaccagnini iniziò comunque una collaborazione, occupandosi, per molto tempo, per conto del partito, dei problemi inerenti al mondo del lavoro, fino a ricoprire l'incarico di ministro del Lavoro e, più avanti, di ministro dei Lavori pubblici.

Fu all'inizio degli anni Sessanta, mentre le formule di governo viravano, in maniera ormai inarrestabile, verso la collaborazione con il Partito Socialista, che Zaccagnini si legò profondamente a Moro, assecondandone le scelte ed interpretandone la visione politica.

E, nel 1968, per seguire Moro, staccatosi dalla maggioranza centrista del partito dopo esser stato sostituito alla guida del Governo - questa volta varato senza la compagine socialista - dal moderato "doroteo" Mariano Rumor, Zaccagnini si avvicinò alle posizioni della sinistra democristiana, ritrovandosi insieme a un gruppo di amici definiti "morotei" dal nome del loro leader ed in riferimento all'opposta corrente centrista dei dorotei, dalla quale quasi tutti provenivano.

Ma la svolta decisiva che lo portò a rivestire un ruolo di assoluto protagonismo all'interno della Democrazia Cristiana avvenne nel 1975 quando Moro riuscì a far convergere sul nome di Zaccagnini quasi tutte le componenti del partito che lo elessero segretario al posto del dimissionato Fanfani, il quale pagava così anche la sconfitta subita al referendum svoltosi l'anno prima per l'abrogazione della legge sul divorzio, che aveva lacerato il mondo cattolico, disperdendo consensi attorno alla Dc.
Quello che doveva essere un "segretario di transizione", come egli stesso si era augurato accettando l'incarico, favorì rapidamente la politica del dialogo e del confronto nei riguardi del Partito Comunista, preconizzata già da tempo da Aldo Moro come "strategia dell'attenzione", e che per la Dc rappresentava l'unica possibile risposta alla proposta di "compromesso storico" - inaccettabile da un punto di vista ideologico e dunque chiaramente ed inequivocabilmente respinta - inoltrata alcuni anni prima dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer.

Se la linea del confronto con i comunisti, adottata da Zaccagnini, avrebbe potuto avviare, secondo i disegni di Moro, una "terza fase" della politica italiana spingendo il Paese verso una possibile democrazia dell'alternanza tra uno schieramento moderato e uno di sinistra, fu però attorno alla questione del "rinnovamento" del partito che si galvanizzò l'opinione pubblica italiana che, nella figura di Zaccagnini - esaltata da una stampa insolitamente benevola e accondiscendente, e vezzeggiato come "l'onesto Zac" - scorgeva una specie di "uomo nuovo" che  avrebbe  potuto  rifondare  il partito. 

A rendere carismatico ed efficace il suo aspetto pubblico di "persona onesta" contribuiva soprattutto la sua biografia di partigiano, medico pediatra, e cristiano attivamente impegnato nella vita civile e sociale in maniera integerrima, senza alcuna ombra, cedimento o compromissione nella gestione del potere. Sebbene Zaccagnini non fosse, in realtà, un uomo nuovo, l'elettorato democristiano non lo percepiva come "uomo di potere" e, in quel momento, quest'immagine era ciò che serviva alla Dc per ritrovare nuova credibilità nel Paese.

Zaccagnini fu anche il primo segretario della Democrazia Cristiana a essere rieletto direttamente da migliaia di delegati del partito riuniti in Congresso, ma la sua riconferma - avvenuta con questa modalità inconsueta nella storia democristiana e che verrà pertanto rapidamente archiviata - stava fomentando entusiasmi crescenti e speranze incontrollate che travalicavano la sua stessa persona, come rilevò anche l'allora direttore di "Avvenire", Angelo Narducci, quando sul suo giornale definì l'avvenimento, con qualche perplessità, una "elezione carismatica".

Tuttavia, nel ruolo di segretario della Democrazia Cristiana, in cui l'aveva voluto e guidato proprio Aldo Moro, Zaccagnini dovette affrontare la terribile prova del tragico rapimento e del crudele omicidio del leader democristiano nei tristi giorni della primavera del 1978. Con l'animo dilaniato - resta ancora oggi impresso nella nostra memoria il suo volto sofferente di quei mesi, la voce commossa, rotta frequentemente dal singhiozzo e dal pianto - Zaccagnini tentò tutto il possibile per salvare la vita all'amico fraterno, nel rispetto della legalità e delle istituzioni repubblicane, minacciate nella loro stessa sopravvivenza, per la prima volta  dalla fine della lotta al nazifascismo, con un attacco violentissimo e inaudito.

La tragedia dell'amico e sodale che aveva ispirato negli anni il suo impegno politico, segnò il declino della segreteria di Zaccagnini che si era protratta per un quinquennio, tra il 1975 e il 1980. Mentre la linea del confronto con i comunisti, dopo la scomparsa di Moro, sembrava ormai improponibile, il segretario della Democrazia Cristiana preferì abbandonare la scena pubblica scegliendo di conservare unicamente l'incarico di senatore della sua Romagna.
Il forte legame con Ravenna, dalla quale non volle mai allontanarsi e l'ininterrotta, fedele, collaborazione con gli arcivescovi della sua città - non solo i già ricordati Lega e Lercaro, ma anche Salvatore Baldassarri ed Ersilio Tonini - incisero in maniera indelebile sulla sua personalità, impregnandone intimamente lo spirito. Uno spirito politico orientato da una fede cristiana solida e genuina e maturato in circostanze storiche incomparabilmente diverse da quelle attuali.


(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2009)
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