A vent'anni dalla caduta del muro

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S_Daniele
00lunedì 9 novembre 2009 18:44


A vent'anni dalla caduta del muro

La festa di Berlino


da Berlino Lucetta Scaraffia

Berlino festeggia, per le strade e per le piazze, l'anniversario della caduta del muro:  ovunque mostre che rievocano quei giorni, preparativi per concerti e feste e la lunga opera d'arte - il muro virtuale - composto da pezzi colorati che la sera dell'anniversario devono cadere l'uno sull'altro con un effetto domino. E anche, nonostante il freddo, giostre e banchetti da luna park.
L'impressione è che i tedeschi siano veramente felici di poter finalmente celebrare qualcosa di positivo. Decenni di sconfitte ed errori sono stati pagati, e c'è veramente molto da festeggiare:  una città rinata, bellissima e vitale come Berlino, ormai centro di attrazione per giovani, artisti e intellettuali di tutta Europa, che qui sentono - caso forse unico fra le capitali europee - pulsare l'energia del futuro.
Dalle rovine dei flagelli del Novecento - nazismo e comunismo, che qui sono stati vissuti nelle forme più terribili - è rinata una splendida capitale, che ha saputo far tesoro di un passato pesante:  sia in positivo, basta vedere i ricchi musei guglielmini ormai tutti ristrutturati, sia al negativo, come ricordano i continui riferimenti alla barbarie nazista e alle sue vittime (in primis il museo ebraico), al controllo poliziesco della Stasi e, naturalmente, al muro. Ma oggi, nella letizia dell'anniversario, anche i ricordi tristi diventano occasione di allegria:  le vecchie Trabant sono state rispolverate e consentono, in un forte rumore di ferraglia, di fare un giro turistico per la città in stile "socialismo reale".
Berlino, capitale di una Germania riunificata che vent'anni dopo - come rivela un recente sondaggio - è in compatta maggioranza contraria alla diminuzione delle tasse proposta dal cancelliere federale per paura di aggravare il debito pubblico del proprio Paese. In città è fortissima la tensione a ricordare, nella speranza che la memoria dei mali compiuti serva a evitarne di futuri. Anche il muro è qua e là ancora in piedi, in funzione di supporto alla memoria, sia nella versione "bucata" del dopo 1989, sia in quella reale del ventennio precedente.
Al muro è dedicato un bel museo, ricco di materiale filmato e fotografico, che ne documenta la storia fin dal momento della costruzione nel 1961. Accanto al museo e proprio di fianco a un tratto di muro - in realtà composto da due muri separati da un territorio incolto - è stata costruita una cappella luterana dedicata alla Riconciliazione, dove ogni giorno viene letto l'ufficio funebre per una delle 230 vittime morte mentre cercavano di fuggire verso ovest.
È stato scelto questo luogo perché proprio lì, nel 1961, esisteva una chiesa luterana noegotica di mattoni rossi che si era ritrovata nel settore sovietico, mentre la maggior parte dei suoi parrocchiani risiedeva in quello francese. L'edificio sacro, con la costruzione della barriera, era finito nella zona fra i due bastioni, e fu quindi abbandonato e cadde in rovina. Così, nel 1985, le autorità dell'est lo demolirono per "aumentare la sicurezza, l'ordine e la pulizia alla frontiera". Dopo la caduta del muro, mentre dappertutto si costruiva e si cercava di dimenticare, qui si è deciso di costruire un luogo di preghiera per ricordare.
Al museo si può scoprire anche cosa è stato del muro - una quantità di cemento non indifferente, dal momento che fra la città e i dintorni raggiungeva i 106 chilometri - dopo la distruzione. Per mesi i suoi pezzi sono divenuti ricercati souvenir per turisti di tutto il mondo, e ancora oggi se ne vendono frammenti nei negozi. Ma la vendita più straordinaria è stata quella di 81 blocchi dipinti, abbastanza grandi, messi all'asta a Montecarlo nel 1990. Nell'insieme, hanno fruttato 1,8 milioni di marchi, destinati al miglioramento della sanità pubblica della Repubblica Democratica Tedesca, che ancora esisteva. Ma la maggior parte dei segmenti di cemento è stata poi venduta per la costruzione di strade, soprattutto all'est.
Strano destino per una testimonianza così significativa della storia contemporanea. Una testimonianza che si può considerare un simbolo straordinariamente azzeccato - che talvolta la storia umana pare offrire come insegnamento - dell'ostacolo che l'utopia politica costituisce alla libertà e alla speranza dell'essere umano.


(©L'Osservatore Romano - 9-10 novembre 2009)
S_Daniele
00lunedì 9 novembre 2009 18:47


La crisi del comunismo sui giornali mondiali all'indomani del crollo del muro

Come un terremoto


E Renzo Foa scrisse:  "Siamo tutti berlinesi"
di Andrea Possieri

A sfogliare oggi i giornali del novembre 1989 sembra quasi di annusare e inghiottire il pulviscolo di quel cemento armato rinforzato che, a poco a poco, scendeva giù come strame da quel muro di "quinta generazione", terribile e svillaneggiato, che divideva in due la città di Berlino e che veniva picconato con una forza liberatoria dai primi vagiti di libertà. Le cronache dell'epoca ci restituiscono un clima di festa liberatorio e improvviso, spontaneo quanto contagioso. E al tempo stesso, quelle medesime cronache, ci riconsegnano sentimenti opposti di paura e di speranza, di dubbi e di timori.
Zbigniew Brzezinsky, sul "Washington Post" del 12 novembre, fu tra i pochi osservatori che, da subito, avvertì lucidamente che la caduta del muro di Berlino significava non tanto e, non solo, la fine dell'ordine di Yalta ma anche il collasso della leadership sovietica - "ho avuto la precisa sensazione di una leadership travolta dalle difficoltà e da una diffusa atmosfera di stanchezza" - e, soprattutto, preludeva al crollo imminente dell'Unione sovietica. "Sotto il profilo socio-economico - scriveva il politologo statunitense, già consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca - l'Unione sovietica dà soprattutto l'impressione di un Paese del terzo mondo in piena stagnazione".
Lo storico Michail Heller, invece, intervistato lo stesso 12 novembre, fornì un'interpretazione del tutto opposta:  "Aspettiamo prima di dire che il comunismo è morto e che tutto è finito. A mio avviso, debbono passare ancora decenni e forse più. Il comunismo si trasforma, come una bestia che cambia pelle". E al giornalista che gli chiedeva se esisteva concretamente la possibilità di una riunificazione delle due Germanie, la risposta era categorica:  "Da escludere. Nessuno lo vuole. Soprattutto la Germania Federale. E tantomeno Mosca".
Opinioni opposte, analisi che si sovrappongono alle emozioni, timori consolidati che si combinano con gli umori e le previsioni sul futuro. D'altronde, lo storico e intellettuale d'origine ungherese Francois Fejto, in un intervento su "il Giornale" del 14 novembre, ricordava che, soltanto pochi mesi prima della caduta del muro, nelle elezioni locali che si erano svolte nella Ddr nel maggio 1989, la lista unica del Fronte nazionale aveva dichiarato di aver ottenuto qualcosa come il 98,95 per cento dei voti. Che sempre nel maggio dello stesso anno, inoltre, il quarantaquattresimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale era stato celebrato con il solito fasto e che, infine, secondo alcuni illustri analisti, la Ddr era addirittura la quinta potenza industriale d'Europa. Insomma, i segnali che provenivano da quel mondo erano del tutto contrastanti e il collasso sistemico immediato e sostanzialmente pacifico dei regimi comunisti dell'Europa dell'est non era così scontato come potrebbe apparire oggi.

I più importanti commentatori dei quotidiani italiani dell'epoca si soffermarono sul carattere epocale degli avvenimenti - Ugo Stille sul "Corriere della sera" parlò del 1989 come di un annus mirabilis - e sul carattere totalitario dei regimi comunisti - Indro Montanelli su "il Giornale" sostenne che il muro non era "una aberrazione del comunismo ma una sua conseguente applicazione" - oppure fornirono un'interpretazione tutta italocentrica, come fece, ad esempio, Eugenio Scalfari, su "la Repubblica" che commentando la "liquefazione dell'impero dell'est" non fece mancare una stoccata feroce "ai Gava", agli "Andreotti" e ai "Forlani". Mentre "un'ondata di piena" stava "dilagando" ovunque, scrisse Scalfari, affascinando e ipnotizzando le classi dirigenti di tutto il mondo, in Italia, invece, una "classe politica che amministra un grande Paese come si amministrava lo Stato pontificio ai tempi di Gregorio e di Gioacchino Belli" nasconde "la testa come gli struzzi" e si contende "la spartizione delle spoglie" intrigando come se "nulla stesse accadendo sulla Rai o sul Banco di San Paolo".

Paradossalmente, uno dei commenti a caldo più interessanti di quei giorni fu elaborato dall'allora direttore de "l'Unità", Renzo Foa. Tra i grandi quotidiani italiani, fu l'unico intervento che parafrasò il grido accorato di John Fitzgerald Kennedy all'indomani della costruzione del muro:  "Siamo tutti berlinesi". Ma non solo. Foa parlò esplicitamente del "crollo dei sistemi statali totalitari" - non proprio un'ovvietà un'affermazione del genere sul quotidiano di quello che era ancora, a tutti gli effetti, il più grande partito comunista d'Occidente - e scrisse senza ritrosia che quello che stava succedendo in Europa orientale "è l'onda d'urto straordinaria di nuove rivoluzioni democratiche" che hanno l'epicentro a est ma che scuotono l'intera Europa e "pongono problemi immensi a tutta la sinistra". Parole che rilette oggi suonano come autentiche bombe. Nei giorni successivi ben altri commenti campeggiarono sul giornale del Pci. Dando vita a una rilettura degli avvenimenti che faceva della rimozione e della riscrittura della propria storia due facce della stessa medaglia.

Del resto, il rapporto tra la storia e la memoria del comunismo, tra la narrazione degli eventi e il mito palingenetico di un "altro mondo possibile" è una questione decisiva e non certo di second'ordine. Il racconto di cosa è stato il comunismo, nelle sue innumerevoli varianti e sfaccettature, è una narrazione ben lontana dall'essere, non solo condivisa, ma per lo meno conosciuta nelle sue dinamiche essenziali. Da un lato, infatti, si staglia il racconto della più grande opera di ingegneria sociale che sia mai stata compiuta nella storia dell'umanità, laddove il comunismo è diventato regime. Una storia carica di angoscia e anomia, campi di lavori forzati e devastazione sociale, terrore di Stato e delazioni familiari. Una storia raccontata attraverso i fogli clandestini, i romanzi, le memorie e, da ultimo, le prime analisi scientifiche con i primi studi di archivio. Studi, ancora ben lontani dall'essere conclusi, le cui fredde cifre di morte e di fallimenti economici, di politica estera camuffata di buoni sentimenti - emblematico il caso del pacifismo stalinista - richiamano alla mente nomi e luoghi ancora ben lontani dall'essere diventati senso comune in Occidente:  Solgenitsin e Florenskij, Kolyma e Solovki.

Dall'altro lato, invece, si colloca una narrazione gloriosa, tipicamente europea, costituita da militanti eroici e martiri per la rivoluzione, gesta sublimi e primati morali che porta alla costruzione di un pantheon di padri nobili al cui interno si collocano i nomi più disparati del comunismo internazionale interpretati sempre sotto la grande lente del martirologio o di eroismo rivoluzionario:  da Dolores Ibarruri a Rosa Luxembourg, da Antonio Gramsci a Che Guevara.
Due libri usciti in questo ultimo scorcio del 2009 rappresentano emblematicamente questa opposta dualità simbolico-culturale. Da un lato, si pone, infatti, il libro di Francine-Dominique Liechtenhan (Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema di concentramento sovietico, Lindau, Torino, 2009, pagine 320, euro 24,50) che è un'analisi impietosa, accurata e drammatica delle isole Solovki. Dall'altro lato, invece, si colloca il libro di Luca Telese (Qualcuno era comunista, Milano, Sperling & Kupfer, 2009, pagine 756, euro 22,00) che è un racconto appassionato, vissuto, in parte, in prima persona, di quello che fu la svolta della Bolognina, la fine del Pci e la nascita del Pds e di Rifondazione comunista. I due volumi apparentemente non si toccano, eppure sono i due estremi, struggenti e tragici, di questa lunghissima linea storico-politica che tiene assieme Magnitogorsk e i comuni rossi della Bassa, i balletti russi e le feste de l'Unità, Zdanov e la scuola di partito di Frattocchie, Lenin e Angela Davies.

Cos'è che tiene insieme il comunismo nella sua versione brutale del gulag sovietico e quello appassionato, se si vuole perfino eroico, dei militanti comunisti d'Occidente? Al di là dei rapporti politici, esiste un filo comune ineludibile, più profondo dei rapporti diplomatici, che tiene unite tutte queste esperienze, tragiche e utopiche, diversissime e lontanissime. È uno stesso anelito verso un ideale e un'ideologia di trasformazione, violenta e totale della società; è la medesima concezione dell'uomo inteso come materiale malleabile, in qualche modo deformabile e modificabile; e, infine, è la medesima fede, perché di fede si tratta, nei confronti di un verbo rivoluzionario che faceva della concezione immanente della storia il proprio credo. Una concezione stadiologica e soteriologica, progressiva e positivista, materialista e, al tempo stesso, religiosa. E proprio perché religiosa potenzialmente pericolosissima. Una concezione chiesastica e organicistica del "partito" e della politica che, in ultima istanza, trasforma il comunismo in una dimensione, come è stato scritto, di "para-religione laica" il cui dio, signore e sovrano, è sempre l'uomo che rende perfetto, per decreto, il suo governo e il proprio Paese.

Come intuì efficacemente François Furet, "l'illusione comunista" aveva fatto "della storia il suo pane quotidiano, in modo da integrare di continuo nel suo credo tutto quello che accade[va]" e pertanto, si era trasformato in una religione politica con i suoi riti, i suoi dogmi, i suoi luoghi della memoria. Come aveva scritto l'intellettuale francese, era diventata "un credo nella salvezza attraverso la storia" che avrebbe ceduto "soltanto di fronte a una smentita radicale della storia, che privasse di ragion d'essere quel lavoro di ricamo a essa così congeniale". Quella clamorosa smentita della storia arrivò, in parte improvvisa e a tratti attesa, il 9 novembre del 1989 e segnò il redde rationem definitivo del comunismo.


(©L'Osservatore Romano - 9-10 novembre 2009)
S_Daniele
00martedì 10 novembre 2009 08:09

1989-2009: vent’anni fa la fine del Muro di Berlino


I cardinali Mindszenty, Slipji e tanti altri festeggeranno in cielo l'anniversario della caduta del Muro dell'odio e della menzogna rappresentato dal comunismo, vergogna del secolo XX (e anche, purtroppo, di oggi).

1945: gli Alleati schiacciano la Germania hitleriana. 1947: scoppia la “Guerra Fredda” fra le democrazie occidentali e l’ex alleato sovietico. Come scrisse Winston Churchill, “an iron courtain” - un sipario di ferro - è sceso sull’Europa”. La Germania, oltre a perdere la Prussia Orientale a vantaggio di Urss e Polonia, nel 1949 sarà divisa in due Stati separati dai fiumi Oder e Neiße. I Länder di Pomerania, Mecklemburgo, Brandeburgo e Sassonia, già zona di occupazione sovietica, saranno accorpati in una nuova creatura politica artificiale: la Repubblica Democratica Tedesca (RDT), una delle più rigide “democrazie popolari” dell’Est europeo, con capitale Pankow, un sobborgo di Berlino.
Nel resto del Reich sconfitto prenderà vita la Repubblica Federale Tedesca (RFT), con capitale Bonn, nella Renania del Nord -Westfalia. La vecchia capitale imperiale, Berlino, profondamente incuneata nel territorio della nuova repubblica comunista, era stata occupata da tutte e quattro le potenze alleate e suddivisa in altrettanti settori: quello sovietico era di gran lunga il più esteso.
Con l’aggravarsi della frattura fra Ovest ed Est la frontiera fra i due Stati tedeschi diventa sempre più impenetrabile, e nel 1952 viene chiusa del tutto. A Berlino si poteva ormai accedere attraverso un’unica autostrada ‒ perennemente costeggiata da carri armati e mezzi militari tedesco-orientali in manovra, a fine dimostrativo e deterrente ‒, una sola linea ferroviaria oppure per via aerea, ma solo con voli di compagnie americane, inglesi o francesi. A seguito di alcuni contrasti diplomatici fra russi e occidentali il 24 giugno 1948 l’autostrada e la ferrovia erano state bloccate dai sovietici, che avevano tolto anche la corrente ai settori occidentali della città. Gli alleati, invece di reagire militarmente, preferirono attuare una grande prova di forza, dando vita a un colossale ponte aereo che per oltre un anno, fino all’ottobre del 1949 – i russi rimuoveranno il blocco nel maggio di quell’anno –, rifornirà i berlinesi delle zone occidentali di generi di necessità di ogni tipo. È l’epopea dei cosiddetti “Rosinenbomber” (bombardieri all’uva passa), perché, oltre ai viveri, gli aerei, in segno di solidarietà, paracadutavano migliaia di piccole scatole di dolci per bambini.
All’inizio degli anni 1950 la spinta a emigrare a ovest cresce, a misura dell’accentuarsi della pressione del socialismo reale sulla popolazione tedesco-orientale e, all’opposto, del boom economico della Germania federale. Berlino, per la sua posizione e per il suo statuto formalmente quadripartito, dopo il 1952 diventa il luogo migliore per espatriare: si calcola che circa 2,5 milioni di tedeschi dell’Est passeranno a ovest attraverso la ex capitale fra il 1949 e il 1961. Nell’estate del 1961 poi il flusso di fuggitivi supererà le decine di migliaia.
Pankow e Mosca decideranno così di arrestare l’emorragia alzando una barriera, che impedisca l’accesso alla zona libera. Nella notte fra il 12 e il 13 agosto 1961, l’Armata Popolare inizia la costruzione di uno sbarramento, prima fatto di filo spinato, poi, quasi subito, di elementi prefabbricati di cemento e di pietra. Quando fu ultimato il muro era una barriera di cemento alta circa tre metri e mezzo fitta di torrette – 302 – e posti di osservazione e costeggiato da campi minati, trappole, reticolati, alta tensione, che circondava completamente Berlino Ovest, la quale si trovò così ridotta a una enclave all’interno della RDT. Per Walter Ulbricht (1893-1973), segretario della SED, il partito marxista tedesco-orientale, che ancora in giugno smentiva le voci dell’imminente erezione di una barriera fra Est e Ovest, il muro ha una funzione “antifascista”, ovvero lo scopo di proteggere l’Est dalle infiltrazione di agenti occidentali e dalla propaganda capitalista.
Il Muro taglia la città lungo una linea lunga 45 chilometri e separa la zona occidentale dalla RDT per un perimetro di oltre cento chilometri.
I soli varchi di passaggio fra Berlino Est e Ovest, riservati ai cittadini tedeschi federali e agli stranieri, sono otto, i più famosi il Checkpoint Charlie e la stazione della metropolitana nei pressi della Friedrichstrasse. Altri sei saranno creati per l’uscita verso il territorio della RDT. I lavori interno al muro negli anni non si arrestano: sempre nuovi possibili punti di evasione vengono occlusi, lo spessore della barriera viene aumentato, viene costruito un secondo muro, parallelo al primo, e rafforzati i dispositivi anti-fuga.

La polizia popolare, la famigerata Volkspolizei, i “Vopo”, iniziano a sparare su coloro che fuggono correndo o chiusi nei portabagagli delle auto o calandosi dalle finestre degli edifici posti sul confine o varcando a nuoto il fiume Sprea. La prima vittima è Peter Fechter (1944-1962), un giovane muratore di Berlino Est, colpito il 17 agosto alla schiena e lasciato in terra ad agonizzare per un’ora. L’ultima a essere falciata dai Vopo un altro giovane, Chris Gueffroy (1968-1989), studente, stroncato da dieci proiettili il 6 febbraio 1989. Nel corso degli anni le vittime del fuoco della polizia comunista saranno all’incirca 230. Per questo, pur di fuggire, i berlinesi cominceranno a realizzare diversi tunnel sotto il muro.

In Occidente il muro diverrà “Die Mauer”, “The Wall”, “il Muro” per antonomasia, il “muro della vergogna”, ossia il più clamoroso simbolo dell’oppressione comunista della libertà dei popoli. Così entrerà nella letteratura, nelle canzoni, nel cinema.
Quando il presidente americano John Fitzgerald Kennedy (1917-1963), nel suo viaggio a Berlino nel giugno del 1963, poco prima di morire assassinato, pronuncia la celebre frase “Ich bin ein Berliner”, sono anch’io un berlinese, in quanto uomo libero, lo farà soprattutto in funzione anti-muro.

Nel 1989 la difficoltà dell’URSS di Mikhail Gorbaciov di tenere in piedi l’impero, si farà sentire in maniera sempre più pesante sui dirigenti comunisti tedeschi totalmente dipendenti da Mosca. Oltre a ciò, la figura carismatica del papa polacco Giovanni Paolo II (1920; 1978-2005), fin dal suo primo viaggio in Polonia all’inizio del pontificato, aveva suonato una campana a morto per il sistema comunista. E nel 1989 alla testa degli Stati Uniti,il grande avversario, non c’era più un “democratico”, fautore della “coesistenza pacifica” ‒ quella politica di “distensione” e “contenimento” che aveva contribuito in ultima analisi a prolungare la vita all’impero socialcomunista ‒ come John Kennedy, ma il conservatore, nonché gagliardo anti-comunista, Ronnie Reagan.
La popolazione tedesco-orientale, percependo i segnali di scollamento e le crepe nel regime, comincerà ad agitarsi e a scendere in piazza, protestando sempre più numerosa e rumorosa. Ma il muro, che all’ovest era diventato una palestra per writers di ogni genere, rimane ancora in pieno funzionamento.
Nell’estate di quell’anno ai tedeschi dell’Est si apre inaspettatamente una via di fuga: le ambasciate della Germania federale a Praga, a Varsavia e a Budapest, che hanno cessato di essere repubbliche socialiste. In quei mesi si verificherà un vero e proprio assalto alle tre residenze, che si troveranno un giorno per l’altro a ospitare migliaia di profughi dalla RDT. La svolta clamorosa si avrà quando l’Ungheria, il 23 agosto inizia a smantellare la cortina di ferro e il 10 settembre, decide di aprire il confine con l’Austria. Allora il flusso di esuli diverrà una valanga inarrestabile di persone in fuga verso la libertà.

I vertici tedesco-orientali tenteranno di salvare il salvabile, sostituendo il segretario del partito comunista e il capo del governo. Ma sarà inutile. La protesta di massa dilaga. La sera del 9 novembre 1989 il governo comunista annuncia una riforma della legge sui viaggi all’estero. Si trattava solo di aperture, ma la gente volle intendere significava che il muro sarebbe stato rimosso. Migliaia di persone, quella stessa notte, si aduneranno pacificamente davanti al muro, ancora presidiato dai soldati, mentre migliaia di berlinesi occidentali faranno lo stesso dall’altra parte del muro, increduli e in attesa. Sono numerosi i filmati su YouTube che documentano quella magica notte.
Qualcuno nel caos di quel momento darà l’ordine ai soldati di ritirarsi, così che, fra lacrime ed abbracci, migliaia di tedeschi da entrambi i lati, irromperanno a ovest attraverso i checkpoint o scavalcando il muro. Familiari, amici, sconosciuti potranno finalmente incontrarsi dopo 29 anni.
Poi, pezzo dopo pezzo, nell’indifferenza dei Vopo, la gente comincerà a picconare, a scalpellare, a martellare, a graffiare la barriera di cemento per aprirvi dei varchi sempre più ampi, finché il passaggio fu reso facile.
Il 3 ottobre 1990 la Germania, fra la commozione generale, verrà riunificata all’incirca – mancherà solo la Prussia Orientale rimasta russo-polacca – nei confini del 1919.

C’è da chiedersi come sia stato possibile che questo tragico simbolo dell’“Impero del male” – così il presidente americano Ronald Reagan (1911-2004) chiamerà l’impero comunista –, che ha popolato per anni l’immaginario dell’Occidente, sia potuto svanire in un soffio.
La causa prima, come detto, va vista nel progressivo abbandono del regime tedesco-orientale da parte della casa-madre moscovita, troppo alle prese con la sua crisi interna per curarsi dell’impero “esterno”. L’implosione dell’economia socialista portava a esiti rovinosi e impediva non solo di mantenere un’Armata Rossa all’altezza dell’esercito americano, ma anche solo di sostenere quel minimo di struttura militare in grado di conservare l’impero. Alla RDT toccherà la stessa sorte che porterà al distacco dall’URSS, ancor prima della sua fine, i Paesi baltici e le repubbliche centro-europee: Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria – diverso, molto più sanguinoso, sarà il percorso della Iugoslavia “eretica”.
Inoltre, la politica sovietica in quegli anni cercava di presentare un volto il più possibile amichevole nei confronti dei Paesi occidentali dai quali dipendeva sempre di più per alimentare una popolazione che l’economia socialista stava portando alla fame: il Muro e la Germania divisa rappresentavano un ingombrante ostacolo, di certo il più vistoso, in tale prospettiva. Privato del sostegno di Mosca – le truppe di stanza in Germania orientale non usciranno dalle caserme –, il “re”, il tiranno, si scoprirà nudo. I dirigenti della SED capiranno che la loro parabola è alla fine, perché esercitano un potere legale totale, ma ormai del tutto privato del consenso popolare e nemmeno più garantito dai carri armati sovietici.
L’impatto dell’evento sarà colossale: la caduta del muro, insieme alla fine dell’URSS, due anni dopo, metterà in moto processi che cambieranno radicalmente lo scenario internazionale: l’impero dell’ideologia socialcomunista di obbedienza sovietica si dissolverà, la Guerra Fredda finirà, gli Stati Uniti rimarranno l’unica superpotenza, la Russia, dopo un lungo periodo di “disordine”, tornerà a fasti imperiali, si riattizzeranno quei conflitti interetnici che il socialismo aveva soffocato, riemergeranno soggetti che il confronto ideologico aveva fatto dimenticare: religioni, tribù, clan, sette, nazioni, e tornerà in auge non più la lotta per i “massimi sistemi” ma quella per il petrolio e per il gas, per l’acqua e per il grano, per il Califfato, per la umma.

Da
Il Timone

Messainlatino
S_Daniele
00martedì 10 novembre 2009 11:28
A 20 anni dalla caduta del Muro, permangono “differenze fondamentali”
Intervista al primo vescovo di Berlino dalla riunificazione della Germania
di Serena Sartini ROMA, lunedì, 9 novembre 2009 (ZENIT.org).-

Ricorda con emozione il 9 novembre 1989, quando il Muro di Berlino veniva buttato giù dopo 20 anni di opposizione. Quel Muro che divideva l’Est e l’Ovest del mondo e che segnava quella cortina di ferro che opponeva Stati Uniti e Unione sovietica.

Non riusciva a crederci: era un traguardo tanto atteso, tanto auspicato da tutto il mondo, e soprattutto dalla Chiesa. A parlare è il cardinale Georg Maximilian Sterzinsky, classe 1936, originario di Warlack, in Polonia.

Il porporato è vescovo di Berlino dal 28 maggio 1989, il primo dopo la riunificazione della Germania. Cresciuto in una famiglia ricca di bambini, perse la mamma in tenera età. Nel 1954 ha iniziato gli studi filosofici e teologici presso il seminario regionale di Erfurt. Nel 1960 è stato ordinato sacerdote.

Per quindici anni, dal 1966 al 1981, è stato parroco della comunità di San Giovanni Battista a Jena, la più numerosa comunità parrocchiale compresa nel territorio della ex-Repubblica democratica tedesca. Come vescovo e presidente della Conferenza Episcopale di Berlino ha vissuto gli avvenimenti che hanno scandito la fine del 1989. È stato creato cardinale nel 1991 da Papa Giovanni Paolo II.

In questa intervista a ZENIT fa il punto della situazione nella Germania unita, ma anche nelle chiese del Paese di Benedetto XVI evidenziando, con preoccupazione, le “differenze fondamentali” ancora esistenti tra Germania dell’Est e Germania dell’Ovest.

Eminenza, lei è stato il primo arcivescovo di Berlino dopo la cadura del Muro. Che cosa si ricorda di quei momenti?

Sterzinsky: Quando è caduto il Muro, il 9 novembre, ero in viaggio per la mia visita di presentazione al Santo Padre. Alcune settimane prima, il 9 settembre, ero stato consacrato vescovo. Guardando la televisione italiana vidi i cittadini della Berlino Est mentre varcavano i confini. Non ci riuscivo a credere. Il giorno dopo venni a conoscenza di quanto era accaduto grazie alla conferenza stampa indetta dall'allora portavoce del Politburo, Günther Schabowski.

Cosa prova nel ricordare quel 9 novembre del 1989?

Sterzinsky: Gratitudine, soprattutto gratitudine. Dopo quanto era avvenuto in Piazza Tienanmen, a Pechino, anche noi della DDR temevamo seriamente che si potesse giungere a degli scontri violenti.

A vent'anni dalla caduta del Muro, come si vive oggi nel Paese? E qual è la situazione della Chiesa?

Sterzinsky: L'euforia per la caduta del Muro è svanita. Non mi sono mai aspettato che le chiese si riempissero, anche se questo è ciò che si sono sempre immaginati i miei confratelli dei vecchi Länder. Io ho sempre obiettato che anche nelle loro diocesi le messe non sono poi così affollate. Nella Germania dell'Est siamo sempre vissuti nella diaspora e non credo che la gente ai tempi della DDR non si sia fatta battezzare per paura di essere perseguitata.

Sicuramente molti hanno riposto nella Germania nuovamente unita delle aspettative che non si sono realizzate. E chi pensa ora che nella DDR si poteva tuttavia vivere molto bene, conserva un ricordo adulterato delle cose. Sebbene l'Est e l'Ovest nel frattempo si siano sviluppati insieme in molti ambiti, a mio avviso ci sono ancora delle differenze fondamentali. Coloro che sono cresciuti nei vecchi Länder, sono molto più individualisti nel modo di pensare e di presentarsi. Le persone che provengono dalla Germania dell'Est hanno invece un modo di sentire e di pensare più collettivo, così come avveniva prima. Si tratta di un altro gusto per la vita.
S_Daniele
00martedì 10 novembre 2009 17:39


Oltre centomila persone hanno preso parte alla celebrazioni in ricordo della caduta del Muro

Il mondo a Berlino venti anni dopo


Berlino, 10. Oltre centomila persone hanno invaso ieri la capitale della Germania per le celebrazioni del ventennale della caduta del Muro di Berlino, il principale simbolo della Guerra fredda. Un evento che ha cambiato decisamente la storia, anticipando di circa un anno la riunificazione tedesca.
Venti anni dopo questo storico avvenimento, però, le differenze tra l'est e l'ovest della Germania rimangono e il cancelliere, Angela Merkel, ha voluto sottolineare, mentre arrivavano nella città decine di leader mondiali, che la riunificazione tedesca è ancora incompiuta. La Germania, è stato quindi il messaggio del cancelliere, non può fermarsi adesso:  il Paese deve proseguire il suo cammino verso la piena riunificazione, soprattutto, economica, se vuole veramente coronare con successo questi venti anni di sacrifici. Un messaggio che ha assunto un significato particolare, nel pomeriggio di ieri, con una passeggiata simbolica di Merkel insieme all'ex presidente dell'Unione sovietica, Mikhail Gorbaciov, e all'ex presidente della Polonia e leader di Solidarnosc, Lech Walesa, sullo storico ponte di Bösebrüke, sulla Bornholmer Strasse di Berlino. È stato uno dei momenti più simbolici della giornata di celebrazioni.
Il 9 novembre del 1989 (una data considerata tra le più importanti del dopoguerra), alle 21.20, il ponte venne infatti attraversato dai primi cittadini dell'ex Repubblica federata tedesca - un'istantanea entrata nella memoria storica del mondo - che aprirono così la prima breccia nel Muro, la barriera di tre metri e mezzo fatta edificare nel 1961 simbolo della Cortina di ferro, che con 155 chilometri di cemento armato e filo spinato ha diviso in due Berlino per ben ventotto anni. Centocinquantacinque chilometri guardati a vista da circa settemila soldati della Repubblica democratica tedesca, appostati sulle 302 torri di osservazione o nascosti nei venti bunker disseminati lungo il perimetro.
Ed è stato proprio Walesa a fare cadere il primo dei mille lastroni di polistirolo colorato disposti lungo un tratto di un chilometro e mezzo del percorso da Potsdamer Platz fino al Reichstag, dove fino all'8 novembre 1989 passava il Muro. Con un effetto domino, le tessere sono cadute una addosso all'altra, ricreando così con un forte simbolismo storico il crollo di venti anni fa.
Al termine delle celebrazioni, si sono intrecciate nella capitale tedesca le consultazioni informali tra tutti i leader europei sulle nuove nomine introdotte dal Trattato di Lisbona. I colloqui si sono conclusi senza nessuna intesa sul nome del presidente permanente del Consiglio dei ministri dell'Ue (Mister Pesc) e su quello dell'Alto rappresentante per la politica Estera e di Sicurezza comune europea, i nuovi ruoli previsti proprio dal Trattato di Lisbona. "È un processo non così facile, perché i leader europei non sono tutti d'accordo sullo stesso nome", hanno indicato fonti della presidenza svedese di turno dell'Unione europea al termine della cena offerta dal cancelliere Merkel, che è stata un'occasione per un confronto sulle nuove nomine.
L'incertezza è dunque tornata a dominare la delicata partita a ventisette sulle nuove nomine europee, che sembrava in dirittura d'arrivo con il ticket belga-britannico, tra il premier belga, Herman Van Rompuy, e il ministro degli Esteri britannico, David Miliband. Attualmente, il grande favorito dei socialisti (Pse) per il ruolo di Mister Pesc è l'ex presidente del consiglio dei ministri italiano, Massimo D'Alema. Le sue quotazioni sono aumentate rapidamente dopo l'annuncio del capo degli eurodeputati socialisti, Martin Schulz, sulla rinuncia di Miliband, che sarebbe considerata definitiva dal Pse, la famiglia politica alla quale, per l'accordo fatto con il Partito popolare (Ppe), spetta indicare i candidati per il nuovo Alto rappresentante.
Fonti socialiste, diverse da quelle vicine a Schulz, ritengono meno definitiva la rinuncia di Miliband, che potrebbe essere ancora convinto dal pressing dei leader europei. A riguardo, c'è da segnalare che secondo quanto riferisce l'agenzia Agi, la Gran Bretagna avrebbe rotto gli indugi e annunciato la candidatura dello stesso Miliband.
Oltre a D'Alema - hanno indicato fonti riprese dall'agenzia di stampa Ansa - resta poi in campo anche il commissario europeo al Commercio estero, Catherine Ashton, ex ministro della Giustizia nel Governo Brown. A favore della Ashton gioca il fatto di essere donna, in un momento in cui si cerca di avere un equilibrio anche di genere nelle nuove nomine europee. A sfavore, secondo alcuni analisti politici, la sua scarsa notorietà che, accompagnata al basso profilo di Van Rompuy, rischierebbe di affidare la nuova Europa ad un duo senza una forte leadership. L'incertezza è comunque destinata a durare ancora per poco. La presidenza di turno svedese si è infatti dato un limite massimo entro il quale convocare il vertice straordinario:  il 19 novembre prossimo.


(©L'Osservatore Romano - 11 novembre 2009)
S_Daniele
00mercoledì 11 novembre 2009 06:00
Lech Wałęsa: la caduta del Muro? Merito soprattutto di Giovanni Paolo II

“L'Europa ha un disperato bisogno dei valori che hanno promosso questa rivoluzione”


di Angela Reddemann


BERLINO, martedì, 10 novembre 2009 ( ZENIT.org).-

L'apertura dell'Est e la caduta del Muro di Berlino sono dovuti principalmente all'intervento di Giovanni Paolo II e alla forza motrice della Divina Provvidenza, ha affermato il cofondatore del sindacato polacco Solidarność e in seguito Presidente della Polonia, Lech Wałęsa, questo lunedì sera a Berlino nelle celebrazioni per il 20° anniversario della caduta del Muro.

Bisognerebbe costruire il futuro dell'Europa unita sulla base della verità della storia, non sulla menzogna, ha dichiarato: non sono stati solo i politici a tenere in mano in quel momento i fili della situazione.

“La verità è molto importante quando parliamo del corso della storia”, ha detto Wałęsa durante la “Celebrazione della libertà” (Fest der Freiheit). A suo avviso, Giovanni Paolo II e il movimento operaio Solidarność hanno avuto un ruolo fondamentale nella nuova apertura dell'Europa.

Sotto una pioggia insistente, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha attraversato sorridendo insieme a centinaia di pesone il ponte della Bornholmer Strasse, uno dei primi posti di frontiera aperti nel 1989. Il cancelliere ha confessato che si è trattato di uno dei momenti più felici della sua vita.

Le celebrazioni per la caduta del Muro sono iniziate con un servizio religioso nella chiesa del Getsemani, simbolo della dissidenza di Berlino Est. Insieme all'ex Presidente sovietico Mikhail Gorbaciov e a Lech Wałęsa, così come ad altre persone che hanno lottato per i diritti civili, la Merkel ha passato simbolicamente la frontiera dove dal 13 agosto 1961 più di cento persone sono state brutalmente fucilate.

Wałęsa ha lodato il ruolo del Papa polacco nella caduta del Muro di Berlino. Durante il suo discorso sono state trasmesse scene della leggendaria visita di Giovanni Paolo II in Polonia e della sollevazione dei minatori. Le immagini hanno fatto sentire che nel cantiere navale Lenin di Danzica ha avuto inizio un'Europa libera.

Il primo viaggio come Papa in Polonia nel giugno 1979 è stato decisivo, perché era la prima visita di un Papa a un Paese comunista. Questo fatto ha suscitato una forza enorme in Polonia. Per i tedeschi la riunificazione, che continua ad essere una sfida, è iniziata il 9 novembre 1989.

“L'Europa ha un disperato bisogno dei valori che hanno promosso questa rivoluzione”, ha ribadito Wałęsa durante la cerimonia, seguita da milioni di telespettatori alla televisione tedesca.

In precedenza, sotto la Porta di Brandeburgo, la Merkel aveva ricordato il giorno della caduta del Muro di Berlino come quello della “vittoria della libertà”, una libertà che non deve essere vista come un bene “sottinteso”, ma come qualcosa per cui si lotta ogni giorno.

Il 3 giugno 1979, il Papa disse ai rappresentanti del regime comunista: “Permettete, Egregi Signori, che io continui a considerare questo bene come mio, e che risenta la mia partecipazione ad esso così profondamente come se abitassi ancora in questa terra e fossi ancora cittadino di questo Stato”.Giovanni Paolo II, la “sentinella del portone della libertà”, come lo ha definito l'ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, è passato il 23 giugno 1996 per la Porta di Brandeburgo al termine della sua visita alla Germania riunificata.

“Ora che sono passato per la Porta di Brandeburgo, sento che la Seconda Guerra Mondiale è davvero finita”, commentò in quell'occasione profondamente commosso.

Wałęsa, Premio Nobel per la Pace, e il primo Ministro ungherese Miklos Nemeth hanno dato questo lunedì sera la prima spinta per abbattere in un effetto domino gigante i 1000 pezzi che simboleggiavano la Cortina di Ferro.


[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
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