A venticinque anni dall'uccisione di padre Jerzy Popieluszko

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S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 18:30



A venticinque anni dall'uccisione di padre Jerzy Popieluszko

Come si giustizia un prete degli operai


di WLodzimierz REdzioch

Il 19 ottobre 1984 padre Jerzy Popie-luszko, un giovane prete di Varsavia della parrocchia di San Stanislao Kostka, fu invitato nella città di Bydgoszcz, per partecipare all'incontro di preghiera del locale circolo della pastorale operaia. Prima celebrò la santa messa, poi commentò i misteri dolorosi del rosario. Finì con le seguenti parole:  "Preghiamo per essere liberi dalla paura e dallo spavento ma, prima di tutto, per essere liberi dal desiderio di vendetta e di violenza". 

Dopo l'incontro, padre Jerzy decise di ritornare a casa, malgrado l'ora fosse tarda. Viaggiava nella macchina guidata da un certo Waldemard Chrostowski. Nelle vicinanze di un paesino chiamato Górsk la loro automobile fu fermata dalla polizia stradale - ma erano agenti dei servizi di sicurezza polacchi. Questi ultimi dopo aver ammanettato l'autista, stordirono il sacerdote con un colpo alla testa, lo imbavagliarono, lo buttarono nel portabagagli e ripartirono subito. Chrostowski in qualche modo riuscì a scappare dalla macchina in corsa e diede l'allarme del rapimento. La fuga dell'autista del padre Popieluszko non fece cambiare il piano criminale dei servizi di sicurezza:  gli agenti massacrarono di botte il prete - il medico che avrebbe poi fatto l'autopsia sul cadavere confessò che non aveva mai visto un uomo con lesioni interne simili - lo incaprettarono e lo buttarono nella Vistola con un sacco pieno di sassi legato a una gamba.

Il telegiornale della sera del 20 ottobre diede breve notizia del rapimento del sacerdote. Subito dopo per il rapito fu celebrata una messa nella chiesa di San Stanislao Kostka e cominciò la veglia perpetua:  migliaia di persone pregarono giorno e notte per riavere salvo padre Jerzy. Purtroppo, il 30 ottobre arrivò la drammatica notizia del ritrovamento del corpo del sacerdote e il 3 novembre si svolsero a Varsavia i funerali della vittima. Più di cinquecentomila persone venute da tutta la Polonia parteciparono nel più assoluto silenzio ai funerali di Popieluszko, che per i polacchi divenne il simbolo della lotta per la verità, della lotta disarmata del bene contro il male del sistema totalitario comunista.

Il futuro cappellano di "Solidarnosc" era nato il 14 settembre 1947 nel villaggio Okopy nella Polonia nord-orientale (vicino a Bialystok) in una famiglia profondamente religiosa. Il clima di spiritualità creato dai suoi genitori, Marianna e Wladyslaw, lo aveva plasmato dall'infanzia e questo favorì la maturazione della sua vocazione sacerdotale. Così, dopo la maturità, entrò nel seminario maggiore di Varsavia e iniziò a frequentare i corsi di filosofia e teologia.

A quei tempi le autorità comuniste tentavano di creare ogni sorta di ostacoli alla formazione dei seminaristi e cercavano in tutti i modi di indurli a rinunciare agli studi teologici. Prima di tutto facevano fare loro due anni di un duro servizio militare obbligatorio nelle unità speciali create appositamente per gli alunni dei seminari. Per questo all'inizio del secondo anno di studio Popieluszko fu chiamato alle armi e svolse il servizio di leva negli anni 1966-68 a Bartoszyce. Questo cosiddetto servizio militare consisteva in inutili esercitazioni:  gli alunni dovevano scavare le trincee per riempirle di terra subito dopo; dovevano trascinarsi per terra, di preferenza nel fango, ma, prima di tutto, erano obbligati a partecipare ai continui corsi d'indottrinamento politico. Qualcuno non resisteva alle vessazioni e crollava psicologicamente rinunciando al sacerdozio, ma questo non fu il caso di Popieluszko. L'alunno non nascondeva mai le sue convinzioni religiose. Anzi si può dire che in questa difficile situazione divenne una specie di leader spirituale promuovendo iniziative e momenti di preghiera. Ma pagò a caro prezzo questo suo atteggiamento. Spesso veniva punito:  una delle punizioni consisteva nel rimanere per ore in piedi con tutto l'equipaggiamento - pesante fino a trenta chili e a piedi scalzi anche d'inverno - un'altra umiliante pena consisteva nel pulire con lo spazzolino da denti i bagni della caserma. Due anni di vessazioni di questo tipo non indebolirono psicologicamente e moralmente Popieluszko, ma ne minarono gravemente la salute.

In seminario trattò con grande serietà la sua preparazione al sacerdozio e coltivò la vita di preghiera. Bisogna peraltro dire che nello studio all'inizio faceva fatica e solo negli ultimi due anni di studi migliorò nettamente, particolarmente in campo biblico e dogmatico.

Popieluszko fu ordinato sacerdote nel 1972 e subito cominciò il ministero pastorale in alcune parrocchie nei pressi di Varsavia; negli anni 1979 e 1980 si occupò della pastorale per gli studenti nella chiesa universitaria di Sant'Anna. Purtroppo, le sue condizioni di salute erano sempre precarie e nel 1980 fu accettato come residente nella  parrocchia  di  San Stanislao Kostka della capitale da padre Teofil Bogucki, un parroco molto dinamico e conosciuto. Erano i tempi dei grandi cambiamenti politici e sociali, i tempi del sindacato "Solidarnosc". Siccome la parrocchia si trovava non lontano dalle grandi acciaierie, Popieluszko cominciò - dietro mandato del suo vescovo - a prestare assistenza pastorale agli operai. Era un'esperienza nuova che all'inzio lo rendeva perplesso perché non conosceva il mondo operaio. Ma gli operai accettarono benissimo quel piccolo e malaticcio sacerdote dalla debole voce che li confessava, celebrava per loro l'Eucaristia e, talvolta, battezzava qualcuno di loro che si fosse convertito.

Quando il 13 dicembre del 1981 fu dichiarata in Polonia la legge marziale, padre Jerzy organizzò nella parrocchia le celebrazioni eucaristiche chiamate "Messe per la Patria". Già qualche anno prima il parroco Bogucki aveva introdotto nella parrocchia la tradizione della celebrazione della messa serale dell'ultima domenica del mese per le intenzioni della patria. Padre Popieluszko continuò questa tradizione anche nello "stato di guerra". Alle sue messe il sacerdote attirava masse di persone attratte dalla sua bontà, dal suo atteggiamento aperto agli altri, dal suo modo di parlare. Le sue messe per la patria divennero conosciute non soltanto a Varsavia ma in tutta la Polonia - a esse partecipavano anche 15-20 mila persone - e perciò padre Jerzy divenne un personaggio conosciuto, e per questo scomodo, per le autorità comuniste.

Egli però non era un attivista sociale o politico, ma un sacerdote cattolico fedele al Vangelo. Quanto proclamava era contenuto nella dottrina sociale della Chiesa, negli insegnamenti di Giovanni Paolo II e del defunto primate polacco cardinale Stefan Wyszynski. Ma poiché ogni sistema totalitario si regge sulla paura e sull'intimidazione, e invece padre Jerzy liberava la gente dalla paura del sistema, era considerato dai comunisti un nemico mortale.

Il caso del cappellano di Solidarnosc è un esempio eloquente di come la lotta con la religione prevedesse anche l'eliminazione fisica dei "nemici".

Il 24 settembre 1984 i capi dei servizi segreti polacchi presero la decisione di chiudere definitivamente il "caso Popieluszko". Furono preparate più varianti:  il primo attentato compiuto il 13 ottobre durante il viaggio da Danzica a Varsavia non riuscì, il secondo sì. E il 19 ottobre il prete fu rapito, torturato e buttato nella Vistola. Gli assassini - Piotrowski, Chmielewski, Pêkala - facevano parte dei reparti speciali del Ministero degli Interni. I membri dei reparti speciali - persone profondamente indottrinate, convinte di agire per il bene del sistema comunista e della patria - erano destinate per le azioni particolarmente "sporche" e "delicate". Per essi assassinare un prete, nemico ideologico, era una cosa normale, e - più ancora - lodevole.Così lo fecero con inaudita brutalità anche in odio alla fede che il prete rappresentava. Dobbiamo aggiungere che i veri mandanti del delitto, raccontato con macabri dettagli dagli assassini nel corso di un drammatico processo, non furono mai giudicati. Gli imputati furono condannati, ma con la pena ridotta. Ora sono già usciti dal carcere.

A partire dal giorno del ritrovamento del corpo prese a diffondersi la fama di santità del martire. Cominciarono a succedersi notizie su numerose grazie attribuite alla sua intercessione e con esse anche le richieste di aprire la causa canonica di beatificazione. Tale processo indetto dal cardinale Józef Glemp, primate e arcivescovo di Varsavia, cominciò l'8 febbraio del 1997. La fase diocesana dell'inchiesta durò quattro anni poi la documentazione fu mandata in Vaticano presso la Congregazione della Cause dei Santi e aperta il 3 maggio 2001. Nel mese di ottobre 2008 l'arcivescovo di Varsavia Kazimierz Nycz ha portato al Santo Padre una copia della Positio con una lettera postulatoria di tutto l'episcopato polacco.


(©L'Osservatore Romano - 19-20 ottobre 2009)
S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 18:31

Quando a Varsavia si moriva di comunismo


Nell'ambito del Festival internazionale del film di Roma, nel pomeriggio di lunedì 19, viene presentato il film Popieluszko, freedom is within us del regista polacco Rafal Wieczynski.

di Luca Pellegrini

Non deludere il popolo. Non deludere Cristo. Józef Glemp, primate di Polonia, guarda fisso negli occhi Jerzy Popieluszko in un tempo di massimo pericolo per lui, per tutti. In gioco è la vita di uno, di molti. In gioco è il futuro di una nazione. A Roma si prega e si attende; come a Varsavia, dove si combatte il comunismo e per questo si può anche morire. È sempre così, nella storia:  guardare alle cose della terra, senza mai dimenticare quelle del cielo. Il volto di Cesare può essere maligno, subdolo, cattivo:  Jerzy sente il peso dell'umiliazione fin da quando, giovane seminarista, durante il servizio di leva obbligatorio è costretto ad abbassare il capo, mai la fede. Non è lunga la strada che lo porta davanti al tribunale del potere, nella Polonia piegata dalle leggi marziali:  le luci della speranza - quella "che non si può uccidere", come scrive in un'omelia tenuta il 26 agosto del 1984 - si moltiplicano nei tanti fari di coraggio che illuminano la notte della dittatura totalitaria, mentre sussulti eroici e tradimenti drammatici si susseguono, come le manifestazioni di dissenso e le cariche della "milizia". Interrogato per l'unico crimine della sua vita, ossia amare la libertà e servire la Verità e nella verità il suo Paese e il suo popolo, il sacerdote Jerzy non si piega, ma ha paura. Le sue parole diventano forti e in quella forza, sovversive per amore:  "Per rimanere uomini spiritualmente liberi - riflette - bisogna vivere nella verità. La coraggiosa testimonianza della verità è la strada che conduce direttamente alla libertà". Quella strada è intrisa di sangue e di sofferenza.

Con questo risvolto intimo, delicato e fragile, tutto chiuso dentro le mura segrete dell'anima di un uomo che diviene anche eroe, il film di Rafal Wieczynski - presentato al festival internazionale del film di Roma - riflette e racconta una storia ancora drammaticamente viva e recente per molti. "Storia semplice e dolorosa - puntualizza - storia vera dei tempi in cui potevamo vedere cos'era bene e cos'era male. Ho la sensazione che non sia fuori luogo una nota di nostalgia per quella capacità di discernimento". Impresa non facile, chiedere ai duecento attori di un film lungo e complesso, che ha impegnato non poco le capacità produttive polacche in termini finanziari e organizzativi, svelare questa nostalgia. Lo fa dopo che i grandi episodi della storia polacca, quelli che dalla fine degli anni Settanta la colpiscono e la infiammano, sono stati descritti in modo epico e lineare, senza sbavature ed eccessi, senza sussulti di regia, inserendo anche materiali visivi di repertorio per dimostrare che, pur nella finzione, tutto è realmente accaduto. Con una mano forse troppo anonima, più documentaristica che veramente autoriale, scioperi e insurrezioni, processioni e dibattiti, svelano questa realtà, oggi probabilmente studiata dalle giovani generazioni più con la distrazione del dovere che con la passione del cuore.

L'attività pastorale di Jerzy, che affronta le difficoltà e gli avversari citando il Vangelo e amministrando i sacramenti e non impugnando armi e libelli, è sempre più assediata da questi fatti che lo costringono a uscire allo scoperto, diventando proprio lui il portavoce, forte di volontà e debole di fisico, della "patria" che non si piega e per la quale celebra le ormai famose messe. Nella durezza di un gioco in cui testimonianza e pericolo ormai sempre più collimano, il film diventa meno distaccato e impersonale, acquista spessore e umore:  un microcosmo di volti, parole, gesti, piccole e grandi forme di lealtà e di amicizia, si aggregano intorno a Popieluszko accompagnandolo nel suo faticoso e pericoloso pellegrinaggio polacco, che precipita in una cella sordida o risorge a Jasna Góra, che si sofferma nelle ore del Rosario e si affanna in quelle della battaglia:  "Combatto il male, non le sue vittime", però confessa. Questo scontro tra il sacerdote sempre più debole e il male sempre più forte non ammette soste e il film genera in crescendo una tensione e un senso di solitudine che Adam Woronowicz nel ruolo di Jerzy riesce a trasmettere con grande carisma, nella pacatezza del tono di voce e nella dolcezza dello sguardo aiutate anche dall'impressionante somiglianza fisica.

Di tutti i numerosissimi personaggi che entrano in contatto con lui il film, nella necessaria e mai distratta sintesi descrittiva, ne coglie lo spirito, quello che anima poi le azioni nascoste e manifeste. Per questo ci sono alcuni dettagli che riproducono con il massimo di verità ciò che accadde in quei giorni fatali:  il cardinale Glemp, ad esempio, rappresentando se stesso in due colloqui decisivi avuti col sacerdote, ha voluto personalmente curare la regia delle scene che lo riguardavano, pretendendo che la sceneggiatura rispecchiasse fedelmente la realtà di quanto accaduto.

Poi, nelle tenebre dell'uccisione del prete, la ricostruzione giustamente si allontana di nuovo, perché ora è la testimonianza suprema che soltanto conta.


(©L'Osservatore Romano - 19-20 ottobre 2009)
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