Amo il latino, però non celebrerò la messa con l’antico rito

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martinicm
00lunedì 12 aprile 2010 23:43
Amo il latino, però non celebrerò la messa con l’antico rito
del card. Carlo Maria Martini (da IlSole24ore Inserto domenicale 29.07.2007)


Avendo raggiunto il traguardo degli ottant’anni, posso dire di avere vissuto per almeno trentacinque anni l’antica liturgia, quella in uso prima del Conci­lio Vaticano II, tutta rigorosamente in lati­no, con i suoi cinquantadue brani di Van­gelo domenicali che si ripetevano ogni an­no, dando occasione a una predica per lo più non molto diversa da quella dell’anno precedente.

L’antico rito è stato quindi quello della mia Prima Comunione, delle incipienti esperienze di chierichetto, dei contatti con la Parola di Dio offerta dalla liturgia. È stato il rito della mia ordinazione sacerdo­tale, delle mie Messe, dei sacramenti rice­vuti. È nel quadro di questo rito che è ini­ziato e si è sviluppato quel contatto col di­vino che porta a riconoscere in Colui che
chiamiamo Dio il mistero ineffabile e indi­sponibile, quello che ci sovrasta da ogni parte, ci avvolge, ci penetra, ci vivifica e ci fa presentire una santa vicinanza.

Anche il latino non mi ha mai fatto pro­blema. Da bambini, soprattutto nelle rispo­ste della Messa e in quei canti che tutta la gente conosceva, lo storpiavamo con natu­ralezza e con disinvoltura (come ricorda­va in uno scritto dell’epoca monsignor Francesco Olgiati, uno dei fondatori della Università Cattolica del Sacro Cuore, citando la storpiatura di un conosciutissimo canto che diceva Procedenti ab utroque compar sit laudatio così: «Accidenti come trotta il caval del sor Laudazio»).
Ma ben presto cominciai a imparare que­sta lingua e a scoprire con gioia i significa­ti reconditi di quanto cantavamo con fer­vore: perché ce la mettevamo tutta e l’entu­siasmo e la gioia non mancavano! L’insie­me di tali celebrazioni aveva una qualità che non derivava tanto dai testi, che la gen­te non capiva, ma dalla dedizione persona­le e gratuita di chi vi partecipava.
Il latino divenne poi, nei giorni dell’ado­lescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche di uso quotidiano. Anco­ra oggi non avrei difficoltà a predicare inquesta lingua. A Milano, nella Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il decadere del latino, anche nel mondo ec­clesiastico, e i vani sforzi per farlo rivive­re, tra cui quello ardente e un po’ ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum Sapientia per la promo­zione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano.

Avrei quindi le credenziali per approfit­tare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la Messa con l’antico rito. Ma non lo farò, e questo per tre motivi.

Primo, perché ritengo che con il Conci­lio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura molto più abbon­dante rispetto a prima.

Vi saranno certamente stati alcuni abusi nell’esercizio pratico della liturgia rinno­vata, ma non mi pare tanti presso di noi. Del resto, lo dirò per quelli che capiscono il latino, abusus non tollit usum. Di fatto bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fon­te di ringiovanimento interiore e di nutri­mento spirituale:
In secondo luogo non posso non risenti­re quel senso di chiuso, che emanava dal­l’insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla san Paolo ad esempio in Galati 5, 1-17. Sono assai grato al Concilio Vatica­no II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile. Certo, c’erano anche allora dei santi, e ne ho conosciuti. Ma l’insieme dell’esistenza cristiana mancava di quel piccolo granello di senapa che dà un sapo­re in più alla quotidianità, di cui si potreb­be fare anche a meno ma che dà più colore e vita alle cose.
In terzo luogo, pur ammirando l’immen­sa benevolenza del Papa che vuole permet­tere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l’importanza di una comunione anche nel­le forme di preghiera liturgica che espri­ma in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo. E qui confido nel tra­dizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l’Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le cele­brazioni né suscitare dal nulla ministri or­dinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli.
Ricavo come valido contributo del Mo­tu proprio la disponibilità ecumenica a ve­nire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero.
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