Card. Bagnasco: « L’ora di religione islamica non fa parte della nostra cultura»

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S_Daniele
00domenica 18 ottobre 2009 10:59
L’intervista - «La Chiesa non può tacere, peccherebbe di omissione. Vicina la scelta del nuovo direttore di Avvenire»

Bagnasco: no ai conflitti su tutto
L’Italia ha bisogno di coesione


Il capo dei vescovi: l’ora di religione islamica non fa parte della nostra cultura

Gian Guido Vecchi

La «lotta di tutti contro tutti» e il «clima di scontro sistematico alimentato ad arte» im­pediscono di vedere i problemi reali e fanno male a un Paese che ha bisogno di «coesione nazionale», perché «nessuno che abbia un minimo di buon senso può pensare di avvan­taggiarsi dei disastri altrui».
Il cardinale An­gelo Bagnasco, per la prima volta dopo il ca­so Boffo, parla dei rapporti tra la Cei e la Se­greteria di Stato e della situazione nella Chie­sa. E ancora interviene su immigrazione, omofobia, testamento biologico, ora di reli­gione islamica: delineando la «visione della vita alternativa» di una Chiesa che rifiuta d’essere ridotta a «parte politica», non vuole «imporre» nulla ma rivendica la libertà di parlare e «contribuire al bene comune».

Eminenza, il mese scorso descriveva un’Italia «attraversata ciclicamente da un malessere tenace quanto misterioso», fat­to di «risentimenti» e «contrapposizione permanente». E chiedeva di «voltare pagi­na ». A che punto siamo?

«Quando la polemica prende il sopravven­to sui problemi reali della gente, come ad esempio l’occupazione o la sanità, la politica smarrisce il suo fine. Il rischio viene da lonta­no e certamente il bipolarismo ha enfatizza­to, ma non creato la nostra atavica tendenza a dividerci piuttosto che ad affrontare le que­stioni nodali del Paese».

E quindi?

«Non credo giovi a nessuno questo scon­tro sistematico su tutto, alimentato ad arte, e cercato come fine a se stesso. Sono persuaso che la crisi economica imponga misure con­divise e pesi equamente ripartiti se non vo­gliamo sciupare quella risorsa a beneficio di tutti che è la coesione nazionale».

Quanto lo scontro tra fazioni riflette il clima politico o mediatico e quanto invece la realtà del Paese?

«Lo scontro in atto riflette quel virus indi­vidualista che ha derubato la coscienza mo­derna di una certezza elementare, e cioè che si sta tutti sulla stessa barca. Se manca la co­scienza della relazione come asse portante dell’esistere, come ci ha pure ricordato Bene­detto XVI nella
Caritas in veritate, va da sé privilegiare la parte rispetto al tutto, muover­si quindi in ordine sparso, in una sorta di lot­ta di tutti contro tutti».

Con il caso Boffo, il direttore di Avvenire che si è dimesso dopo l’attacco del Giorna­le ,anche la Chiesa è stata coinvolta negli scontri. Si è avvertita una mancanza di sin­tonia tra Cei e Segreteria di Stato, sullo sfondo il dissidio sulla «guida» nei rappor­ti con la politica. Cambia la relazione tra Chiesa e politica?

«Personalmente non vedo in atto degli scontri nella Chiesa, tantomeno tra la Cei e la Santa Sede. So piuttosto che c’è una sorta di divisione dei compiti che corrisponde alla di­versa fisionomia delle due realtà che assolvo­no a compiti asimmetrici, essendo noi solo una espressione locale a differenza dell’altra che ha invece una vocazione universale».

Quali compiti, in sostanza?

«La Cei, come del resto ogni Conferenza episcopale del mondo, ha come compito, se­condo le indicazioni esplicite della lettera apostolica Apostolos suos , al numero 15, 'la promozione e la tutela della fede e dei costu­mi, la traduzione dei libri liturgici, la promo­zione e la formazione delle vocazioni sacer­dotali, la messa a punto dei sussidi per la ca­techesi, la promozione e la tutela delle uni­versità cattoliche e di altre istituzioni educati­ve, l’impegno ecumenico, i rapporti con le autorità civili, la difesa della vita umana, del­la pace, dei diritti umani, anche perché ven­gano tutelati dalla legislazione civile, la pro­mozione della giustizia sociale, l’uso dei mez­zi di comunicazione sociale'. Differente e de­cisamente con un respiro più internazionale è il lavoro della Santa Sede che si fa carico sul piano diplomatico dei rapporti con i sin­goli Stati».

Si dice che la stagione del «ruinismo», della Chiesa che parla «a voce alta», appar­tenga ormai alla storia.

«Come ebbe modo di
scrivergli personal­mente lo stesso Benedetto XVI il 23 marzo 2007, alla fine del suo mandato, il cardinale Ruini 'ha guidato i vescovi italiani in una fa­se delicata e cruciale della storia del popolo italiano' e 'con tenacia e coraggio' ha così 'reso un servizio non solo al Popolo di Dio ma all’intera Nazione italiana'. La stagione del mio predecessore va interpretata però non semplicemente come una vicenda lega­ta alla sua persona, ma come una fedele inter­pretazione della linea di Giovanni Paolo II prima e poi di Benedetto XVI».

Alcuni temono che il suo ruolo di presi­dente della Cei si faccia più arduo.

«Non esiste una Chiesa dell’era Ruini e og­gi una Chiesa dell’era Bagnasco perché la Chiesa anzitutto appartiene solo a Gesù Cri­sto e, nel caso specifico, la Chiesa che è in Italia intende essere vicina al magistero del Papa, per tradurne le istanze nel nostro con­testo. Questa a me pare la prospettiva da pri­vilegiare: senza operare riduzioni troppo per­sonalistiche e lasciando emergere che se una linea c’è è quella che si lascia ispirare dalla vicinanza non solo geografica con il Santo Pa­dre ».

Lei ha detto che la Chiesa non può esse­re né «coartata» né «intimidita». Vi siete sentiti strumentalizzati?

«La Chiesa non è conosciuta realmente per quello che pensa e per quello che fa. Spes­so si va avanti per luoghi comuni, rieditando interpretazioni superate dalla storia. Ad esempio, continuare a presentarci sempre co­me una parte politica e non invece come una istanza religiosa e culturale che ha tutto il di­ritto di entrare nei dibattiti pubblici che han­no a che fare con l’uomo e con la società, è riduttivo. Così come perpetuare pregiudizi di vario genere che tendono a fare una carica­tura delle nostre posizioni piuttosto che cer­care di porsi in dialogo con esse è ugualmen­te riduttivo. Penso che anche oggi, come in ogni epoca storica, la Chiesa sia portatrice di una visione della vita alternativa e spesso in controtendenza che non vuole imporre: chie­de solo di essere lasciata libera di proporla, nella ferma convinzione di contribuire al be­ne comune».

È passato un mese e non avete ancora no­minato il nuovo direttore di Avvenire.Qua­le figura state cercando?

«La scelta è vicina, trattandosi di una per­sona che deve incarnare il sentire cattolico dentro le trame delle vicende quotidiane, con uno sguardo capace di far emergere la realtà ancor prima delle sue interpretazio­ni ».

Si racconta che i candidati considerati graditi alla Segreteria di Stato siano guar­dati con sospetto alla Cei, e viceversa...

«È un’illazione che non gode del conforto della realtà. I rapporti sono improntati a grande stima, affetto e collaborazione, nel ri­spetto delle responsabilità asimmetriche di cui ciascuno si fa carico per il bene della Chie­sa, del Paese e del mondo».

Al sinodo per l’Africa si denuncia la di­sperazione degli immigrati respinti. Come devono cambiare le leggi?

«Il problema dell’immigrazione non può essere risolto nel chiuso del nostro Paese per­ché si tratta di un fenomeno globale che esi­ge una risposta concertata. Penso che l’Euro­pa non possa rinnegare le sue radici cristiane che ne hanno fatto storicamente una terra di passaggio e di progressiva integrazione, at­traverso una politica che sappia rigorosa­mente tenere insieme il principio dell’acco­glienza e quello della legalità. La storia è lì per ricordarci, casomai la memoria fosse sva­nita, che anche in epoche molto più statiche e lontane il mondo è sempre stato attraversa­to dalle persone e dalle merci. Perché pro­prio quando il mondo si è fatto ancora più piccolo dovremmo bloccare questo processo di sempre?».

Ha parlato di una «deriva mediatica» che altera le parole di Benedetto XVI. Da co­sa sarebbe motivata?

«Si preferisce talvolta una lettura parziale che tende a distorcere il messaggio evangeli­co perché appaia o risuoni come incoerente o anacronistico, e la Chiesa venga dipinta co­me animata solo dalla volontà 'di alzare mu­ri e scavare fossati', soprattutto in materia di etica. In realtà, a ben guardare, dietro ogni 'no' della Chiesa c’è sempre e ancor prima un 'sì', ben più grande e impegnativo».

C’è un annoso problema sul rapporto tra principi etici e leggi. Il testamento biologi­co, ad esempio: si vuole imporre per legge la nutrizione e l’idratazione forzata, ma non è forse la coscienza il luogo ultimo del­le decisioni etiche?

«La coscienza retta e formata resta sempre l’ultima frontiera davanti a cui arrestarsi, ma solo una visione individualista potrebbe ri­durla a un soliloquio. In realtà nessuna deci­sione è umana se vissuta nell’isolamento e non aperta a un confronto con gli altri e, pri­ma ancora, con la verità delle cose. È innega­bile che il momento della prova estrema è og­gi vissuto sempre più in solitudine, ma que­sto è più l’effetto di un degrado umano che non la prova della nostra civiltà».

Dopo l’affossamento della legge antio­mofobia — e le polemiche sulla deputata cattolica del Pd, Paola Binetti, che ha vota­to per l’incostituzionalità — si accusano cattolici e Chiesa d’essere indifferenti alle ripetute aggressioni contro i gay.

«La Chiesa non è contro nessuno, tanto­meno contro le persone, di qualsiasi orienta­mento sessuale esse siano. La violenza e l’ag­gressione sono sempre gratuite e inaccettabi­li. La Chiesa ritiene poi che la sessualità sia l’incontro tra persone di sesso diverso in un contesto stabile e fecondo. Si può non condi­videre questa lettura del dato antropologico, ma la Chiesa non può venire meno a questo che è un dato non solo religioso o culturale, ma profondamente naturale, e che essa pro­pone a tutti senza discriminare nessuno».

Si propone l’ora di religione islamica nel­le scuole, lei che ne dice?

«L’ora di religione cattolica, nelle scuole di Stato, si giustifica in base all’articolo 9 del Concordato, in quanto essa è parte integran­te della nostra storia e della nostra cultura. Pertanto, la conoscenza del fatto religioso cattolico è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile.
Non si configura, quindi, come una cateche­si confessionale, ma come una disciplina cul­turale nel quadro delle finalità della scuola. Non mi pare che l’ora di religione ipotizzata corrisponda a questa ragionevole e ricono­sciuta motivazione».

Il cardinale Carlo Maria Martini scriveva sulCorriere :«Io ritengo che la Chiesa deb­ba intervenire poco e solo quando è vera­mente necessario». È d’accordo?

«Credo che il problema non sia il molto o il poco intervenire sulla scena pubblica, pur apprezzando personalmente una certa so­brietà sia nel parlare che nello scrivere. Pen­so che il criterio vero sia l’uomo e il suo desti­no: specie quando è messo in crisi, la Chiesa, che dell’uomo è amica e alleata, non può ta­cere. Sarebbe peccato di omissione. Essa è in­viata ad annunciare a tutti la grande speran­za che è il Signore Gesù».

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S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 06:20
Card. Bagnasco: no alla “lotta di tutti contro tutti”

L’ora di religione islamica non è motivata da scelte


ROMA, domenica, 18 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

L'italia ha bisogno in questo momento di “coesione nazionale” e non di una “lotta di tutti contro tutti” o di un “clima di scontro sistematico alimentato ad arte”. E' quanto ha affermato il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in una intervista al Corriere della Sera.

Secondo il porporato, infatti, “quando la polemica prende il sopravven­to sui problemi reali della gente, come ad esempio l’occupazione o la sanità, la politica smarrisce il suo fine”.

Per Bagnasco, “il rischio viene da lonta­no e certamente il bipolarismo ha enfatizza­to, ma non creato la nostra atavica tendenza a dividerci piuttosto che ad affrontare le que­stioni nodali del Paese”.

L'Arcivescovo di Genova si è quindi detto convinto che questo clima non solo non giova a nessuno ma che anzi è nocivo in un periodo di crisi economica che impone al contrario “misure con­divise e pesi equamente ripartiti se non vo­gliamo sciupare quella risorsa a beneficio di tutti che è la coesione nazionale”.

Per quanto riguarda la vicenda Boffo, Bagnasco ha rivelato che è “vicina” la scelta di un suo successore alla guida di “Avvenire”, mentre sulle ripetute voci circa uno strappo tra la Conferenza Episcopale Italiana e la Segreteria di Stato,ha risposto: “Personalmente non vedo in atto degli scontri nella Chiesa, tantomeno tra la Cei e la Santa Sede”.

“So piuttosto – ha spiegato – che c’è una sorta di divisione dei compiti che corrisponde alla di­versa fisionomia delle due realtà che assolvo­no a compiti asimmetrici, essendo noi solo una espressione locale a differenza dell’altra che ha invece una vocazione universale”.

E a chi parla della fine del “ruinismo” e della Chiesa che parla “a voce alta”, Bagnasco ha replicato che “non esiste una Chiesa dell’era Ruini e og­gi una Chiesa dell’era Bagnasco perché la Chiesa anzitutto appartiene solo a Gesù Cri­sto e, nel caso specifico, la Chiesa che è in Italia intende essere vicina al magistero del Papa, per tradurne le istanze nel nostro con­testo”.

La maggiore preoccupazione per il Cardinale è che in Italia “la Chiesa non è conosciuta realmente per quello che pensa e per quello che fa. Spes­so si va avanti per luoghi comuni, rieditando interpretazioni superate dalla storia”.

“Ad esempio, continuare a presentarci sempre co­me una parte politica e non invece come una istanza religiosa e culturale che ha tutto il di­ritto di entrare nei dibattiti pubblici che han­no a che fare con l’uomo e con la società, è riduttivo”, ha affermato.

“Così come perpetuare pregiudizi di vario genere che tendono a fare una carica­tura delle nostre posizioni piuttosto che cer­care di porsi in dialogo con esse è ugualmen­te riduttivo”.

“Penso che anche oggi, come in ogni epoca storica, la Chiesa sia portatrice di una visione della vita alternativa e spesso in controtendenza che non vuole imporre – ha continuato – : chie­de solo di essere lasciata libera di proporla, nella ferma convinzione di contribuire al be­ne comune”.

Il criterio d'azione della Chiesa è “l’uomo e il suo desti­no” e quando questo criterio “è messo in crisi, la Chiesa, che dell’uomo è amica e alleata, non può ta­cere. Sarebbe peccato di omissione. Essa è in­viata ad annunciare a tutti la grande speran­za che è il Signore Gesù”.

Riguardo invece alla “deriva mediatica” che tende ad alterare le parole del Papa, Bagnasco ha osservato che “si preferisce talvolta una lettura parziale che tende a distorcere il messaggio evangeli­co perché appaia o risuoni come incoerente o anacronistico, e la Chiesa venga dipinta co­me animata solo dalla volontà 'di alzare mu­ri e scavare fossati', soprattutto in materia di etica”.

Rispetto poi alla politica dei respingimenti adottata dal governo italiano in materia di immigrazione, il Cardinale ha detto che siamo di fronte a un problema che “non può essere risolto nel chiuso del nostro Paese per­ché si tratta di un fenomeno globale che esi­ge una risposta concertata”.

“Penso che l’Euro­pa non possa rinnegare le sue radici cristiane che ne hanno fatto storicamente una terra di passaggio e di progressiva integrazione, at­traverso una politica che sappia rigorosa­mente tenere insieme il principio dell’acco­glienza e quello della legalità”, ha sottolineato.

“La storia è lì per ricordarci, casomai la memoria fosse sva­nita, che anche in epoche molto più statiche e lontane il mondo è sempre stato attraversa­to dalle persone e dalle merci – ha proseguito –. Perché pro­prio quando il mondo si è fatto ancora più piccolo dovremmo bloccare questo processo di sempre?”.

Circa invece la proposta del Viceministro Adolfo Urso di introdurre l’insegnamento facoltativo dell’Islam nelle scuole, il Cardinale ha osservato che in questo caso non si è di fronte alla “ragionevole e riconosciuta motivazione” che giustifica l'ora di religione cattolica “in base all’articolo 9 del Concordato, in quanto essa è parte integran­te della nostra storia e della nostra cultura”.

“La conoscenza del fatto religioso cattolico – ha commentato – è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile. Non si configura, quindi, come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola”.
S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 10:20
Religioni - LA PROPOSTA

L’idea (disastrosa) dell’ora di Islam e il rischio della scuola coranica


Vittorio Messori

Ancora una volta, riecco l’invocazione scaramantica: «Ci vorrebbe l’ora di…».
Stavolta, quella nuova, da istituire subito nelle scuole pubbliche, sarebbe «l’ora di Islam». C’è qualcosa di drammati­co, ma anche di grotte­sco, nella parabola, vec­chia ormai di due secoli, delle funzioni che si so­gna di affidare alla «scuo­la di Stato». C’è, qui, un mito nato — come tanti — dagli schemi ideologi­ci di giacobini e girondi­ni.
Non lo scettico Voltaire ma il fervoroso Rousseau fu il maestro di quei signori: si nasce buoni, il peccato originale è una favola disastrosa, date ai fanciulli dei maestri acconci ed avrete il regno della bontà, dell’altruismo, del civismo. Sorgono difficoltà sempre nuove? Ma dov’è il problema?
Basterà inserire nella scuola pubblica delle apposite «ore di…» che educhino al bene e al buono i nuovi virgulti; e tutto sarà ripianato.
Da noi, il Cuore deamicisiano è l’icona caricaturale di questi nuovi templi di un’umanità plasmata dalla Ragione e strappata alla superstizione. Succede, però, che proprio nell’Occidente laicamente formato, abbiano trovato folle entusiaste le ideologie mortifere che hanno devastato i due secoli seguiti al trionfo delle utopie roussoiane. Ma poiché gli ideologi hanno per motto «se la realtà non coincide con la teoria, tanto peggio per la realtà», il mito ha continuato ad agire. Il sesso fra gli adolescenti crea gravidanze incongrue e favorisce violenze? Si istituiscano nelle scuole «corsi di educazione sessuale». Alcol e droghe devastano i giovanissimi? Ecco gli esperti per gli appositi «corsi contro le dipendenze». C’è strage su moto e automobili? Subito «corsi di educazione stradale».
La convivenza sociale è sempre più turbolenta? Ecco dei bei «corsi di educazione civica».
Si potrebbe continuare, ma la realtà è chiara: a ogni problema, una risposta affidata alla scuola. Con il risultato, segnalato da pedagogisti ovviamente inascoltati, o di effetti irrilevanti o addirittura di aggravamento delle situazioni: il confuso istinto di ribellione dei giovani porta a sperimentare e a praticare ciò che è condannato nelle prediche degli adulti, soprattutto se insegnanti.
Trasgredire al professore dà tanto gusto come, un tempo, trasgredire al parroco.
E ora, tocca all’Islam, la cui presenza tra noi, ogni giorno in crescita, è tra gli eventi che meritano l’inflazionato aggettivo di «storico». Non siamo davanti a una immigrazione, ma a una di quelle migrazioni che si verificano una o due volte in un millennio. Per quanto importa, sono tra i convinti che, sulla lunga durata, l’Occidente si rivelerà per l’islamismo una trappola mortale. I nostri valori e, più ancora, i nostri vizi, corroderanno e, alla fine, faranno implodere una fede il cui Testo fondante non è per nulla in grado di affrontare la critica cui sono state sottoposte le Scritture ebraico-cristiane.
Una fede che, in 1400 anni, non è mai riuscita ad uscire durevolmente dalle zone attorno ai tropici, essendo una Legge nata per remote organizzazioni tribali. Una fede che, priva di clero e di un’organizzazione unitaria, impossibilitata a interpretare il Corano — da applicare sempre e solo alla lettera — è incapace di affrontare le sfide della modernità e deve rinserrarsi dietro le sue mura, tentando di esorcizzare la paura con l’aggressività. Ma poi: panini al prosciutto, vini e liquori, minigonne e bikini, promiscuità sessuale, pornografia, aborti liberi e gratuiti, «orgogli» omosessuali, persino la convivenza con cani e gatti, esseri impuri, e tutto ciò di cui è fatto il nostro mondo — nel bene e nel male — farà sì che chi si credeva conquistatore si ritroverà conquistato.
Ma questo, dicevo, in una prospettiva storica: per arrivarci passerà molto tempo e molti saranno i travagli, magari i drammi. Per adesso, che fare? Sorprende che, proprio da destra, si proponga lo pseudorimedio che è, da sempre, quello caro alle sinistre: nelle scuole «corsi di Islam», quello buono, quello politically correct . L’idea non ha né capo né coda.
Brevemente: poiché, a parte casi particolari, gli allievi islamici sono ancora pochi in ogni classe, bisognerebbe riunirli tutti assieme in una classe sola, almeno per quelle ore. Ed ecco pronta la madrassa, la scuola coranica, che esige che i credenti in Allah stiano unicamente con altri credenti. Stretti in comunità, a cura della nostra Repubblica, chi farà loro lezione? E che gli si insegnerà?
Gli ingenui, o insipienti, promotori della proposta si cullano forse nel mito di un «Islam moderato», pensano che esistano schiere di intellettuali musulmani «laici, pluralisti, democratici», pronti ad affrontare concorsi per cattedre di Islam «corretto»?
Ignorano che incorrerebbe in una fatwa di morte il muslìm che presentasse la sua religione come una verità tra le altre?
Non sanno che relativismo e neutralità religiosa sono frutti dell’illuminismo europeo, ma bestemmie per il credente coranico?
Ignorano che l’anno islamico inizia da Maometto e che il tempo e il mondo sono solo del suo Allah? Non sanno che è impensabile il concetto stesso di «storia delle religioni» per chi è convinto che c’è una sola fede e le altre sono o incomplete o menzognere? I politici pensano, allora, di affidare le «ore di Islam» a non islamici, di far spiegare il Corano — in modo «laico e neutrale» — a chi non lo crede la Parola eterna e immutabile di Dio?
Fossi un assicuratore, mai stipulerei una polizza sulla vita per simili, improbabili, introvabili docenti. Se l’insegnamento nelle istituende «madrasse della Repubblica italiana» differisse anche di poco da quello delle moschee, l’esplosione di violenza sarebbe inevitabile. E, come troppo spesso è successo con i fautori delle «ore di…», le buone intenzioni produrrebbero frutti disastrosi.

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S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 10:22
Il retroscena Il cardinal Martino apre, ma il Vaticano sceglie la prudenza

di Andrea Tornielli

Roma
Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei,
boccia la proposta avanzata da Adolfo Urso e appoggiata sia da Fini che da D’Alema di un’ora di religione islamica per gli alunni musulmani nelle scuole statali italiane.
«L’ora di religione cattolica, nelle scuole di Stato, si giustifica in base all’articolo 9 del Concordato, in quanto essa è parte integrante della nostra storia e della nostra cultura», ha dichiarato il cardinale in un’intervista al Corriere della Sera, «pertanto la conoscenza del fatto religioso cattolico è condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura e per una convivenza più consapevole e responsabile. Non si configura, quindi, come una catechesi confessionale, ma come una disciplina culturale nel quadro delle finalità della scuola». «Non mi pare – ha aggiunto Bagnasco – che l’ora di religione ipotizzata corrisponda a questa ragionevole e riconosciuta motivazione».
Due giorni fa era stato il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, a dirsi favorevole alla proposta, assicurando i debiti «controlli», perché, oltre ad essere un «diritto», si eviterebbe che i ragazzi islamici finiscano nel «radicalismo». Se gli immigrati «scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione», ha spiegato il porporato vaticano.
Nel marzo 2006, lo stesso cardinale Martino, rispondendo alla domanda di un giornalista, aveva manifestato un’identica apertura, che era stata considerata dai mass media come una sorta di «via libera» della Santa Sede all’ora islamica nelle scuole. Ne era nata una vivace polemica, e il cardinale aveva successivamente precisato il suo pensiero con una dichiarazione letta ai microfoni di Radio Vaticana, nella quale spiegava che «l’applicazione di un principio è cosa complessa che necessita di molti passaggi e di sagge considerazioni», aggiungendo che sarebbe stata necessaria quella «prudente valutazione che comporta da parte della comunità islamica il rispetto e la valorizzazione del cristianesimo e dei valori che, da esso ispirati, hanno dato forma alla cultura e all’identità del mondo occidentale».
Martino aveva infine chiarito di non aver «inteso minimizzare il dovere della reciprocità» in quei Paesi dove i cristiani sono minoranza e talvolta minoranza discriminata. Già tre anni fa, quando si discusse la proposta, era stata ricordata la posizione sull’ora di religione islamica nelle scuole tedesche espressa nel 1999 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, intervistato dal settimanale Welt am Sonntag: l’attuale Pontefice si era detto favorevole purché i richiedenti aderissero alla Costituzione federale tedesca e vi fossero garanzie che non si trattasse di «indottrinamento, ma un’informazione equilibrata e oggettiva sull’Islam». Su questa scia, l’allora presidente della Cei, Camillo Ruini, si era detto possibilista in linea di principio, ritenendo però l’ipotesi difficilmente realizzabile nel nostro Paese: «Non appare impossibile l’insegnamento della religione islamica se non c’è contrasto con la Costituzione», ma l’eventuale insegnamento non dovrebbe «provocare indottrinamenti socialmente pericolosi».
Sull’argomento non esiste in realtà una posizione vaticana, in quanto si tratta di materia che compete alla Conferenza episcopale italiana, che non si è certo detta favorevole.
Al tempo stesso, pur riaffermando il diritto alla libertà religiosa al quale ha fatto riferimento Martino, in Segreteria di Stato si fa notare come esistano problemi di non facile soluzione: chi rappresenti le comunità islamiche (un’eventuale ora di religione coranica potrebbe arrivare solo dopo la sigla di un’intesa tra lo Stato e le comunità musulmane), quale sia l’islam sia da insegnare, a chi spetti il controllo perché non vi sia indottrinamento e perché i principi insegnati non siano in contrasto con la Costituzione italiana, ad esempio per quanto riguarda il regime familiare islamico, dalla possibilità della poligamia al ruolo del marito-padre.

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Vedi anche:

Il dibattito Idea difficile da praticare. L’esperto: «E a chi la scelta degli insegnanti?»

Giovanardi: «I miei quattro no all’ora d’islam nelle nostre aule»
S_Daniele
00mercoledì 21 ottobre 2009 06:01
Perché sull’islam a scuola in Vaticano non tutti la pensano come B-XVI

di Paolo Rodari

L’apertura del cardinale Renato Raffaele Martino, presidente di Iustitia et Pax, all’ipotesi di un’ora di religione musulmana nelle scuole italiane – assicurando i debiti “controlli”, si tratterebbe, oltre che di un “diritto”, di un meccanismo che permetterebbe di evitare che i giovani di religione islamica finiscano nel “radicalismo”, ha detto il porporato – non è stata del tutto digerita nei piani alti del palazzo apostolico.
Qui, infatti, si suole essere più prudenti quando in ballo vi sono questioni inerenti la religione islamica.
Eppure, l’uscita di Martino (questi, presidente di Iustitia et Pax, a breve e per raggiunti limiti d’età potrebbe lasciare l’incarico al cardinale africano Théodore-Adrien Sarr, arcivescovo di Dakar: le sue parole sull’islam potrebbero però far slittare la nomina in modo che non sembri una conseguenza delle sue affermazioni), manifesta un dato: una linea precisa, e soprattutto decisa e forte in merito all’islam la chiesa e il Vaticano sembrano non averla del tutto. O meglio, quello che sembra mancare è una prospettiva d’insieme che permetta a tutti di dire le medesime cose senza sovrapposizioni.
A fronte di un significativo silenzio (ieri) dell’Osservatore Romano, si registrano, infatti, diverse reazioni. Subito c’è stato il cardinale Georges Cottier, teologo emerito della casa pontificia, che in qualche modo ha fatto sua l’apertura di Martino. Mentre meno favorevoli sono stati il cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco, e il cardinale arcivescovo di Torino, Severino Poletto. E che i primi due (Martino e Cottier) appartengano alla curia romana mentre i secondi (Bagnasco e Poletto) all’episcopato italiano sembra essere più che altro un caso. Sulla linea da tenere quanto all’islam, e quindi anche circa l’ora di religione islamica, infatti, le divergenze non paiono essere tanto fra Vaticano e Conferenza episcopale italiana quanto tra cardinale e cardinale, tra vescovo e vescovo. Esiste, insomma, al di là del caso specifico del dibattito attorno alla concessione o no dell’insegnamento dell’islam nelle nostre scuole, un problema di concezione delle diverse gerarchie cattoliche rispetto all’islam: c’è chi continuamente propone più che un serio dialogo con l’islam un accomodamento nei confronti dell’islam stesso e chi, invece, cerca in qualche modo di fare proprio il pensiero del Papa che in merito è stato più volte chiaro.
Non c’è dichiarazione di Benedetto XVI dedicata all’islam e ai rapporti coi musulmani, non c’è discorso pronunciato in una qualche moschea del mondo in cui egli non abbia usato la parola “reciprocità”: la libertà religiosa è un diritto per tutti ma dev’essere messa in pratica in un regime di reciprocità.
Martino non è nuovo a uscite di questo tipo. Già nel 2006 aveva detto che “se in una scuola ci sono cento bambini di religione musulmana, non vedo perché non si possa insegnare la loro religione”. Anche allora, come in queste ore, vi fu chi ne trasse la più logica delle conseguenze: se si nega l’insegnamento dell’islam nelle scuole pubbliche, allora si cancelli anche quello della religione cattolica. E in difesa del valore dell’insegnamento della religione cattolica in Italia e contro, invece, un’apertura incondizionata – un cedimento appunto – all’islam, dovette intervenire direttamente l’allora presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini: “Se in linea di principio non appare impossibile l’insegnamento della religione islamica – disse – occorrono alcune fondamentali condizioni”: non vi dev’essere contrasto “nei contenuti rispetto alla nostra Costituzione, ad esempio riguardo ai diritti civili, a cominciare dalla libertà religiosa, alla parità tra uomo e donna e al matrimonio” e “bisognerebbe assicurarsi che l’insegnamento della religione islamica non dia luogo di fatto a un indottrinamento socialmente pericoloso”.
In sostanza, più o meno le parole usate dall’attuale presidente della Cei, Bagnasco, in risposta al cardinal Martino delle scorse ore.
E, ancora, più o meno le medesime parole pronunciate da Ratzinger nel 1999 in un’intervista apparsa sul settimanale tedesco Welt am Sonntag: l’attuale Pontefice si era detto in linea di principio non contrario alla cosa purché vi fossero garanzie che non si trattasse d’indottrinamento “ma d’informazione equilibrata sull’islam”.
In Vaticano esiste un dicastero appositamente dedicato al dialogo interreligioso, in particolare al dialogo con l’islam. Lo guida il cardinale francese Jean-Louis Tauran. Questi prese il posto occupato ad interim dal cardinale Paul Poupard dopo che l’arcivescovo inglese Michael Louis Fitzgerald (l’uomo del dialogo interreligioso sotto Papa Wojtyla) era stato nominato nunzio in Egitto.
L’allontanamento fu letto in curia come una sconfessione di quel tipo di dialogo di cui Fitzgerlad era seguace: quello, appunto, che in nome della necessità di trovare punti di contatto tra le religioni accetta di mettere in secondo piano parole come “reciprocità” e “identità”. Tauran ha lavorato sodo. Recentemente ha anche guidato l’incontro con una delegazione dei firmatari della celebre
Lettera aperta” – “A common word” – di 138 “saggi” islamici. Ma una linea comune rispetto all’islam anch’egli fatica a trovarla. Complice, anche e soprattutto, l’impossibilità di trovare un unico interlocutore nel mondo islamico.

Pubblicato sul Foglio martedì 20 ottobre 2009

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