Casta meretrix ovvero “doppiamente santa”

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S_Daniele
00martedì 25 maggio 2010 17:55
Casta meretrix ovvero “doppiamente santa”
 del Card. Giacomo Biffi - Arcivescovo emerito di Bologna

Per molti teologi e “saccenti”, la Chiesa sarebbe anche peccatrice. Lo testimonierebbe l’espressione “casta meretrice” attribuitale, dicono, dai Padri. Ma siamo sicuri che abbiano ragione? Pare proprio di no. Vediamo perché.

[Da «il Timone» n. 59, gennaio 2007]

Annotazione previa

La Chiesa è santa o peccatrice? Nessuno degli antichi simboli di fede si dimentica di elencare anche la santità della Chiesa tra le verità che appartengono al patrimonio delle certezze cristiane. Ma nell’insegnamento dei teologi professionisti - e conseguentemente in larga parte della coscienza ecclesiale dei nostri giorni - quale rilevanza assume questo punto della dottrina cattolica? Tutelare una persuasione che ci viene dall’insegnamento degli apostoli - anzi, se è possibile, avvalorarla nella mentalità ecclesiale contemporanea - è, a mio giudizio, un compito ineludibile della pastorale di oggi: ineludibile ma, a essere schietti, abbondantemente eluso. Viene oggi efficacemente proposta, tra tutte le verità della fede, anche quella della santità della Chiesa?

Moderna fortuna di un termine

«Casta meretrix» è un sorprendente oximoron ("espressione antinomica"); tanto più sorprendente perché è abitualmente riferito alla Chiesa. Dopo l’ambigua utilizzazione di von Balthasar (in Sponsa Verbi, Brescia 1985) esso gode di una discreta fortuna. Ogni tanto me lo sento ricordare, con la soddisfazione di chi è certo di addurre un’argomentazione decisiva allorché dichiaro incautamente la mia convinzione che alla Chiesa come tale non si possa assegnare l’epiteto di «peccatrice». «Ma se la Chiesa - mi si ribatte - è una "casta meretrix", come dicono i Padri!». È così enfatico l’accento posto sul sostantivo, che l’aggettivo che l’accompagna passa in seconda linea. «Come dicono i Padri». Dir male della Chiesa (che nessuna antica professione di fede si dimentica di chiamare «santa») non è mai stato ritenuto nell’ascesi cristiana un atto particolarmente meritorio. È piuttosto da sempre l’inveterata consuetudine degli «altri», cioè dei non credenti. È consentito ai buoni fedeli , associarsi al coro dei maldicenti, magari per favorire un dialogo aperto e costruttivo? I più timorati non ne troverebbero il coraggio se non potessero aggiungere appunto:«Come dicono i Padri». 

«Come dicono i Padri»

A sentirli, si direbbe che ci sia quasi un consenso universale; che nessuno dei grandi maestri di fede dei primi secoli si sia dimenticato di attribuire alla Chiesa questo titolo pittoresco: che la denominazione «casta meretrix» sia un punto irrinunciabile di tutta l’ecclesiologia tradizionale. (Citiamo per tutti H. Kung, che qui si dimostra più sicuro delle sue asserzioni che non premuroso di documentarle: «C’è solo una chiesa che è al tempo stesso santa e peccatrice, una "casta meretrix", come fin dall’epoca patristica la si è spesso chiamata...» (H. Kung, La chiesa, Brescia 1969, p. 379).
«Come dicono i Padri»: avvalorato da così ampia e autorevole testimonianza, un cuore cattolico si rassicura e può tranquillamente parlare dei "peccati della Chiesa". Ma siamo sicuri che questi teologi non siano a questo proposito un po’ faciloni e spensierati? Vediamo allora, con un’indagine di una certa serietà, quanti sono questi Padri. E vediamo chi sono. Salvo miglior giudizio, è uno solo: Ambrogio. Nessuno ha parlato di «casta meretrix» prima di lui, e nessuno dopo di lui, tra i Padri, l’ha imitato.

Rahab «tipo» della Chiesa

Ambrogio ha usato questa espressione una sola volta, nella sua meditazione su Rahab, la donna di Gerico di cui parla il libro di Giosuè.
Essa – egli dice - «nel simbolo era una prostituta ma nel mistero era la Chiesa, congiunta ormai ai popoli gentili per la comunanza dei sacramenti» (In Lucam VIII,40).
L’utilizzazione «tipica» di Rahab - personaggio contraddittorio, cui era attribuita sia una professione indegna sia un’azione lodata e provvidenziale - era già un classico della letteratura cristiana. Il Vangelo di Matteo l’aveva ricordata nella genealogia di Gesù (cf. Mt 1,5). La lettera agli Ebrei l’aveva portata come esempio della fede che salva (cf. Eb 11,31). San Giacomo, preso da altre preoccupazioni teologiche, aveva messo in risalto la sua giustificazione ottenuta con le opere, cioè con la buona azione a vantaggio degli esploratori ebrei (cf. Gc 2,25). Clemente Romano, quasi a sintesi e conciliazione dei due testi, aveva scritto: «Per la sua fede e la sua ospitalità Rahab la meretrice fu salva» (I ad Corinthios 12,1).
Dopo Clemente, che si sofferma a lungo sull’episodio di Gs 2,1-21, leggendolo alla luce della redenzione operata da Cristo (cf. I ad Corinthios 12,1-8), era andata chiaramente delineandosi - da Giustino a Ireneo a Origene a Cipriano - una decisa interpretazione ecclesiologica della figura di Rahab. E proprio dalla riflessione sulla «casa della prostituta» - la sola in Gerico che ha preservato dalla morte - emerge il famoso principio che «fuori della Chiesa non c’è salvezza».
«Nessuno potrebbe illudersi al riguardo - scrive Origene - nessuno può ingannarsi: fuori di questa casa, cioè fuori della Chiesa, non c’è salvezza» (Om. in Iosue 3,4). E Cipriano: «Credi tu di poter vivere, se ti distacchi dalla Chiesa edificandoti altre case e diversi alloggi, mentre a Rahab, prototipo della Chiesa, viene detto: ognuno che lascerà la porta della tua casa sarà colpevole?» (De unitate eccesiae, 8). In Cipriano il principio «extra Ecclesiam nulla salus» viene collegato con la verità della maternità della Chiesa: «non può avere Dio per padre, chi non ha la Chiesa per madre» (De unitate ecclesiae 6).

Che significa «casta meretrix»?

Ambrogio nella sua riflessione ha presumibilmente sottocchio soprattutto il commento di Origene. Ma il suo pensiero si sviluppa in maniera molto personale.
«Rahab - che nel tipo era una meretrice ma nel mistero è la Chiesa -indicò nel suo sangue il segno futuro della salvezza universale in mezzo all’eccidio del mondo: essa non rifiuta l’unione con i numerosi fuggiaschi, tanto più casta quanto più strettamente congiunta al maggior numero di essi; lei che è vergine immacolata, senza ruga, incontaminata nel pudore, popolare nel suo amore, meretrice casta, vedova sterile, vergine feconda» (In Lucam III,23). Questo è l’unico passo dove compare la nostra espressione; e merita un commento ravvicinato. 

Typo meretrix mysterio ecclesia - Si vuol dire che l’attività meretricia appartiene alla «figura», non alla realtà figurata. Non si possono dunque fare frettolose trasposizioni dal «tipo» all’«antitipo»; bisogna prima chiarire in che senso e sotto quale profilo il paragone possa essere istituito.
Multorum convenarum copulam non recusat - Il chiarimento arriva immediatamente: la Chiesa può essere simbolicamente ravvisata nella donna di Gerico, soltanto perché non si rifiuta di unirsi alla moltitudine dei «fuggiaschi», cioè di quanti - dispersi e disorientati nella città mondana - cercano presso di lei riparo dalla perdizione. Tutti li accoglie per tutti salvarli. 

Quo coniunctior pluribus eo castior - C’è però una differenza fondamentale. La condiscendenza con cui la Chiesa dischiude la sua porta a tutti, come fanno le donne di costumi troppo facili, non solo non comporta in lei niente di riprovevole, ma indica addirittura fedeltà alla propria missione (e quindi al suo Sposo che gliel’ha assegnata). 

Immaculata virgo, sine ruga, pudore integra - Quasi a prevenire qualunque equivoco che potesse nascere da un paragone innegabilmente audace, è evocato qui (e perfino oltrepassato) l’appassionato linguaggio di Paolo quando esalta «la Chiesa senza macchia né ruga né alcunché di simile» (Ef 5,27). È da notare che nel testo di Ambrogio non si tratta della condizione escatologica cui il Signore vuoi portare la sua Sposa. «Immaculata virgo, sine ruga, pudore integra» è per il vescovo milanese proprio la Chiesa che, camminando nella storia, accoglie e salva gli uomini che oggi sono «sbandati» («convenae»). 

Amore plebeia ("popolare nell’amare") - L’espressione è un po’ avventurosa, ma ricca di una intensità che la rende quasi intraducibile. «Plebeius» negli scrittori latini è vocabolo che ha sempre almeno una sfumatura di spregio. Che abbia potuto venire adoperata da un patrizio di eccellente cultura romana per qualificare la Sposa di Cristo, basta a significarci la novità "democratica" davvero rivoluzionaria portata dal cristianesimo. La Chiesa è «plebeia» nel suo amore; vale a dire, non c’è niente di aristocraticamente esclusivo nelle sue attenzioni, che sono rivolte a tutti senza distinzione. O, se ci sono preferenze, sono casomai per i semplici, gli umili, i poveri. Ambrogio, si sa, aveva un po’ in antipatia le condizioni di privilegio, tanto che ha potuto scrivere: «Nessuno presuma, perché è ricco, che gli si debba maggior ossequio. Nella Chiesa è ricco chi è ricco di fede» (Ep. Extra coli. 14,86). 

Tre immagini

La meditazione ecclesiologica ambrosiana si avvale in quel brano di tre immagini, da considerarsi simultaneamente se si vuol attingere la profondità del mistero. La Chiesa è al tempo stesso prostituta, vedova, vergine: «meretrix casta, vidua sterilis, virgo fecunda». E ci viene subito offerta una limpida spiegazione di queste tre qualifiche
La Chiesa è «meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per le attrattive dell’amore ma senza la contaminazione della colpa».
La Chiesa è «vedova sterile, perché in assenza del marito non sa generare (ma poi il marito è giunto, e così ella ha generato questo popolo e questa "plebe")». La Chiesa è «vergine feconda, perché ha partorito questa moltitudine, come frutto del suo amore, non però per intervento di concupiscenza» (In Lucam III,23). 

Concludendo

Nel suo significato originario, dunque, l’espressione «casta meretrix», lungi dall’alludere a qualcosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare - non solo nell’aggettivo ma anche nel sostantivo - la santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell’adesione senza tentennamenti e senza incoerenze al suo Sposo («casta») quanto nella volontà di raggiungere tutti (secondo il compito che le è stato affidato dal suo Signore) per portare tutti a salvezza («meretrix»).
E non appartiene «ai Padri» ma al solo Ambrogio, che nella spregiudicata libertà del suo animo credente l’ha coniata con l’unico intento di esaltare la Sposa di Cristo. E non dimentichiamolo: la fede di Ambrogio - notava già sant’Agostino - è la fede cattolica (Contra lulianum opus imperfectum 3,205: «secundum ambrosianam idest catholicam fidem»).

© il Timone
http://www.iltimone.org/
 
Fonte
S_Daniele
00martedì 25 maggio 2010 18:00

SUL PECCATO NELLA CHIESA


di Francesco Colafemmina

Ci si domanda da più parti se sia opportuno o meno parlare del peccato nella Chiesa. Se sia opportuno o meno indagarne le ragioni, esporne le manifestazioni. Ciò costituisce un detrimento, una minaccia per la Chiesa? E' in definitiva un male? Sarebbero preferibili il silenzio e la preghiera?

Per rispondere con i miei limiti a queste osservazioni, credo sia opportuno cominciare da un punto fondamentale: i peccati non sono "della Chiesa" ma, al massimo, attribuibili ad "uomini di Chiesa". Non si tratta, infatti, di peccati collettivi, ma di singoli peccati che possono accomunare alcuni membri della gerarchia ecclesiastica. Ciò facilita notevolmente l'approccio al problema. E' infatti innegabile che la Chiesa, come divina istituzione, sia Santa. Ma la Chiesa è composta anche da peccatori. Sbaglia, però, chi crede nella trasmissione del peccato - quasi per osmosi - dal peccatore all'istituzione divina, spesso ricorrendo all'improvvida interpretazione del "casta meretrix" di Sant'Ambrogio onde riconoscere nella Chiesa una duplice e ossimorica connotazione morale. Il peccato è infatti un atto personale, frutto del libero arbitrio che Dio ci ha donato. Il vero problema è però la "cooperazione" al peccato, ossia, secondo il Catechismo (n.1868) : "la responsabilità nei peccati commessi dagli altri, quando vi cooperiamo prendendovi parte direttamente e volontariamente;— comandandoli, consigliandoli, lodandoli o approvandoli;— non denunciandoli o non impedendoli, quando si è tenuti a farlo;— proteggendo coloro che commettono il male."

In questo senso anche gli uomini di Chiesa hanno profonde responsabilità. E queste responsabilità non sono schermate da alcun tipo di immunità, giacché essi sono uomini come noi, deboli ed esposti al peccato. Quando però gli uomini di Chiesa cooperano al peccato di altri chierici, non solo si rendono cooperatori del peccato ma diffusori di scandalo, secondo quanto sancito dal Catechismo della Chiesa Cattolica al n.2285: "Lo scandalo assume una gravità particolare a motivo dell'autorità di coloro che lo causano o della debolezza di coloro che lo subiscono. Ha ispirato a nostro Signore questa maledizione: « Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli, [...] sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare » (Mt 18,6). Lo scandalo è grave quando a provocarlo sono coloro che, per natura o per funzione, sono tenuti ad insegnare e ad educare gli altri. Gesù lo rimprovera agli scribi e ai farisei: li paragona a lupi rapaci in veste di pecore."

Ecco quindi spiegate, a mio parere, le ragioni per le quali ha un senso parlare anche dei peccati volgarmente detti "della Chiesa", ossia di quei peccati commessi dalle gerarchie ecclesiastiche. Parlarne dovrebbe avere pertanto una doppia funzione:

1) esortare alla preghiera l'intero Corpo Mistico: solo con la preghiera si combatte il peccato e la tentazione. Con la preghiera si intercede per i peccatori ed i persecutori della Chiesa (interni ed esterni). Con la preghiera infine ci si mette "in comunicazione" con il Signore: l'intero Corpo Mistico è così pervaso da quest'univoco movimento verso Cristo, origine e fine della sua esistenza.

2) esortare gli uomini di Chiesa a non perseverare nel peccato e ad essere più degnamente conformi alla loro autorità e al loro insegnamento: solo attraverso la coerenza e il senso della responsabilità si evitano gli scandali e si è fedeli al proprio ministero.

Non credo si debba aver timore nell'affrontare queste problematiche, e soprattutto non credo sia opportuno temere la strumentalizzazione anticristiana di coloro che affrontano gli scandali degli uomini di Chiesa. Perché due sono le strade: o tacere tollerando o peggio maldestramente giustificando gli scandali, o parlare con retta intenzione delle ragioni alla radice degli scandali onde l'innesto che non dà frutto sia reciso e sostituito da innesti fruttuosi per la Chiesa di Cristo. Le vie di mezzo non sono concesse perché riuscirebbero ambigue o compromissorie. Il peccato e lo scandalo, infatti, o ci sono o non ci sono. Tollerarli fino a quando non esplodono significa soltanto aggravarne il carico malefico. Se invece ne spieghiamo le ragioni, se, soprattutto, attraverso testimonianze autentiche e grazie all'indirizzo che il Sommo Pontefice ci offre, riusciamo a intravvedere le vie attraverso le quali il male si è insinuato nel seno della Chiesa, potremo ritrovare le energie e la forza per sconfiggerlo o per lo meno ridurne la portata, evitando gli scandali futuri.

E' vero, d'altra parte, che Cristo affermò che "è necessario che avvengano gli scandali" ma è altrettanto necessario leggere per intero il passo evangelico da cui è tratta questa frase usata spesso per minimizzare o banalizzare gli scandali: " 6 ῝Ος δ᾿ ἂν σκανδαλίσῃ ἕνα τῶν μικρῶν τούτων τῶν πιστευόντων εἰς ἐμέ, συμφέρει αὐτῷ ἵνα κρεμασθῇ μύλος ὀνικὸς εἰς τὸν τράχηλον αὐτοῦ καὶ καταποντισθῇ ἐν τῷ πελάγει τῆς θαλάσσης. 7 Οὐαὶ τῷ κόσμῳ ἀπὸ τῶν σκανδάλων· ἀνάγκη γάρ ἐστιν ἐλθεῖν τὰ σκάνδαλα· πλὴν οὐαὶ τῷ ἀνθρώπῳ ἐκείνῳ δι᾿ οὗ τὸ σκάνδαλον ἔρχεται. 8 εἰ δὲ ἡ χείρ σου ἢ ὁ πούς σου σκανδαλίζει σε, ἔκκοψον αὐτὰ καὶ βάλε ἀπὸ σοῦ· καλόν σοί ἐστιν εἰσελθεῖν εἰς τὴν ζωὴν χωλὸν ἢ κυλλόν, ἢ δύο χεῖρας ἢ δύο πόδας ἔχοντα βληθῆναι εἰς τὸ πῦρ τὸ αἰώνιον. 9 καὶ εἰ ὁ ὀφθαλμός σου σκανδαλίζει σε, ἔξελε αὐτὸν καὶ βάλε ἀπὸ σοῦ· καλόν σοί ἐστι μονόφθαλμον εἰς τὴν ζωὴν εἰσελθεῖν, ἢ δύο ὀφθαλμοὺς ἔχοντα βληθῆναι εἰς τὴν γέενναν τοῦ πυρός. 10 ῾Ορᾶτε μὴ καταφρονήσητε ἑνὸς τῶν μικρῶν τούτων· λέγω γὰρ ὑμῖν ὅτι οἱ ἄγγελοι αὐτῶν ἐν οὐρανοῖς διὰ παντὸς βλέπουσι τὸ πρόσωπον τοῦ πατρός μου τοῦ ἐν οὐρανοῖς. 11 ἦλθε γὰρ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου σῶσαι τὸ ἀπολωλός."

"Perché chi dovesse scandalizzare uno di questi piccoli che credono in me, conviene che gli si appenda una mola da asino al collo e lo si affoghi nell'abisso del mare. Guai al mondo per gli scandali: è necessario che gli scandali avvengano, ma guai a quell'uomo per mezzo del quale avviene lo scandalo. Se la tua mano o il tuo piede ti scandalizza, tagliali e gettali via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che, avendo due mani e due piedi, essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti scandalizza, strappatelo via e gettalo lontano da te: è meglio per te entrare nella vita con un solo occhio che avendo due occhi essere gettato nella Geenna del fuoco. Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli: infatti vi dico che i loro angeli nel cielo per sempre guardano il volto del Padre mio nel cielo. Venne infatti il figlio dell'uomo a salvare ciò che è perduto" (Matteo 18,6-11).

Detto ciò, è evidente che nessuno di noi ha l'autorità morale per giudicare alcun peccatore. Ciascuno di noi è vittima del peccato e la Chiesa, pur Santa, non è fatta di santi, bensì di peccatori. Ciò che però possiamo fare è semplicemente criticare e ragionare su quelle "strutture del peccato" le cui radici permangono nei peccati personali dei singoli, ma i cui frutti negativi sono autentico veleno per la comunità cristiana e per il Corpo Mistico di Cristo. Recidere le "strutture del peccato" interne alle gerarchie ecclesiastiche, estirparne le radici profonde identificabili con l'attaccamento ai beni materiali e l'amore per il potere in sè, sono delle necessità già individuate chiaramente dal Santo Padre. Se noi fedeli prendiamo coscienza sia del male sia del suo farmaco credo che la Chiesa tutta non potrà che trarne un vivificante e sincero giovamento. Tanto più che il male oggi affiorante nella Chiesa rimanda a ragioni storiche contingenti, ad un "modello" di Chiesa gerarchica ormai evidentemente fallimentare: quel modello che ha voluto per anni imporre alla Chiesa e al clero una totale dedizione al mondo. La mondanizzazione e la desacralizzazione sono state bacini di coltura di quella "struttura del peccato" radicata in pochi chierici, ma tollerata nella sua crescente metastasi anche dagli alti ranghi della gerarchia. L'importante è comunque non fermarsi dinanzi all'evidenza dello scandalo, non farsene travolgere, ma essere noi a travolgerlo con la preghiera, a sgonfiarlo attraverso la ragione, ad annientarlo con la giustizia. Non è forse questo un modo per facilitare l'opera di purificazione della Chiesa che il Santo Padre ha intrapreso, nonostante le tante pressioni e le costanti ostilità di una cospicua parte di sacerdoti, Vescovi e Cardinali?

Fides et Forma
S_Daniele
00giovedì 17 giugno 2010 19:32
Chiesa santa e uomini peccatori

La casta donna di tutti


di Inos Biffi

Nel Credo professiamo e definiamo la Chiesa come "una, santa, cattolica e apostolica", dotata quindi di prerogative che le appartengono essenzialmente:  non potrebbe esserci una Chiesa "non-una", "non-santa", "non-cattolica", "non-apostolica". Se così fosse, avremmo il dissolvimento della stessa Chiesa, della quale si parla molto, ma spesso senza preoccuparsi di sapere che cosa dica di essa anzitutto la Parola di Dio.
Si sente proclamare da ogni parte:  "Finalmente si legge la Bibbia! La Scrittura è tornata a essere la fonte della teologia e della spiritualità cristiana!". Questo è certamente un bene. Senonché avviene non raramente di constatare che ci sono testi biblici stranamente dimenticati e quasi oscurati, e tra questi proprio dei testi ecclesiologici.
Si pensi a quelli della Lettera agli Efesini, dove appare chiaramente che "la Chiesa ha la sua origine nel mistero della provvidenza e predestinazione divine", dal momento che "da sempre Dio (...la) vede davanti a sé e la vuole" (Schlier). Vediamo questi testi. In uno si afferma che Cristo "è il capo del corpo, della Chiesa" (Colossesi, 1, 18. 24). In un altro la Chiesa è, ugualmente, chiamata "il corpo di lui (Cristo), la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose" (Efesini, 1, 23).
Altrove si afferma che "Cristo è Capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo"; egli l'"ha amata e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificata con il lavacro dell'acqua mediante la parola. E così egli vuole che la Chiesa compaia davanti a lui tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata" (Efesini, 5, 22, 25-26).

 A questo punto ci domandiamo:  esiste veramente, oppure è solo un'ipostasi astratta, una Chiesa che è adesso il "Corpo di Cristo", la sua "pienezza" e il "luogo" in cui si rende "gloria a Dio"? Una Chiesa "santa e purificata", per la quale Gesù ha dato se stesso e che è lo strumento della manifestazione della "multiforme sapienza di Dio" "ai Principati e alle Potenze dei cieli", così che la loro comprensione del mistero avviene contemplando la Chiesa?
Se una tale Chiesa non esistesse nella realtà, o fosse solo un abbozzo precario e una realtà futura, verrebbe smentita la Parola di Dio; anzi, lo stesso Gesù Cristo risulterebbe compromesso. Scalfire la Chiesa, equivale a "intaccare" Cristo e alla fine ridurlo a una condizione anomala e di non esistenza. Ovviamente, non perché questa gli sia conferita dalla Chiesa, ma perché egli non esiste distaccato dalla Chiesa, senza Corpo e senza Sposa. E questo significherebbe che egli non nutre e non cura nessuna Chiesa (cfr. Efesini, 5, 29), e che la sua opera, in particolare il suo sacrificio è risultato vano.
Ma, se questa Chiesa esiste realmente, non può che essere una Chiesa "santa", cioè una Chiesa che non può assolutamente e mai essere definita "peccatrice". Il peccato, infatti, comporta il distacco da Cristo, per cui una Chiesa peccatrice sarebbe distaccata da lui, non sarebbe né suo Corpo né sua Sposa, ma semplicemente una non-Chiesa, come lo sarebbe una Chiesa non-una, non-cattolica, non-apostolica.

In realtà questa Chiesa "santa", Corpo e Sposa del Signore, c'è, adesso, ed è l'unica che può dirsi genuinamente Chiesa, formata dai giusti già in cielo e dai santi pellegrini sulla terra. Nella Chiesa nunc, come direbbe Agostino, ossia nel suo momento terreno, sono visibili senza dubbio dei membri ancora compromessi col peccato, ma questo non ci fa dire che allora la Chiesa è peccatrice.
È vero invece che, nella misura in cui siamo peccatori, non siamo compiutamente Chiesa, e abbiamo la possibilità e la speranza di diventarlo, proprio in virtù dell'esistenza della Chiesa santa. "La Chiesa - insegnava sant'Ambrogio con la sua abituale limpidità e acutezza - non è ferita in sé, ma è ferita in noi" (De virginitate, 8, 48).

Forse è il caso di ascoltare qui alcune voci autorevoli. Intendo dire non qualche teologo d'avanguardia, per esempio di quelli che amano scrivere puntigliosamente "chiesa" minuscolo (però Stato e Partito maiuscolo), ma per esempio Tommaso d'Aquino. Questi - a commento della Lettera agli Efesini, 5, 25-26 - scrive:  "Sarebbe stato sconveniente che uno sposo immacolato si prendesse una sposa macchiata. Per questo la mostra senza macchia:  quaggiù in virtù della grazia e nel futuro in virtù della gloria".

Ma sentiamo ancora il vescovo di Milano, che tra tutti i Padri è quello che con più viva e prolungata compiacenza si è soffermato ad ammirare estasiato la Chiesa, che certo egli non riduceva a un "immaginario".
In particolare, "la percezione della bellezza della Chiesa - osserva il cardinale Giacomo Biffi - è un dato costante della teologia ambrosiana". Ambrogio non si stanca di riproporlo secondo gli accenti e le suggestioni che specialmente gli offre il Cantico dei Cantici, ecclesialmente interpretato:  "Cristo desiderò la bellezza della sua Chiesa e dispose di unirserla in matrimonio" (Apologia David altera, 9, 48).

Certamente, ragione della bellezza è Gesù Cristo, l'unico che riesca ad affascinarla:  "Molti tentano la Chiesa, ma nessun incantesimo di arte magica le può nuocere. Ella ha il suo incantatore:  è il Signore Gesù" (Exameron, iv, vi, 8, 33), il suo Sposo:  "Il marito è Cristo, la moglie è la Chiesa, sposa per l'amore, vergine per l'intatta purezza".
Certamente la Chiesa non si trova sullo stesso piano di Cristo, dal momento che essa "rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo, e prende il suo splendore dal Sole di giustizia, così che può dire:  "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me"" (Exameron, iv, vi, 8, 32)

Sarà il metodo ambrosiano di considerare la Chiesa:  quello di considerarla sempre con lo sguardo rivolto a Gesù Cristo, in contemplazione di lui, e quindi nel riflesso della bellezza, del "decoro", "ravvivato dal sangue di Cristo" (Expositio Psalmi cXVIii, 17, 22) e della grazia del suo Signore:  la Chiesa, che è il fiore "che annunzia il frutto, cioè il Signore Gesù Cristo" (ibidem, 5, 12.), il quale, volgendosi a lei, esclama:  "Tu sei il  mio  sigillo, creata  a  mia  immagine e somiglianza" (ibidem, 22, 34). "Il costato di Cristo è la vita della Chiesa" (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 86).

Ma non è sant'Ambrogio a parlare della Chiesa come casta meretrix (ibidem, iii, 23)? Certo che è lui, e lui solo, ma non per dire quello che intendono e vanno affermando alcuni "blasonati" teologi. "L'espressione casta meretrix - osserva ancora Giacomo Biffi, al quale dobbiamo finalmente l'esegesi esatta del testo di sant'Ambrogio - lungi dall'alludere a qualche cosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare - non solo nell'aggettivo ma anche nel sostantivo - la santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell'adesione senza tentennamenti e senza incoerenze a Cristo suo sposo (casta) quanto nella volontà di raggiungere tutti per portare tutti a salvezza (meretrix)".

Della meretrice la Chiesa imita, quindi, non il peccato, ma la disponibilità, solo che è una "casta" disponibilità, cioè una larghezza di grazia.
Ma riportiamo per intero l'audace testo ambrosiano, tutto costruito secondo l'esegesi allegorica:  "Rahab nel tipo (ossia nel simbolo e nella profezia) era prostituta, ma nel mistero (in quello che significava) è la Chiesa, vergine immacolata, senza ruga, incontaminata nel pudore, amante pubblica, meretrice casta, vedova sterile, vergine feconda:  meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per l'attrattiva dell'affetto ma senza la sconcezza del peccato; vedova sterile, perché non è suo uso partorire quando il marito è assente; vergine feconda, perché ha partorito questa moltitudine, vendendo i frutti del suo amore e senza esperienza di libidine" (ibidem, iii, 23). D'altra parte, la Chiesa vive di Spirito Santo. E, infatti, è dopo lo Spirito Santo che nel Credo professiamo la Chiesa, mentre in una formula battesimale ricorre la domanda:  "Credi nello Spirito santo, buono e vivificante, che tutto purifica nella santa Chiesa?".

Il grande Ireneo scriveva:  "Dove c'è la Chiesa, là c'è lo Spirito di Dio, e dove c'è lo Spirito di Dio, là c'è la Chiesa, là c'è ogni grazia. Alla Chiesa è stato affidato il Dono di Dio, così come Dio ha affidato il respiro alla carne plasmàta (il primo Adamo), affinché tutti i membri ne ricevano la vita" (Adversus haereses, 3, 24, 1).

Abbiamo sentito la voce di Ireneo, di Ambrogio, di Tommaso d'Aquino. Possiamo ascoltare anche un laico, Alessandro Manzoni, che nell'inno sacro La Pentecoste, con raro senso teologico, canta il mistero della Chiesa come nessun ecclesiologo dei suoi tempi avrebbe saputo fare. È lui a definire la Chiesa come "Madre dei Santi":  ma una "Madre dei Santi" come può essere definita "peccatrice"?

In ogni caso, come non convenire con il cardinale Biffi che "dir male della Chiesa non è mai stato ritenuto nell'ascesi un atto particolarmente meritorio"?


(©L'Osservatore Romano - 18 giugno 2010)
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