Come leggere la «Caritas in veritate»

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Cattolico_Romano
00mercoledì 30 settembre 2009 19:19
Come leggere la «Caritas in veritate»

Niente sentimentalismi nella dottrina sociale

Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano.

di Franco Giulio Brambilla

Lungamente attesa, annunciata più volte come imminente,
l'enciclica sociale di Benedetto XVI è giunta, tuttavia, come una sorpresa. Non solo per la sua felice pubblicazione in prossimità del vertice di risonanza internazionale dell'Aquila, che ha ritrovato il protagonismo dei Paesi emergenti, non ancora per la ripresa della Populorum progressio di Paolo vi, poco dopo il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione (1967), ma soprattutto per la riproposizione del tema dello sviluppo integrale dei popoli nel contesto globalizzato sullo scenario della terribile crisi internazionale del 2008-2009.
Vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie allo scoccare preciso dei duecento anni - nemesi storica! - della Rivoluzione francese (1989), è avvenuta l'implosione dell'economia occidentale globalizzata, che perde il contatto vivo con la radice sociale e umana.
L'enciclica è un forte richiamo che rappresenta quasi un manifesto per il nuovo bisogno di "etica sociale" che tenti di regolare l'avidità e talvolta la truffaldina voracità della finanza internazionale, senza riferimento al legame sociale, al rischio dell'imprendere e alla fatica del lavoro umano. Sullo sfondo sta lo scenario della terribile disparità tra i popoli del globo.
Del manifesto, però, l'enciclica non ha il tono declamatorio, ma quello di un disteso e pacato disegno argomentato, di una riflessione tenace che tesse pazientemente la trama di un arazzo di dimensioni mondiali, attraversato da tutte le armoniche che devono risuonare nell'ora presente. Né altrimenti ci si poteva aspettare dal "Papa teologo", che ci ha abituati allo spessore e al sapore della parola che dischiude al vero e al bene.
La cosa più sorprendente, che appare a un incontro più avvicinato con la scrittura dell'enciclica, è l'esercizio di interpretazione della dottrina sociale della Chiesa che il Pontefice ci propone. Si tratta di un caso di interpretazione "magisteriale" del Magistero sociale che, dalla Rerum novarum fino ai nostri giorni, ha assunto il tratto di un vero e proprio corpus dottrinale. All'analisi dei teologi di morale socio-politica, questo corpus appare come una costellazione dottrinale che non ha, e non pretende di avere, la forma di una trattazione organica e completa, ma piuttosto intende offrire il discernimento delle istanze del tempo a cui i diversi interventi papali fanno riferimento. Tuttavia, proprio l'embricatura degli anniversari, che sovente motivano la "ripresa" della dottrina sociale, suggerisce l'idea di un discorso completo della visione della fede cristiana in re sociali. Fino a farne materia di una trattazione di "Dottrina sociale della Chiesa", la quale assumerebbe la consistenza teologica del trattato di morale sociale. Nello spazio accademico, molte volte avviene che questa regione della morale cristiana sia concepita e proposta come un "commentario" al Magistero sociale, al massimo collocato nello sviluppo storico degli oltre cent'anni dalla "prima" enciclica sociale di Leone xiii.
Ed è qui che cade il tratto sorprendente dell'intervento di Papa Benedetto: esso si presenta come un esercizio emblematico di quell'""ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa", che il Papa aveva proposto in forma inattesa e nella cornice inconsueta del Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005, appena all'inizio del suo pontificato. Quell'intervento colpì molti perché, celebrando i quarant'anni della chiusura del concilio Vaticano ii, rivendicava la continuità nel rinnovamento della Chiesa prima e dopo il concilio, rispetto a una superficiale "ermeneutica della discontinutà e della rottura" che si fondava sulla separazione tra spirito del concilio e sua traduzione testuale, inevitabilmente contrassegnata dal compromesso tra le diverse anime dei Padri conciliari. Per di più propiziata - non è un caso che il riferimento principale dell'enciclica sia a Paolo vi - dalla volontà del Papa bresciano di raccogliere attorno ai pronunciamenti conciliari il massimo del consenso.
L'encilica fa un esplicito riferimento (al numero 12 e alla nota 19) a questo discorso di metodo: "Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo" E se è "giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale", d'altra parte "coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta" (Caritas in veritate, 12).
Nel Discorso del 2005 l'esemplificazione della "fedeltà dinamica" riguardava con grande piglio il punto più controverso della dottrina conciliare circa la libertà religiosa (si veda, in quell'intervento, la bella pagina con cui a partire dal caso Galileo si approda alla formulazione conciliare). Nell'enciclica l'esercizio dell'ermeneutica conciliare si distende pacatamente a rettificare la cesura tra prima e dopo il concilio per quanto concerne la dottrina sociale: "La Populorum progressio e il concilio Vaticano ii non rappresentano una cesura tra il magistero sociale di Paolo vi e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa" (n. 12).
L'idea di "fedeltà dinamica", di "rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa" riprende la nozione di Chiesa che è traditio tradens e che trova nel traditum un suo necessario, ma non esaustivo discernimento delle istanze della storia. Essa esige, dunque, un'ermeneutica che non accentui le rotture, ma ritrovi sempre la continuità creativa (di guardiniana memoria) della vita e nella vita della Chiesa per potersi "rinnovare alle origini". L'atto ermeneutico è anzitutto un atto pratico con cui la Chiesa non solo ripensa i suoi principi dottrinali connettendoli all'origine della Parola di Dio, ma insieme discerne il tempo attuale dentro l'alveo della tradizione vivente.
Nel contesto del Discorso programmatico, il Papa ribadiva che "è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma". Continuità a livello dei principi e delle decisioni strategiche, necessaria flessibilità a livello dei discernimenti pratici riferiti alle "decisioni (riguardanti) cose contingenti". Così il Papa suggeriva allora che "bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare" (ivi).
L'"ermeneutica della riforma" rimanda dunque a una "pratica del discernimento storico" (la vita della Chiesa nella sua creativa continuità), di cui la dottrina sociale della Chiesa rappresenta, per così dire, la condensazione della voce del magistero papale che rilegge e si riposiziona di fronte al mutamento sociale.
Prima di procedere a svolgere il tema dell'enciclica (lo sviluppo integrale dei popoli), il Papa sente il bisogno di collocarlo nel quadro del suo magistero complessivo, in particolare nel punto focale della sua prima enciclica programmatica Deus caritas est. L'audace introduzione riveste una duplice funzione: collegare la dottrina sociale con il centro del Mistero trinitario, mostrando come la caritas teologale si irradi in re sociali; fornire un'interpretazione forte della caritas come principio istitutivo della dottrina sociale, che la sottragga a una comprensione ridotta e irrilevante. Come se la carità fosse solo un correttivo accanto e parallelo al principio della giustizia, su cui soltanto si reggerebbero i rapporti sociali: "La carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr. 1 Giovanni, 4, 8. 16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, "Dio è carità": dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Per evitare un'interpretazione "marginale" e "sentimentale" della carità rispetto ai rapporti sociali in ipotesi regolati dalla (sola) giustizia (e compresi alla luce della "sola" ragione, magari "laica"), Benedetto XVI sente il bisogno di potenziarne la nozione riferendola alla verità della visione dell'uomo, su cui non solo essa si deve misurare, ma che esprime esattamente la forma piena della vita umana, personale e sociale.
Di qui l'importanza strategica dell'introduzione all'enciclica, che forma, per così dire, il quadro di riferimento teorico della successiva ripresa della nozione di sviluppo integrale. Caritas in veritate indica l'asse con cui la carità è coestensiva a una comprensione solidale dei rapporti sociali: essi sono giusti non solo se danno a ciascuno il suo, ma se si radicano e, insieme, alimentano quei legami sociali e culturali con cui l'uomo perviene a se stesso (la coscienza di sé), decidendosi dinanzi al proprio destino (il compimento personale) all'interno dell'alleanza sociale (il bene comune).
Proprio questo ingresso, che a taluni potrà apparire persino ardito, come se ci si trovasse in una baita davanti alla parete altissima che svetta sulla cima maggiore, è l'antidoto a una comprensione terapeutica e medicinale della caritas. Esso, infatti, curerebbe i rapporti nella città dell'uomo e nel concerto delle nazioni, una volta che la giustizia avesse fallito il suo compito, compensando i rapporti "giusti", quando fossero feriti e lacerati, con i rapporti "buoni" che provengono dall'iniziativa libera dei soggetti privati e/o di gruppo. In tal modo la carità teologale (la comunione con Dio e la comunione fraterna) non avrebbe un risvolto pubblico: la "fraternità" che pure l'Illuminismo aveva emblematicamente indicato nella sua triade, nientemeno come erede della tradizione occidentale, non avrebbe alcun rilevo pubblico, se non perché raccoglie le vittime e cura i feriti lasciati sul campo nell'agone sociale.
Il valore "politico" della carità è risolto nella sua funzione terapeutica, ma non presiede e non alimenta il rapporto sociale. Per questo il Papa sente "il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della "veritas in caritate" (Efesini, 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell'"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale" (n. 2).
La caritas in veritate è, dunque, la sfida per sottrarre la dottrina sociale della Chiesa a una comprensione "sentimentale" dell'aspetto solidale che deve animare i rapporti tra gli uomini e tra i popoli. In un'espressione icastica, il Papa indica con chiarezza questa deriva: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali" (n. 4). "Marginali" rispetto alle regole del vivere civile, il quale non si lascerebbe in nessun modo dirigere dalle forme della relazione buona con l'altro, come se le forme buone della relazione libera fossero solo o terapeutiche o compensative dei modi vincolanti della relazione giusta, una volta fallita o ferita.
Occorre, dunque, arrivare a discutere lo schema che separa e accosta giustizia e carità. Afferma il Papa, infatti, che: "La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. E, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi" (n. 5). La verità è ciò che consente di tenere insieme l'eccedenza della carità rispetto alla necessità della giustizia: la carità eccede la giustizia solo se la include e la supera; la giustizia, però, può essere se stessa solo se si alimenta alla forma buona del rapporto sociale che deriva dall'eccedenza del dono e del perdono. Essa ha bisogno dell'alleanza tra gli umani che tende al "bene comune" (e non solo alla salvaguardia parcellizzata dei "beni comuni") come l'atmosfera che fa respirare i rapporti giusti, regolati dal diritto. Nei numeri 6 e 7, giustizia e bene comune sono indicati come le mediazioni operative della caritas in veritate. Essi non possono non riferirsi all'immagine dello sviluppo integrale dell'uomo. All'interno di tale quadro si dispiega il tema dell'enciclica.

(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)
Cattolico_Romano
00giovedì 1 ottobre 2009 15:46
Il Papa manager e la carità contro la crisi

di Gianfranco Fabi

Nella
Caritas in veritate, l'enciclica che il Papa ha dedicato alla dottrina sociale, vi sono significate novità nell'analisi e nei giudizi della Chiesa.
Nel mezzo della maggiore crisi economica dopo il 1929, una crisi che ha peraltro provocato un lungo supplemento di riflessione prima della pubblicazione del testo all'inizio di luglio, non ci si poteva che attendere una parola che non fosse solo di doverosa e scontata riaffermazione della centralità del messaggio cristiano, ma anche di risposta profetica alle esigenze del mondo contemporaneo.
In questa prospettiva l'enciclica si può leggere come una ambizione di fondo: quella di riportare al centro l'identità e il valore della persona, per intraprendere un cammino di riconciliazione di elementi che la storia e i comportamenti hanno diviso. Riconciliazione, per esempio, tra democrazia e mercato per ristabilire un sistema di regole fondato sul primato della politica come espressione di una vera volontà popolare. Riconciliazione tra il profitto e la gratuità perché «sia il mercato che la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco». Riconciliazione tra sviluppo e bene comune perché la crescita non avvenga moltiplicando le disuguaglianze e sacrificando gli equilibri sociali e ambientali.
Non c'è solo un fondamento teologico in questa direzione; c'è anche un percorso di analisi economica in cui si possono chiaramente vedere le radici di quella che è stata chiamata "economia civile" alla cui definizione ha dato un contributo decisivo una scuola italiana che ha unito cattolici e laici, da Antonio Genovesi a Luigi Einaudi.
Frutto di significativa tempestività è allora la pubblicazione curata da Luigino Bruni e Stefano Zamagni di un Dizionario di economia civile, realizzato con la collaborazione di un vasto panel di economisti. Un dizionario che sembra quasi costituire una guida alla lettura e all'interpretazione di un testo complesso come quello dell'enciclica. Da "accountability" a "Gino Zappa" (un maestro nel campo dell'economia aziendale) vengono così passati in rassegna i concetti e i protagonisti, le idee e le parole chiave di una prospettiva in cui l'analisi si affianca al richiamo e alla proposta.
Come scrivono Bruni e Zamagni: «L'economia civile propone un umanesimo a più dimensioni nel quale il mercato non è combattuto o controllato, ma è visto come un luogo al pari degli altri, come un momento della sfera pubblica che se, concepito e vissuto come luogo aperto ai principi di reciprocità e di gratuità, può costruire la città».
Il passo che viene sollecitato è quindi ancora una volta quello di riconciliare le dimensioni della persona ritrovando accanto alla ricerca dell'utilità anche i valori che nascono dalle relazioni con gli altri basate sulla fraternità: amicizia e rapporti di mercato non possono restare divisi. La sfida è quella di non considerare il volontariato, il non profit, il terzo settore, come elementi complementari e separati, ma come realtà capaci di contaminare positivamente, con la forza del dono, tutto l'operare economico.

gianfrancofabi.blog.ilsole24ore.com
Cattolico_Romano
00venerdì 2 ottobre 2009 06:59
VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello

Chiesa e unità del genere umano nell’enciclica Caritas in veritate


Città del Vaticano (Agenzia Fides)

“Paolo VI comprese chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale e colse il richiamo reciproco tra la spinta all’unificazione dell’umanità e l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità” (
Caritas in veritate, n 13).
Il mondo anela, in certo senso, all’unità e fraternità universale, ma percepisce, nel contempo, come questa non sia l’esito di “impegni” personali, ma venga, in certo modo…”data”. La convinzione cristiana, infatti, è che tale unità possa venire solo quando ci si converte a Cristo. Tuttavia gli sforzi che da più parti si operano, quando ripropongono la presunzione della “torre di Babele”, cioè di costruire l’unità del mondo prescindendo da Dio, potrebbero risultare totalmente inefficaci e portatori di un’unità incompiuta che rischierebbe di franare su se stessa. Tali sforzi umani, se sono sinceri, sono, in realtà, segnali di ricerca di quell’unità che la Chiesa annuncia da duemila anni, ben sapendo su quale fondamento debba essere costruita per essere solida.
In merito, il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna alcune verità da tenere in attenta considerazione in modo unitario. La prima è che l’unità del genere umano viene dalla creazione: “A motivo della comune origine il genere umano forma un’unità”, citando il magistero del Papa Pio XII e il Concilio Vaticano II (360).
La seconda riguarda la redenzione: “La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano…ecco il primo fine della Chiesa…la Chiesa è “segno e strumento” della piena realizzazione di questa unità che deve ancora compiersi” (775). Gesù ha fondato la Chiesa per farne il segno e la primizia dell’unità del genere umano che ha redento col suo sangue: è questa la pietra da non scartare perché giunga a compimento l’opera della salvezza. La terza verità viene dall’escatologia: l’unità di cui la Chiesa è segno e germe in mistero è quella del Regno di Dio dove “Coloro che saranno uniti a Cristo formeranno la comunità dei redenti […] Essa non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica […] sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (1045).
Il cristiano sa di essere nel mondo ma non del mondo, di essere il “sale della terra” che, come dicono i Padri, serve a mantenere incorrotto il mondo. Si può dire quindi che senza la Chiesa di Cristo, di cui i cristiani sono membra, il mondo e l’uomo “costitutivamente proteso verso l’essere di più” (CV, n. 14), non possono veder realizzato il proprio anelito all’unità. Perché incapaci di auto-trasformarsi.
Si comprende dunque perché “La realizzazione di un’autentica fraternità” (CV, n. 20) è l’urgenza dettata dalla carità nella verità. Se prescindesse da ciò, nessuna autorità mondiale potrebbe operare autenticamente alla realizzazione del bene comune (cf. n. 67).

© Copyright (Agenzia Fides 1/10/2009)
Cattolico_Romano
00venerdì 2 ottobre 2009 07:13
«Caritas in veritate»:  prima del profitto e della produzione viene il dono (che è gratuito)

L'uomo rivelato all'uomo


Il 29 settembre si è svolto a Roma, al Forum delle Associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro, il convegno "Persona, lavoro e sviluppo", sull'enciclica "Caritas in veritate". Pubblichiamo un ampio estratto della relazione dell'arcivescovo-vescovo  di  Trieste,  presidente dell'Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan sulla dottrina sociale della Chiesa.

di Giampaolo Crepaldi

La Caritas in veritate, presenta molti elementi di novità che possono frastornare anche il lettore esperto di dottrina sociale della Chiesa se costui si attiene troppo rigidamente ai temi "classici" - mi si passi l'espressione - del magistero sociale pontificio. La Caritas in veritate va collocata dentro la tradizione come essa espressamente dice, ma sarebbe un peccato se questo comportasse una opacità nel vedere le sue formidabili novità di impostazione. Vorrei farvi qualche esempio in proposito. Da una enciclica sociale sullo sviluppo che si rifà espressamente alla Populorum progressio, ci si potrebbero attendere analisi e riflessioni sui dazi, sulle dinamiche del commercio internazionale, sulle materie prime o sui prezzi dei prodotti agricoli, sulle percentuali di Pil da dirottare negli aiuti allo sviluppo e così via. Si incontra invece un'enciclica che, pur non trascurando questi e altri temi, anche molto concreti, si sofferma a parlare dell'influenza che sullo sviluppo hanno il rispetto della libertà religiosa, la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, l'assolutismo della tecnica, l'atrofizzazione della coscienza. Molti passi riflettono sui nessi profondi tra lo sviluppo e la prospettiva della vita eterna o la consistenza ontologica dell'anima, come per esempio il numero 76. Molti lettori sono rimasti sconcertati da questo tipo di approccio e qualcuno ha affermato che l'enciclica tocca i problemi specifici dello sviluppo senza approfondirli. Rischia così di venire perduta o almeno ridotta la percezione della novità di prospettiva dell'enciclica.

La mia idea è che la grandezza di questa enciclica consista nel chiederci una conversione nel considerare le cose e il loro ordine. Siamo abituati a collocare i temi secondo un ordinamento che non corrisponde alla realtà e che non può essere vocazione ad alcun vero sviluppo.

Per esempio, oggi un politico e un amministratore non sanno bene valutare l'importanza delle religioni per lo sviluppo del proprio o degli altri Paesi e non sanno più discernere tra una religione e un'altra in ordine alla loro capacità di produrre sviluppo. Non si è in grado di valutare le conseguenze in termini di sottosviluppo di religioni non amiche della persona o dell'irreligiosità indifferente e cinica, indotta da un laicismo radicale, presente in tanti Paesi del mondo sviluppato. Ma è proprio vero che tutto ciò non ha nulla a che fare con lo sviluppo? Siamo veramente sicuri che la concorrenza internazionale di un sistema-Paese non sia anche dovuta alla tenuta del "sistema morale di riferimento" (45)? Che sia solo problema di infrastrutture o di cambio con il dollaro?

In economia siamo spesso ancora fermi a pensare che bisogna prima produrre la ricchezza per poi distribuirla. Una scissione tra economia e società dalle conseguenze tragiche. La pretesa di un'economia a-sociale e di una società a-economica che è fonte di innumerevoli sprechi e disfunzioni. Uno schematismo deleterio che aggiunge l'uomo-solidale dopo l'homo oeconomicus e non ci permette di vedere quanto, nel lavoro stesso, ci sia di gratuito e di volontario:  il lavoro ben fatto e curato, il lavoro creativo, il lavoro artigianale che produce cose belle, il lavoro fatto con passione e dedizione personale a cui educare i giovani, il lavoro fatto con sacrificio, il lavoro vero dell'economia reale, il lavoro onesto e coraggioso, le capacità relazionali di lavorare insieme non solo come lavoratori ma come persone, il lavoro volontario che è presente in tutti i lavori, il lavoro solidale diretto ad altre persone.

Pretendiamo la giustizia, ma non coltiviamo la carità, senza la quale non c'è nemmeno giustizia; ci preoccupiamo perché d'estate vengono abbandonati i cani e non ci curiamo delle vite impedite con l'aborto; pretendiamo di sviluppare solidarietà nel lavoro, ma distruggiamo la famiglia che è vera scuola di solidarietà e la contrapponiamo al lavoro anziché integrarla con esso; ci affidiamo alla tecnica per risolvere i problemi ambientali quando sappiamo che sono dovuti proprio all'assolutismo della tecnica; gonfiamo costosi apparati per gli aiuti internazionali e il 90 per cento del loro budget è impiegato per le spese correnti di mantenimento della struttura; vogliamo educare i giovani all'assunzione di responsabilità e mettiamo in mano delle ragazzine di 16 anni la pillola abortiva; cadiamo ancora di frequente nella trappola del Nord cattivo e del Sud buono; diffondiamo nelle scuole la cultura del determinismo evolutivo per il quale saremmo tutti figli della necessità e del caso e poi pretendiamo che i giovani vedano nella natura una vocazione da rispettare; parliamo di integrazione tra le culture poi, però, non sappiamo fare un passo oltre il già fallito multiculturalismo; critichiamo la tecnica ma poi possediamo un telefonino e mezzo ad abitante; riteniamo che la lotta all'aids si faccia con i preservativi, consideriamo la prostituzione un fatto di ordine pubblico da disciplinare in modo adeguato magari in quartieri appositi. A ogni problema interiore ricorriamo all'esperto quando un tempo bastava il confessore. C'è qualcosa che non va. C'è molto che non va. C'è un ordine delle cose da rimettere a posto, una conversione di prospettiva da attuare. L'enciclica è un invito all'uomo affinché "rientri in se stesso" (68).

Si tratta di grossolani errori relativi alla verità, ma ogni errore relativo alla verità rende difficile anche l'esercizio della carità, perché non si può fare il bene dell'altro senza sapere quale sia il suo bene, proprio perché non sappiamo più che cosa è il bene.
Ora chiediamoci che cosa significhi per noi partire dalla verità e dalla carità. Questa è la proposta fondamentale dell'enciclica, ma cosa significa? Secondo me significa comprendere che niente è solo quanto è. E se si considerano le cose solo in quanto dati non si raggiungono risultati di sviluppo in nessun campo. Ogni cosa rivela un senso. Ogni cosa deve essere illuminata dalla carità e dalla verità affinché riusciamo a comprendere che cosa essa sia e che cosa dobbiamo fare. Il motivo è semplice e profondo nello stesso tempo:  il senso non è mai prodotto; è sempre trovato. Ricordiamo un passaggio delle ultime pagine dell'enciclica:  "In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende" (77). Il senso è sempre dono e gratuità. La verità e la carità sono la sintesi di tutte le forme di dono e di gratuità che possiamo esperire, tutte riconducibili, alla fine, alla verità e alla carità.

Come ho scritto nella mia Introduzione alla Caritas in veritate pubblicata dall'editore Cantagalli (Siena, 2009) il cambiamento mentale che essa propone è di non considerare più le persone e il mondo come nostra produzione, ma di vederli nell'ottica della loro vocazione. "Se i beni sono solo beni, se l'economia è solo economia, se stare insieme significa solo essere vicini, se il lavoro è solo produzione e il progresso solo crescita ... se niente "chiama" tutto ciò a "essere di più" e se tutto ciò non chiama noi a "essere di più", le relazioni sociali implodono su se stesse. Se tutto è dovuto al caso o alla necessità, l'uomo rimane sordo; niente nella sua vita gli parla o gli si rivela. Ma allora anche la società sarà solo una somma di individui, non una vera comunità. I motivi per stare vicini possono essere prodotti da noi, ma i motivi per essere fratelli non possono essere prodotti da noi".

Si comprende così anche la radicalità della Caritas in veritate, ossia la sua volontà di mettere in evidenza i temi ultimi e cruciali dello sviluppo. Se la chiave dello sviluppo è aprirsi alla considerazione di un senso non da noi prodotto; se la deriva nichilistica dello sviluppo è inevitabile se continuiamo a pensare che il senso lo produciamo noi, allora comprendiamo perché temi come quello della bioetica o della tecnica, ma soprattutto quello della religione e di Dio, divengano di primo piano per lo sviluppo. Prima dei problemi dei dazi e delle tariffe. Prima del cambio con il dollaro.

La Caritas in veritate ha una grande intuizione:  le ideologie sono state sostituite dall'assolutismo della tecnica e questo produce un totale "disincanto". Il termine è weberiano e significa la perdita definitiva di un senso non prodotto. La definitiva maturità dell'uomo che non crede più nelle favole. La tecnica si occupa della vita, della procreazione, della famiglia, della pace, dello sviluppo, delle relazioni internazionali, degli aiuti allo sviluppo, del lavoro. Gli apparati tecnici contano più di quelli politici. Ci sono scienziati che scientificamente affermano che Dio non esiste; ci sono medici che scientificamente dicono che l'embrione non è cosa umana; ci sono apparati delle Nazioni Unite che impongono in tutto il mondo l'ideologia del gender; ci sono agenzie che pianificano la lotta alla vita; e dopo la crisi economica e le tante proposte di moralizzare la tecnica finanziaria nulla o poco di tutto ciò si vede all'orizzonte. La tecnica ormai si occupa di molte cose. Se ne occupa, ma senza sapere che cosa sono; indifferente alla loro verità e quindi incapace di suscitare alcuna carità.

Che cosa c'entra la religione cristiana con lo sviluppo di ogni singolo uomo e di tutti gli uomini? Se ogni cosa è solo quello che è non c'è bisogno del cristianesimo e Dio stesso diventa superfluo. L'economia è economia, il profitto è profitto, la finanza è finanza, il lavoro è lavoro. Dio è una scelta individuale e privata. Ininfluente sulla vita della società. Ma se niente è solo quello che è, se il senso non è mai prodotto, ma ci interpella dall'essere delle cose, se all'inizio c'è sempre il dono e la gratuità perché non lo abbiamo prodotto noi, allora Dio prende il proprio posto nella storia e nello sviluppo. Dio garantisce che l'origine del senso è trascendente e getta così una luce sullo sviluppo che ci fa capire che cosa esso sia veramente. Ci invita a considerare la verità dello sviluppo, affinché così facendo rispettiamo la razionalità economica, la quale pure partecipa della verità, e nello stesso tempo amiamo veramente (e c'è altro modo di amare se non amare veramente? Non solo "veramente amare", ma anche "amare veramente").
Non tuttavia un Dio qualunque, ma un Dio amico della persona, ossia un Dio che è Verità e Amore. Torna alla fine la pretesa cristiana, che essendo una pretesa di verità e di amore non è una pretesa arrogante, ma di dono e gratuità. La pretesa che il Papa annuncia in quanto Papa, ma che anche la realtà umana annuncia almeno come attesa. Si tratta della pretesa che "il Vangelo è elemento fondamentale per lo sviluppo, perché in esso Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (18).


(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2009)
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