Dante poeta teologo

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Cattolico_Romano
00mercoledì 24 giugno 2009 20:49
Dante poeta teologo

L'umiltà dello storico secondo Cacciaguida



di Davide Luglio
Université Paris-Sorbonne

In una nota del suo saggio Dante e Beatrice, Étienne Gilson confessava di aver sempre vagheggiato una certa "idea" della Divina Commedia:  che la forma "ideale" della teologia non si sia realizzata unicamente nelle opere formalmente teologiche, come in Tommaso d'Aquino, ma anche nella poesia, corrispettivo artistico e letterario di cui Dante ci ha fornito il migliore esempio. Eppure quel che contraddistingue Dante, scrive Gilson, "è di aver scritto un immenso poema la cui materia è costituita di idee, ma che tuttavia non è affatto un poema didattico (...) in esso il bello non consiste nello splendore del vero, come nella Summa theologiae. La verità ne costituisce piuttosto la materia e la sua trasposizione poetica ha per risultato la bellezza. Se non erro, è questa appassionata sensibilità alla bellezza del vero (scientifico, filosofico e teologico) che contraddistingue Dante. E sembra proprio che il suo caso sia unico, almeno nella tradizione letteraria occidentale, in cui il vero prevale sul bello, come deve essere, ovunque, tranne in poesia".

Il punto di vista espresso qui da Gilson ricorda quello del teologo belga Jean Leclercq, autore del celebre L'amour des lettres et le désir de Dieu, che insisteva sull'unità di una teologia fatta non solo di dialettica, ma anche di altre forme o stili di esplorazione dei dogmi della fede cristiana, come la teologia monastica basata sulle lettere e l'interpretazione della letteratura di ispirazione religiosa. È nella linea tracciata da queste considerazioni teologiche che si situa lo studio che un altro autorevole studioso francese ha dedicato a Dante in una sua recente pubblicazione in italiano (François Livi, Dante e la teologia. L'immagine poetica nella "Divina Commedia" come interpretazione del dogma, Roma, Leonardo da Vinci, 2008, pagine 250, euro 20). Facendo in qualche modo propria l'"idea" di Étienne Gilson, François Livi prospetta l'ipotesi di un Dante theologus nel senso forte del termine, il cui poema sarebbe il risultato di un costante confronto ermeneutico con i dogmi della fede cristiana.

La teologia, spiega Antonio Livi nell'introduzione epistemologica del saggio, formula delle ipotesi di interpretazione del dogma. Ma che si tratti di concetti, di norme o di immagini, tutto mira a rendere più comprensibile il mistero del dogma, che per definizione permane un mistero soprannaturale. Tanto inesauribile quanto è inintellegibile il dogma che ne costituisce l'oggetto, la riflessione teologica rappresenta quindi un lavoro ermeneutico che ha per scopo di accostare la nostra esperienza naturale al mistero del dogma e che, nel perseguire questo fine, può scegliere la via della creazione artistica. In questo caso, senza sovrapporsi ai dati della fede, la creazione poetica può, al contrario, divenire historia salutis quando il suo confronto ermeneutico con il dogma si inserisce pienamente nel contesto della rivelazione e ha per fine la contemplazione stessa del mistero della parola rivelata.

In altri termini, se la teologia è intellectus fidei, ciò non toglie che essa sia anche affectus e pulchritudo fidei, che essa sia, come scrive Antonio Livi, "un modo di "vivere" e far "vivere" la fede da parte della cultura di ogni tempo e di ogni luogo, con risultati che talvolta hanno il valore e la funzione di ricchezze di fede per molti secoli e per tanti luoghi diversi - così è infatti per un Agostino e un Tommaso, ma anche, per quanto adesso ci riguarda, un Dante Alighieri". Questi chiarimenti sulla natura della teologia in quanto ipotesi di interpretazione del dogma costituiscono una premessa indispensabile per cogliere la portata dello studio proposto da François Livi. Da tempo è assodato che Dante rivendica per la poesia un valore filosofico che la dottrina scolastica le rifiutava decisamente. È sulla base della convinzione tomistica e più ampiamente scolastica che la poesia sia infima inter omnes doctrinas, che il domenicano Guido Vernani da Rimini, nel 1329, accusa Dante di essere "un poeta-visionario e un sofista chiacchierone che con le sue immagini fraudolente, distoglie il lettore dalla vera salvezza".

La critica scolastica sembra aver influito a lungo, in modo più o meno occulto, sulla ricezione del poema. La diffidenza nei confronti delle immagini utilizzate dai poeti - poeta utitur metaphoris propter repraesentationem (...) sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ricorda san Tommaso nella Summa - sembra infatti all'origine delle letture dualistiche della Divina Commedia che tendono a opporre - come si opporrebbero poesia e filosofia - le parti "poetiche" del poema alle sue trattazioni dottrinali. Al contrario, è proprio la comprensione esatta della dimensione teologica delle immagini poetiche che ci consente di cogliere il senso dell'operazione ideologica compiuta da Dante e destinata, in accordo con la linea perseguita da protoumanisti come Albertino Mussato, a gettare le basi dell'umanesimo rinascimentale. Così, quando Dante, come poi Petrarca, oppone la poesia alla scolastica, lo fa rivendicando per la poesia un ruolo nella conoscenza filosofica - innanzi tutto metafisica e quindi teologica - in perfetto antagonismo con le posizioni della scolastica che limitava l'acquisizione di questa conoscenza al solo sviluppo logico dei concetti.

La prospettiva adottata da François Livi, che sceglie di accostarsi alla Divina Commedia dal punto di vista dell'ermeneutica teologica, chiarisce senza alcun dubbio questo aspetto del dibattito ideologico nel quale si inserisce Dante. L'architettura teologica del poema, il percorso attraverso i tre "regni" escatologici immaginati nella Divina Commedia, scrive l'autore, "non è un gioco letterario a tavolino o un espediente retorico per dare sfogo ai suoi desideri di rivalsa politica. La complessa impalcatura del poema è funzionale alla missione profetica di Dante, al suo messaggio di salvezza individuale e collettiva".

Senza pretendere all'esaustività nel trattare una problematica tanto vasta quanto quella del rapporto tra verità dogmatica e creazione poetica nel poema di Dante, François Livi procede a una serie di "sondaggi" particolarmente significativi. L'analisi del dogma escatologico attraverso le immagini della Divina Commedia apre questo percorso, iniziando col ricordare le premesse del dogma stesso, dalla caduta che ha seguito il peccato originale all'incarnazione del Verbo - che eleva la natura umana alla dignità della natura divina aprendo all'uomo la possibilità di accedere alla beatifica visione - fino alla parusia. In questo capitolo introduttivo, estremamente denso, l'autore mette quindi in evidenza i fondamenti dogmatici dell'architettura dantesca, sottolineando nel contempo l'originalità della sintesi di elementi filosofici, ideologici e giuridici operata dal poeta nell'atto di definire la "topografia morale" dei tre regni dell'aldilà.
 
Al dogma del Purgatorio è dedicato il secondo capitolo, di grande interesse giacché sottolinea l'importanza dell'interpretazione del dogma in vista di una corretta ricostituzione degli elementi che compongono l'architettura dantesca. Come sappiamo, infatti, le sacre Scritture non propongono un insegnamento preciso ed esplicito riguardo alla realtà del Purgatorio, mentre tali riferimenti esistono per quanto riguarda il Paradiso e l'Inferno. Per cominciare, François Livi ricorda che l'Antico e il Nuovo Testamento contengono attestazioni della necessità di un'"espiazione temporanea" e riferimenti a colpe che non implicano una punizione eterna, ma richiedono un tempo di purificazione dopo il giudizio particolare che precede la parusia. Egli passa in seguito all'esame delle numerose testimonianze offerte dalla tradizione attraverso la liturgia, l'epigrafia, la letteratura patristica greca e latina.

Queste presentano "un materiale abbondantissimo che è impossibile ignorare. Numerosi concili dei primi secoli forniscono indicazioni pratiche sulle messe che possono essere celebrate per i defunti. Dall'epoca apostolica in poi, l'efficacia dei suffragi per i defunti è considerata unanimemente (...) come un dogma".
Luogo della purificazione, il Purgatorio offre anche l'occasione di un'analisi del significato del "contrappasso" e della drammatizzazione delle pene subite dalle anime penitenti che, per gli stessi peccati o per peccati simili, differiscono da quelle subite dalle anime condannate all'inferno. Ma, come è noto, nella Divina Commedia l'itinerario purificatorio del pellegrino "è indissociabile da un preciso compito profetico:  il poeta non dovrà inventare, bensì riferire, nei limiti consentiti dalla parola umana, la sua eccezionale esperienza (...) Dante è allora investito di una missione profetica più complessa ed esplicita:  in quanto unico destinatario della visione, deve riferire un messaggio simbolico che denuncia la degenerazione attuale della Chiesa, messaggio interpretato dall'esegesi che Beatrice ne fa al poeta, annunciando nel contempo la volontà divina di ristabilire la giustizia nella società civile e religiosa".
 
L'ultimo capitolo è dedicato ad alcuni percorsi attraverso l'eccezionale ricchezza teologica e poetica del Paradiso. I canti xiv-xx danno luogo a uno studio che prende in considerazione problemi teologici di primaria importanza come la resurrezione dei corpi, la prescienza divina, la giustizia divina e la salvezza dei pagani. A proposito della resurrezione finale, la poesia offre a Dante la possibilità di avanzare ipotesi particolarmente suggestive riguardo allo splendore del corpo glorioso. Quanto al problema della prescientia divina, messo in evidenza dalle predizioni di Cacciaguida, la finzione poetica permette di accogliere come verità compiute delle teorie o dottrine che il poeta fa sue o considera plausibili. L'assenza di una soluzione definitiva rende conto di una realtà teologica che Cacciaguida spiega al suo discendente, vale a dire "l'atteggiamento di umiltà intellettuale e di rispetto con il quale ogni creatura - il suo discendente al pari dei beati - deve accostarsi a realtà che trascendono le possibilità di comprensione dell'intelligenza umana (...) è proprio la proclamazione di questo mistero a determinare la luce soprannaturale che, proiettata sui funesti eventi annunciati da Cacciaguida e sulla sua impietosa analisi dei mali della società, non li rende per questo più "comprensibili", ma conferisce loro un nuovo significato inserendoli in una teologia della storia".




(©L'Osservatore Romano - 25 giugno 2009)
Cattolico_Romano
00mercoledì 24 giugno 2009 20:50
Si avvia alla chiusura il tour mondiale di letture dantesche

Benigni e la nostalgia dell'eterno


di Marco Tibaldi

L'ampio successo di critica e di pubblico registrato dalle letture dantesche realizzate dal comico toscano Roberto Benigni, ora raccolte anche in un saggio (Il mio Dante, Torino, Einaudi, 2008, pagine 145, euro 16), come direbbe Paul Ricoeur "danno a pensare". Come già accaduto in relazione al film La vita è bella, che gli ha valso l'Oscar e un successo planetario, anche in questo caso il principale merito di Benigni è di esser riuscito a divulgare a una quantità enorme di persone temi e messaggi impegnativi e ardui da trattare.



Una delle ragioni di tanto successo è nello stile comunicativo adottato, che si riallaccia, con le opportune personalizzazioni, al filone antico dei giullari, dei norren della tradizione nordica. Per uno strano paradosso antropologico, tipico del fenomeno teatrale, a colui che per definizione e per mestiere "finge" da sempre è riconosciuta una certa parentela con la verità. Anche nel caso in cui questa verità non venga accettata, come ricorda Kierkegaard nel celebre apologo del clown che corre nel villaggio per annunciare l'imminente incendio che sta già consumando il tendone del circo.

La forza e le ambiguità del fenomeno tutto umano del ridere si trovano esemplarmente all'inizio stesso dell'esperienza della fede, come la storia di Abramo e Sara ci ricorda. Ciò che è decisivo è allora, per così dire, la qualità del riso che viene suscitata dal comico. Ci può essere, infatti, un riso irriverente e sarcastico, un riso di sfiducia e incredulità, ma anche un riso che nasce dalla gioia e, cosa ancora più tremenda e sublime, un riso che nasce dalla o nella sofferenza. Benigni sa muoversi con maestria all'interno di questa vasta gamma dei significati del ridere, ma colpisce nel segno quando riesce nell'ultima e più impegnativa impresa:  parlare con il sorriso della sofferenza. Così è stato per La vita è bella e così è stato anche per Dante.

Benigni infatti mette subito in evidenza come il cammino descritto nasca da una profonda sofferenza del poeta, che vuole uscire da una situazione angosciante di peccato:  "Ci sono delle persone che dicono che tutto è brutto senza possibilità di riscatto, e a me non piacciono per niente; ce ne sono delle altre che dicono che tutto è brutto, ma riescono lo stesso a farci vedere la bellezza in mezzo a tanto buio. Sono le mie preferite, e Dante è tra queste, perché nonostante il malessere che lo angosciava amava la vita. La Divina Commedia è un pianeta sconosciuto dove troviamo cose che riguardano noi. E bisogna che andiamo a vedere nel nostro passato, proprio come fa Dante, che rientra nella sua vita". Un cammino, quindi, che prende le mosse dalla propria situazione di inautenticità, dal sentire tutta l'asperità per l'amaro salario del peccato e, per contrario, anche un cammino per recuperare il bene più prezioso:  l'incontro con Dio, Signore e amante della vita.

Ciò che Benigni è riuscito a fare è l'aver reso presente lo spirito del capolavoro dantesco, in cui si trova "praticamente tutto", ovvero tutto ciò che serve realmente:  un cammino di redenzione per uscire dalla morte e incontrare la vita vera.

Sappiamo bene quanto oggi sia difficile parlare, e soprattutto essere ascoltati, su temi impegnativi quanto decisivi come la redenzione, il peccato, la vita eterna. Benigni, forse inconsapevolmente attratto e, per così dire, posseduto dalla tragica bellezza del poema dantesco, l'ha saputo fare, mostrando come la bellezza di Dio, il fascino della vita eterna, la possibilità dell'incontro definitivo con il Creatore della vita, covino, come brace sotto la cenere, anche nel cuore del disincantato uomo dei nostri tempi. Si era detto, infatti, che la secolarizzazione aveva come portato l'eterno nella storia, generando quel senso di accelerazione che è una nota distintiva dei tempi moderni, e cancellando definitivamente la percezione della destinazione ultraterrena. La riscoperta attualità di Dante smentisce questa visione e invita a riproporre con rinnovata insistenza i temi decisivi della fede cristiana.

Il successo della proposta di Benigni, ora confermato anche da una tournée internazionale (che terminerà con le date di Madrid, dal 30 giugno al 2 luglio), risiede in ultimo anche da una certa inflessione cristologica del suo raccontare. L'attore ha ben presente il sostrato biblico della Commedia, come più volte ricorda nel suo saggio. Emblematico è, ad esempio, il richiamo che fa a proposito del celebre episodio del conte Ugolino, uno dei punti sicuramente più drammatici dell'intera opera, in cui assistiamo allo strazio di un padre che deve morire accanto e dopo i propri figli. Ebbene uno di questi, in preda ormai agli spasmi del digiuno, implora il genitore:  "Padre mio, ché non mi aiuti?" al che Benigni commenta:  "E qui, non si resiste, e non solo per lo strazio del figlio più piccino, ma perché le parole di Gaddo sono quelle che Cristo pronunciò sulla croce:  "Padre, perché mi hai abbandonato?". C'è dunque il richiamo alla crocifissione, e nella faccia di Cristo vediamo quella di tutti coloro che soffrono e chiedono un aiuto estremo all'insopportabilità del dolore".

Non è un richiamo di maniera, quanto una feconda intuizione, se pensiamo che ci troviamo ancora nell'inferno dantesco, da cui, come ricordava Hans Urs von Balthasar in un celebre saggio su Dante, manca proprio il tema cristologico del descensus, così presente nella tradizione orientale. Ma la vera intonazione cristologica viene, ancora una volta, da quel sorriso con cui Benigni, sulla scia di Dante, ci sa raccontare tutto questo, quel sorriso che paradossalmente molti artisti antichi e contemporanei hanno posto proprio sulle labbra del Gesù morente in croce, piccolo ma sconvolgente segnale dell'imminente risurrezione.


(©L'Osservatore Romano - 25 giugno 2009)
S_Daniele
00lunedì 25 gennaio 2010 20:22



Dante, Beatrice e il canto v del Paradiso

Il sorriso luminoso della libertà


di Inos Biffi

Un'altra domanda o, come dicevano i medievali, un'altra "questione" occupa la mente di Dante, che si trova ancora nel cielo della Luna e ci invita a soffermarci in un prolungato momento penetrante d'indagine teologica. Questo canto appare subito concettoso e un po' affaticato, ma non è raro incontrare nel cammino verso il Paradiso queste aree di riflessione e di dibattito consoni alla "scuola" che, mentre sciolgono i dubbi e gli interrogativi del poeta, gli permettono di proseguire la salita verso l'Empireo, non senza ricevere, a loro volta, i tocchi della bellezza e del linguaggio lirico.

Come avviene subito nell'"apertura ardente di luce e di amore" (Anna Maria Chiavacci Leonardi), che avvia il canto, Beatrice appare a Dante "fiammeggiare nel caldo d'amore/ di là dal modo che 'n terra si vede" (1-2), così che i suoi occhi ne restano abbagliati. Ma egli non se ne deve meravigliare:  godendo ormai della perfetta visione di Dio, Beatrice è pienamente immersa in quel "bene appreso", che la rende tutta risplendente. Del resto, già nell'intelletto del poeta, Beatrice vede risplendere, in riflesso, quella "eterna luce" che, "vista, sola e sempre amore accende" (9):  una volta veduto Dio, l'affetto per lui non si ritrae e si spegne più; e se, sulla terra, si cede all'attrazione di altri beni, è perché si fraintendono con la Luce divina le luci che sono unicamente una sua impronta:  "e s'altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce" (10-12).

Ed ecco, dopo questo inizio un po' laborioso, ma luminoso, l'interrogativo che assilla il poeta:  è possibile soddisfare a un voto inadempiuto con un'altra opera buona ("altro servigio"), così che l'anima sia messa al riparo da ogni contestazione? Nella sua risposta Dante ci offre "una delle più alte dichiarazioni teologiche proprie della maggior poesia del Paradiso. Qui confluisce la lunga e appassionata storia dell'amore di Dante per la libertà, massimo segno per lui della dignità dell'uomo, in quanto lo fa simile a Dio" (Chiavacci Leonardi).

Secondo le parole lucide e solenni di Beatrice, che sono poi quelle di Dante:  "Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontade / più conformato, e quel ch'e' più apprezza, / fu de la volontà la libertate; / di che le creature intelligenti, / e tutte e sole, furo e son dotate" (19-24). Ora, col voto si sacrifica a Dio "questo tesoro" della libertà - e la definizione è splendida:  la volontà libera è il tesoro dell'uomo. Ma, se è così, il voto è inderogabile:  non è possibile riprendere quel massimo bene che si è offerto:  nessun'altra opera lo potrebbe assolutamente compensare, a meno di ritenere che si possa compiere un'azione meritoria con denaro rubato.

Dante sa bene che la Chiesa usa dispensare dai voti, ma egli intende, al riguardo, dare al lettore la propria spiegazione, diversa da quella comune dei canonisti e più severa; per cui lo invita a "sedere un poco a mensa", così che la possa ben assimilare, e quindi ad aprire la mente e a imprimervi le sue parole, "Ché non fa scïenza/ senza lo ritenere, avere inteso" (41-42).
Nel "sacrificio" del voto occorre distinguere - spiega Dante - quello che si promette e la promessa come tale ("la convenenza"):  questa, che è la "forma" del voto, in quanto offerta della libertà e quindi del supremo bene dell'uomo, non potrà mai essere cancellata o sostituita - "già mai non si cancella / se non servata" (46-47):  e qui risalta tutto il rigore del poeta.

Potrà essere invece trasmutata la materia della promessa; tuttavia, la conversione di questo "carco a la (...) spalla" (55) non potrà avvenire in modo leggero e arbitrario, bensì con il consenso dell'autorità della Chiesa e per il potere delle sue chiavi, a condizione, inoltre, che quanto sostituisce il voto venuto meno sia di maggior valore, e fermo restando che ci sono materie inestimabili, che non si possono permutare, come nel caso dei voti religiosi.

Resta in ogni caso deciso e forte, di fronte al diffuso costume di formulare voti alla leggera, l'ammonimento di Dante che da poeta si fa maestro e quasi profeta:  il voto è un impegno serio, che esige di essere osservato puntualmente e senza commettere ingiustizie, al modo di Iefte e di Agamennone, che immolarono le loro figlie:  "Non prendan li mortali il voto a ciancia;/ siate fedeli e a ciò far non bieci" (64-65).
E aggiunge ancora più solennemente:  "Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:  / non siate come penna ad ogne vento, / e non crediate ch'ogne acqua vi lavi" (73-75) - cioè che basti una qualsiasi promessa per purificarvi.

Ed ecco l'alto richiamo a ciò che veramente importa:  la Scrittura e la guida del Papa, riconosciuta valida e autorevole, quand'anche siano indegni quelli che occupano la sede di Pietro:  "Avete il novo e 'l vecchio Testamento, / e 'l pastor de la Chiesa che vi guida:  / questo vi basti a vostro salvamento" (76-78).
Che se altri, per avidità e interesse, insegnassero diversamente e inducessero a moltiplicare i voti, "uomini siate, - ammonisce Dante - e non pecore matte" (80) a imitazione di quell'agnello che, abbandonandosi ai suoi capricci sconsiderati, "saltando e corneggiando" (Francesco da Buti), stoltamente "lascia il latte/ de la sua madre" (82-83). Il linguaggio del poeta, di là dai toni arroventati, rivela un amore appassionato e un fervido anelito per una Chiesa che, riformatasi, risplenda senza macchie. È l'ecclesiologia ineccepibile di un poeta, che qui si fa teologo.

Il quale, nel suo "cupido ingegno" (89), avrebbe altre questioni da sollevare, ma vengono sospese dallo sguardo ardente di Beatrice rivolto al Sole, dal suo silenzio e dalla trasfigurazione del suo sembiante, inondato da nuovo splendore. In un baleno - "come una freccia che tocca il bersaglio prima che la corda dell'arco abbia finito di vibrare" (Chiavacci Leonardi) - si trovano trasportati nel cielo di Mercurio, acceso di più intensa luce dalla gioia di Beatrice. Ma non solo il pianeta, immutabile, "si cambiò e rise" (97):  anche Dante, soggetto per natura alle mutabili impressioni, divenne più lucente e sorridente.

Ed ecco avvicinarsi a Beatrice e al poeta "più di mille splendori" - è la luminosa definizione dei beati -, persuasi che, rispondendo alle domande di Dante, accresceranno il fervore del loro stesso amore:  il loro corpo era intravisto come "un'ombra piena di letizia", dalla quale "un folgor chiaro (...) uscia" (107-108). Serviva davvero tutta la geniale  creatività del poeta, ormai completamente pervasa di luce, per richiamare così mirabilmente la corporeità dei beati.

Quei beati, che compaiono leggeri nella "sostanza diafana dei cieli" (Chiavacci), sono da Dante immaginati come i pesci che guizzano in una peschiera "tranquilla e pura" (100) e si raccolgono rapidi intorno a quello che ritengono una loro esca. Il poeta arde del desiderio di conoscere la condizione di quei beati; e uno di quegli spiriti, accesi della luce diffusa in tutto il Paradiso, lo invita a porre, senza timore, ogni domanda.

Quel beato si trova dentro lo splendore, che promana dai suoi occhi e dal suo riso, come in un nido. "Io veggio ben sì come tu t'annidi / nel proprio lume" (122-123), esclama Dante, rivolto alla "lumera" (130) divenuta ancora "lucente più assai" (132), e riconoscendo di ignorare chi vi si trovi avvolto.
Quella "figura santa", racchiusasi nella sua "troppa luce", come avviene del sole allo sciogliersi dei vapori che temperavano i suoi aggi, risponderà, però, al poeta nel canto successivo.

Ora, dopo che il poeta ha espresso, in modo risoluto e non senza tratti di originalità, la sua dottrina sui voti, sul valore della libertà umana, su ciò che essenzialmente conta per essere cristiani - ciò che fa della Commedia un libro anche di "teologia" e di Dante uno strenuo "riformatore" della Chiesa - l'ispirazione lirica riprende, ma nella trama del poema non verrà mai meno quella "profezia".


(©L'Osservatore Romano - 25-26 gennaio 2010)
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