Nella concezione apologetica e giuridica dell’ecclesiologia la Chiesa veniva considerata nella
sua realtà visibile e societaria in similitudine con le altre società e realtà civili. La rivelazione e le
affermazioni dei Padri della Chiesa e del magistero in questa prospettiva di fatto diventavano fonti
confermative della Chiesa. La metodologia e l’ermeneutica erano chiaramente deduttive, finalizzate
alla dimostrazione di tesi dogmatiche e di principi ecclesiologici, esclusivi e predeterminati. In
questo senso la Chiesa cattolica romana era la sola ed esclusiva «vera Chiesa di Cristo», in quanto
conservava unica la struttura visibile voluta da Cristo fondatore. Il compito dell’ecclesiologia in
questa prospettiva, prima del Vaticano II, era quello di dimostrare la fedeltà con le intenzioni del Fondatore e la continuità essenziale tra le strutture volute dal Signore prima dell’ascensione e realizzate dagli apostoli dopo la pentecoste, che in qualche modo erano alla base delle forme istituzionali presenti nella Chiesa cattolica romana. È possibile riscontrare questa intenzionalità
ecclesiologica nella stessa enciclica Mystici corporis di Poi XII, promulgata il 29 giugno 1943.
Essa, se da una parte acquisiva le istanze innovatrici della riflessione teologica ed ecclesiologica
della fine dell’ottocento e del primo novecento, gli studi di alcuni teologici del periodo seguente il
concilio Vaticano I sulla natura della Chiesa, corpo di Cristo e sacramento di salvezza, dall’altra
conservava la concezione identitaria ed esclusivista, tipica della teologia cattolico-romana: «Per
Mystici corporis è chiaro che la Chiesa cattolica governata dal papa e dai vescovi è il corpo di
Cristo; e solo chi le appartiene come membro può vivere dello Spirito divino che anima solo essa.
Alla sola Chiesa cattolica viene qui attribuita quella figura visibile che corrisponde a livello
organico al prendere corpo di Gesù Cristo nella sua comunità, ovvero alla sua continua incarnazione
nella storia della chiesa cattolica, della quale aveva parlato nel XIX secolo Johann Adam Möhler. In
tale visuale le altre comunità di fede scivolano a priori nella prospettiva del deficit organico (…). La
Lumen gentium si esprime a tale riguardo in maniera molto più cauta (…) Il testo definitivo vede la
Chiesa romano-cattolica come una realizzazione autentica dell’ “unica Chiesa di Cristo”; non nega
però alle altre comunità ecclesiali cristiane di poter essere in certa misura altrettante legittime
realizzazioni della Chiesa di Cristo di cui parla il Credo. Ed esso riconosce loro, almeno per via di
allusioni, che in esse si trovano “molti elementi di santificazione e di verità”, che sul cammino
verso una maggiore “cattolicità” andrebbero riscoperti anche da parte della Chiesa romanocattolica,
e che dunque spingono anch’essa verso una maggiore “unità cattolica”».
Il papa, Giovanni XXIII, formato all’interno di questa impostazione teologica, da una parte
condivideva la visione apologetica, dall’altra, in ragione della propria sensibilità ed esperienza
pastorale, che lo avevano introdotto alle sorgenti della riflessione biblico-patristica e gli avevano
fatto conoscere i diversi movimenti di riforma del primo novecento, percepiva la necessità e
l’urgenza di un rinnovamento della teologia e della prassi pastorale della Chiesa. La presenza di
questa prospettiva teologica si evince dal suo discorso di apertura, l’11 ottobre 1962, al Concilio: «I
Concili Ecumenici, ogni qual volta si radunano, sono celebrazione solenne della unione di Cristo e
della sua Chiesa, e perciò portano a universale irradiazione di verità, retta direzione di vita
individuale, domestica e sociale; a irrobustimento di spirituali energie, in perenne elevazione verso i beni veraci ed eterni». Queste indicazioni magistrali di Giovanni XXIII hanno avuto il merito di
prevenire una molteplicità di rischi, che si sono attuati nella riflessione teologica ed ecclesiologica
post-conciliare: il rischio dell’ecclesio-centrismo, una visione della riflessione sulla Chiesa senza
Cristo, il rischio del misticismo a-storico, un’adesione a Cristo senza la mediazione storica della
Chiesa; il rischio del cristo-monismo, una teologia e di un’ecclesiologia ideologica, priva del
necessario riferimento alla rivelazione e alla tradizione cristiana e anche lontana dalla vita degli
uomini; infine, il rischio dello sterile dogmatismo, un elenco di verità dogmatiche, di affermazioni
veritative e di condanna, slegate dall’evento conciliare e da ogni riferimento biblico, teologico e
cristo-centrico11. Questi rischi interpretativi sono stati e possono essere preventivamente respinti, se
si tiene presente e si coglie sia la prospettiva pastorale dell’evento e della dottrina conciliare sia le
indicazioni di Giovanni XXIII ed, in seguito, di Paolo VI. L’intenzione indicata da Giovanni
XXIII e l’orizzonte nel quale lo stesso pontefice voleva collocare la riflessione e il dibattito
conciliare e la dottrina sulla Chiesa non hanno trovato un’accoglienza immediata e sostanziale né
una rispondenza effettiva nei documenti preparatori e nei primi dibattiti conciliari. Tuttavia, con il
passare del tempo gli interventi di alcuni Padri, che avevano recepito e condiviso il desiderio
profondo del discorso del papa, di fatto hanno trovato non solo l’appoggio ma anche il consenso
sempre più diffuso della maggioranza dell’assemblea conciliare. Questa evoluzione progressiva si
può constatare anche nelle numerose osservazioni dei Padri nei riguardi del primo schema “De Ecclesia”.
In quest’ottica, allora, dopo la morte di Giovanni XXIII, si comprende l’audacia e del Discorso
di apertura del secondo periodo del concilio Vaticano II tenuto da Paolo VI, il 29 settembre 1963.
Nel suo Discorso il nuovo pontefice non solo riconfermava l’intenzione del predecessore, ma alla
luce dell’esperienza e delle dinamiche del primo periodo del concilio, sottolineava la necessità della
riforma e del rinnovamento della pastorale della Chiesa, ponendo una particolare attenzione al
mistero e alla missione della Chiesa e al contesto culturale e sociale contemporaneo. Senza entrare
nel merito del dibattito della teologia contemporanea sul nucleo centrare del «corpus conciliare», è
possibile verificare come per Paolo VI era irrinunciabile la necessità di approfondire la riflessione
conciliare sul mistero della Chiesa, all’interno del mistero di Cristo e in dialogo con il mondo, per
una nuova evangelizzazione: «Non è da stupirsi se dopo venti secoli di cristianesimo e di grande
sviluppo storico e geografico della Chiesa Cattolica non che delle confessioni religiose che si
appellano al nome di Cristo e si ornano di quello di Chiese il concetto vero, profondo, completo
della Chiesa, quale Cristo fondò e gli apostoli cominciarono a costruire, ancora ha bisogno d’essere
più precisamente enunciato. Mistero è la Chiesa, cioè realtà imbevuta di divina presenza, e perciò
sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni».
Queste parole danno il tono e lo spessore reale delle affermazioni e delle prospettive dei
documenti conciliari sul mistero della Chiesa e sul rapporto della Chiesa con il mondo. I numerosi
interventi dei Padri sia della maggioranza sia della minoranza, lungo i quattro periodi del concilio
Vaticano, sono il quadro di riferimento della costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium,
approvata il 21 novembre 1964, formata da otto capitoli e da 69 numeri e con l’aggiunta della Nota
esplicativa previa sul modo di comprendere il termine «collegio» all’interno del capitolo terzo della
LG sulla costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare l’episcopato .
www.vivailconcilio.it/images/website/documenti/doc0000043.pdf