Hollywood a Roma per una storia cristiana

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S_Daniele
00mercoledì 18 novembre 2009 06:24


Il 18 novembre 1959 il «Ben-Hur. A Tale of the Christ» di William Wyler concludeva il ciclo dei colossal americani ambientati nell'antichità

Hollywood a Roma per una storia cristiana


di Emilio Ranzato

Il Ben-Hur interpretato da Charlton Heston, e tratto dall'omonimo romanzo di Lew Wallace, rappresenta il vero canto del cigno del genere peplum hollywoodiano in formato colossal:  lo Spartacus di Stanley Kubrick, Il re dei re di Nicholas Ray e soprattutto il Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz saranno tutti più o meno funestati da significativi problemi produttivi che ne renderanno almeno in parte squilibrati i risultati, e che frustreranno le potenzialità straordinarie offerte ai loro registi.

La scelta di realizzare il film a Cinecittà, in tal senso, è per molti versi emblematica. Innanzi tutto rappresenta una sorta di esilio forzato di uno studio-system che di fatto non esiste già più, e che pur di tentare un ultimo strenuo recupero del pubblico perduto non rinuncia al grande evento, ma allo stesso tempo tenta in ogni modo di abbatterne i costi.

Tuttavia il significato di girare in Italia non si esaurisce di certo in questo dato di carattere pratico. Perché simbolicamente significa anche consegnare le armi alla cinematografia che per prima ha sferrato un vero attacco all'estetica hollywoodiana con il neorealismo. Inoltre, rappresenta idealmente la chiusura di un cerchio apertosi con i pionieristici film in costume di Enrico Guazzoni e Giovanni Pastrone, e proseguito con i prodotti americani che a quelli si ispiravano:  I dieci comandamenti, Il re dei re, lo stesso Ben-Hur, entro i primi tre decenni del secolo erano già usciti tutti. Quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, non saranno che riproposizioni e variazioni, a volte stanche e inamidate, ma sempre sfarzose fino all'inverosimile pur di contrastare lo spettacolo tanto modesto quanto comodo elargito generosamente dalla televisione.

E se quello del peplum è un genere oggi assai poco rispettato, non è solo perché il più delle volte si prende ingenuamente beffe della Storia con la "s" maiuscola, ma proprio perché più degli altri si porta dietro i segni di un'agonia hollywoodiana spesa nell'estremo tentativo di riempire platee sempre più sguarnite:  colori sgargianti al limite del pacchiano, star adoperate goffamente fuori parte pur di sfruttare il nome di richiamo, e soprattutto l'adozione del formato panoramico, utilissimo per fare posto sullo schermo a migliaia di comparse ma assai poco duttile sul piano espressivo (Fritz Lang dirà che serve solo per girare serpenti e funerali), almeno fino a che l'ipertrofia del cinema moderno non gli darà un senso.

In questo contesto non esaltante, il film uscito negli Stati Uniti con il titolo Ben-Hur. A Tale of the Christ il 18 novembre 1959 - data già di per sé simbolica per il debutto dietro la cinepresa di un critico aggressivo e iconoclasta come Jean-Luc Godard - riesce a essere una felice eccezione. Un risultato che a dispetto dell'asfissia produttiva tipica di un progetto di tali dimensioni, passa in gran parte attraverso la figura del suo regista.

William Wyler infatti è stato innanzi tutto un grandissimo esperto di trasposizioni, tanto d'ascendenza letteraria - La voce nella tempesta, Ombre Malesi, L'ereditiera - quanto teatrale - Piccole volpi, Pietà per i giusti - affrontando senza timori reverenziali anche mostri sacri come Emily Brontë e Henry James, e riuscendo nell'impresa di non far quasi mai sentire il peso dell'originale. Una qualità che ai margini degli anni Sessanta, in tempi di politica degli autori, verrà però poco apprezzata, e che anzi verrà additata come sintomatica della mancanza di uno stile e di una poetica personali. A distanza di tempo, invece, si è intravista giustamente in questa capacità di mimesi di Wyler non la passività del mero esecutore, ma la saggezza del grande direttore d'orchestra, del narratore classico che non vuole far prevalere nessun ingrediente del film a scapito di altri. Inoltre il regista, che già prima di Orson Welles si esercitava con il grande direttore della fotografia Gregg Toland in composizione dell'inquadratura e in profondità di campo, è uno dei pochi veterani che non arriva spiazzato all'avvento del formato panoramico, sfruttato in maniera magistrale già nel western dall'ampio respiro Il grande Paese.

E in Ben-Hur la sua abilità si riconosce in particolare in una delle qualità maggiori del film, ossia l'equilibrio fra l'affresco storico e le vicende personali dei personaggi. Il rapporto di fratellanza gradualmente corrotta dalle ragioni di stato che lega il protagonista al tribuno romano Messala, il momento toccante del suo incontro con la madre e la sorella malate di lebbra, l'amore platonico per la figlia di un servo, lo struggente ritorno nella casa natale dopo gli anni della schiavitù. Tutti episodi dall'atmosfera intimista che si concedono uno spazio inusuale nel contesto di un film di queste proporzioni, ma che allo stesso tempo non tolgono nulla al quadro complessivo, anzi finiscono per arricchirlo in quanto ne sono diretta espressione. Così come nella complessa figura di Messala si riflette il dissidio di tutta la Roma imperiale ai tempi di Cristo, attratta dal nuovo verbo ma timorosa di perdere la propria identità.

Tuttavia Ben-Hur verrà ricordato non di meno per la sua dimensione spettacolare. Per il piglio atletico di Heston impegnato a remare nelle galee, la maestosità delle scene di massa, la battaglia navale. E naturalmente per quella che passerà alla storia come la "corsa delle bighe", pur trattandosi in realtà di quadrighe. Un equivoco che la dice lunga su come la sequenza sia entrata nel patrimonio cinematografico e culturale attraversando anche solo per trasmissione orale generazioni di spettatori.
E proprio questa sequenza - significativamente delegata da Wyler a una seconda unità di tecnici di lusso, fra i quali i nostri Mario Soldati e Sergio Leone - contiene in sé il presagio del cinema che verrà:  con i suoi dieci minuti privi di dialogo e visivamente molto stilizzati, è già cinema anni Sessanta. Nel frattempo, però, Ben-Hur troverà il tempo di vincere undici Oscar, un primato che resiste ancora oggi anche se in condominio, forzato, con un paio di nuovi kolossal. Un'ultima celebrazione che Hollywood concederà a se stessa prima di cedere  il  trono  dell'immaginario  collettivo.



(©L'Osservatore Romano - 18 novembre 2009)
S_Daniele
00mercoledì 18 novembre 2009 06:26



Fu un generale antropologo a scrivere il romanzo


di Giuseppe Fiorentino

Quattro cittadine degli Stati Uniti si chiamano Ben Hur:  si trovano nelle contee di Newton, in Arizona; di Mariposa, in California; di Lee, in Virginia, e di Limestone in Texas. Non è certa l'origine dei toponimi, ma piace pensare che essa sia in qualche modo dovuta all'enorme successo riscosso dall'omonimo romanzo di Lew Wallace (Ben-Hur. A Tale of the Christ). Un'opera rivelatasi nel tempo un vero trionfo planetario, di una portata che ha superato di molto le speranze dello stesso autore.
Tradotto in moltissime lingue, il libro - pubblicato nel 1880 - è stato per anni tra i più venduti del mondo. E ha garantito all'autore una fama paragonabile a quella di certi scrittori alla moda, sicuramente meno accurati di Wallace, ma che possono contare su una macchina pubblicitaria dove nulla viene lasciato al caso nella certezza di raggiungere il massimo risultato in termini di copie vendute.
Il libro di Wallace, invece, ha letteralmente scalato il successo non potendo contare su altro veicolo pubblicitario se non il film di Wyler. Veicolo potentissimo quanto si vuole, ma giunto in soccorso al volume solo nel 1959, vale a dire quasi settanta anni dalla pubblicazione e dopo altre due riduzioni cinematografiche. La fama di Ben-Hur. A Tale of the Christ, è stata conquistata poco a poco attraverso milioni di lettori che hanno tramandato il libro ai propri figli e ai propri nipoti. Ancora oggi, il romanzo è regolarmente in vendita ed è auspicabile che il filo generazionale che ne ha finora accompagnato il successo non si interrompa, nonostante le irruzioni in libreria di vampiri, codici e hacker svedesi dal carattere difficile.
Certo, per il lettore di oggi avvicinarsi all'opera di Wallace - personaggio dalla storia molto particolare che, dopo aver abbandonato la carriera militare divenne tra l'altro governatore del New Mexico e ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia - potrebbe apparire arduo. Alcuni potrebbero infatti giudicarlo troppo verboso e ridondante. Ma quella che a prima vista può apparire una debolezza è in definitiva la vera forza del romanzo. Che ancora oggi  colpisce  per  la  minuziosità con cui l'autore di accosta alla narrazione.
Una dovizia di particolari accompagna il lettore sin dalle prime pagine dedicate all'incontro tra i tre re magi. Si tratta non solo dello sfoggio di un'erudizione certamente presente, ma del desiderio di accompagnare il lettore in un luogo e in un tempo lontani definendone i contorni. Così facendo Wallace non solo detta i canoni del moderno romanzo storico, ma si avvicina sorprendentemente all'antropologia culturale.
Rimane difficile spiegare come mai ciò avvenga in uno scrittore che nel suo passato aveva tra l'altro fatto parte della corte marziale chiamata a giudicare i complici di John Wilkes Booth, assassino del presidente Lincoln. Probabilmente questo atteggiamento è dovuto alla devozione con cui Wallace si accosta alla narrazione. Una devozione che sfocia poi in un profondo interesse e in un grande rispetto per le tradizioni di popoli lontani. E qui risiede l'attualità di Wallace e del suo romanzo. Un libro tanto famoso che laggiù nel West hanno deciso di dedicargli qualche città. Un po' come se in Brianza esistesse un paese chiamato Promessi Sposi.



(©L'Osservatore Romano - 18 novembre 2009)
S_Daniele
00mercoledì 18 novembre 2009 06:56




Il protagonista di cui non si vede il volto

La notorietà immensa del Ben-Hur di William Wyler ha eclissato non solo la qualità, ma l'esistenza stessa degli altri due film che all'epoca del muto erano stati tratti dall'omonimo romanzo ottocentesco.
Per quanto riguarda la versione firmata nel 1907 da un pioniere del grande schermo che risponde al nome di Sidney Olcott, la cosa non sorprende affatto. Difficile infatti immaginare qualcosa di cinematograficamente più arcaico di questo cortometraggio di quindici minuti fatto di una manciata di inquadrature fisse e giustapposte fra loro. L'archeologico filmato rende praticamente conto solo dell'episodio scatenante della tegola caduta sul governatore Valerio Grato e di una corsa delle bighe che si svolge opportunamente fuori campo. Le didascalie colmano alcune enormi lacune del racconto come la schiavitù del principe giudeo, ma mancano personaggi fondamentali come le congiunte di Ben-Hur, nonché tutta la dimensione evangelica della storia, e infatti è assente dai titoli la dicitura A Tale of the Christ presente invece nelle altre versioni. A modo suo, comunque, il film rende l'idea del successo che aveva avuto il romanzo d'origine, uno dei primi best seller della letteratura americana, adattato fra l'altro anche per il teatro in una pièce andata in scena per decenni:  malgrado i limiti produttivi non consentissero ovviamente di realizzarne una degna trasposizione sullo schermo, il cinema dei primitivi nickelodeon ("film a buon mercato") non si tirò indietro pur di accontentare un pubblico che sarebbe sicuramente accorso numeroso.
Ben altro discorso merita la versione del 1925. Realizzata da una Metro Goldwyn Mayer nel pieno delle sue possibilità finanziarie e firmata da un regista già di successo come Fred Niblo, è una produzione sfarzosa che non ha poi molto da invidiare al film del 1959. Anzi, è evidente - per la costruzione delle scene, per la loro successione, ma soprattutto per le medesime deroghe apportate alla fonte letteraria - come abbia senz'altro costituito per quello un modello di riferimento, a partire dalla scelta di non inquadrare mai il volto del Messia. La mancanza dei dialoghi indebolisce ovviamente lo spessore drammaturgico, e in particolare quello che è forse l'aspetto più bello del film di Wyler, ovvero il rapporto fra il principe giudeo e il suo amico d'infanzia Messala. La vecchia versione però può vantare un prologo evangelico più lungo e coraggioso, reso particolarmente suggestivo dall'uso - sporadico in tutto il resto del film - di una forma primordiale di Technicolor, capace di rendere soltanto le tonalità del rosso e del blu, un limite che finisce per conferire una sacralità iconografica difficile da ottenere altrimenti. Altri momenti in cui il film di Niblo supera quello di Wyler sono le parti che riguardano la madre e la sorella di Ben-Hur, in particolare quelle che si svolgono in una valle dei lebbrosi dalle terribili atmosfere dantesche. Le scene di massa, poi, sono meno solenni ma altrettanto impressionanti per numero di comparse, e si permettono anche piccole digressioni in cui emerge maggiormente l'astio fra i romani e il popolo di Giudea.
E se l'ultima cena che riproduce nel dettaglio il Cenacolo di Leonardo è probabilmente una caduta di gusto, il film di Niblo sorprendentemente non si fa cogliere impreparato nei momenti più spettacolari:  la battaglia navale contro i pirati sopperisce con la forza figurativa ai violenti cromatismi della versione più famosa, e la sequenza delle quadrighe è praticamente identica, anche per durata, a quella che diventerà celeberrima, con un uso del montaggio fino ad allora inedito nel cinema americano sul piano della velocità e della precisione.
Le possibilità di un paragone si fermano però inesorabilmente alla scelta dei protagonisti e alle relative interpretazioni:  Ramon Novarro, uno dei tanti emuli di Rodolfo Valentino dell'epoca, ha il phisique du rôle ma è lontano anni luce dall'intensità di Charlton Heston; sempre meglio comunque di un Messala interpretato senza alcuna sfumatura dal dimenticato Francis X. Bushman, che già dalla prima inquadratura fa rimpiangere il perfetto Stephen Boyd. (emilio ranzato)



(©L'Osservatore Romano - 18 novembre 2009)
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