Il Ben-Hur interpretato da Charlton Heston, e tratto dall'omonimo romanzo di Lew Wallace, rappresenta il vero canto del cigno del genere peplum hollywoodiano in formato colossal: lo Spartacus di Stanley Kubrick, Il re dei re di Nicholas Ray e soprattutto il Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz saranno tutti più o meno funestati da significativi problemi produttivi che ne renderanno almeno in parte squilibrati i risultati, e che frustreranno le potenzialità straordinarie offerte ai loro registi.
La scelta di realizzare il film a Cinecittà, in tal senso, è per molti versi emblematica. Innanzi tutto rappresenta una sorta di esilio forzato di uno studio-system che di fatto non esiste già più, e che pur di tentare un ultimo strenuo recupero del pubblico perduto non rinuncia al grande evento, ma allo stesso tempo tenta in ogni modo di abbatterne i costi.
Tuttavia il significato di girare in Italia non si esaurisce di certo in questo dato di carattere pratico. Perché simbolicamente significa anche consegnare le armi alla cinematografia che per prima ha sferrato un vero attacco all'estetica hollywoodiana con il neorealismo. Inoltre, rappresenta idealmente la chiusura di un cerchio apertosi con i pionieristici film in costume di Enrico Guazzoni e Giovanni Pastrone, e proseguito con i prodotti americani che a quelli si ispiravano: I dieci comandamenti, Il re dei re, lo stesso Ben-Hur, entro i primi tre decenni del secolo erano già usciti tutti. Quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, non saranno che riproposizioni e variazioni, a volte stanche e inamidate, ma sempre sfarzose fino all'inverosimile pur di contrastare lo spettacolo tanto modesto quanto comodo elargito generosamente dalla televisione.
E se quello del peplum è un genere oggi assai poco rispettato, non è solo perché il più delle volte si prende ingenuamente beffe della Storia con la "s" maiuscola, ma proprio perché più degli altri si porta dietro i segni di un'agonia hollywoodiana spesa nell'estremo tentativo di riempire platee sempre più sguarnite: colori sgargianti al limite del pacchiano, star adoperate goffamente fuori parte pur di sfruttare il nome di richiamo, e soprattutto l'adozione del formato panoramico, utilissimo per fare posto sullo schermo a migliaia di comparse ma assai poco duttile sul piano espressivo (Fritz Lang dirà che serve solo per girare serpenti e funerali), almeno fino a che l'ipertrofia del cinema moderno non gli darà un senso.
In questo contesto non esaltante, il film uscito negli Stati Uniti con il titolo Ben-Hur. A Tale of the Christ il 18 novembre 1959 - data già di per sé simbolica per il debutto dietro la cinepresa di un critico aggressivo e iconoclasta come Jean-Luc Godard - riesce a essere una felice eccezione. Un risultato che a dispetto dell'asfissia produttiva tipica di un progetto di tali dimensioni, passa in gran parte attraverso la figura del suo regista.
William Wyler infatti è stato innanzi tutto un grandissimo esperto di trasposizioni, tanto d'ascendenza letteraria - La voce nella tempesta, Ombre Malesi, L'ereditiera - quanto teatrale - Piccole volpi, Pietà per i giusti - affrontando senza timori reverenziali anche mostri sacri come Emily Brontë e Henry James, e riuscendo nell'impresa di non far quasi mai sentire il peso dell'originale. Una qualità che ai margini degli anni Sessanta, in tempi di politica degli autori, verrà però poco apprezzata, e che anzi verrà additata come sintomatica della mancanza di uno stile e di una poetica personali. A distanza di tempo, invece, si è intravista giustamente in questa capacità di mimesi di Wyler non la passività del mero esecutore, ma la saggezza del grande direttore d'orchestra, del narratore classico che non vuole far prevalere nessun ingrediente del film a scapito di altri. Inoltre il regista, che già prima di Orson Welles si esercitava con il grande direttore della fotografia Gregg Toland in composizione dell'inquadratura e in profondità di campo, è uno dei pochi veterani che non arriva spiazzato all'avvento del formato panoramico, sfruttato in maniera magistrale già nel western dall'ampio respiro Il grande Paese.
E in Ben-Hur la sua abilità si riconosce in particolare in una delle qualità maggiori del film, ossia l'equilibrio fra l'affresco storico e le vicende personali dei personaggi. Il rapporto di fratellanza gradualmente corrotta dalle ragioni di stato che lega il protagonista al tribuno romano Messala, il momento toccante del suo incontro con la madre e la sorella malate di lebbra, l'amore platonico per la figlia di un servo, lo struggente ritorno nella casa natale dopo gli anni della schiavitù. Tutti episodi dall'atmosfera intimista che si concedono uno spazio inusuale nel contesto di un film di queste proporzioni, ma che allo stesso tempo non tolgono nulla al quadro complessivo, anzi finiscono per arricchirlo in quanto ne sono diretta espressione. Così come nella complessa figura di Messala si riflette il dissidio di tutta la Roma imperiale ai tempi di Cristo, attratta dal nuovo verbo ma timorosa di perdere la propria identità.
Tuttavia Ben-Hur verrà ricordato non di meno per la sua dimensione spettacolare. Per il piglio atletico di Heston impegnato a remare nelle galee, la maestosità delle scene di massa, la battaglia navale. E naturalmente per quella che passerà alla storia come la "corsa delle bighe", pur trattandosi in realtà di quadrighe. Un equivoco che la dice lunga su come la sequenza sia entrata nel patrimonio cinematografico e culturale attraversando anche solo per trasmissione orale generazioni di spettatori.
E proprio questa sequenza - significativamente delegata da Wyler a una seconda unità di tecnici di lusso, fra i quali i nostri Mario Soldati e Sergio Leone - contiene in sé il presagio del cinema che verrà: con i suoi dieci minuti privi di dialogo e visivamente molto stilizzati, è già cinema anni Sessanta. Nel frattempo, però, Ben-Hur troverà il tempo di vincere undici Oscar, un primato che resiste ancora oggi anche se in condominio, forzato, con un paio di nuovi kolossal. Un'ultima celebrazione che Hollywood concederà a se stessa prima di cedere il trono dell'immaginario collettivo.