15 novembre 2009 – I Domenica di Avvento
a cura di Don Raffaello Ciccone
Lettura dal profeta Isaia 13, 4-11
"Punirò il male sulla terra" (versetto 11). Questo testo, che è all'inizio di alcuni capitoli delle
profezie di Isaia, contiene "gli annunci profetici contro le nazioni straniere" e celebra,
annunciandola, la sconfitta e quindi la caduta di Babilonia in una cornice di giudizio universale,
mentre le parole impegnano fortemente la fede del popolo d'Israele ad avere fiducia nel Signore.
Babilonia rappresenta il simbolo della potenza mondiale che si pone contro il Dio d'Israele. Essa è
una realtà disumana, ma, per questo, è giunta al termine della sua potenza manifesta – dice il
profeta - e, finalmente, il "giorno del Signore" è entrato prepotentemente nella storia del mondo,
per liberare il suo popolo e salvarlo.
I primi versetti descrivono gli antefatti della battaglia che Dio ingaggia e, quindi, i preparativi. Vi
si descrivono, immaginandoli, l'angoscia e il terrore delle vittime, prima ancora che l'esercito del
Signore si sia messo in marcia (vv.6-8). Nei racconti di guerra si usava spesso "l'invito al
lamento". Rappresenta una forma di consapevolezza che finalmente rivela il riconoscimento della
potenza di Dio sulla terra.
Inizia così come una narrazione del manifestarsi del Signore e le conseguenze catastrofiche che
egli porta (vv. 9-16).
I "consacrati" (v. 3) indicano i soldati delle tribù di Israele che combattono la battaglia di Jhwh.
Essi, prima di partecipare alla guerra, si sottoponevano a determinati riti e dovevano osservare
norme specifiche, compreso l’astinenza sessuale (Deuteronomio 23,10-15). Il Signore, con il suo
popolo purificato, combatte per liberare il mondo dalla tirannia e dall'oppressione.
Nella rilettura dell'avvenimento si ricorre ad una dimensione cosmica, che coinvolge le stelle, il
sole e la luna, per descrivere, attraverso immagini catastrofiche, la rovina che realmente cade su
questa città, orgogliosa della sua potenza e tiranna sui popoli deportati. Dio veglia, lotta contro il
male, fa "cessare la superbia dei protervi e umilia l’orgoglio dei tiranni".
Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 5, 1-11a
Paolo, dal capitolo 4, sviluppa per la comunità di Efeso una particolare e circostanziata riflessione
sulla vita cristiana, avendo come elemento fondamentale di orientamento "un solo Signore, una
sola fede, un solo battesimo… un solo Dio e padre di tutti" (vv5-6), e quindi l'unità del corpo di
Cristo (vv.1-16). Viene quindi logico il confronto tra il comportamento precedente alla
conversione dei cristiani di Efeso e la nuova vita secondo Gesù (vv.17-32).
A questo punto (ed è il testo che stiamo leggendo ora) Paolo esorta ad uno stile di vita cristiana e
l'orizzonte si apre oltre i confini della comunità. Dona indicazioni sull’agire individuale,
sottolineando particolarmente l'aspetto della corporeità ("fornicazione, impurità, cupidigia") e
ricorda che la carità si realizza in un comportamento che rifiuta ogni malvagità e che non si lascia
ingannare.
Il modello fondamentale è Dio stesso. Perciò i credenti sono invitati ad imitare Dio perché vivano
nell'amore. L'imitazione, infatti, raggiunge il suo scopo quando il comportamento si misura sullo
stile di colui che imitiamo. E la concretezza di questa vita nuova accetta di misurarsi sull'esempio
di Cristo che, con la sua esistenza, offre tutti gli orizzonti di un amore pieno: "Ci ha amato e ha
offerto se stesso per noi” (5, 1-2). E per il sacrificio della vita di Gesù, come immagine, la
nostalgia di Paolo richiama un testo prezioso dell'Esodo che parla di "sacrificio di soave odore”,
gradito a Dio (29,18). Solo che ora non si tratta di animali uccisi, ma dell'offerta della vita propria,
fatta da Gesù con amore.
Paolo raccomanda che i fatti elencati come vizi e male non siano neppure nominati e, quindi, non
vengano neppure essere presi in considerazione perché semplicemente si rifugge da essi. Piuttosto
ci devono essere parole di ringraziamento, di fraternità e di rispetto.
Passando poi dai vizi alle persone (v 5): "Nessun fornicatore, depravato o avaro (l’avaro equivale
all’idolatra)" non possono far parte della comunità cristiana.
Paolo, così, incoraggia a vivere la scelta di Gesù in contrapposizione alle tenebre: "Eravate
tenebre, ora siete luce del Signore". “Siete luce”, dice, e non solo "siete nella luce". Perciò, per
logica conseguenza, "camminate come figli della luce".
Generati dalla luce, immagine di Dio luce, figli di Dio e figli della luce, noi viviamo il tempo
dell'incontro, della familiarità intima di Dio. Il frutto della luce è, allora, ogni cosa buona, giusta,
vera. "Cercate ciò che è gradito a Dio", impegnati a cercare, a realizzare, a prendere e a rifiutare.
Con la luce cresce il frutto (v.9) e con le tenebre sorgono le opere infruttuose (v.11).
La luce richiama la trasparenza e la visibilità, le tenebre richiamano vergogna e fatti innominabili,
avvenuti nel segreto, probabilmente conosciuti dai destinatari di questa pagina di cui, però, si
vuole mantenere il segreto.
Tutto il testo porta il richiamo del battesimo (v.14) ed è pasquale il riferimento alla luce, al
comportamento nella luce e ai frutti della luce. La luce di Cristo è filtrata nel nostro tessuto
quotidiano. Non si tratta tanto di comportarsi secondo valori, comandi, etiche particolari, ma
secondo lo stile del Signore Gesù, nel confronto con Lui nel cui legame, la grazia, la garanzia e la
speranza ci sono state offerte nel Battesimo.
Lettura del Vangelo secondo Luca 21, 5-28
Luca racconta la profezia di Gesù sulla distruzione del tempio (vv 5-7) e i discepoli vorrebbero
sapere quando questi fatti avverranno (v 7). Si trovano nel tempio di Gerusalemme, ristrutturato e
abbellito da Erode il Grande, che iniziò poderosi lavori nel 19 a.C. Possono già vedere lo
splendore e la magnificenza di una ricostruzione che sarebbe stata completata attorno all'anno 66
d.C. e, circa 4 anni dopo, distrutta dai Romani, dopo una terribile strage, nell'anno 70 d.C. La
domanda, ovviamente, non è solo curiosità. Molti ascoltavano in quel momento, e Gesù non
parlava certo nel nascondimento mentre diceva a voce alta un destino drammatico della realtà più
preziosa della religiosità ebraica. Parlando in modo così aperto e drammatico del tempio, si mette
sulla scia di altri profeti (Michea 3, 12, Geremia 7, 1-15; 26,1-19; Ezechiele 8-11) che lo avevano
preceduto e che avevano drammaticamente parlato della distruzione di Gerusalemme e del tempio,
per l'infedeltà di Israele all'alleanza.
Ma qui si inseriscono piani diversi. Dalla distruzione del tempio si passa alla fine del mondo.
E su quest’ultima rilettura Luca sa che l'interrogativo coinvolge non solo i discepoli, ma anche le
prime comunità cristiane e i credenti che sarebbero venuti nel tempo. Luca distingue i tempi (vv 8-
9), pone una serie di segni premonitori (vv 10-11): "Non sarà subito la fine". Prima di tutto alcuni
falsi profeti fanno circolare dei messaggi apocalittici per giocare sull'angoscia delle persone e
attrarli a sé.
Risuona ripetutamente il termine "prima": "Devono accadere prima queste cose, ma non sarà la
fine" (v 9); "prima di tutto questo, metteranno le mani su voi" (v 12). I credenti devono convivere
con questi fenomeni dolorosi e devono vederli non come segni d’imminente fine, ma come
situazioni storiche che accompagnano la Chiesa.
Anche la persecuzione (vv 12-19) va considerata come avvenimento più o meno normale; anzi vi
si deve vedere un'occasione per rendere testimonianza (v 13). Affiora qui "l'ottimismo di Luca”.
La persecuzione diventa situazione missionaria, spunto di novità e annuncio della fede: carcere di
Pietro, martirio di Stefano. Il Signore renderà efficaci le parole (vv 14), non permetterà
l'annientamento della comunità; solo alcuni saranno messi a morte (v 16), mentre la maggior parte
ne uscirà incolume (v 18). Il credente deve armarsi di perseveranza (v 19) che è pazienza attiva,
sopportazione delle prove, resistenza di fronte allo scoraggiamento e alla rinuncia.
In tutto il testo viene garantita la protezione del Signore, non tanto allo scopo di allontanare le
prove quanto per assicurare la fedeltà e la salvezza.
Il racconto della distruzione di Gerusalemme è il secondo elemento che caratterizza la storia, dopo
l'attentato alla fedeltà dei discepoli e la persecuzione. Le immagini descrivono la conclusione della
storia, anche se qui commentano il crollo della città santa e, tuttavia, inducono a spostare lo
sguardo più avanti. Si parla anche di misteriosi "tempi dei pagani” che debbono compiersi. Si
intravvedono così tre tappe della storia della salvezza: l'antico patto che conduce a Gesù, la nuova
alleanza e la conclusione della storia. Siamo nel tempo della testimonianza, dei martiri e della
Chiesa, iniziata con gli Atti degli Apostoli. Si può anche intravvedere l'accenno ad una salvezza di
Israele, per arrivare così, tutti, all'adorazione dell'unico Dio (Rom 11,25).
Le catastrofi possono precedere, ma non saranno la fine. E ai cristiani viene svelata la gloria di
Gesù perché non siano travolti dalla paura e, quindi, dalla morte. Ci viene infatti offerta la
garanzia di una salvezza del mondo, almeno in senso globale: incontreremo la risurrezione di Gesù
e la restaurazione di tutto il creato nella sua bellezza, come luogo per un popolo di salvati: "nuovi
cieli e nuova terra" (Ap 21,1). Il futuro e la fine sono essenzialmente un incontro e una definitiva
capacità di rapporti nuovi con il Signore. "Quando cominceranno ad accadere queste cose,
risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (v.28).
In conclusione:
1. Il Signore viene per salvare (I lettura).
2. Il popolo del Signore vive la salvezza, ogni giorno, concretamente, nella vita
quotidiana, come luce per sé e per gli altri (II lettura).
3. La storia è il tempo dell’attesa e della fedeltà dei discepoli che rendono testimonianza
del Signore e quindi del tempo nuovo che il Signore ci darà in dono (Vangelo).
Da Caritas in veritate n. 6b (Benedetto XVI 29 giugno 2009) Lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. “La giustizia
anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio”
all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso
« donare » all'altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro.
Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla carità » intrinseca ad essa”.