I peccati personali alla radice dei mali sociali

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Cattolico_Romano
00sabato 11 aprile 2009 13:57
  La predica di padre Cantalamessa durante la celebrazione della Passione del Signore

I peccati personali
alla radice dei mali sociali


"Fino alla morte, e alla morte di croce":  è il tema dell'omelia del predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino padre Raniero Cantalamessa, durante la celebrazione della Passione del Signore presieduta dal Papa nel pomeriggio del Venerdì santo, nella basilica di San Pietro. Ne pubblichiamo ampi stralci.

Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis:  "Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte. E alla morte di croce". Nel bimillenario della nascita dell'apostolo Paolo, riascoltiamo alcune sue fiammeggianti parole sul mistero della morte di  Cristo che stiamo celebrando. Nessuno meglio  di  lui  può aiutarci a  comprenderne  il significato e la portata.

Agli occhi di Paolo la croce assume una dimensione cosmica. Su di essa Cristo ha abbattuto il muro di separazione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, distruggendo l'inimicizia (cfr. Efesini, 2, 14-16). Da tutto ciò nasce il sentimento della croce, non più come castigo, rimprovero o argomento di afflizione, ma gloria e vanto del cristiano, cioè come una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l'uomo si innalza nella fede. Paolo ha piantato la croce al centro della Chiesa come l'albero maestro al centro della nave; ne ha fatto il fondamento e il baricentro di tutto.

Lo scopo dell'anno paolino non è tanto quello di conoscere meglio il pensiero dell'Apostolo; è piuttosto, come ha ricordato in più occasioni il Santo Padre, quello di imparare da Paolo come rispondere alle sfide attuali della fede. Una di queste sfide, forse la più aperta mai conosciuta fino ad oggi, si è tradotta in uno slogan pubblicitario scritto sui mezzi di trasporto pubblico di Londra e di altre città europee:  There's probably no God. Now stop worrying and enjoy your life, "Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita".
 
L'elemento di maggior presa di questo slogan non è la premessa "Dio non esiste", ma la conclusione:  "Goditi la vita!". Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Paolo ci aiuta a dare una risposta a questa sfida.
Perché "era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria"? (Luca, 24, 26).

Paolo dà una risposta "forte" a quella domanda. La necessità non è di ordine naturale, ma soprannaturale. Nei paesi di antica fede cristiana si associa quasi sempre l'idea di sofferenza e di croce a quella di sacrificio e di espiazione:  la sofferenza, si pensa, è necessaria per espiare il peccato e placare la giustizia di Dio. È questo che ha provocato, in epoca moderna, il rigetto di ogni idea di sacrificio offerto a Dio e, per finire, l'idea stessa di Dio.
 
Non si può negare che talvolta noi cristiani abbiamo prestato il fianco a questa accusa. Ma si tratta di un equivoco che una migliore conoscenza del pensiero di san Paolo ha ormai definitivamente chiarito. Egli scrive che Dio ha prestabilito Cristo "a servire come strumento di espiazione" (Romani, 3, 25), ma tale espiazione non opera su Dio per placarlo, ma sul peccato per eliminarlo.
Il fatto è che Paolo prende sul serio il peccato, non lo banalizza. Il peccato è, per lui, la causa principale dell'infelicità degli uomini, cioè il rifiuto di Dio, ed è la causa ultima anche dei mali sociali che affliggono l'umanità.
 
Si fanno analisi a non finire della crisi economica in atto nel mondo e delle sue cause, ma chi osa mettere la scure alla radice e parlare di peccato? L'elite finanziaria ed economica mondiale era diventata una locomotiva impazzita che avanzava a corsa sfrenata, senza darsi pensiero del resto del treno rimasto fermo a distanza sui binari. Stavamo andando tutti "contromano".

L'Apostolo definisce l'avarizia insaziabile una "idolatria" (Colossesi, 3, 5) e addita nella sfrenata cupidigia di denaro "la radice di tutti i mali" (1 Timoteo, 6, 10). Possiamo dargli torto? Perché tante famiglie ridotte al lastrico, masse di operai che rimangono senza lavoro, se non per la sete insaziabile di profitto da parte di alcuni? E perché, nel terremoto degli Abruzzi di questi giorni, sono crollati tanti palazzi costruiti di recente? Cosa aveva indotto a mettere sabbia di mare al posto del cemento?

Con la sua morte, Cristo però non ha soltanto denunciato e vinto il peccato; ha anche dato un senso nuovo alla sofferenza, anche a quella che non dipende dal peccato di nessuno, come, appunto, il dolore di tante vittime del terremoto che ha sconvolto la vicina regione dell'Abruzzo. Ne ha fatto una via alla risurrezione e alla vita. Il senso nuovo dato da Cristo alla sofferenza non si manifesta tanto nella sua morte, quanto nel superamento della morte, cioè nella risurrezione. "È morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione" (Romani, 4, 25):  i due eventi sono inseparabili nel pensiero di Paolo e della Chiesa.

È un'esperienza umana universale:  in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un'onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. Cristo, con la sua passione e morte, ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli "in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce" (Ebrei, 12, 2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l'ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. "Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Romani, 6, 9). E non lo avrà neppure su di noi.

Cristo non è venuto dunque ad aumentare la sofferenza umana o a predicare la rassegnazione ad essa; è venuto a darle un senso e ad annunciarne la fine e il superamento. Quello slogan sui bus di Londra e di altre città viene letto anche da genitori che hanno un figlio malato, da persone sole, o rimaste senza lavoro, da esuli fuggiti dagli orrori della guerra, da persone che hanno subito gravi ingiustizie nella vita... Io cerco di immaginare la loro reazione nel leggere le parole:  "Probabilmente Dio non c'è:  goditi dunque la vita!". E con che?

La sofferenza resta certo un mistero per tutti, specialmente la sofferenza degli innocenti, ma senza la fede in Dio essa diventa immensamente più assurda. Le si toglie anche l'ultima speranza di riscatto. L'ateismo è un lusso che si possono concedere solo i privilegiati della vita, quelli che hanno avuto tutto, compresa la possibilità di darsi agli studi e alla ricerca.

Non è la sola incongruenza di quella trovata pubblicitaria. "Dio probabilmente non esiste":  dunque, potrebbe anche esistere, non si può escludere del tutto che esista. Ma, caro fratello non credente, se Dio non esiste, io non ho perso niente; se invece esiste, tu hai perso tutto! Dovremmo quasi ringraziare chi ha promosso quella campagna pubblicitaria; essa ha servito alla causa di Dio più che tanti nostri argomenti apologetici. Ha mostrato la povertà delle sue ragioni e ha contribuito a scuotere tante coscienze addormentate.

Dio però ha un metro di giudizio diverso dal nostro e se vede la buona fede, o una ignoranza incolpevole, salva anche chi in vita si è affannato a combatterlo. Ci dobbiamo preparare a delle sorprese, a questo riguardo, noi credenti. "Quante pecore ci sono fuori dell'ovile, esclama Agostino, e quanti lupi dentro!":  "Quam multae oves foris, quam multi lupi intus!".
Dio è capace di fare dei suoi negatori più accaniti, i suoi apostoli più appassionati. Paolo ne è la dimostrazione. La croce di Cristo è motivo di speranza per tutti e l'anno paolino un'occasione di grazia anche per chi non crede ed è in ricerca.



(©L'Osservatore Romano - 11 aprile 2009)
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