di Giuseppe Ignesti
Settanta anni fa nacque a Roma il Magistero Maria Santissima Assunta, dal quale poi con il tempo ebbe origine l'attuale Libera Università Maria Santissima Assunta, nota ormai coll'acronimo Lumsa. A quel risultato si era giunti quasi in modo provvidenziale. Da un lato, infatti, la Santa Sede in quel torno di anni si era posta con lungimiranza, ma anche con viva preoccupazione, il problema della promozione di un rinnovamento culturale della presenza cattolica nella scuola italiana; dall'altro, all'interno della Chiesa italiana aveva preso corpo una particolare vocazione per l'educazione delle nuove generazioni da parte di una nuova congregazione religiosa, nata nel ceppo della famiglia domenicana, da un ordine cioè che da secoli aveva offerto alla Chiesa risposte sempre attente e idonee al rinnovamento della cultura e degli studi cattolici. In primo luogo, a favorire la nascita e della nuova congregazione religiosa e della prima radice della nuova università, misteriosamente e felicemente intrecciate, fu certamente la fiducia e la simpatia mostrate da alcune personalità sensibili ai problemi della formazione culturale dei giovani, personalità poste ai vertici della Chiesa e all'interno della stessa curia romana, quali gli stessi Pontefici Pio XI e Pio XII; i padri domenicani, soprattutto Fanfani, Cormier, Cordovani, e i maestri generali Gillet e Theissling; i monsignori Giuseppe Pizzardo, poi cardinale e cofondatore assieme alla Tincani della nuova istituzione universitaria, e Giovanni Battista Montini, poi Papa Paolo VI. Fu, per così dire, una vera e propria duplice nascita sub umbra Petri.
Quanto alla novella congregazione religiosa, subito definita delle Missionarie della scuola, va precisato che, secondo l'iniziale, originale progetto della madre Tincani, le religiose avrebbero dovuto insegnare nelle scuole statali, senza vestire un abito religioso particolare, ma indossando un abito qualunque, semplice se non povero, che fosse solo idoneo alla loro professione di docenti. Questo tipo di presenza nella scuola, per meglio avvicinare gli altri insegnanti e soprattutto la gioventù studiosa, avrebbe assunto piuttosto la figura del lievito nella pasta secondo la parabola evangelica: più che dall'abito o da altre forme esteriori, le Missionarie della scuola, come le definì efficacemente Pio XI, si sarebbero distinte e rese evidenti agli occhi del mondo dal loro comportamento effettivo, un comportamento esemplare di vita evangelica coerentemente vissuta. Questa avrebbe certamente reso difficile la loro vita in convento, costringendole a una vita di singole, pienamente libere e autonome anche nella vita extrascolastica, senza quella costante guida che una vita comunitaria normalmente favorisce e comporta. Una vita improntata a un forte richiamo alla responsabilità personale e dunque particolarmente idonea a quel compito di evangelizzazione in un ambiente, quale quello della cultura e dell'insegnamento, che molto richiede al costante sviluppo della personalità individuale.
L'idea fu quella di una forma di vita religiosa totalmente nuova, adatta a favorire l'evangelizzazione degli ambienti della cultura e della scuola fortemente secolarizzati e spesso dominati da forti pregiudizi anticlericali; l'obiettivo era ed è soprattutto quello di formare culturalmente le giovani generazioni nel pieno rispetto della loro libertà intellettuale, sì da consentire la loro apertura ad accogliere un approfondimento della loro vita spirituale e religiosa. Tale scelta aveva certamente il rischio di corrispondere a un piccolo numero di vocazioni, ma aveva il grande vantaggio di saldare la scelta per una completa vita religiosa senza separarsi dal mondo, anzi con una forma di apostolato di piena immersione nel mondo.
La giovane congregazione, una volta approvata, ebbe subito una rapida diffusione, favorita dalla già preesistente rete delle terziarie domenicane, tra le quali molte già svolgevano il loro apostolato come insegnanti nelle scuole statali e per le quali quella semplice e geniale nuova forma di vita religiosa veniva incontro a una vocazione interiore già sentita e spontaneamente praticata. Si ebbe perciò attorno alla madre Tincani una rete di competenze nel campo dell'educazione che la Chiesa subito apprezzò per l'alto significato spirituale, culturale e professionale. Fu così naturale e spontaneo che dal cardinale Giuseppe Pizzardo, responsabile del dicastero degli studi, venissero affidati alla madre Tincani delicati incarichi conoscitivi di indagine, di sorveglianza e di studio, sullo stato dell'istruzione svolta in Italia dagli istituti religiosi, al fine di verificare la preparazione degli insegnanti e l'impostazione della didattica, soprattutto nell'ottica di corrispondere al riconoscimento giuridico sancito già dalla legge e confermato dagli accordi del Laterano. Il quadro complessivo dello stato effettivo delle scuole cattoliche italiane dovette evidenziare delle obiettive carenze se alla fine degli anni Trenta maturò nell'animo del cardinale Pizzardo il disegno, prontamente condiviso dalla madre Tincani, di dover provvedere alla migliore preparazione delle religiose cattoliche dedite all'insegnamento. L'idea fu quella della fondazione a Roma di un ateneo cattolico, il secondo dopo quello di Milano, con il fine specifico di formare insegnanti cattoliche tra le religiose dei vari ordini e delle diverse congregazioni che operavano nelle scuole della penisola.
Si trattava in particolare di poter favorire la formazione didattica delle insegnanti nelle scuole cattoliche dell'Italia centro-meridionale, che con difficoltà avrebbero dovuto seguire i corsi che a tale scopo già si tenevano a Milano a opera dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. La madre Tincani e le sue consorelle erano dunque chiamate a collaborare alla fondazione di un istituto pareggiato universitario di magistero, che ebbe subito il riconoscimento da parte del Governo italiano e diede inizio alle sue attività già nell'autunno del 1939. Rispetto al carisma della giovane congregazione domenicana, che come si è detto consisteva nella presenza discreta e solitaria delle religiose nella scuola statale come lievito nella farina, quello della fondazione di un istituto universitario pubblicamente e chiaramente cattolico rappresentava un'eccezione, in qualche misura un vero e proprio sacrificio, un servizio reso alla pressante richiesta della Chiesa per un impegno di apostolato al quale professionalmente le Missionarie della scuola erano personalmente e con competenza altamente preparate. Un servizio, dunque, reso con sacrificio della propria particolare forma di una vocazione, del proprio carisma.
Ne diede pubblica testimonianza il Papa Paolo VI, ricevendo le Missionarie della scuola il 1° settembre del 1976, appena tre mesi dopo la morte della madre Tincani. E fu un discorso, quello del Papa, che in primo luogo confermava la stima che fin dall'inizio della loro esperienza aveva sempre nutrito verso di loro per aver scelto e perseguito "la linea di un apostolato modernamente concepito e attuato", un apostolato che incontrava in lui, nel suo animo di pastore, piena "rispondenza alla vostra vocazione"; ma che in secondo luogo, non tralasciava di affrontare i problemi nuovi che i tempi ponevano e le risposte nuove che a essi era necessario offrire.
Così Papa Montini non solo sottolineava l'urgenza di un'azione di apostolato cattolico, moderno e intelligente nel mondo della scuola - attraversato da turbamenti e cambiamenti profondi negli animi dei giovani allievi e degli insegnanti, mentre erano in atto forti movimenti di contestazione delle concezioni tradizionali della scuola, della cultura e della stessa vita - ma invitava le missionarie a impegnarsi con coraggio in tale ambito tanto delicato, anche se tale impegno, per le forme nuove richieste rispetto a quelle disegnate e attuate nel passato, sarebbe parso distaccarsi troppo dalla linea di apostolato originariamente concepita. Con estrema franchezza il Papa così si rivolgeva alle missionarie, in qualche modo rispondendo ad alcuni dubbi che in alcune di loro erano evidentemente sorti, circa le forme nuove richieste alla loro azione apostolica nel campo dell'educazione delle nuove generazioni proprio sul contrasto tra l'aspetto fondamentale della loro vocazione originaria, quello della loro presenza discreta e disseminata nelle scuole statali, e l'impegno sempre più gravoso della responsabilità di gestire un ateneo dichiaratamente cattolico e presente in modo visibile e separato rispetto alla realtà universitaria italiana: "Non può, dunque, considerarsi la vostra opera semplice continuazione di quanto fu fatto in passato e non è infedeltà il continuare la via quasi allontanandosi dal punto di partenza. No. (...) Ma deve, piuttosto, acquistare ulteriore e netto sviluppo in ragione delle stesse difficoltà, e tradursi, all'occorrenza, in iniziative originali e geniali, ispirate ai canoni della pedagogia cristiana e, soprattutto, ai contenuti della dottrina evangelica".
Si trattava di un invito ad avere fiducia ad affrontare le difficoltà di quella nuova, difficile stagione, fidando, oltre che nella parola, nell'esempio; soprattutto nella certezza che "le nuove generazioni non sono insensibili a questa sollecitudine". Proprio la definizione di missionarie bene corrispondeva - secondo il Papa - a questa nuova condizione di apostolato tra i giovani: non poteva infatti non significare di "trovarsi in condizioni che sembrano impossibili, dove sembra quasi assurdo andare a predicare, dove non c'è nessuna preparazione, proprio nessuna voglia di ascoltare". Questa era proprio una vera condizione missionaria, fondata sull'annuncio e sulla testimonianza della Buona Novella da parte di insegnanti chiamate a essere "liberatrici di anime", cioè chiamate a offrire alle anime "la possibilità di formarsi, di arricchirsi, di esplicare i doni e i talenti che il Signore ha messo in ciascuna di esse".
Tale compito, affermava il Papa, non necessita di una forma diretta di apostolato, in quanto può essere anche efficacemente svolto facendo "trasparire una verità superiore e un destino superiore" attraverso il semplice insegnamento delle diverse scienze umane. "Avete da insegnare - egli disse - oltre alle varie materie che sono affidate alla vostra competenza, la scienza della vita: perché si vive, come si vive, dove dobbiamo mettere le speranze e i punti orientatori della nostra esistenza. E questo lo potete fare anche tacendo: basta professare bene ciò che siete".
Nato come magistero, l'istituto cercò fin da subito di trasformarsi in libera università, anche se la prospettiva che spingeva a chiedere tale ampliamento dell'originale iniziativa limitata alla formazione di insegnanti di magistero era quella di una offerta riservata sempre e soltanto a religiose, con la finalità piuttosto evidente di poter meglio rispondere alla necessità di preparare all'insegnamento di una più ampia scelta tra le materie impartite nelle scuole italiane. Prima, timida ma significativa modifica all'ordinamento didattico, sarà quella introdotta a partire dall'anno accademico 1967-68, di consentire l'ammissione ai corsi, fino ad allora riservata alle religiose, anche ad allieve laiche: un primo passo che avrebbe di lì a poco favorito quello successivo e più generale, l'allargamento anche ai giovani allievi.
Solo nel 1989 - grazie all'allora direttore Giorgio Petrocchi che inserì la trasformazione dell'istituto in libera università all'interno del piano quinquennale di sviluppo delle università italiane del 1986-1990 - fu possibile procedere alla nascita dell'attuale Lumsa. Sulla scia di tale scelta si pose quindi la gestione dell'ateneo nel successivo ventennio, soprattutto sotto la guida dell'attuale rettore, Giuseppe Dalla Torre.