Il Card. Bertone sulla “Caritas in veritate” e il nuovo umanesimo

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S_Daniele
00martedì 24 novembre 2009 19:05

Il Card. Bertone sulla “Caritas in veritate” e il nuovo umanesimo


Inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010 dell’Università Europea di Roma


ROMA, martedì, 24 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lectio magistralis svolta questo martedì dal Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone sul tema “Verso un nuovo umanesimo” in occasione dell'inaugurazione dell’anno accademico 2009-2010 dell’Università Europea di Roma.


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Carità – Verità – Giustizia

La Caritas in veritate, nella ricchezza dei suoi contenuti quale documento magisteriale e pastorale, propositivo e interpretativo della complessità economica e sociale del III millennio, riporta l'uomo al centro di un nuovo umanesimo, i cui valori sono la Carità e la Verità. Non v’è dubbio che proprio questi concetti suscitino oggi sospetto – soprattutto il termine verità – o siano oggetto di fraintendimento – e ciò vale soprattutto per il termine “amore”. Per questo è importante chiarire di quale verità e di quale amore parli la nuova enciclica. Il Santo Padre ci fa comprendere che queste due realtà fondamentali non sono estrinseche all’uomo o addirittura imposte a lui in nome di una qualsivoglia visione ideologica, ma hanno un profondo radicamento nella persona stessa. Infatti, “amore e verità – afferma il Santo Padre - sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo” (n. 1), di quell’uomo che, secondo la Sacra Scrittura, è appunto creato “ad immagine e somiglianza” del suo Creatore, cioè del “Dio biblico, che è insieme «Agápe» e «Lógos»: Carità e Verità, Amore e Parola” (n. 3).

Carità e Verità in questo senso si coniugano e si interfacciano specularmene a fondamento della dottrina sociale della Chiesa.

Se la Carità, infatti, è il principio delle micro e delle macro relazioni - dalla famiglia ai rapporti sociali, economici e politici - la Verità permette agli uomini di extrapolare le opinioni e le sensazioni individuali e di portarsi al di sopra - e oltre - delle determinazioni culturali e storiche, fino "a valutazioni del valore e della sostanza delle cose". In tal senso, l'uomo, come persona i cui comportamenti non sono ispirati dal soggettivismo finalizzato all'egoismo attraverso un calcolo edonistico, ma dal solidarismo fondato sul bene comune, è il trait-d'union tra un consolidato umanesimo - che trova origine nella dottrina del tomismo e prassi economica nel capitalismo mercantile - ed il suo rinnovamento imposto dal processo di globalizzazione e dall'attuale crisi finanziaria.

Il bene comune, scrive Benedetto XVI, "è esigenza di giustizia e di carità"; è impegnarsi nel "prendersi cura, da una parte, e avvalersi dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale". Perciò, nell'età della globalizzazione, "il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere la dimensione dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, per renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio" (cfr n. 7).

Significativo, in questo senso il capitolo della Caritas in veritate dedicato alla collaborazione della famiglia umana, dove viene messo in evidenza che “lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia” per cui “un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”. E ancora: “Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace” (nn. 53-54).

Primo umanesimo e sua connessione con le strutture economiche

È nel XIV secolo, e con maggiore forza e rinnovato vigore nel XV secolo, che un vasto e impetuoso moto culturale europeo riscopre l'uomo riportandolo al centro del mondo, vale a dire al centro di tutti gli interessi morali e spirituali. Si va, in questo modo, aprendo la via all'età moderna: all'umanesimo prima, al rinascimento poi. L'uomo, dunque, è posto al centro del mondo.

Non è superfluo ricordare che il mondo è, in quel passaggio epocale, coeso e connesso: gli affari si estendono dall'Inghilterra alle oasi del Sahara, dal Portogallo alla Cina. Si tratta del maggiore impero economico mai conosciuto fino ad allora.

La riscoperta dell'uomo va dunque correttamente collocata sullo sfondo dell'impetuoso slancio che la vita economica alto-medioevale assume fin dall'XI secolo. Si tratta di uno slancio che rappresenta uno dei punti di svolta nella storia della civiltà europea; la maggiore rivoluzione, dopo quella neolitica e prima di quella industriale, di cui l'Europa sia stata teatro.

A propagare i benefici effetti della ripresa demografica e tecnologica sono la più ampia circolazione della moneta e dei titoli di credito, il commercio, specie marittimo, che entra anche esso in un periodo di rinascita, e il ruolo delle città, in particolare di due centri posti uno a meridione, l'altro a settentrione dell'Europa: Venezia, da una parte, Bruges, dall'altra, senza dimenticare Genova.

Propagandosi all'interno del Continente, il movimento venuto dal Nord incontra quello proveniente dal Sud. Il contatto, come è noto, avviene nella pianura della Champagne, dove hanno luogo le celebri fiere di Troyes, di Lagny, di Provins e di Bar-sur-Aube, che fino alla fine del XIII secolo svolgono la moderna funzione di borsa e di clearing house. Lettere di cambio, prestiti, vendite a rate: la finanza è già all'opera.

Non a caso, il commercio – vale a dire il capitalismo mercantile – occupa un posto centrale nel pensiero di Nicolas d'Orèsme (1320-1382), Vescovo di Lisieux e autore di un celebre trattato sulla moneta e la sua corretta gestione da parte del principe. Orèsme è l'autorevole testimone di un mondo nuovo e in via di espansione, in cui i mercati – e la moneta – vanno affermandosi.

Fu la rivoluzione commerciale lo sfondo che permise all'Europa cristiana di sviluppare quell'umanesimo che pose l'uomo al centro del mondo.

Carismi cristiani ed economia di mercato

Nel contesto della storia dell’umanità non possiamo tralasciare di menzionare il fatto che essa è costellata di esperienze civili ed economiche origi­nate da correnti e carismi spirituali. L'Euro­pa, per esempio, non sarebbe come oggi la conosciamo, anche sotto il profilo sociale ed economico, senza il movimento benedetti­no o quello francescano, da cui hanno avuto origine innovazioni fondamentali anche per quella che sarebbe poi diventata l'economia di mercato. Le «reduciones» dei gesuiti in Sud America restano ancora oggi un esempio luminoso di civiltà. I carismi sociali di tanti fondatori di ordini religiosi tra il XVIII e il XIX secolo, che hanno dato vita ad ospedali, scuole, opere caritative, hanno segnato la na­scita e lo sviluppo del moderno stato socia­le (welfare state). Tutte esperienze a movente ideale e spirituale, certamente, ma che hanno arricchito e in certi casi determinato lo svi­luppo economico e sociale dei nostri paesi.

Ai fini della presente relazione, conviene prendere le mosse dalla fine dell'XI secolo, quando l'ordine cistercense si consolida e si diffonde in Europa. Figura chiave di questo periodo è Bernardo da Chiaravalle, al quale si deve la proliferazione delle abbazie bene­dettine. A partire da Digione, e poi nel resto dell'Europa, il rapido sviluppo delle abba­zie fa sorgere ben presto problemi di natura squisitamente economica di cui Bernardo percepisce fin da subito la novità.

Uno di questi ha a che fare con i vin­coli che è opportuno porre all'agire econo­mico dell'abbazia - e dunque dell'abate - af­finché possa essere scongiurato il rischio di un'accumulazione improduttiva di terreni e ricchezze. Il pericolo di quella che molto in seguito sarà chiamata «manomorta» già vie­ne intravisto da Bernardo. Un secondo pro­blema riguarda l'organizzazione interna del lavoro nell'abbazia: è preferibile l'autarchia, con il che ciascuna abbazia deve tendere ad essere autosittica, provvedendo da sè mede­sima a tutto ciò di cui ha bisogno, oppure la specializzazione? In questo secondo caso, ciascuna abbazia deve occuparsi di determi­nate lavorazioni soltanto e poi, per il tramite dello scambio, entrare in possesso dei beni prodotti dalle altre abbazie. Un terzo pro­blema, infine, in parte conseguenza di quel­lo precedente, è quello del tipo di rapporto che avrebbe dovuto instaurarsi tra abbazia madre e abbazie «affiliate»: rapporti di coo­perazione oppure di competizione? Per dir­la con il linguaggio economico moderno, i rapporti tra le abbazie devono essere quelli vigenti tra le imprese di un gruppo oppure tra reti di imprese?

È nella Carta Caritatis del 1098, vera e propria continuazione e aggiornamento della precedente Regula Sancti Benedicti, che troviamo un primo abbozzo di soluzione ai problemi sopra indicati. Due sono i principi che la Carta Caritatis enuncia in modo netto e chiaro. Per un verso, si afferma che non è lecito «costruire la propria abbondanza ricavandola dall'impoverimento altrui». Questo significa che quello economico ha da essere un gioco a somma positiva, dal quale cioè tutte le parti in causa devono trarre giova­mento, anche se in proporzioni non neces­sariamente eguali. L'implicazione notevole della concezione per la quale l'agire econo­mico non può limitarsi ad un gioco a somma nulla - nel quale ciò che una parte ottiene eguaglia quello che l'altra parte perde - è che l'organizzazione del processo produttivo ha da essere tale da generare un sovrappiù: solo così, infatti, tutti coloro che prendono parte al processo possono trarne vantaggio. Per l'altro verso, la Carta sancisce la sostituzione del termine elemosina con il ter­mine «beneficentia», «fare il bene». Quali le implicazioni di ordine pratico di tale sostitu­zione? In primo luogo, che nella beneficen­za il bisogno di chi chiede aiuto deve essere valutato con intelligenza; quanto a dire che il benefattore deve sforzarsi di comprendere le ragioni per le quali il povero è tale. In secondo luogo, che la beneficenza non deve incentivare la pigrizia nel bi­sognoso; non deve cioè inibire la possibilità di uscita dalla situazione di bisogno – quella che oggi viene chiamata «la trappola della povertà». Non accade così nell'elemosina, dove l'identità del portatore di bisogni è spesso sconosciuta al benefattore.

È veramente sorprendente la straor­dinaria vicinanza di questi due principi con­tenuti nella Carta con un pensiero assai più antico, quello di Aristotele, quando, nell'Eti­ca Nicomachea, scrive: «Nel dare bisogna pro­porsi il bene e dare ragionevolmente. Si deve sapere a chi si deve dare; quale ammontare è conveniente e qual è il momento appropria­to. In tal modo si fa, nel più alto grado pos­sibile, un servizio vero all'altro» (IV, I).

Del pari, è importante ricordare come il pensiero e l'opera dei cistercensi confluiranno pochi secoli dopo, a mo' di affluenti, nel grande fiume della tradizione francescana, vera e propria prima scuola di pensiero economico, dalla quale verranno le idee per realizzare gli strumenti finanziari tipici di una moder­na economia di mercato: la carta di credito; la contabilità d'impresa (si pensi al france­scano Luca Pacioli, che nel 1494 sistematiz­zerà in modo definitivo la partita doppia); le lettere di cambio; il foro dei mercanti; la borsa; e soprattutto i Monti di Pietà.

Come è noto, i Monti di Pietà quasi tutti fondati da personaggi come Bernardi­no da Feltre e ispirati dalle Prediche Volgari (1427) di San Bernardino da Siena, costituiro­no il modello dal quale trasse origine la ban­ca moderna. Giova richiamare alla memoria l'idea fondativa del Monte di Pietà: il credito va concesso al povero perché questi possa es­sere aiutato ad uscire dalla sua condizione e a chi ha progetti da realizzare, cioè a chi ha il talento dell'imprenditorialità, perché possa generare valore aggiunto sociale - come oggi si tende a dire. Sono questi i criteri ispiratori dell'attività finanziaria, e di quella bancaria in particolare, al momento della sua nascita: non si combatte efficacemente l'usura - vera e propria piaga sociale dell'epoca - senza un'adeguata e ben funzionante struttura fi­nanziaria; né si può assicurare sostenibilità allo sviluppo senza quest'ultima (cfr S. Zamagni, L’etica nell’attività finanziaria, discorso alla Fondazione Gabriele Berionne, dicembre 2006; T. Bertone, L’etica del bene comune nella dottrina sociale della Chiesa, LEV 2007).

Queste ed altre esperienze ci insegnano che è nel tempo lungo della storia che l'uomo è chiamato a svolgere la sua missione terrena con dignità e libertà. Non sembra un caso, volgendo nuovamente lo sguardo e il pensiero alle origini umanistiche della moderna civiltà europea, che proprio nel Quattrocento, nella Firenze dei grandi banchieri e dei ricchi mercanti, l'umanista Giovanni Pico della Mirandola scrivesse una Oratio de hominis dignitate, nella quale Dio parla ad Adamo, e dunque all'uomo: «Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine [...] Nell'uomo nascente il Padre ripose semi di ogni specie e germi di ogni vita. E, secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti».

Secondo umanesimo e sua connessione con le strutture economiche

Oggi siamo di fronte a un passaggio epocale radicale, un nuovo punto di svolta della civiltà; e non si tratta più solo dell'Europa, quanto dell'intera famiglia umana. Globalizzazione, liberalizzazione, finanziarizzazione, nuove tecnologie, migrazioni globali, disuguaglianze sociali, conflitti identitari, rischi ambientali sono solo alcuni dei processi che segnano l'ingresso della civiltà nella rete della complessità.

È possibile, dunque, in questo contesto, un nuovo umanesimo? Riteniamo di sì, perchè la crisi finanziaria rende più urgente tale domanda, anche se la risposta sarà più articolata, e per taluni aspetti più ardua.

Si è giunti alla crisi finanziaria, oltre che per la persistenza di gravi squilibri strutturali nell'economia mondiale perché si sono trascurate le dimensioni etiche della finanza: è stata, in termini diversi, dimenticata la sua vera natura, quella di essere strumento nobile e positivo, che indirizza l'impiego delle risorse risparmiate lì dove esse favoriscono l'economia reale, il benessere, lo sviluppo di tutti gli uomini.

Vediamone brevemente le cause remote, attraverso i fattori di crisi più eclatanti.

Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell’ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, diversi paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari, esponendo così l’economia reale ai capricci della finanza e generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese, derivanti dalle borse e dai fondi di private equity, si sono ripercosse in più direzioni: sui dirigenti indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli a comprare sempre di più, pur in assenza di potere d’acquisto; sulle imprese dell’economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l’azionista. E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti si sia ripercossa sull’intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale.

Un altro fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica (cfr. T. Bertone, Discorso al Senato della Repubblica Italiana, 28 luglio 2009).

Lo strumento si è, pertanto, trasformato in un fine. Non è certo un fenomeno nuovo. Già in Aristotele si trova una spiegazione di questo processo. Ecco il suo ragionamento: la ricchezza - sostiene - è parte di una "vita buona", cioè di una vita conforme alla verità, mentre diventa più difficile, se non impossibile, raggiungere l'obiettivo di una "vita buona" quando si affoga nell'indigenza. Può trattarsi di "vita buona" per l'individuo, e allora si chiama "etica"; di "vita buona" per lo Stato, e allora si chiama "politica".

Ciò premesso, Aristotele descrive il rovesciamento di mezzi e di fini. All'inizio ci si adopera per essere ricchi, per realizzare una convivenza civile, in cui la sofferenza, come penuria dei mezzi per la sussistenza, non incida oltre i limiti che per Aristotele sono "naturali". In sintesi, ci si adopera per realizzare la "vita ricca di beni materiali" al fine di raggiungere la "vita buona". Quest'ultima non ha un significato "sentimentale", ma va intesa come agire che si adegua all'ordinamento del mondo, che il pensiero filosofico ha svelato.

Poi si rovescia tutto. Si comincia a essere ricchi per essere ancora più ricchi e inizia a delinearsi la figura dell'incremento indefinito del profitto. È la logica distruttiva dell'illimitato, di ciò che non ha limite, di ciò che non ha senso.

Non a caso, i guasti, anche quelli morali, della attuale crisi finanziaria discendono proprio dall'insostenibilità di quei comportamenti che distruggono gli equilibri su cui si reggono la tenuta della società e le sue possibilità di sviluppo. Tale insostenibilità non è il risultato di una patologia del sistema. È, invece, il frutto di una esasperazione della sua logica: la logica del capitalismo è l'accumulazione, la quale per natura è illimitata. Si dovrebbe dire, più propriamente, sterminata. Ed è la logica della sterminatezza che sta alla base dei disastri finanziari.

Si può opporre a questa logica dissennata dell'illimitato l'etica dei limiti? Si può circoscrivere la presunta "creatività" delle scommesse finanziarie? Si possono rallentare i movimenti di capitale speculativi? Si possono reintrodurre politiche che proporzionino lavoro e produttività? Si possono introdurre misure di moralità nella sfrenata corsa delle rendite manageriali?

Sono domande, queste, che segnalano l'urgenza, più che di una via d'uscita (exit strategy) di una moral reentry: il ritorno della morale. Che significa, anzitutto, responsabilità della persona, prima che dei Governi, verso gli altri e la loro dignità.

Lo stesso ragionamento, quello, cioè, del rovesciamento di mezzi e fini, può essere fatto valere per il dibattito sulla opportunità, che può essere condivisibile, di introdurre nuove regole per l'attività finanziaria; un dibattito spesso condotto senza interrogarsi sul comportamento di regolatori e controllori. Regole e controlli, infatti, non sono un fine in sé, di cui è sufficiente assicurare la mera esistenza. Sono strumenti nelle mani degli uomini. E gli strumenti, come ha ricordato Benedetto XVI a proposito del "mercato" nella Caritas in veritate, possono essere buoni, oppure cattivi: ma è la responsabilità dell'uomo che può indirizzare tali strumenti verso la giustizia.

Verso un nuovo umanesimo

Dall’enciclica Caritas in veritate vediamo emergere l’esigenza dell’uomo alleato del­l'altro uomo, della sua sor­te, della sua storia. Alleato con l'uomo e la terra, dentro i suoi medesimi orizzonti, dentro un umanesimo chiamato a sfidare il suo futuro.

Se la globalizzazione è la ricomposizione dei sistemi economici attraverso l'affermazione e la diffusione della teoria e della prassi del mercato, che ha mutato l'assetto geo-economico mondiale attraverso i processi di interrelazione tra individui, società, istituzioni e Stati, è necessario che gli Stati stessi intervengano dove maggiori si stanno dimostrando le distorsioni del mercato nell'emarginare aree geografiche periferiche, classi sociali più deboli ed economie meno competitive, nell'ambito di un rinnovato pensare dell'economia.

Questo significa andare oltre, o meglio, ampliare con nuovi paradigmi la teoria del mercato e la teoria tradizionale dell'impresa nell'economia globalizzata, che deve essere sempre più rivolta all'etica e meno al profitto. Si tratta, in altri termini, di adeguare l'evidenza empirica della globalizzazione a nuove regole, fatte dall'uomo per l'uomo, per i suoi valori, per il miglioramento, morale e materiale, dell'intera comunità.

La Caritas in veritate non tralascia di segnalare che: “In questi ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese [imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit)]. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali” (n. 46).

Ripetiamo la domanda: è dunque possibile oggi un nuovo umanesimo, che riporti l'uomo, la sua dignità e la sua responsabilità al centro?

Giuseppe Anzani, magistrato, membro della Commissione Giustizia e Pace della CEI, scrisse su Avvenire nel 1998, due anni prima della fine del secondo millennio, questa analisi piena di speranza: “Fissiamo pure gli occhi sul­l'orizzonte umano. Sull'uma­nesimo di questo secolo che si chiude. Proviamo pure ad in­tenderlo come una sorta di fe­de nell'uomo, nei «magnifici destini» can­tati ai suoi albori, nell'entu­siasmo per le rivoluzioni pro­messe. Esploriamo, a ritroso, i suoi trionfi, e le sue sconfit­te. L'uomo padrone della ter­ra, dell'atomo, degli spazi co­smici della scintilla della vita; divenuto capace, come abbiamo appreso in concreto, di mandare in pezzi la terra, di marchiare il cielo con i presidii delle guerre stellari, di rivoluzionare i villaggi umani massificando, con ideologie «liberatrici» di raffinata schiavitù. Guardiamolo d'infilata, questo secolo dell'estrema modernità, con i suoi olocausti e le sue ecatombi. Guardiamo alla scienza e all'evanescenza: all'impennata tecnologica e allo smarrimento confessato del pensiero. Alle intuizioni di giu­stizia [vedi Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo] e alle contraddizioni che accostano lussi e miserie, eccedenze e disperazioni; pensiamo ai soprassalti del pensiero ecologico, dentro le desertificazioni e defo­restazioni. O infine, in una parola, pensiamo alla devastazione normalizzata dell'ambiente umano, materiale e spirituale: al­lo scarto tragico tra i propositi e i risultati.

Un umanesimo sconfitto? Il Papa dice di no [si riferiva a Giovanni Paolo II, ma in perfetta continuità ciò vale per Benedetto XVI], il Papa guarda oltre, e ci incoraggia. E’ forse un inguaribile ottimista? Chissà perché è crollato il muro di Berlino. Chissà perché la speranza pianta i suoi steli negli interstizi della storia. L'ottimismo è una parola povera, la speranza è una virtù teologale…” (da Avvenire, giovedì 19 novembre 1998).

Per concludere vorrei leggere un brano attribuito a Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, che si inserisce bene nel nostro discorso: “Come la Chiesa al tempo della civiltà pagana, ellenico-romana, respinse, sì, quanto vi era di idolatrico e di inumano, ma conservò, purificò, assimilò i tesori della cultura e dell'arte classica; come la Chiesa al tempo del feudalesimo si oppose, sì, a quanto di barbaro e di violento vi era in quella espressione storica delle nuove genti, ma accolse, corresse, nobilitò le forze dell'uomo medioevale; come la Chiesa, al tempo del rinascimento, frenò l'ebrezza dell'umanesimo pagano risorgente e fece sue, portandole a vertici incomparabili, le virtù artistiche del tempo; così la Chiesa ancora denuncerà il materialismo di ogni specie, proprio nella nostra età, ma non maledirà la gigantesca e meravigliosa civiltà della scienza, dell'industria, della tecnica, della vita internazionalizzata della nostra epoca, sibbene bene cercherà di "assumerla", cioè di darle, alla base, principi forti e buoni che ancora non ha, al vertice di aprirle orizzonti di verità spirituali, di preghiera e di redenzione, che solo ella può veramente dare.

La Chiesa cercherà di compiere oggi ciò che da secoli compie: di dare pace e fratellanza agli uomini facendoli in Cristo figli di Dio. Cercherà come sempre di dare al mondo un'anima cristiana”.

S_Daniele
00sabato 28 novembre 2009 07:03
L’ultima Enciclica sociale


ROMA, giovedì, 26 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'editoriale di Claudio Gentili, Direttore della Rivista di studi e ricerche sulla dottrina sociale della Chiesa, “La Società”, sul tema "L'ultima Enciclica sociale di Benedetto XVI" (n 6-2009 www.fondazionetoniolo.it/lasocieta). 

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Il 29 giugno 2009 Benedetto XVI ha firmato la sua terza Enciclica. Dopo 18 anni dalla Centesimus annus finalmente abbiamo una nuova Enciclica sociale. Questo numero de “La Società” è interamente dedicato alla Caritas in Veritate, con saggi monografici e interventi di approfondimento. Si tratta di una Enciclica sociale che si pone nella grande tradizione aperta dalla Rerum novarum di Leone XIII (1981) che si era occupata della questione operaia, della Quadragesimo anno di Pio XI (1931) che rifletteva sulla grande crisi finanziaria del ’29, della Mater et magistra di Giovanni XXIII (1961) che reagiva alla guerra fredda e al conflitto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest, della Populorum progressio di Paolo VI (1967) che affrontava il grande tema del Terzo mondo e della giustizia sociale planetaria, della Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991) che interrogava di fronte al crollo del muro di Berlino del 1989.

Per comprendere la novità della Rerum Novarum ci sono voluti dieci anni. Altrettanti ce ne vorranno per comprendere le novità di questa enciclica. Molti dei commenti che abbiamo letto e ascoltato sembravano formulati da chi questa enciclica l’aveva scorsa senza leggerla. Invitiamo i lettori alla fatica delle lettura di questo testo magisteriale, alla meditazione, alla preghiera, alla riflessione comunitaria e dell’approfondimento. A leggere con attenzione il testo vi si trovano diversi linguaggi e diverse “stratificazioni”.

Vi è un primo strato del testo che riguarda l’aggiornamento dei temi della Dottrina sociale. Questo strato è profondamente debitore al lavoro di sistematizzazione e aggiornamento che ha trovato espressione compiuta nel Compendio della Dottrina Sociale.

Vi è un secondo strato che riguarda la rilettura della Populorum Progressio e ne sottolinea l’acutezza e la straordinaria profondità, al di fuori delle lenti deformanti dell’ideologia terzomondista, nella logica della “ermeneutica della continuità” che papa Ratzinger ha applicato anche al Concilio. Vi è un terzo strato, profondamente ratzingeriano, che riguarda il rapporto carità-verità e che ha un suo spazio e una sua autonomia concettuale. Vi è poi lo strato più profondo, lo strato contemplativo e spirituale, che è connotato da profondo realismo agostiniano. Papa Benedetto parla con semplicità di Dio e fonda teologicamente e trinitariamente tutta la ricerca della Dottrina sociale: senza Dio non sappiamo né chi siamo né dove andiamo.. Noi amiamo Cristo e per questo amiamo i poveri, non sostituiamo i poveri a Cristo.

Tutti questi strati trovano approfondimenti con toni e sfumature diverse nei diversi saggi a partire da quello fondativi di Mons. Mario Toso, nuovo Segretario della Pontificia Commissione Giustizia e Pace. Il tema di ogni Enciclica sociale è il posto di Dio nel mondo. Con la Caritas in veritate di Benedetto XVI, la Dottrina sociale della Chiesa fa un passo avanti nel difficile cammino della storia. L’Enciclica risponde ad una tentazione del nostro tempo. Poiché i cristiani sono simpatici quando fanno volontariato e si occupano dei poveri e risultano antipatici quando parlano di famiglia naturale, divorzio, aborto, eutanasia, cellule staminali, clonazione, allora – potremmo essere tentai di concludere “è meglio accontentarsi di fare la carità senza parlare della verità”. E’ la tentazione di una sorta di “moratoria sulla verità” nel tempo del relativismo, facendo del Cristianesimo una filantropia. È una tentazione che alberga anche in molti cosiddetti “cattolici adulti” che mettono la sordina alle idee di fondo della Dottrina sociale per non affrontare temi eticamente sensibili e non trovarsi in dissenso col pensiero scientista dominante. Senza la forza della carità (intesa non come assistenza ma come amore) e la luce della verità cristiane l'uomo non è capace di tenersi insieme, perde i propri pezzi, si decompone.

C’è di più. Ed è il rapporto giustizia – carità. La giustizia è importantissima. A ognuno deve essere dato il suo. Ma – dicevano i romani – “summum jus summa iniuria”. Quando cerchiamo di raggiungere il massimo della giustizia rischiamo di essere iniqui. La storia è lì a dimostrarlo. Invece la carità eccede la giustizia anche se la ritiene indispensabile. Diceva il Toniolo “chi più può, più deve; chi meno può, più riceve”. Il pregio della Caritas in veritate sta nel superamento (già avviato con la Evangelium vitae di Giovanni Paolo II) della separazione dei temi della vita e della famiglia da quelli della giustizia sociale e della pace, e nella chiara affermazione che oggi “la questione sociale è questione antropologica”. Ci sono alcune “parole chiave” che sono rinvenibili nei sei capitoli in cui si divide l’Enciclica. Sono: sviluppo, dono, fraternità, diritti e doveri, cooperazione, globalizzazione. Ce n’è per tutti. Si confuta la teoria (apprezzata anche in alcune associazioni cattoliche) della “decrescita”. Si chiede a chi fa impresa di mettere l’uomo e il dono al centro dell’economia.

Si invitano i sindacati a occuparsi anche dei giovani e dei disoccupati. Si confuta l’animalismo che pretende di rinunciare al primato dell’uomo sugli altri esseri viventi. Si criticano gli sprechi delle grandi organizzazioni internazionali. Si propone la nascita di un organismo internazionale che si occupi dell’immigrazione in chiave globale. Si guarda con simpatia e senza residui anticapitalistici al libero mercato come istituzione della libertà ma se ne criticano le deviazioni che nascono dalla rinuncia alla conciliazione tra etica e economia di cui la crisi finanziaria è un evidente conseguenza. Si parla dell’economia del dono (nel capitolo III su cui tanto si è discusso), del no profit, del commercio equo e solidale, dell’educazione, della finanza che deve rispettare le regole, del bene comune, della crisi economica, di una società che ha dimenticato il senso del dovere e scambia i desideri per diritti.

Si denuncia l'ideologia della tecnica come un nuovo assolutismo (in particolare nel capitolo VI dell’Enciclica). La Caritas in veritate si presenta come un bilancio politico e sociale della modernità e dei danni al vero sviluppo provocati dalla incapacità di cogliere ciò che non sia prodotto da noi. Senza Dio l'economia è solo economia, la natura è solo un deposito di materiale, la famiglia solo un contratto, la vita solo una produzione di laboratorio, l'amore solo chimica e lo sviluppo solo una crescita di beni materiali.

Si può dire che questa è l’Enciclica della globalizzazione. Ma le parti che mi hanno più appassionato, quelle in cui si coglie la penna del Papa - teologo, sono l’introduzione, il paragrafo 10 che denuncia una interpretazione sociologica della grande Enciclica Populorum progressio e ne pone l’interpretazione nel solco della tradizione apostolica, e il paragrafo 78, che costituisce una sorta di sintesi magistrale del messaggio di questa Enciclica molto complessa e ricca in cui in 127 pagine viene citato per 63 volte Giovanni Paolo II, per 61 volte Paolo VI (dedicando ben 55 citazioni alla Populorum progressio), per 2 volte San Tommaso, per 1 volta Sant’Agostino e per 1 volta Eraclito. Tutta l’Enciclica può essere riletta alla luce del famoso paragrafo 22 della Gaudium et spes: solo Gesù Cristo svela pienamente l'uomo all'uomo e gli permette di 'tenersi', come un tutto.

Noi cristiani sappiamo che non è possibile costruire una società perfetta. Una società definitivamente salva dentro la storia non esiste. E questo ha a che fare con il peccato originale. L’idea di progresso nasce con il cristianesimo. Ma l’idea di una salvezza collettiva e programmabile non è cristiana ed è propria di quei sogni ideologici che in nome della giustizia e della società perfetta chiudono nei lager o deportano in Siberia. Sogni che hanno attraversato la storia delle dottrine politiche e dei messianismi ideologici da Gioachino da Fiore a Rousseau, da Marx a Lenin, da Hitler a Stalin, da Mao a Che Guevara. Sogni che si sono rivelati speranze vane e hanno lasciato il passo alla disillusione.

Naturalmente il cristiano non è neppure l’uomo dell’accettazione dell’ingiustizia. Cambiare il mondo significa togliere agli uomini le loro paure, ridurre le aggressività, dare una patria in cui ci si senta sicuri, a tutti ma soprattutto a bambini, stranieri, moribondi, malati, ridurre il divario tra il Nord e il Sud del mondo.

In questo senso mettere il bavaglio alla Dottrina Sociale della Chiesa sarebbe un gesto contro i poveri e contro la storia. Chi denuncia le “ingerenze” della Chiesa nella vita pubblica (pensando agli interventi del Magistero quando sono in gioco i valori della vita, della persona, del bene comune) dovrebbe ricordare che – ammesso e non concesso che si tratti di “ingerenze” – si tratta di “ingerenze umanitarie”, cioè di interventi che mirano a proteggere la dignità delle persone immagine di Dio da ogni strumentalizzazione e da ogni sfruttamento.

La Chiesa, quando annuncia il Vangelo e le sue esigenze sociali, si fa paladina di ecologia umana, protegge l’ambiente umano da ogni sorta di inquinamento che ne minacci la dignità. Ogni uomo è per noi una storia sacra. Ma alle volte siamo noi cattolici a privilegiare una presenza pubblica low profile, in cui il silenzio sui temi politicamente più sensibili viene ritenuto saggio e opportuno. In questi casi siamo all'autogoal.

Con il loro quaerere Deum i monaci benedettini hanno fatto cultura. È un messaggio che vale anche per noi e per il nostro tempo e che ci invita alla serietà e alla fatica dello studio e del discernimento. Uno studio e un discernimento che è faticoso ma inevitabile se non vogliamo ridurc, nella democrazia televisiva a spettatori del “Grande Fratello” o a tifosi scalmanati di “Anno Zero”.

C'è una sproporzione tra la pover­tà culturale dell'era delle veline e delle mischia ideologica continuata e la grandezza culturale del Pontefice che lo Spirito Santo ha suggerito per il nostro tempo. E se lo Spirito ha portato alla elezione di un “Papa professore”, forse l’invito che ci viene è quello di rimetterci a studiare, a studiare prima di tutto la Parola di Dio e i grandi Padri della Chiesa che ce l’hanno così bene illustrata. E poi a studiare i maestri (oggi ignoti a molti) del cristianesimo moderno. Maestri a cui ha profondamente attinto anche Papa Ratzinger, da Romano Guardini a Henry De Lubac, a Balthasar.

Come è stato detto al Convegno Ecclesiale di Verona e in continuità con il Concilio Vaticano II, ci sono chieste tre scelte di fondo:

- il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa
la testimonianza personale e comunitaria come forma dell’esistenza cristiana
una formazione che converge sull’unità della persona.

I cinque ambiti che ci sono stati proposti a Verona puntano ad indirizzare l’impegno della Chiesa italiana verso l’unità della persona. Questo vale per la pastorale, ma vale a maggior ragione per la formazione della coscienza sociale. Nella vita affettiva, nella fragilità, nel rapporto con il lavoro e la festa, nella tradizione e nella cittadinanza siamo chiamati a testimoniare oggi il “sì” di Dio all’uomo, piuttosto che i “no” al mondo. Come ha affermato l’arcivescovo di Parigi, Cardinale Vingtrois “noi cattolici non possiamo diventare i pubblici ministeri del mondo”.

La Dottrina sociale della Chiesa costituisce oggi un ideale crocevia, un’agorà, un punto di incontro e confronto non solo per i cristiani, ma per quanti credono nel bene comune e lo perseguono. Non si tratta solo di apprendere ed insegnare il pensiero della Chiesa, quanto di educare a un metodo di pensiero, ad un atteggiamento di vita, ad una capacità di “discernimento sociale”, ad un esercizio responsabile della cittadinanza. La Dottrina sociale della Chiesa non è un pensiero che esclude ma che apre agli altri, guida e sostiene i cristiani e le comunità nella ricerca del bene comune.

L’Enciclica Caritas in veritate vuole proprio sostenere la nostra fede e la nostra capacità di testimoniare la verità. Un esempio può essere eloquente: quello di Ponzio Pilato che chiede con scetticismo “che cos’è la verità?”. E gli faceva eco Hans Kelsen, il grande giurista tedesco che dà vita al positivismo giuridico, per cui “la verità è irraggiungibile”. Se ci pensiamo bene Pilato è l’esempio del perfetto democratico relativista. Ha affidato a una maggioranza manipolata pro-Barabba il problema del vero, nonostante fosse convinto della innocenza di Gesù.

Benedetto XVI assomiglia, in questa sua titanica lotta contro il relativismo, ai grandi Padri della Chiesa, Basilio, Agostino, Atanasio, Ambrogio, che nei primi secoli del cristianesimo salvarono insieme la fede e i valori della civiltà classica. Oggi, nella tarda modernità, il Papa è volto a preservare dalla confusione relativista e dall’insensatezza nichilista i beni più preziosi: la fede e la ragione. Non solo la fede, ma anche la ragione, una ragione che si libera dalla paura di aprirsi al trascendente. Un logos che si fa dia-logos. Un seguire Cristo nelle cose del modo senza inginocchiarsi di fronte al mondo.
S_Daniele
00domenica 29 novembre 2009 16:13
La carità nella verità produce il vero sviluppo


ROMA, sabato, 28 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lectio magistralis sull’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI svolta il 20 novembre scorso, a Bologna, dal Cardinale Carlo Caffarra, in occasione di un incontro organizzato dalla Fondazione Unipolis e da Unindustria Bologna. 

  * * *

«La carità nella verità di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita e, soprattutto con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera»

L’incipit dell’Enciclica ne è la fondamentale chiave interpretativa. Il mio compito questa sera è di aiutarvi a leggerla con questa chiave interpretativa; non di sostituirmi alla sua lettura attenta.

1.      A modo di premessa al mio discorso parto da una domanda: di chi, di che cosa parla l’Enciclica? E quindi a chi si rivolge?

Per rispondere parto da due testi singolarmente sintonici: uno di G. Leopardi, e uno di S. Ambrogio.

Il testo leopardiano è desunto da una Operetta morale, Dialogo di un fisico e di un metafisico. In esso il grande poeta immagina che un fisico [oggi potremmo dire un biologo, un economista] abbia finalmente scoperto la modalità per tutti di vivere lungamente: di questa scoperta si mostra molto fiero. Il metafisico [oggi diremmo: uno che non si accontenta di usare la sua ragione in modo limitato] gli risponde di secretare subito la scoperta, fino a «quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente». E aggiunge: «se la vita non è felice …… meglio ci torna averla breve che lunga» dal momento che «la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio».

Questa ultima affermazione sembra risuonare e quasi ripetere una pagina di S. Ambrogio, citata da Benedetto XVI nell’Enc. Spe salvi [Cf. n. 10]. Dice dunque il grande Vescovo di Milano: «A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia».

I due testi narrano la quotidiana esperienza di ogni uomo. Questi  non desidera, non vuole semplicemente vivere: desidera, vuole vivere bene; vivere una buona vita.

In realtà l’Enciclica non usa questa terminologia. Parla di «vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera». Le due parole – «buona/vera vita – vero sviluppo» - denotano tuttavia la stessa realtà. La seconda ha il vantaggio di sottolineare una proprietà essenziale della persona vivente: il suo sviluppo, il suo dinamismo intrinseco.

E’ dunque in questo contesto che l’Enciclica afferma che la «forza propulsiva» che sviluppa e la persona e la società; la «forza propulsiva» che fa vivere e alla persona e alla società una buona, una vera vita: che dà origine ad una buona vita ed a una buona società, è la carità nella verità. La qualità della vita personale e la qualità della vita associata dipende dalla messa in atto della «carità nella verità».

Abbiamo trovato la risposta alle due domande da cui siamo partiti. Prima domanda: di che cosa parla l’Enciclica? Parla di come e spiega perché la «carità nella verità» “produca” una buona vita associata [= produca il vero sviluppo]. Seconda domanda: a chi si rivolge l’Enciclica? Ad ogni uomo di buona volontà, cioè a chi vuole vivere una vita associata buona, e quindi “amare nella verità”.

Ne deriva che la comprensione di ciò che significa «carità nella verità» o “amore nella verità” è la conditio sine qua non per comprendere il testo pontificio.Nel secondo punto della mia riflessione cercherò di darvi un aiuto in questo senso. Prima però devo fare alcune considerazioni preliminari, molto semplici.L’Enciclica non parla genericamente di “vita umana”, ma di “vita umana associata”: più semplicemente, di società umana. E’ quindi un discorso di dottrina della società, di dottrina sociale. Intendendo tutte le espressioni della socialità umana [escluse matrimonio e famiglia di cui il documento non parla direttamente]: le società economiche, la società politica, la società internazionale. Per usare un’espressione molto cara al Magistero della Chiesa: parla della famiglia umana.

L’Enciclica quindi intende insegnare perché e come la carità nella verità è la principale forza costruttiva di una buona vita associata. Per usare l’espressione pontificia: l’Enciclica tratta della caritas in veritate in re sociali. E’ di questo che parla.

L’Enciclica fa perciò un’affermazione di grande importanza epistemica all’interno dell’enciclopedia del sapere teologico. La Dottrina sociale della Chiesa è la caritas in veritate - in re sociali – in quanto essa [la caritas in veritate] diventa dottrina, cioè pensiero sociale, economico, politico. La Dottrina sociale della Chiesa è il risultato dello sforzo di pensare come la «caritas in veritate» sia la forza principale che costruisce il sociale umano.

2.      In questo secondo punto vorrei aiutarvi a capire che cosa significa nell’Enciclica «caritas in veritate». Tale comprensione è assolutamente necessaria per capire il testo pontificio.

Quando la Dottrina sociale parla della carità, parla di una elevazione, di una capacitazione tale della nostra volontà da renderla capace di amare, cioè di volere il bene dell’altro, nel modo con cui Dio stesso ha voluto e vuole in Cristo il bene dell’uomo. La carità è la forza divina creatrice e redentiva dell’uomo, che viene comunicata all’uomo che crede.

Proviamo ora a rispondere alla seguente domanda: che cosa produce, cementa e solidifica i rapporti sociali? Non possiamo ora dare una risposta molto articolata. Semplificando un poco, possiamo dire che noi rispondiamo a questa domanda a seconda che riteniamo o no che la persona umana sia originariamente, per natura sociale, oppure che ciascuno sia per natura un individuo isolato. Insomma, la risposta alla domanda nasce da una visione dell’uomo: è una questione antropologica

Partiamo dalla seconda ipotesi: l’uomo è per natura un individuo. Se ciascuno di noi è per natura tale, cioè un individuo a sé stante, ciò che spinge ciascuno ad entrare in società con l’altro non può essere che l’utilità che può venirgli dal rapporto sociale. La società quindi si costruisce sulla base dello scambio di equivalenti. Si costruisce mediante la contrattazione fra individui separati originariamente, che sono alla ricerca del proprio bene individuale in con-correnza con gli altri individui. Possiamo dire che “la principale forza propulsiva” di una società così pensata sia la carità? Non sembra. La principale forza propulsiva è la previsione prudente e calcolata che  alla fine i conti tornino: che cioè il “peso del vivere associato” sia almeno equivalentemente ricompensato dai vantaggi che apporta al singolo.

Se, al contrario, parto dalla certezza, generata dall’esperienza, che la persona umana è originariamente, per natura, relazionata ad ogni altra persona umana; che ogni uomo è il prossimo di ogni uomo, la società è edificata da relazioni istituite per il bene umano comune. Ritorneremo su questo concetto centrale nella Enciclica.

La forza propulsiva che produce, cementa e solidifica i rapporti sociali non è principalmente la ricerca del mio bene a prescindere dal, o contro il bene dell’altro. È la ricerca del bene che è mio e tuo perché è il bene umano comune. Questa forza propulsiva, questa ricerca è la carità. L’Enciclica quindi dice che essa «è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, famigliari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» [2,1].

Il primo modello di società mira a creare una società di uguali; il secondo, una società di fratelli. Si può essere uguali senza essere fratelli; non si può essere fratelli se non si è uguali nella diversità e diversi nell’uguaglianza.

La “cifra” del primo modello è lo scambio di equivalenti, e quindi l’assenza della gratuità; la cifra del secondo, è il principio di gratuità [Cf. 34,2].

A questo punto posso brevemente delineare il concetto di bene comune. Esso denota la preziosità insita nella correlazione sociale come tale. Il bene comune, per esempio, del matrimonio non è la somma del bene dei singoli due sposi. È la bontà propria insita nella comunione coniugale come tale.Non esiste dunque un rapporto concorrenziale fra il bene della persona e il bene comune, dal momento che «non è bene che l’uomo sia solo». È nella relazione interpersonale  che l’uomo trova il suo bene.

Tutto questo però non deve mai farci dimenticare che esiste ed opera dentro alla società umana una forza disgregatrice, «conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tener presente il peccato originale anche nell’interpretazione di fatti sociali e della costruzione della società» [34,1].

L’Enciclica però non dice semplicemente che la carità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera. Ma insegna che tale è la carità nella verità. E’ il punto centrale del documento pontificio. Che cosa significa?

Potrei rispondere molto semplicemente e molto brevemente: significa che la carità non radicata nella verità «diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente» [3]; significa che la carità «va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità» [2,2].

Ma per capire e capirci, di quale verità si parla? Di che cosa parliamo, quando in questo contesto parliamo di verità? Parliamo di ciò che è bene per l’uomo; di ciò che è bene per l’uomo in quanto esso – il bene dell’uomo e per l’uomo – è indicato, è suggerito dalle fondamentali esigenze della persona umana come tale.

Faccio qualche esempio. Se un uomo ha fame, non è difficile capire ciò che è bene per quell’uomo: mangiare. Non è difficile sapere che cosa è il bene di quell’uomo: il cibo in quantità sufficiente. Vedete? Alla domanda circa il bene dell’uomo ho risposto con certezza: è il cibo. Ho detto la verità circa il bene dell’uomo. Se di fronte ad un affamato, ritenessi che il suo bene fosse il vestito, e gli donassi un vestito, e non il cibo, non lo amerei in verità: non vorrei il suo bene. La «carità nella verità» significa volere il bene reale, vero dell’altro.

Ho fatto di proposito un esempio assai semplice. Ma le cose purtroppo non lo sono, o comunque non lo sono sempre così chiaramente. Per due motivi.Il primo. I fenomeni, i fatti sociali sono complessi. Faccio un esempio questa volta desunto dal testo pontificio: il mercato. Di esso l’Enciclica dice fra l’altro: «E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché questo sia la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso» [36,2].

Fate bene attenzione: il testo pontificio parla di una natura propria del mercato.

Ma subito aggiunge che «il mercato non esiste allo stato puro ….. (ma) trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano».Dunque circa il mercato vengono fatte due affermazioni: il mercato è un fatto culturale; il mercato ha una sua propria “natura” meta-culturale, trans-culturale. Alla luce quindi di questa duplice affermazione l’Enciclica insegna che o il mercato è ispirato, governato anche dal principio di gratuità o altrimenti va contro al bene dell’uomo.

È importante a questo punto costatare che nei due esempi – l’affamato e il mercato – è messo in atto lo stesso uso della ragione.

Quale è il bene per chi ha fame? Il cibo. Quale è il mercato che risponde alle esigenze dell’uomo? Quello in cui trova posto il principio di gratuità e la logica del dono. Se  tu a chi ha fame doni un vestito, non lo ami in verità; se tu costruisci un mercato dal quale escludi per principio gratuità e dono, non ami l’uomo in verità: non favorisci il vero sviluppo.

Il secondo fatto che complica la questione. Oggi è comune il pensiero che non esista una verità universalmente condivisibile circa ciò che è bene/male per l’uomo, ma tutto dipende esclusivamente dal consenso sociale. Non si dice più: “questo è bene; questo è male”; ma si preferisce: “oggi si ritiene che questo sia bene, che questo sia male”.

È negata alla ragione umana la possibilità di raggiungere conoscenze circa il bene/il male dell’uomo universalmente valide. Certamente sono condivise le Carte dei diritti umani. Tuttavia ogni giorno più diventiamo consapevoli della debolezza di tale condivisione, non avendo questa una sua base oggettiva.Spero di aver chiarito che cosa significa «nella verità». Per comodità, e sperando di non annoiare, lo riassumo. «Nella verità» significa che la ragione umana ha la capacità naturale di individuare quali sono i beni fondamentali dell’uomo.

A questo punto non vi sarà difficile comprendere e sottoscrivere alcune gravi affermazioni; e dedurre due conseguenze.

Gravi affermazioni. Il Papa dice: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità» [3]. Alla fine, se la comunità cristiana si lascia assoggettare dalla tirannia del relativismo, essa riduce la sua forza più grande, la carità, ad un fatto marginale nella società, relegato in un ambito privato e ristretto.

La prima conseguenza. Se non esiste una verità circa ciò che è bene / male per l’uomo, la ricerca e lo sforzo per edificare una vita associata non può non diventare e continuare ad essere uno scontro per imporre i propri interessi. Dice il S. Padre: «Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali» [5,2; cf. anche 4].

La seconda conseguenza. Possiamo comprendere meglio che cosa è la Dottrina sociale della Chiesa, e quale è la sua funzione. Essa è costituita dal Magistero della Chiesa che insegna quali sono le esigenze vere della persona umana e della vita associata; che cosa è chiesto alla carità per volere e promuovere il vero bene della persona umana.

La Dottrina sociale non intende offrire soluzioni tecniche ai problemi sociali, né ancor meno programmi politici concorrenziali con altri programmi politici nella vita democratica della società politica. Si pone su un altro piano. Indica la via per una società a misura della dignità dell’uomo. Potrei dire: la Dottrina sociale è “caritas quaerens intellectum”; è la carità che diventa pensiero.

Ecco ho spiegato – spero di esserci riuscito – quale è la «vera forza propulsiva per il vero sviluppo»: la caritas in veritate.

3.      Giunti a questo punto della nostra riflessione possiamo individuare con una certa facilità la domanda fondamentale a cui l’Enciclica cerca di rispondere.

Se è la carità che costruisce i rapporti sociali; se la carità chiede quali sia in verità una buona società [caritas in veritate], la domanda fondamentale allora è: quale è il vero sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera? E quindi, come contro–domanda fondamentale: quali sono i principali errori, e quindi le insidie più gravi circa lo sviluppo della persona, della società, dell’umanità intera?

Se voi verificate semplicemente l’indice dell’Enciclica, potete rendervi conto che questa è la sua “filigrana teoretica”. Una filigrana in cui s’intrecciano i due fili, le due risposte a domanda e contro–domanda, non limitandosi ad affermazioni generiche, ma analizzando i momenti costitutivi della vita umana associata. Ovviamente non ne faccio l’analisi completa; vi dicevo all’inizio, che non intendo sostituirmi alla lettura personale. Mi limito a due richiami di fondo. L’uno all’interno della risposta alla domanda, l’altro, della risposta alla contro– domanda.

Il primo. Partiamo da un’esperienza semplice, quotidiana, ma stupenda. Nella comunità famigliare la fraternità – l’essere in più figli degli stessi genitori – mostra e fa vivere il fatto che lo stesso amore – quello dei genitori, appunto – è condiviso senza essere spartito, è comunicato senza essere diminuito, è moltiplicato senza essere raffreddato. È la sublime esperienza della fraternità dove ciascuno è se stesso nella sua diversità, ma ugualmente riconosciuto nella sua dignità.

L’Enciclica insiste varie volte nell’affermare che il vero sviluppo della società si fonda sulla fraternità. Ma l’esperienza della fraternità può sorgere solo dall’esperienza della stessa paternità. Scrive l’Enciclica: «Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”» [29].

Il secondo. Uno dei rischi e delle insidie più gravi oggi al vero sviluppo dell’uomo è la tecnocrazia o, come lo chiama il S. Padre, «l’assolutismo della tecnicità».

Per “assolutismo della tecnicità” intendo la riduzione della intenzionalità umana, cioè del rapporto dell’uomo colla realtà, alla determinazione e costruzione della medesima secondo i nostri progetti. Si riduce la ragione umana alla sua capacità di misurare le cose cioè di progettarle e costruirle,  fabbricarle e dominarle. Come dice la Caritas in veritate si afferma la coincidenza del vero col fattibile [70].  Di fronte ad un possibile corso di azione la ragione di attuarlo è «così agisco, perché è tecnicamente possibile», e non «così agisco perché è bene agire in questo modo».

Ma se elimino dalla coscienza dell’uomo la verità del bene moralmente inteso, non resta come forza motivante della volontà che il bene utile e/o piacevole. Forse ciò che ha reso l’uomo occidentale schiavo della tecnica è stata la concezione dell’uomo come soggetto utilitario. [Ho riflettuto a lungo sul rapporto fra tecnocrazia e soggetto utilitario nella Lectio magistralis del 12 settembre scorso tenuta alla Società di medicina–chirurgia di Bologna; cf. www.caffarra.it, oppure www.bologna.chiesacattolica.it]

Sempre l’Enc. Caritas in veritate parla del rischio dell’umanità «di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità» [ibid.]. L’affermazione è teoreticamente forte. Essa dice che si costituirebbe un “forma” che configura ogni approccio dell’uomo alla realtà. Colla conseguenza che «noi tutti conosceremmo, valuteremmo, e decideremmo le situazioni della nostra vita dall’interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto». 

E questa è la definizione congruente dell’ospite più inquietante che è venuto a dimorare nella nostra esistenza: il nichilismo. Il nichilismo è la negazione che si dia – si doni un senso, poiché non esiste senso che non sia da noi prodotto.

Che ne è dell’uomo dentro all’orizzonte culturale tecnocratico? Molto semplicemente: niente; dell’essere dell’uomo non ne è più niente, poiché l’essere dell’uomo è una produzione dell’uomo stesso.

Siamo così ritornati al punto di partenza. Se non esiste una verità circa il bene della persona: se la carità non è nella verità, l’uomo è esposto ad ogni pericolo.

4.      Sono così giunto alla conclusione. Mi faccio ancora una domanda: questa Enciclica riguarda tutti, o solo chi ha responsabilità politiche, sociali, economiche, finanziarie?

Riguarda tutti noi, almeno per due ragioni connesse. Essa ci aiuta a capire il fatto sociale nelle sue espressioni fondamentali, alla luce congiunta della ragione e della fede. In una situazione come quella attuale di grave incertezza, fare luce è la prima necessità.

L’Enciclica poi, e di conseguenza, ci educa a quel discernimento o giudizio mediante il quale impariamo non solo a capire, ma anche a valutare ciò che accade nella società di oggi. Senza essere schiavi delle mode imperanti.

Ma soprattutto chi a vario titolo ha responsabilità sociali non può ignorare questo documento. Va letto tenendo sempre presente che esso si pone al di sopra della sviante distinzione fra “destra” e “sinistra” correggendo l’una con apporti dell’altra. L’Enciclica si pone oltre. Essa affronta ed offre soluzioni a questioni assai concrete ed ancora oggi irrisolte, relative alla vita personale e sociale: le domande che ogni uomo, di “destra” o “sinistra” che sia, ma veramente appassionato al suo destino, non può non avere.  
S_Daniele
00domenica 29 novembre 2009 16:15
Diritto all'alimentazione e sviluppo nella “Caritas in veritate”

ROMA, sabato, 28 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla Dottrina sociale della Chiesa e consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.




* * *

Il problema della denutrizione e della fame è ben presente nella nuova enciclica sociale di Benedetto XVI Caritas in veritate. Lo è, però, in modo particolare, perché particolare è lo stile di approccio ai problemi di questa enciclica. Non tutti i lettori hanno colto questo nuovo stile ed hanno mosso delle critiche al testo, che sarebbe dispersivo, toccando molti temi senza approfondirne nessuno. La realtà è che, più che proporre soluzioni alle varie problematiche sociali, la Caritas in veritate si premura di insegnarci un metodo per affrontarli. Per questo essa non è una raccolta di indicazioni di saggezza sociale, ma l’annuncio di una proposta di salvezza, un invito a non affidarsi solo a leggi e a strutture, ma a cambiamenti di vita. Il cambiamento di vita decisivo è l’accoglienza della verità e della carità come un dono che irrompe nella nostra vita e che illumina tutte le relazioni sociali con una luce nuova. Si capisce così come il problema della fame, affrontato in un solo paragrafo, il 27, sia anche illuminato dall’intero testo dell’enciclica. Ciò vale anche per gli altri temi sociali: non ci si sofferma su di essi analiticamente, ma si evidenzia la luce nuova che su di essi cala dalla verità e dalla carità. Questo è lo specifico cristiano e della Dottrina sociale della Chiesa che si colloca quindi nel punto di incontro tra la spiritualità cristiana e le realtà temporali ed annunciando Dio che è Verità e Amore, conferma, valorizza e purifica anche tutte le altre forme di verità e di amore presenti nella storia.

Uno degli effetti dell’accoglienza della verità a proposito del problema della fame, come degli altri temi connessi con lo sviluppo è il rifiuto dei molti riduzionismi ideologi che ancora influenzano la nostra mentalità ed azione. La Caritas in veritate dice che il problema dello sviluppo è oggi policentrico, ossia “le colpe e i meriti sono differenziati”. In altri termini, e in concreto, non si presta più al vecchio schema Nord ricco e sfruttatore versus Sud povero e sfruttato. Non è più tutto qui. Per molti motivi. Per esempio perché nuovi paesi emergenti giocano ormai un ruolo fondamentale negli equilibri (o squilibri) economici mondiali. L’Africa oggi è più sfruttata dall’Occidente o dalla Cina? Chi appoggia le élites politiche africane più sanguinarie? Per fare un altro esempio: perché il sottosviluppo e la fame sono anche provocate da arretratezze culturali autoctone, oltre che da vincoli culturali imposti dall’esterno. Oppure, per farne un altro: perché i grandi organismi internazionali che dovrebbero provvedere agli aiuti allo sviluppo – e la mente corre subito alla FAO – sono troppo autoreferenziali e finanziano soprattutto le proprie burocrazie interne più che il vero servizio ai poveri di questo mondo. Un altro ancora: nel turismo sessuale sono colpevolmente responsabili solo le agenzie occidentali o anche i loro partners locali? Come si vede, la Caritas in veritate invita a togliersi gli occhiali delle ideologie e a guardare la realtà: le responsabilità sono tante e gli aiuti devono muovere dalla carità ma nella verità, altrimenti diventano controproducenti. Il caso tipico è quello degli aiuti alimentari che quando arrivano in loco spiazzano totalmente il mercato locale e mandano in miseria produttori e commercianti autoctoni. Si vedano per esempio le critiche ad un certo modo di intendere gli aiuti internazionali nel paragrafo 58 o le osservazioni critiche fatte alle proposte di mercati paralleli o di finanza alternativa che confermano l’emarginazione dei paesi poveri dal mercato vero e dalla finanza vera. Da un lato si demonizza il mercato in quanto tale, dall’altro si propone di allargare il mercato ai paesi poveri. Anche queste sono ideologie. La Caritas in veritate propone qualcosa di più realistico: cambiare il mercato, non crearne altri di paralleli, piccoli rigagnoli destinati a inaridirsi.

Sottili critiche vengono mosse anche alla cosiddetta “finanza etica”, che pure talvolta è asservita a ideologie di parte e che soprattutto può avere il limite di disimpegnare dal riformare la finanza in quanto tale. Critiche meno sottili vengono mosse al progetto della “decrescita”, che testimonierebbe, secondo l’enciclica, una sfiducia nell’uomo. La luce della carità nella verità illumina quindi il cammino prima di tutto liberandoci dalle ideologie e dalle visioni riduttive. La carità da sola non basta perché per amare bisogna sapere cosa è il bene di chi sia ama; la verità da sola nemmeno perché essa ci mobilita solo se si fa amare.

Il capitolo 27 che riguarda il drammatico problema della fame va quindi letto alla luce dell’intera enciclica. Si comprenderà allora che quello della fame è un problema di istituzioni da creare ma è anche un problema di accompagnamento delle comunità locali, di forzare certe limitazioni dovute a culture che, per esempio, impediscono la collaborazione produttiva tra agricoltori, di applicare gli aiuti in modo sussidiario, senza creare nuove dipendenze.

Due punti dell’enciclica sembrano di particolare importanza. Il primo è la proposta di una collaborazione tra le scienze, in modo che si trovino soluzioni migliori alla luce di un’etica pienamente umanistica. Che gli aiuti rispondano ad esigenze di verità oltre che di carità vuol dire che devono rispettare quanto dicono le scienze, prima di tutte l’economia ma non solo, e soprattutto quanto dicono le scienze che dialogano tra di loro. Aiuti che non siano fatti nel rispetto delle leggi economiche sono diseconomici e quindi non sono nemmeno aiuti. Tra gli aiuti che i paesi sviluppati dovrebbero dare a quelli poveri c’è anche il sapere. Troverebbero spazio in questo contesto le discussioni sull’utilizzo degli Organismi geneticamente modificati nell’agricoltura dei paesi poveri.La Caritas in veritate non ne parla, ma in questo richiamo all’interdisciplinarietà dei saperi si può vedere l’esigenza di esaminare il problema, o quantomeno di non scartarlo ideologicamente a priori. Il secondo punto importante è l’invito ad intendere l’imprenditorialità in senso “plurivalente” e a attuare trasferimenti di competenza professionale da un settore all’altro ed anche dal Nord al Sud. Il Sud è povero anche di esperienze imprenditoriali. La Caritas in veritate invita ad inventarne di nuove, che superino la contrapposizione limitante tra profit e non profit, ed invita a creare occasioni di scambio di competenze. Per esempio la forma imprenditoriale della cooperazione è scarsamente presente nei paesi in via di sviluppo, mentre potrebbe essere risolutiva in molti casi. Anche le forme di microcredito, già avviate in molte situazioni di povertà, hanno bisogno di ricevere maggiore professionalità. Mentre si sta formando una “classe cosmopolita di manager”, che non rispondono sostanzialmente a nessuno, nemmeno ai loro azionisti, bisognerebbe creare trasferimenti orizzontali e verticali di professionalità per lo sviluppo.

[Fonte: www.vanthuanobservatory.org]
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