Il Senso religioso

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(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 13:52
(Faccio una prova senza "Usa Editor")
Luigi Giussani
II senso religioso
volume primo del

PERCORSO


Rizzoli



Nihil obstat quominus imprimatur
Mons. Francesco Delpini
10 febbraio 1988
Imprimatur in Curia Arch. Mediolani die 15 febbraio 1988 t Giovanni Saldarmi prò Vie. Gen.
Proprietà letteraria riservata
© 1997 RCS Libri S.p.A., Milano La Prefazione ài]. F. Staff ord è stata tradotta da Laura Tasso
ISBN 88-17-84518-3
Prima edizione: giugno 1997
Seconda edizione: luglio 1997
Terza edizione: novembre 1998
Quarta edizione: novembre 1998
Quinta edizione: novembre 1998
Sesta edizione: dicembre 1998



Il Senso Religioso
don Giussani


INDICE GENERALE



Prefazione
James Francis Staff.......................... pag. V I

Introduzione ............................................... XI

Capitolo primo
PRIMA PREMESSA: REALISMO ............................. 3

1. Di che si tratta ............................................................ 3
2. Il metodo di ricerca è imposto dall'oggetto:
una riflessione sulla propria esperienza ................... 4
3. L'esperienza implica una valutazione ...................... 7
4. Criterio per la valutazione ......................................... 7
5. L'esperienza elementare ............................................ 8
6. L'uomo, ultimo tribunale? ...................................... 11
7. Ascesi per una liberazione ...................................... 13

Capitolo secondo
SECONDA PREMESSA
RAGIONEVOLEZZA ...................................................... 17

1. Ragionevolezza: esigenza strutturale dell'uomo .... 17
2. Uso riduttivo della ragione ..................................... 19
3. Diversità di procedimenti ........................................ 23
4. Un procedimento particolarmente importante .... 24
5. Un'applicazione del metodo
della certezza morale: la fede ................................... 29

Capitolo terzo
TERZA PREMESSA:
INCIDENZA DELLA MORALITÀ
SULLA DINAMICA DEL CONOSCERE ........................ 31

1. La ragione inscindibile dall'unità dell'io ............... 31
2. La ragione legata al sentimento ............................. 32
3. L'ipotesi di una ragione senza interferenze .......... 34
4. Una questione esistenziale
e una questione di metodo ................ ..........................•34
5. Un altro punto divista .................•.....................37
6. La moralità nel conoscere ..................................41
7. Preconcetto ....................................................•43

cAPITOLO IV
Il SENSO RELIGIOSO:
IL PUNTO DI PARTENZA.......................................... 45

Premessa ................................................................45
1. Come procedere ................................................45
2. L'io-in-azione ...........................................,,,,,,,....46
3. L'impegno con la vita ................................••,,,•••48
4. Aspetti dell'impegno .....................................49
5. Duplice realtà ....................................................53
Corollario ............................................,,,,,,,,,.......55
6. La riduzione materialistica…… .........................56

Capitolo quinto
IL SENSO RELIGIOSO: SUA NATURA ...............59

1. Il livello di certe domande ..............................59
2. Al fondo del nostro essere ..............................61
3. L'esigenza di una risposta totale ......................61
4. Sproporzione alla risposta totale ........................63
5. Sproporzione strutturale .................................64
6. Tristezza ...........................................................67
7 La natura dell'io come promessa .................70
8. Il senso religioso come dimensione .............. 72
Conclusione ..........................................................75

Capitolo sesto
ATTEGGIAMENTI IRRAGIONEVOLI
DI FRONTE ALL'INTERROGATIVO ULTIMO:............79

1 Negazione teoretica delle domande ...................... 79
2 Sostituzione volontaristica delle domande ............82
3 Negazione pratica delle domande ........................ 86

Capitolo settimo
ATTEGGIAMENTI IRRAGIONEVOLI
DI FRONTE ALL'INTERROGATIVO ULTIMO:
RIDUZIONE DELLA DOMANDA ..................................... 95

1. Evasione estetica o sentimentale ........................... 95
2. La negazione disperata .......................................... 98
3. L'alienazione .......................................................... 103

Capitolo ottavo
CONSEGUENZE DEGLI ATTEGGIAMENTI
IRRAGIONEVOLI DI FRONTE
ALL'INTERROGATIVO ULTIMO ................................ 109

1. La rottura col passato ............................................ 109
2. Incomunicabilità e solitudine ............................... 114
3. Perdita della libertà ................................................ 119

Capitolo nono
PRECONCETTO, IDEOLOGIA, RAZIONALITÀ
E SENSO RELIGIOSO ................................................ 129

1. Puntualizzazioni sul preconcetto .......................... 129
2. Sull'ideologia .......................................................... 131
3. Sulla ragione ........................................................... 133
4. Sul senso religioso e la razionalità ....................... 135

Capitolo decimo
COME SI DESTANO LE DOMANDE ULTIME.
ITINERARIO DEL SENSO RELIGIOSO ...................... 139

1. Lo stupore della «presenza» ................................. 139
2. Il cosmo ................................................................... 143
3. Realtà «provvidenziale» ......................................... 144
4. L'io dipendente ...................................................... 146
5. La legge nel cuore ................................................. 148
Conclusione ............................................................... 150

Capitolo undicesimo
ESPERIENZA DEL SEGNO ........................................ 153

1. Provocazione ........................................................... 153
2. Il segno .................................................................... 155
3. Negazione irrazionale ............................................ 155
4. Carattere esigenziale della vita .............................. 156
5. «Tu», segno supremo ............................................. 160
6. Scoperta della ragione .......................................... 162
7. Aperture ................................................................ 165

Capitolo dodicesimo
L'AVVENTURA DELL'INTERPRETAZIONE ..............167

1. Il fattore libertà di fronte all'enigma ultimo ....... 168
2. Il mondo come parabola ..................................—. 171

Capitolo tredicesimo
EDUCAZIONE ALLA LIBERTÀ ..................................175

1. Educazione alla libertà come responsabilità ...... 175
2. Educazione a un atteggiamento di domanda ..... 176
3. L'esperienza del rischio ................................ .. 179

Capitolo quattordicesimo
L'ENERGIA DELLA RAGIONE
TENDE A ENTRARE NELL'IGNOTO ......................... 185

1. Forza motrice della ragione .................................. 185
2. Una posizione vertiginosa ................................... 188
3. L'impazienza della ragione ................................... 189
4. Un punto di vista alterante ................................... 190
5. Idoli .................................................•..•...••-——.— 192
6. Una conseguenza ..................................................193
7. Dinamiche d'identificazione dell'idolo ................ 194
Conclusione ......................... ................................... 195

Capitolo quindicesimo
L'IPOTESI DELLA RIVELAZIONE:
CONDIZIONI DELLA SUA ACCETTABILITÀ ............ 199

Indice dei nomi ...................... 207
Indice tematico ........................211

(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 13:54


PREFAZIONE
James Francis Stafford*

Con il presente volume, II senso religioso, l'Editore Rizzoli inizia la pubblicazione del "PerCorso" di monsignor Luigi Giussani. Pubblicato in tré volumi, il "PerCorso" espone il contenuto dei corsi tenuti dall'Autore in oltre quarant'anni di insegnamento, dapprima come docente di Religione in un liceo di Milano, poi, a partire dal 1964, come Professore di Introduzione alla Teologia nell'Università Cattolica della stessa città. A questo primo volume seguirà quello dedicato alla grande rivelazione personale di Dio nel mondo nella persona di Gesù Cristo {All'origine della pretesa cristiana}, mentre il terzo e ultimo volume si occuperà del modo in cui questo avvenimento rimane presente nella Chiesa per tutto il tem-po e in ogni epoca {Perché la Chiesa). Nell'opera di monsignor Giussani ciò che scopriamo non è semplicemente un trattato teologico in senso tecnico, nato dalla elaborazione di una teoria. In realtà ci imbattiamo in una serie di riflessioni che, senza nulla togliere al rigore e alla sistematicità del pensiero, nascono dalla preoccupazione educativa di monsignor Giussani di comunicare la ragionevolezza del «Fatto cristiano», precisamente attraverso l'esperienza della propria umanità. Si può meglio comprendere l'originalità del metodo e del contenuto di questi tré volumi (che si collocano al centro di una vasta produzione che include oltre venti opere maggiori e molti artìcoli), se si considera che la persona di monsignor Giussani è all'origine di uno dei movimenti oggi più vivaci e impegnati nella vita della Chiesa e della società, Comunione e Liberazione.
* Presidente del Pontifìcio Consiglio per i Laici.
VI

Presente già in oltre settanta Paesi («Andate in tutto il mondo» fu la consegna che Giovanni Paolo II affidò a Comunione e Liberazione in occasione del 30° anniversario della nascita del movimento), la sua realtà adulta, la «Fraternità di Comunione e Liberazione», è stata riconosciuta dalla Santa Sede come associazione universale di fedeli di diritto pontifìcio. Per tutte queste ragioni io sono lieto e onorato, come Presidente del Pontifìcio Consiglio per i Laici, di presentare questi testi.
Gli inizi di Comunione e Liberazione risalgono ai primi anni '50, quando monsignor Giussani - allora giovane professore della Facoltà di Teologia di Milano, impegnato in un intenso studio del pensiero del protestantesimo americano, specialmente quello di Reinhold Niebuhr -, decise di abbandonare l'insegnamento teologico specialistico per dedicarsi completamente a una presenza tra gli studenti. In una società come quella italiana degli anni '50, almeno ancora in apparenza profondamente permeata dai principi del cattolicesimo, monsignor Giussani colse con drammatica lucidità il rischio di una adesione puramente formale a quegli stessi principi soprattutto da parte della gioventù. Inoltre egli intuì, con ampio anticipo sugli sviluppi successivi nella società e nella Chiesa, il dramma di una riduzione del Fatto cristiano a una pratica puramente esteriore, che implicava per i cristiani la perdita di una reale consapevolezza dei fonda-menti della fede e delle sue implicazioni per tutta l'esistenza umana. Ultimamente, quindi, senza un fondamento ragionevole la fede si sarebbe basata semplicemente su un sentimentalismo, non più realmente interessante per l'uomo, non più incidente sulla realtà, e perciò, di fatto, la fede sarebbe stata subordinata ai valori della mentalità dominante nella società.

VII
(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 13:55
Fin dalle prime esperienze di insegnamento don Giussani cercò in modo appassionato di affermare la chiarezza e di illuminare in tutti i suoi aspetti la ragionevolezza del cristianesimo. Anche recentemente, in un suo articolo apparso su un quotidiano italiano in occasione del Natale 1996, monsignor Giussani ha affermato la sua preoccupazione educativa fondamentale: «... il primo problema che noi avvertiamo verso la cultura moderna è che ci sentiamo come mendicanti dell'idea di ragione, poiché è come se nessuno più avesse il concetto di ragione, e comprendiamo - di rovescio - che la fede ha bisogno che l'uomo sia ragionevole per poter riconosc-re l'Avvenimento grazioso del Dio con noi».1 Secondo l'Autore, la mentalità moderna riduce la ragione a una serie di «categorie in cui la realtà è forzata a entrare: ciò che non entra in queste categorie è definito come irrazionale». La ragione, al contrario, «è come un occhio spalancato sulla realtà», che riceve tutto e ne coglie «i nessi e le implicazioni». La ragione discorre della realtà, cerca di penetrarne il significato percepito, correndo da un angolo all'altro, conservando ogni cosa nella memoria e tendendo ad abbracciare tutto. La ragione è ciò che ci definisce come persone. Per questo occorre avere una vera passione per la ragionevolezza. Nel primo volume l'Autore espone il concetto che la vera essenza della razionalità e la radice della coscienza umana sono reperibili nel senso religioso dell'io. Il cristianesimo si rivolge al senso religioso proprio perché si propone come possibilità imprevista (chi avrebbe potuto prevedere la morte e la Resurrezione dell'unico Figlio di Dio?) al desiderio dell'uomo di vivere cercando, scoprendo e amando il proprio destino. Il cristianesimo, pertanto, risulta essere una risposta ragionevole al più profondo desiderio umano. Ogni uomo, infatti, per il fatto stesso di esistere, afferma nella sua esistenza, anche
inconsciamente, un significato esauriente per cui valga la pena di vivere.
1 L. Giussani, Natale, tempo di speranza per l'uomo moderno che non crede più in niente, in «il Giornale», 24 dicembre 1996, p. 1.
VIII
(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 13:56
In questo senso appare come esigenza della ragione quella di riconoscere lo scopo dell'esisten-te e della storia, vale a dire ciò che tutti hanno sempre chiamato "Mistero", o Dio. In qualunque atto della ragione, seguendo ogni possibile passo di una identifìcabile logica, si arriva a un punto, un'apertura, un soffio, un'intuizione imprevista, per cui ogni esperienza che la ragione potrebbe giudicare può essere valutata soltanto alla luce di un'unica realtà di Mistero, Dio. La ragione riconosce, se è fedele al suo dinamismo originale di apertura alla totalità della realtà, l'esistenza di questo livello ultimo e misterioso della realtà. Ma non può pretendere con le sue sole forze di conoscere «Chi» il Mistero sia. Il Mistero si fa conoscere solo svelandosi, prendendo l'iniziativa di collocarsi come fattore dell'esperienza umana, come e quando vuole. La ragione, infatti, attende questa «rivelazione», ma non può farla accadere. Eppure, negare la possibilità di questa iniziativa da parte del Mistero, come accade in larga misura per gran parte della cultura moderna, è ultimamente rinnegare la ragione come categoria della possibilità di rapporto con l'Infinito, con l'essere che è Mistero. In un certo momento storico un uomo, Gesù di Nazareth, non solo ha rivelato il mistero di Dio, ma si è identificato con esso. Come questo avvenimento abbia iniziato ad attirare l'attenzione degli uomini; come Gesù ab-bia creato una chiara convinzione in coloro che hanno iniziato a seguirlo; in che modo abbia comunicato il mistero della sua persona; come abbia confermato il suo svelarsi con una intelligenza nuova e perfetta della vita umana - tutto ciò costituisce il contenuto del secondo volume della serie, All'origine della pretesa cristiana. Ma oggi, dopo duemila anni, come è possibile raggiun-gere la certezza sul fatto di Cristo? Come fa ad essere ragionevole oggi aderire alla pretesa cristiana?
IX

(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 13:58

Questo problema identifica il cuore di ciò che storicamente si chiama «Chiesa», quel fenomeno socialmente identifìcabile che si presenta nella storia come la continuazione dell'avvenimento di Cristo. Oggi come duemila anni fa I’unico metodo per conoscere Cristo con certezza è quello di un incontro con la realtà umana in cui Lui è presente. Pertanto tutto il problema di cui l'Autore si occupa nel terzo volume, Perché la Chiesa, può essere sin-tetizzato così: la Chiesa si presenta come un fenomeno umano che pretende di portare in sé il divino. Così la presenza della Chiesa nella storia dell'umanità si pone di continuo di fronte al mondo come ha fatto Gesù. L'opera di monsignor Giussani rappresenta un contributo significativo per tutti coloro che, dentro e fuori la Chiesa, vogliano accostarsi ad essa senza pregiudizi e con apertura reale all'affascinante possibilità che l'avvenimento di Cristo rappresenta. E quanto più affascinante e ancora oggi in un tempo, come osserva l'Autore, «ove ciò che viene chiamato cristianesimo sembra essere un oggetto conosciuto e dimenticato. Conosciuto, perché molte sono le sue tracce nella storia e nella educazione dei popoli. Eppure dimenticato, perché il contenuto del suo messaggio sembra diffìcilmente avere a che fare con la vita della maggior parte degli uomini».2 Con una freschezza immediata che nasce da una intensa esperienza esistenziale e con una sorprendente intensità di riflessione, ogni passo di questa opera ripropone in modo conciso e affascinante l'originalità dell'avvenimento cristiano, del Dio con noi, che ha scelto di venire incontro all'uomo divenendo uomo, comunicandosi al mondo, agli uomini e alle donne di ogni tempo e luogo.
L. Giussani, 77 senso di Dio e l'uomo moderno, BUR, Milano 1994, p. 5.

X


(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 13:59
INTRODUZIONE
I volumi del PerCorso non h
anno altra pretesa che di a-fermare la verità: vogliono indicare come è sorto il problema cristiano, anche storicamente. Lo svolgersi dei capitoli non pretende di affrontare esaurientemente tutti i problemi, ma di segnare la strada da percorrere. La strada della ragionevolezza. Dio, infatti, rivelandosi nel tempo e nello spazio, risponde a una esigenza dell'uomo. Oggi spesso si sente dire che la ragione non c'entra con la fede, ma che cos'è la fede? che cos'è la ragione?
La mentalità moderna riduce la ragione a un insieme di categorie in cui la realtà è forzata a entrare: ciò che non entra in queste categorie è definito come irrazionale; invece la ragione è come un occhio spalancato sulla realtà, che beve avidamente la realtà, ne registra i nessi, le implicazioni, ne discorre, corre dentro il reale, da una cosa all'altra, conservandole tutte nella memoria e tende ad abbracciare tutto. L'uomo affronta la realtà con la ragione. La ragione è ciò che ci definisce come uomini. Perciò dobbiamo avere la passione della ragionevolezza: è questa passione il filo conduttore del discorso che faremo. Proprio per questo il primo volume del PerCorso, Il senso religioso, si apre con una triplice premessa di metodo, che aiuti a penetrare il modo con cui la coscienza di un uomo, per natura, ragiona.
L.G.
XI


Al mio Vescovo
(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 21:10
Capitolo primo
PRIMA PREMESSA: REALISMO

1. Di che si tratta

Per affrontare il tema del senso religioso in modo sgo-bro da equivoci e perciò più efficace ricondurrò la me-todologia di tale lavoro a una triplice premessa.
Nell'abbordare la prima di esse vorrei citare come punto di approccio una pagina dal libro Riflessioni sulla condotta della vita di Alexis Carrel:
«Nello snervante comodo della vita moderna la ma-sa delle regole che danno consistenza alla vita si è spappolata; [...] la maggior parte delle fatiche che imponeva il mondo cosmico sono scomparse e con esse è scomparso anche lo sforzo creativo della personalità [...]. La frontiera del bene e del male è svanita, [...] la divisione regna ovunque [...]. Poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».
Interrompo per osservare che qui Carrel usa il linguaggio di chi si è sempre dedicato a un certo tipo di studio, scientifico (ricordiamo che egli fu giovanissimo Premio Nobel per la medicina): la parola «ragionamento» potrebbe utilmente essere sostituita dalla parola «dialettica in funzione di una ideologia». Infatti la nostra - prosegue Carrel - è un'epoca di ideologie, nella quale cioè invece che imparare dalla realtà in tutti i suoi dati, costruendo su di essa, si cerca di manipolare la realtà secondo le coerenze di uno schema fabbricato dall'intelletto: «così il trionfo delle ideologie consacra la rovina della civiltà».2

1 Cfr. A. Carrel, Riflessioni sulla condotta della vita, Bompiani, Milano 1953, pp. 27ss.
2 Ivi, p. 34.
3 «Ego quid sciam quaero, non quid credam» (Sant'Agostino, Solilo-quio I, III, 8).
pag 3
(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 21:12
2. Il metodo di ricerca è imposto dall'oggetto: una riflessione
sulla propria esperienza

Questo brano di Carrel ha bene introdotto il titolo della prima premessa: per una indagine seria su qualsiasi avvenimento o «cosa», occorre realismo.
Intendo con questo riferirmi all'urgenza di non privilegiare uno schema che si abbia già presente alla mente rispetto alla osservazione intera, appassionata, insistente del fatto, dell'awenimento reale.
Sant'Agostino, con un cauto gioco di parole, afferma qualcosa di simile con questa dichiarazione:
«Io cerco per sapere qualcosa, non per pensarla».3
Tale dichiarazione indica un atteggiamento opposto a quello che è più facile ravvisare nell'uomo moderno.
Se infatti sappiamo una cosa, possiamo dire anche di pensarla; ma sant'Agostino ci avverte che non è vero il contrario. Pensare qualcosa è la costruzione intellettuale, ideale e immaginativa, che noi operiamo in proposito; ma sovente concediamo troppo privilegio a questo pensare, per cui senza rendercene conto - o addirittura anche giustificando l'atteggiamento che sto per definire - proiettiamo sul fatto ciò che ne pensiamo.
L'uomo sano invece vuole sapere come un fatto sia: solo sapendo come è, e solo allora, può anche pensarlo.
Così, sulla scia della osservazione di Carrel e di quest'ulama di sant'Agostino, insisto nell'affermare che anche per l'esperienza religiosa è importante innanzitutto sapere come sia, di che cosa esattamente si tratti.

pag 4
(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 21:13
È chiaro comunque che, prima di ogni altra considerazione, dobbiamo affermare che proprio di un fatto si tratta, anzi del dato di fatto statisticamente più diffuso nell'attività umana.
Non esiste infatti attività umana che sia più vasta di quella individuabile sotto il titolo «esperienza o sentimento religioso».
Essa propone all'uomo un interrogativo su tutto ciò che egli compie, e viene perciò a essere un punto di vista più ampio di qualunque altro.
L'interrogativo del senso religioso - come rivedremo - è: «che senso ha tutto?», e dobbiamo riconoscere che si tratta di un dato emergente nel comportamento dell'uomo di tutti i tempi, e che tende a investire tutta l'attività umana.
Se dunque noi vogliamo sapere come sia questo fatto, in che cosa consista questo senso religioso, il problema di metodo ci impegna subito in modo acuto.
Come affronteremo tale fenomeno per essere sicuri di riuscire a conoscerlo bene?
Occorre dire che la maggior parte delle persone si affidano in questo - coscientemente o incoscientemente - a quello che dicono gli altri, e in particolare a quello che dicono coloro che contano nella società: per esempio, i filosofi che l'insegnante spiega a scuola, i giornalisti che normalmente scrivono sui quotidiani e sui periodici che determinano l'opinione pubblica.
Come faremo a sapere che cosa è questo senso religioso: studieremo dunque quel che ne dicono Aristotele, Platone, Kant, Marx o Engeis?
Potremmo anche far così, ma usare innanzitutto questo metodo è scorretto.
Il motivo è che non si può su quest'espressione fondamentale dell'esistenza dell'uomo abbandonarsi al parere di altri, per esempio assorbendo l'opinione più in voga o le sensazioni determinanti l'aria che respiriamo.
Il realismo esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall'oggetto.
Se io mi trovassi seduto a parlare davanti a una sala piena di gente e avessi un notes sul tavolo, che parlando intrawedo con la coda dell'occhio, e io mi domandassi che cosa sia quel biancore che colpisce la mia vista, potrei pensare le cose più disparate: gelato sparso, un brandello di camicia, ecc...

pag 5

(Zacuff)
00giovedì 29 ottobre 2009 21:15

Ma il metodo per sapere di che cosa veramente si tratti mi è imposto dalla cosa stessa.
Non potrei cioè dire che preferirei mettermi a contemplare un altro oggetto rosso in fondo alla sala o gli occhi di una persona in prima fila: se volessi veramente conoscere l'oggetto biancheggiante, dovrei necessariamente rassegnarmi a chinare la testa e a prenderne visione fissando gli occhi su di esso.
Vale a dire, il metodo per conoscere un oggetto mi è dettato dall'oggetto stesso, non può essere definito da me.
Se al posto del notes di cui si parlava poc'anzi ipotizzassimo che sullo scorcio dell'occhio fosse possibile avere l'esperienza religiosa come fenomeno, anche in questo caso si dovrebbe dire che il metodo per conoscerla deve venire da essa suggerito.
Ora, che tipo di fenomeno è l'esperienza religiosa?
Essa è un fenomeno che attiene all'umano, pertanto non può essere trattata come un fenomeno geologico o meteorologico. È qualcosa che riguarda la persona.
Allora come agire?
Poiché si tratta di un fenomeno che avviene in me, che interessa la mia coscienza, il mio io come persona, è su me stesso che devo riflettere. Mi occorre un'indagine su me stesso, un'indagine esistenziale.
Risolta tale indagine, allora molto utilmente ne confronterò i risultati con ciò che al riguardo viene espresso da pensatori e filosofi.
E a quel punto in un simile confronto si arricchirà il dato che avrò raggiunto, senza il rischio di far assurgere a definizione un parere altrui.
Se non si partisse dall'indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro.
Il che, se non fosse conferma, arricchimento o contestazione a seguito di una riflessione già personalmente intrapresa, renderebbe l'opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d'opinione inevitabilmente alienante.
Di una questione importante per la mia vita e per il mio destino adotterei acriticamente un'immagine indotta da altri.

Pag 6
continua)
(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 13:39
3. L'esperienza implica una valutazone

Ma quanto finora esposto è solo l'inizio del procedimento, perché dopo aver condotto un'indagine esistenziale è necessario saper emettere un giudizio a proposito dei risultati di tale indagine su noi stessi.
Evitare l'alienazione in ciò che altri dicono non esime dalla necessità di dare un giudizio su quanto in se stessi si è trovato nel corso della indagine.
Senza una capacità di valutazione infatti l'uomo non può fare alcuna esperienza.
Vorrei precisare che la parola «esperienza» non significa esclusivamente «provare»: l'uomo sperimentato non è colui che ha accumulato «esperienze» - fatti e sensazioni - facendo, come si dice, di ogni erba un fascio.
Tale accumulo indiscriminato genera spesso distruzione e vanifìcazione della personalità.
L'esperienza coincide, certo, col «provare» qualcosa, ma soprattutto coincide col giudizio dato su quel che si prova.
«La persona è innanzitutto consapevolezza.
Perciò quello che caratterizza l'esperienza non è tanto il fare, lo stabilire rapporti con la realtà come fatto meccanico [...].
Ciò che caratterizza l'esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso.
L'esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose».4
Un giudizio esige un criterio in base al quale viene operato. Anche per l'esperienza religiosa occorre domandarsi, dopo aver svolto l'indagine, quale criterio adottare per giudicare quanto si è trovato nel corso di quella riflessione su se stessi.

4 L. Giussani, II rischio educativo, SEI, Torino 1995, p. 53
pag 7
(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 13:43
4. Criterio per la valutazione

Domandiamoci allora: qual è il criterio che ci permette di giudicare ciò che vediamo accadere in noi stessi?
Due sono le possibilità: o il criterio in base al quale giudicare ciò che si vede in noi è mutuato dal di fuori di noi, o tale criterio è reperibile dentro di noi..
Nel primo caso ricadremo nell'evenienza alienante che abbiamo descritto prima.
Se anche avessimo svolto un'indagine esistenziale in prima persona, rifiutando perciò di rivolgerci a indagini già svolte da altri, ma prelevassimo da altri i cribri per giudicarci, il risultato alie-nante non cambierebbe.
Faremmo ugualmente dipendere il significato di ciò che noi siamo da qualcosa che è fuori di noi.
A questo punto però mi si potrebbe intelligentemente obiettare che, poiché l'uomo prima di essere! non c'era, non è possibile che possa darsi da sé un criterio di giudizio.
Questo viene comunque «dato».
Ora, che questo criterio sia immanente a noi - entro di noi - non significa che ce lo diamo da soli: è attinto dalla nostra natura, vale a dire ci viene dato con la natura (dove la parola «natura» evidentemente nasconde la parola Dio, indizio cioè dell'origine ultima del nostro io).
Solo questa può essere considerata un'alternativa di metodo ragionevole, non alienante.
Il criterio per giudicare quella riflessione sulla propria umanità deve dunque essere immanente alla struttura originaria della persona.
5
(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 13:45
5. L'esperienza elementare

Tutte le esperienze della mia umanità e della mia personalità passano al vaglio di una «esperienza originale», primordiale, che costituisce il volto nel mio raffronto con tutto.
Ciò che ogni uomo ha il diritto e il dovere di imparare è la possibilità e l'abitudine a paragonare ogni proposta con questa sua «esperienza elementare».
In che cosa consiste questa esperienza originale, elementare?
Si tratta di un complesso di esigenze e di evidenze con cui l'uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste.
La natura lancia l'uomo nell'universale paragone con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo - come strumento di tale universale confronto - di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l'uomo dice o fa da esse dipende.
A esse,potrebbero essere dati molti nomi; esse possono essere riassunte con diverse espressioni (come: esigenza di felicità, esigenza di verità, esigenza di giustizia, ecc...).
Sono comunque come una scintila che mette in azione il motore umano; prima di esse non si da alcun movimento, alcuna umana dinamica. Qualunque affermazione della persona, dalla più banale e quotidiana al-a più ponderata e carica di conseguenze, può awenire solo in base a questo nucleo di evidenze ed esigenze originali.
Ipotizziamo davanti a noi il solito notes dell'esempio già fatto.
Se qualcuno ci venisse accanto e ci dicesse seriamente:
«Sei sicuro che sia un notes? E se non lo fosse?» la nostra reazione sarebbe di uno stupore venato di paura, come chi si trovi di fronte a un eccentrico.
Aristotele diceva argutamente che è da pazzi chiedersi le ragioni di ciò che l'evidenza mostra come fatto.5
Nessuno potrebbe vivere a lungo e con sanità sulla linea di quelle assurde domande.
Ebbene, questo tipo di evidenza è un aspetto di ciò che ho chiamato esperienza elementare.
Vorrei proporre un altro esempio, grottesco ma significativo.
In un liceo il professore di filosofìa spiega:
«Ragazzi, tutti noi abbiamo l'evidenza che questo notes sia un oggetto fuori di noi. Non c'è nessuno che possa evitare di riconoscere che la sua prima impressione al riguardo sia quella di un oggetto fuori di sé.
Supponete però che io non conosca quest'oggetto: sarebbe come se esso non esistesse.
Vedete allora che ciò che crea l'oggetto è la nostra conoscenza, è lo spirito e l'energia dell'uomo.
Tant'è vero che se l'uomo non lo conoscesse, sarebbe come se non fosse».
Ecco un professore «idealista», diciamo.
Facciamo l'ipotesi che questo insegnante si ammali gravemente e che venga sostituito.

5 Cfr. Aristotele, Topici I, 11, 105a 3-7.

9

(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 13:50
Il supplente, informato dagli studenti del programma svolto, decide di riprendere l'esempio del professore assente.
«Tutti noi siamo d'accordo - dice - che la prima evidenza è che questo sia un oggetto fuori, di noi. E se non lo fosse?
Dimostratemi che c'è, come oggetto fuori di noi, in modo incontrovertìbile»: ecco un professore problematicista, scettico o sofista.
Ammettiamo ancora che per imprevedibili circostanze arrivi in quella classe un altro supplente di filosofìa e che riprenda il discorso allo stesso punto.
Dice: «Tutti abbiamo l'impressione che questo sia un oggetto fuori di noi: è un'evidenza prima, originale.
Ma se io non lo conosco? E come se non esistesse.
Vedete dunque che la conoscenza è un incontro tra un'energia umana e una presenza. E un avvenimento in cui si assimila l'energia dell'umana coscienza con l'oggetto.
Vedete dunque, amici miei, che occorrono per la conoscenza due cose: l'energia della nostra coscienza e l'oggetto. Come si produce tale unità?
È domanda affascinante di fronte alla quale abbiamo potere fino a un certo punto. E certo però che la conoscenza è composta di due fattori».
E un insegnante «realista».
Abbiamo visto tré interpretazioni diverse dello stesso argomento. Quale delle tré sarà «giusta»?
Ognuna di esse ha la sua attrattiva, ognuna esprime un punto di vista vero.
Con quale metodo si arriverà a decidere?
Occorrerà prendere in esame le tré opinioni e confrontarle con i criteri di quella che ho chiamato esperienza elementare: ai criteri cioè immanenti alla nostra natura, a quel complesso di esigenze, di evidenze con cui nostra madre ci ha fatti nascere.
Dei tré professori chi utilizza un metodo più corrispondente all'esperienza originale?
Il terzo rivela una posizione più ragionevole, perché tiene conto di tutti gli elementi in gioco; ogni altra metodologia cade in un criterio riduttivo.
Ho proposto questo esempio per insistere sulla necessità che la riflessione su di sé sia vagliata, per giungere a un giudizio, attraverso il confronto tra il contenuto della riflessione stessa e il criterio originale di cui siamo tutti dotati.
Una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come impronta intcriore.
Così, quando essi diranno «io», utilizzeranno questa parola per indicare una molteplicità di elementi derivanti da diverse storie, tradizioni e circostanze, ma indubbiamente quando diranno «io» useranno tale espressione anche per indicare un volto intcriore, un «cuore» direbbe la Bibbia, che è uguale in ognuno di essi, benché tradotto nei modi più diversi.
Identifico in questo cuore ciò che ho chiamato esperienza elementare: qualcosa cioè che tende a indicare compiutamente l'impeto originale con cui l'essere umano si protende sulla realtà, cercando di immedesimarsi con essa, attraverso la realizzazione di un progetto, che alla realtà stessa detti l'immagine ideale che lo stimola dal di dentro.

10
(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 14:00
6. L'uomo, ultimo tribunale?

Abbiamo detto che il criterio per giudicare del proprio rapporto con se stesso, con gli altri, con le cose e con il destino è totalmente immanente all'uomo, secondo il suggerimento della struttura originale.
Ma nella convivenza umana ci sono miliardi di individui che si paragonano con le cose e con il destino: come sarà possibile evitare una generale soggettivizzazione?
Vale a dire, il singolo uomo avrebbe tutto il potere di determinare il suo significato ultimo e quindi delle azioni a esso tese: non sarebbe questo un'esaltazione dell'anarchia, intesa come idealizzazione dell'uomo quale ultimo tribunale?
Ritengo del resto che, come il panteismo dal punto di vista cosmologico, l'anarchia dal punto di vista antropologico costituisca una delle tentazioni grandi e affascinanti dell'umano pensiero. Infatti, a mio avviso, solo due tipi di uomini salvano interamente la statura dell'essere umano: l'anarchico e l'autenticamente religioso. La natura dell'uomo è rapporto con l'infinito: l'anarchico è l'affermazione di sé all'infinito e l'uomo autenticamente religioso è l'acccttazione dell'infinito come significato di sé.
Personalmente ho intuito ciò con chiarezza molti anni fa, quando un ragazzo è venuto a confessarsi da me spinto dalla madre.
Egli in realtà non aveva fede.
Abbiamo cominciato a discutere e, a un certo punto, di fronte alla valanga dei miei ragionamenti, ridendo mi dice:
«Guardi, tutto ciò che lei si affatica a espormi non vale quanto sto per dirle. Lei non può negare che la vera statura dell'uomo è quella del Capaneo dantesco, questo gigante incatenato da Dio all'inferno, ma che a Dio grida:
"Io non posso liberarmi da queste catene perché tu mi inchiodi qui. Non puoi però impedirmi di bestemmiarti, e io ti bestemmio".6
Questa è la statura vera dell'uomo».
Dopo qualche secondo di impaccio ho detto con calma:
«Ma non è più grande ancora amare l'infinito?».
Il ragazzo se n'è andato.
Dopo quattro mesi è tornato a dirmi che da due settimane frequentava i sacramenti perché era stato «roso come da un tarlo» per tutta l'estate da quella mia frase.
Quel giovane sarebbe morto di lì a poco in un incidente
automobilistico.
Realmente l'anarchia costituisce la tentazione più affascinante, ma è tanto affascinante quanto menzognera.
E la forza di tale menzogna sta appunto nel suo fascino, che induce a dimenticare che l'uomo prima non c'era e poi muore.
È pertanto pura violenza ciò che può fargli dire:
«Io mi affermo contro tutti e contro tutto».
E molto più grande e vero amare l'infinito, cioè abbracciare la realtà e l'essere, piuttosto che affermare se stessi di fronte a qualsiasi realtà.
Perché in verità l'uomo afferma veramente se stesso solo accettando il reale, tanto è vero che l'uomo comincia ad affermare se stesso accettando di esistere: accettando cioè una realtà che non si è data da sé.

6 Cfr. Dante, Inferno, canto XIV, w. 43-72.
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(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 14:04
Ecco perché il criterio fondamentale con cui si affrontano le cose è il criterio oggettivo con cui la natura lancia l'uomo nell'universale paragone, dotandolo di quel nucleo di esigenze originali, di quella esperienza elementare di cui tutte le madri allo stesso modo dotano i loro figli.
È solo qui, in questa identità dell'ultima coscienza, il superamento dell'anarchia.
L'esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l'energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto, al punto che essi possono vivere tra loro un commercio di idee oltre che di cose, possono trasmettersi l'un l'altro ricchezze a distanza di secoli, e noi leggiamo con emozione frasi create migliala di anni fa dagli antichi poeti con un'impressione di suggerimento al nostro presente, come talvolta non deriva dai rapporti quotidiani.
Se c'è una esperienza di maturità umana è proprio questa possibilità di addentrarsi nel passato, di accostarsi al lontano come fosse vicino, come fosse parte di sé.
Perché ciò è possibile?
Perché questa esperienza elementare, come dicevamo, è sostanzialmente uguale in tutti, anche se poi sarà determinata, tradotta, realizzata in modi diversissimi, apparentemente persino opposti.

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(Zacuff)
00venerdì 30 ottobre 2009 14:09
7. Ascesi per una liberazione

Direi allora: se si vuole diventare adulti senza essere ingannati, alienati, schiavi di altri, strumentalizzati, ci si abitui a paragonare tutto con l'esperienza elementare
In realta così propongo un compito non facile e impopolare.
Di norma infatti tutto viene affrontato secondo una mentalità comune: sostenuta, propagandata da chi nella società detiene il potere. Cosicché la tradizione familiare, o la tradizione del più vasto contesto in cui si e cresciuti, sedimentano sopra le nostre esigenze originali e costituiscono come una grande incrostazione che altera 1 evidenza di quei significati primi, di quei criten, e se uno vuoi contraddire tale sedimentazione in-otta dalla convivenza sociale e dalla mentalità ivi creatasi, deve sfidare l'opinione comune.
La sfida più audace a quella mentalità che ci domina e che incide in noi per ogni cosa - dalla vita dello spirito al vestito - è proprio quella di rendere abituale in noi il giudizio su tutto alla luce delle nostre evidenze prime, e non alla mercé di più occasionali reazioni.
Anche questi occasionali pareri sono indotti da un contesto e da una storia, e anch'essi debbono essere attraversati, perché le nostre esigenze originali siano raggiungibili.
Il modo di concepire il rapporto tra l'uomo e la donna, per esempio, benché vissuto come fatto intimo e personale, è in realtà ampiamente determinato sia dalla istintività propria, che crea valutazoni per nulla in linea con l'esigenza originale dell'affetto, sia dall'immagine di amore creatasi nell'opinione pubblica.
Occorre perforare sempre tali immagini indotte dal clima culturale in cui si è immersi, scendere a prendere in mano le proprie esigenze ed evidenze originali e in base a queste giudicare e vagliare ogni proposta, ogni suggerimento esistenziale.
L'uso dell'esperienza elementare, o del proprio «cuore», e dunque impopolare soprattutto di fronte a se stessi, poiché quel «cuore» appunto è l'origine dell'indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggetto di interesse o di piacere.
La propria esigenza di uomo o di donna è ravvisabile come diversa: è esigenza di amore, ed è purtroppo miseramente facile a essere alterata.
Incominciamo a giudicare: è l'inizio della liberazione.
Il ricupero dell'esistenziale profondo, che permette questa liberazione, non può evitare la fatica di andare controcorrente.
Si potrebbe chiamare lavoro ascetico, dove con la parola ascesi si indica l'opera dell'uomo in quanto cerca la maturazione di sé, in quanto è direttamente centrato sul cammino al destino.
È un lavoro, e non è un lavoro ovvio; è qualcosa di semplice, ma non scontato.
Quanto finora detto è da riconquistare, ma viviamo in un'epoca in cui l'esigenza di tale riconquista è più chiara che mai, benché in ogni tempo l'uomo abbia dovuto lavorare per riconquistare se stesso.
In termini cristiani questa fatica fa parte della «metanoia», o conversione.
14
(continua)

(Zacuff)
00sabato 31 ottobre 2009 22:23
Capitolo secondo
SECONDA PREMESSA: RAGIONEVOLEZZA

La prima premessa - necessità di realismo - ha visto prevalere l'oggetto: il metodo infatti con cui si affronta qualcosa è determinato dall'oggetto e non immaginato a capriccio dal soggetto.
La seconda premessa invece mette in primo piano il soggetto che agisce: l'uomo.
Per ragionevolezza intendo ciò che tale parola dice a quella esperienza comune che anche i filosofi devono usare nei loro rapporti più quotidiani, se vogliono vivere.
In questo senso la ragionevolezza coincide con l'attuarsi del valore della ragione nell'agire.
Anche la parola ragione però potrebbe essere messa in questione facilmente.
Per ragione intendo il fattore distintivo di quel livello della natura che chiamiamo uomo, e cioè la capacità di rendersi conto del reale secondo la totalità dei suoi fattori.
La parola ragionevolezza dunque rappresenta un modo di agire che esprima e realizzi la ragione - questa capacità di prendere coscienza della realtà.
17
(Zacuff)
00sabato 31 ottobre 2009 22:24
1.Ragionevolezza: esigenza strutturale dell'uomo

Domandiamoci innanzitutto: come percepiamo se un atteggiamento è o no ragionevole?
Trattandosi di un carattere della nostra esperienza, è dalla osservazione della nostra stessa esperienza che noi scopriremo quel che implichi tale carattere, analogamente a quanto abbiamo osservato nella prima premessa.
Se, per esempio, un nostro amico ci si presentasse
davanti bardato come un cavaliere medievale, con elmo
e corazza, in un momento dell'anno ben distante dal
Carnevale, e alle nostre domande stupite rispondesse se-
riamente di non essere sicuro che qualcuno tra i presen-
ti non nutra intenzioni aggressive nei suoi confronti e,
di conseguenza, di aver ritenuto opportuno premunirsi
contro quest'eventualità, ci sentiremmo di fronte a una
anormalità; l'atteggiamento dell'amico non sarebbe cer-
to percepito come ragionevole.
Se davanti a una platea di persone mi presentassi
con una borsa, la depositassi sul tavolo e, d'improvviso,
la prendessi e con un lancio energico e ben mirato la
scaraventassi dalla finestra, i miei uditori in mancanza di
altra spiegazione considererebbero il mio gesto irragio-
nevole.
In ciascuno degli esempi ora proposti i differenti ge-
sti appaiono irragionevoli poiché non lasciano intrawe-
dere possibili ragioni.
Ma se il lancio della borsa avvenisse dopo che nella
sala avessero fatto irruzione quattro uomini armati con i
mitra spianati, il pubblico si domanderebbe quale fosse
il contenuto della borsa, e il mio gesto non sarebbe sen-
tito irragionevole. Se poi io spiegassi che nella borsa era
contenuto un inestimabile tesoro, la platea si chiarireb-
be la ragionevolezza del mio agire.
Si tratterebbe di un gesto formalmente identico a quello precedente, ma
l'esperienza del pubblico lo percepirebbe fornito di ragioni.
E non basta. Se io parlando alla solita platea mi pre-
sentassi con un enorme megafono da transatlantico e mi
giustificassi dicendo di avere la voce roca e di essermi
trascinato dietro il gigantesco strumento come rimedio,
ciò non sarebbe considerato ragionevole.
La ragione per usarlo sarebbe stata da me dichiarata - il fatto cioè
di essere io senza voce -, ma i miei ascoltatori non la
percepirebbero una ragione adeguata: lo strumento sa-
rebbe sproporzionato a un'aula da conferenze.
18
(Zacuff)
00sabato 31 ottobre 2009 22:27
L'uso invece dello stesso su un transatlantico non desterebbe
problema: la ragione sarebbe la stessa, ma sarebbe adeguata alle circostanze.
Riassumiamo. Lo stesso gesto, nell'esempio della valigia, appare nel primo caso irragionevole, cioè senza ragioni, mentre nel secondo ragionevole, perché si capi-sce che ha delle ragioni.
Nel secondo esempio l'uso del megafono in un'aula e giudicato irragionevole, perché pur essendoci una ragione essa appare inadeguata, mentre nell'ipotesi del transatlantico ci sarebbe l'identica ragione, ma proporzionata, adeguata.
Nell'esperienza il «ragionevole» perciò a noi appare tale quando l'atteggiamento dell'uomo si palesa con delle ragioni adeguate.
Se la ragione è rendersi conto della realtà, tale rapporto conoscitivo col reale si deve sviluppare in modo ragionevole.
Ed è ragionevole quando i passi per quel rapporto di conoscenza sono determinati da motivi adeguati.
E questo il corrispettivo dal punto di vista del soggetto di quanto abbiamo detto prima a proposito dell'oggetto, e cioè che quest'ultimo determina il metodo.
Qui possiamo dire che è la natura del soggetto a determinare le modalità con cui questo metodo viene usato.
E la natura del soggetto è quella di avere la ragione.
19

(continua)
(Zacuff)
00domenica 1 novembre 2009 19:46
2. Uso induttivo della ragione

E’ importante non ridurre l'ambito della ragionevolezza.

a) Spesso il razionale viene identificato con il «dimostrabile» nel senso stretto della parola.
Ora, non è vero che l'esperienza umana del ragionevole sia contenuta in questa identificazione.
È vero il fatto che il ragionevole chieda, desideri, aspiri e sia curioso di dimostrare ogni cosa, ma non è vero che ragionevole sia identico a dimostrabile.
La capacità di dimostrare è un aspetto della ragionevolezza, ma il ragionevole
non è la capacità di dimostrare.
Che cosa significa infatti dimostrare?
Significa ripercorrere tutti i passi di un procedimento che pone in essere qualcosa. A scuola, quando si ripeteva la dimostrazione di un teorema e si saltava un passaggio, l'insegnante interrompeva dicendo:
«Questo non è dimostrato».
Infatti tutti i passi costitutivi di una realtà vanno percorsi per poter dire di tro-varci di fronte a una dimostrazione.

Ma questo non esaurisce il ragionevole perché proprio gli aspetti originali più interessanti della realtà non sono dimostrabili.
A essi cioè non si può applicare quel procedimento poc'anzi citato.
L'uomo non può dimostrare, per esempio, come esistano le cose, e la risposta all'interrogativo sul come le cose esistano è sommamente interessante per l'uomo. Se anche qualcuno potrà dimostrare che questo tavolo è fatto di un materiale che ha una determinata composizione, non potrà mai però ripercorrere tutti i passaggi per cui questo tavolo esiste.
19

(Zacuff)
00domenica 1 novembre 2009 19:52
b) II ragionevole neppure si identifica con il «logico».
La logica è un ideale di coerenza: ipotizzate delle premesse, svolgetele coerentemente e avrete una «logica».
Se le premesse sono errate, la logica perfetta darà un risultato sbagliato.
Il problema davvero interessante per l'uomo non è la logica - gioco affascinante -; non è la dimostrazione - invitante curiosità -: il problema interessante per l'uomo è aderire alla realtà, rendersi conto della realtà.
È dunque una cogenza (qualcosa che costringe), non una coerenza.
Che una madre voglia bene al figlio non costituisce il termine di un procedimento logico: è una evidenza, o una certezza, una proposta della realtà la cui esistenza è cogente ammettere.
Che esista il tavolo su cui lavoro, che esista l'attaccamento di mia madre per me, anche se non sono conclusioni di uno svolgimento logico, sono realtà che corrispondono al vero, ed è ragionevole affermarle.
Le capacità di logica, di coerenza, di dimostrazione, non sono altro che strumenti della ragionevolezza, strumenti al servizio di una mano più grande, dell'ampiezza di un «cuore» che li utilizza.

Nota bene. Mi preme puntare l'attenzione più sul termine «ragionevole» che sul termine «ragione».
Infatti anche quest'ultima, questa capacità di rendersi conto della realtà, può essere usata in modo irragionevole, cioè senza motivi adeguati.
Alla radice, comunque, il problema sta nel concetto di ragione.
Vorrei ricordare un episodio occorsomi parecchi anni orsono dal quale ho imparato molto.
Affrontavo per la prima volta un'ora di lezione di religione come insegnante in un liceo classico.
Appena montato in cattedra, prima ancora di aver cominciato a parlare, mi accorgo che dall'ultimo banco s'alza una mano.
Domando allo studente che cosa voglia. La risposta è stata circa questa:
«Scusi, professore, è inutile che lei venga qui a parlarci della fede, a ragionare sulla fede, perché ragione e fede rappresentano due mondi totalmente diversi.
Ciò che si potrebbe dire sulla fede non ha nulla a che fare con l'esercizio della ragione e viceversa, e perciò ragionare sulla fede coincide con una mistificazio-ne».
Ho chiesto allora allo studente che cosa fosse per lui la fede, e non ricevendo risposta ho rivolto la domanda a tutta la classe con lo stesso risultato.
A quel punto ho chiesto allo studente dell'ultimo banco che cosa fosse la ragione, e di fronte al suo silenzio ho nuovamente girato l'interrogativo a tutti ottenendo però ancora silenzio.
«Come potete - dissi allora - giudicare della fede e della ragione senza prima aver cercato di rendervi conto di che cosa esse siano?
Usate parole del cui significato non avete preso possesso.»
Ovviamente le mie affermazioni hanno avuto l'effetto di scatenare una discussione e io mi rendevo conto sempre di più che il professore di filosofìa aveva avuto un certo influsso sulla classe.
20

(Zacuff)
00domenica 1 novembre 2009 20:04
Uscendo dall'aula alla fine dell'ora mi sono trovato di fronte proprio a quell'insegnante; e di getto gli dico che ero stupito del fatto che in quella classe si considerasse ovvio che la fede non avesse nulla a che fare con la ragione.
La sua reazione fu di dire che anche la Chiesa lo aveva affermato nel Concilio Arausicanum II.1
Lo richiamai al fatto che ogni affermazione va interpretata all'interno del contesto storico in cui è nata e di cui esprime concezioni e preoccupazioni. Stralciare una frase dal suo contesto culturale e letterario e leggerla esattamente come fosse stata stilata l'altro ieri è certo antistorico e ne impedisce la corretta comprensione.
A quel punto la lite si era estesa, il capannello di studenti attorno a noi era sempre più folto.
Allora, benché fosse già il momento di entrare in un'altra classe, ho voluto far capire agli studenti dove stesse la questione tra me e il professore di filosofìa.
Gli ho chiesto: «Professore, io non sono mai stato in America, ma le posso con certezza assicurare che l'America c'è.
Lo affermo con la stessa certezza con cui dico che lei si trova davanti a me in questo momento. Trova questa mia certezza ragionevole?».
Dopo alcuni istanti di silenzio e di evidente impaccio la risposta è stata: «No!».
Ecco ciò che ho voluto risultasse chiaro a quegli studenti, e che anche in questa sede voglio affermare: io ho un concetto di ragione per cui ammettere che l'America c'è senza averla mai vista può essere ragionevolissimo, al contrario di quel professore il cui concetto di ragione gli fa dire che non è ragionevole.
Per me la ragione è apertura alla realtà, capacità di afferrarla e affermarla nella totalità dei suoi fattori.
Per quel professore ragione è «misura» delle cose, fenomeno che si avvera quando c'è una diretta dimostrabilità.

1 cfr' H. Denzinger, “Il sinodo di Orange”, can. 5-7, in Enchiridion Symbolorum EDB, Bologna 996, nn. 375-378. Il II Sinodo di Grange, anche noto come Arausicanum II, ebbe inizio il 3 luglio 529 sotto papa Felice IV Questo Concilio aveva per scopo di chiudere la controversia semipelagia^ na portando il colpo di grazia alle idee di Fausto di Riez e fare prevalere la dottnna di sant Agostino.
22
(continua)

(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 13:17
3. Diversità dì procedimenti

Quel che dirò ora non è niente altro che l'esemplifica-
zione della sistematicità con cui la ragione dell'uomo
nel rendersi conto della realtà, si muove usando motivi
adeguati.
Se io dico: (a + b) (a - b) = a2 - b2, io affermo un
valore algebrico o matematico, un valore cioè che ap-
partiene al campo delle verità matematiche.
Ma per arrivare a dire che (a + b) (a - b) = a2 - b2, come faccio?
Svolgo un certo cammino, compio dei passi come den-
tro una strada dapprima piena di nebbia, un passo dopo
l’ altro, ecco finalmente la nebbia si dirada e arrivo di
fronte allo spettacolo della verità, l'evidenza, l'identità.
Io faccio un cammino, arrivo a un certo punto e ho
l’ evidenza, lo spettacolo della verità.
È come un tunnel che a un certo punto sfocia su un ballatoio
e rivela lo spettacolo della natura.
Facciamo un altro esempio: l'acqua è H20.
Non instauro un cammino come in matematica: prendo un
alambicco e raccolgo l'esito della distillazione!
Un terzo esempio: «La donna di fronte all'uomo che
diritti ha?». Un essere umano ha certi diritti, la donna è
un essere umano, dunque ha gli stessi diritti dell'uomo
Non mi sono fermato a costruire e risolvere formule ma-
tematiche per capire che la donna ha gli stessi diritti
dell uomo; non ho messo la donna sotto un alambicco.
Ho svolto un altro cammino e a un dato punto il sillogi-
smo mi ha reso evidente la cosa.
In greco strada si chiama odós e «lungo il cammino»
«attraverso il cammino» si dice metà-odón, da cui deriva
l’ italiano «metodo».
Metodo è una parola derivata dal greco; dal latino
si direbbe «procedimento».
È attraverso un procedimento (o «processo») che arrivo a cono-
scere l’ oggetto.
Allora la ragione, come capacità di rendersi conto
del reale o dei valori, cioè del reale in quanto entra nel-
l’ orizzonte umano, per conoscere certi valori o tipi di
verità segue un certo metodo, per un altro tipo di verità
segue un altro metodo, per un altro tipo di verità segue
un altro metodo ancora: sono tré metodi diversi.
Proprio perché la ragione affronta l'oggetto secondo passi o mo-
tivi adeguati, sviluppando cammini diversi secondo l'og-
getto (il metodo è imposto dall'oggetto!).
La ragione così non è anchilosata, non è rattrappita
come l'ha immaginata tanta filosofìa moderna che l'ha
ridotta a una sola mossa, «la logica», o a un tipo di fe-
nomeno solo, una certa capacità di «dimostrazione em-
pirica». E molto più vasta, la ragione; è vita, è una vita di
fronte alla complessità e alla molteplicità della realtà, di
fronte alla ricchezza del reale. La ragione è agile, e va
da tutte le parti, percorre tante strade. Io ho esemplifi-
cato semplificando.
Così l'uso della ragione è una flessione della capa-
cità che l'uomo ha di conoscere, la quale implica diver-
si metodi, o procedimenti, o processi, secondo il tipo
degli oggetti; non ha metodo unico, è polivalente, ricca,
agile e mobile.
Se non si tiene conto di questo fenomeno fonda-
mentale si possono fare gravi errori.
Gente esperta di un metodo fìlosofico o teologico,
se pretende affermare una verità in campo scientifico,
può incorrere nell'errore commesso da alcuni signori del
Santo Uffizio con Galileo Galilei: esperti in esegesi teologiche
hanno preteso far dire alla Bibbia quello che la Bibbia non aveva nes-
suna intenzione di dire, perché la Bibbia non voleva per
nulla definire la struttura del cosmo, e parlava secondo
la mentalità della gente del suo tempo; ciò che a essa
premeva era affermare valori religiosi ed etici.
24
(continua)


(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 20:22
4. Un procedimento particolarmente importante

Immaginatevi Pietro, Giovanni e Andrea di fronte a
Gesù di Nazareth: di lui conoscevano la madre, il padre
e i parenti; con lui andavano a pescare, a mangiare.
A un certo punto fu loro evidente che di quell'uomo si
poteva dire: «Se non devo credere a quest'uomo, non
devo credere più neanche ai miei occhi».
Questa certezza può essere ragionevole?
Se lo può essere, qual è il metodo che mi ci conduce?
Ricordiamo che il metodo non è altro che la descrizione
della ragionevolezza nel rapporto con l'oggetto.
Il metodo stabilisce i motivi adeguati con cui fare
i passi nella conoscenza dell'oggetto.
Ancora. Io posso dire con certezza: «Mia madre mi
vuole bene».
È l'aspetto più importante della maternità,
perché se anche uno fosse stato abbandonato a due me-
si e preso poi da un'altra donna, sua madre è colei che
l'ha preso con sé, se gli vuole bene. «Mia madre è una
donna che mi vuoi bene»: di questo son certo come del-
la luce del sole, anzi più ancora che non del fatto che la
terra gira intorno al sole, nel senso che mi interessa di
più, è più importante per la mia vita.
È più importante per la mia percezione del reale,
per il mio rapporto con il destino che questa donna mi voglia bene,
che non la terra giri attorno al sole.
È molto bello che si sia scoperto che la terra giri attorno al sole
e non viceversa, perché è un aspetto della verità.
Però, per quanto riguarda la vita, cioè il problema del mio
rapporto con il destino, non è tutto, anzi con il mio problema
totale c'entra poco.
Io ho presente persone di cui direi: «Ecco, questa
gente è proprio mia amica, mi sono veramente amici».
Se uno mi dicesse: «Dimostramelo!», con che metodo
glielo dimostro? ragionandoci sopra? mettendomi ad ap-
plicare strane formule di geometria? usando qualche
metodo scientifico? No. Così si deve dire sull'amore che
mia madre mi porta.
Vi sono delle realtà, dei valori, la cui conoscenza
non rientra nei tré metodi che abbiamo menzionato.
Sono i valori che riguardano l'umano comportamento,
non nel suo aspetto meccanico, identifìcabile con la so-
ciologia o la psicologia, ma nel suo aspetto di significa-
to, come dagli esempi fatti.
Se tu ti puoi fidare di quell'uomo o no; fino a qual punto
gli puoi far credito; che cosa puoi valorizzare di un altro;
se la tal persona è leale o no:
la conoscenza certa di questi valori non si può
raggiungere con i metodi di cui abbiamo parlato.
Eppure nessuno può negare che possa essere ragionevole una
certezza acquisita al riguardo. |
25

(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 20:24
Un ambito di realtà di cui la nostra coscienza può
rendersi conto è dunque il campo delle realtà o verità
«morali»; morali nel senso etimologico, in quanto cioè
definiscono l'umano «comportamento» che in latino si
dice mores. I
Nella scoperta di verità e di certezze sul comporta-
mento umano la ragione deve essere usata in modo di-
verso, altrimenti non è più ragionevole: ad esempio,
pretendere di definire l'umano comportamento attra-
verso un metodo scientifico non sarebbe un processo
adeguato.
Se io andassi a casa questa sera e mia madre mi fa-
cesse trovare un bei risotto, e io mi arrestassi improvvi-
samente, e invece di buttarmi sul piatto, affamato, fissas-
si il risotto, e lei, preoccupata, mi chiedesse: «Ma... stai
male?», e io dicessi: «No. Ma, guarda che io vorrei ana-
lizzare questo risotto per essere sicuro che non ci sia del
cianuro», mia madre direbbe: «Hai sempre voglia di
scherzare!»; però, se mi vedesse fare sul serio, teso a
quest'esigenza, non chiamerebbe un analista chimico,
ma uno psichiatra.
La sicurezza che mia madre non intenda avvelenarmi c'è,
indipendentemente dalla stessa possibilità di far l'analisi
chimica del cibo preparato.
Supponiamo ancora che ci troviamo, due amici, alla
stessa fermata del tram. «Ciao», «Ciao, come stai?».
L'altro sale, e io resto a terra. Intanto il tram comincia a
muoversi, cosicché l'amico con la testa fuori dal finestri-
no mi chiede: «Perché non sei salito?». E io: «Fino a che ,
la giunta comunale a ogni fermata non avrà fatto esami-
nare scientificamente lo stato psicofìsico del tranviere io
non salirò più...».
Quel tram, per arrivare dal Duomo a Porta Ticinese,
impiegherebbe un anno!
Matematiche, scienze, filosofìa sono necessario per
l'evoluzione dell'uomo come storia, sono fondamentali
condizioni per la civiltà.
Ma uno potrebbe vivere benis-simo senza la filosofìa,
senza sapere che la terra gira intorno al sole:
l'uomo non può vivere invece senza le certezze morali.
Senza poter dare giudizi di certezza sul
comportamento che l'altro ha verso di lui, l'uomo non
può vivere.
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(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 20:25
Tanto è vero che l'incertezza nei rapporti è uno dei
malanni più terribili della nostra generazione: è diffici-
le la certezza dei rapporti, incominciando dalla fami-
glia.
Si vive come col mal di mare, con una tale insicu-
rezza nella trama di relazioni, che non si costruisce più
l'umano.
Si costruiranno grattacieli, bombe atomiche, sistemi di
filosofia sottilissimi, ma non l'umano, perché esso è nei rapporti.
Ecco perché la natura in certi campi ha creato un
metodo, un cammino, un tipo di svolgimento lento: bi-
sogna fare tutti i passaggi in un certo modo, oppure non
si è sicuri di poter procedere; così che a certe cose si ar-
riva dopo secoli, dopo millenni.
Invece, per farci cogliere le certezze nei rapporti ci è
stato dato un metodo velocissimo, quasi più una intuizione
che un processo.
È molto più vicino questo quarto metodo al gesto dell'arti-
sta, che neanche a quello del tecnico o del dimostratore,
perché l'uomo ne ha bisogno per vivere sull'istante.
Un metodo porta certezza matematica, un metodo
porta certezza scientifica, un metodo certezze filosofi-
che; il quarto metodo porta a certezze sull'umano com-
portamento, certezze «morali».
Ho detto che come metodo quest'ultimo è più paragonabile
al metodo del genio e dell'artista:
essi da segni arrivano alla percezione del vero.
Quando Newton vide cadere la famosa mela,
questa fu un segno che fece balenare la grande ipotesi.
Il genio da un piccolo segno induce una intuizione uni-
versale.
Il metodo con cui capisco che mia madre mi
vuole bene, attraverso cui sono certo che molti mi sono
amici, non è fissato meccanicamente, ma è intuito dalla
intelligenza come unico senso ragionevole, unico motivo
adeguato, per spiegare la convergenza di determinati
«segni».
Moltipllcate indefinitamente questi segni, a cen-
tinaia, a migliata: il punto del loro senso adeguato è che
mia madre mi vuoi bene.
Migliala di indizi convergenti su questo punto:
l'unico senso del comportamento di
mia madre è questo, che «mia madre mi vuol bene».
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(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 20:26
La dimostrazione per una certezza morale è un com-
plesso di indizi il cui unico senso adeguato, il cui unico
motivo adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quel-
la certezza.
Si chiama non solo certezza morale, ma anche certez-
za esistenziale perché è legata al momento in cui tu leggi
il fenomeno, cioè intuisci l'insieme dei segni.
Per esempio.
Io sono tranquillo che chi ho davanti in questo mo-
mento non mi vuole ammazzare; e neppure dopo que-
sta mia dichiarazione questa persona mi vuole ammazza-
re, neanche per il gusto di dimostrare che ho sbagliato.
E’ un comportamento, è una situazione leggendo nella
quale pervengo a questa certezza.
Ma non potrei affermare tale certezza per un tempo futuro,
cambiati i connotati delle circostanze!
Due rilievi importanti:
II primo. Io sarò tanto più abilitato ad aver certezza
su di tè, quanto più sto attento alla tua vita, cioè condi-
vido la tua vita. In questa misura i segni si moltipllcano.
Per esempio, nel Vangelo chi ha potuto capire che di
quell'uomo bisognava aver fiducia? Non la folla che an-
dava a farsi guarire, ma chi gli andò dietro e condivise la
sua vita. Convivenza e condivisione!
Il secondo. Inversamente, quanto più uno è potente-
mente uomo, tanto più è capace da pochi indizi di rag-
giungere certezze sull'altro. Questo è il genio dell'uma-
no, è il genio capace di leggere la verità del comporta-
mento, del modo di vivere dell'uomo. Quanto più uno è
potente come umanità tanto più ha la capacità di perce-
pire con certezza. «Fidarsi è bene, ma non fidarsi è me-
glio», dice il proverbio, ed è una saggezza abbastanza su-
perficiale, perché la capacità di fidarsi è propria dell'uo-
mo forte e sicuro. L'uomo insicuro non si fida neanche
di sua madre. Quanto più uno è veramente uomo tanto
più è capace di fidarsi, perché intuisce i motivi adeguati
per credere in un altro.
A chi ha il «bernoccolo» per una certa materia sco-
lastica, basta un cenno per intuire la soluzione del pro-
blema, mentre tutti gli altri devono faticare ogni passag-
gio.
Avere il «bernoccolo» di una cosa è come avere con
essa una affinità.
Il «bernoccolo» dell'umano vuoi dire
avere molta umanità in sé; e allora sì che scopro fino a
che punto posso fidarmi della tua umanità.
E come se l'uomo facesse un paragone veloce con se
stesso, con la propria «esperienza elementare», con il
proprio «cuore» e dicesse: fino a qui corrisponde, e per-
ciò è vero, e mi posso fidare.
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(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 20:27
5. Un 'applicazione del metodo della certezza morale: la fede

Che cosa è la fede? E aderire a quello che afferma un
altro. Ciò può essere irragionevole, se non ci sono moti-
vi adeguati; è ragionevole se ci sono.
Se io ho raggiunto la certezza che una persona sa quel
che dice e non mi inganna, allora ripetere con certezza
ciò che essa dice con certezza è coerenza con me stesso.
Ma io posso raggiungere certezza sulla sincerità e
sulla capacità di una persona proprio attraverso il proce-
dimento della certezza morale.
Senza il metodo di conoscenza della fede non ci sa-
rebbe sviluppo umano.
Se l'unica ragionevolezza fosse nella evidenza
immediata o personalmente dimostrata
(come avrebbe preteso il professore di filosofìa
di cui abbiamo parlato a proposito dell'America), l'uomo non
potrebbe più procedere, perché ognuno dovrebbe rifa-
re tutti i processi da capo, saremmo sempre trogloditi.
In questo senso il problema della certezza morale è
il problema capitale della vita come esistenza, ma attra-
verso essa anche della vita come civiltà e cultura, perché
tutto il prodotto degli altri tré metodi diventa base per
uno slancio nuovo solo in forza di questo quarto metodo.
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(Zacuff)
00lunedì 2 novembre 2009 20:30
Spero sia evidente perché ho tematizzato questa premes-
sa come la necessità della ragionevolezza.
L'oggetto di uno studio esige realismo, il metodo
è imposto dall'oggetto; ma concomitante, complementare
a questo, occorre che il lavoro verso l'oggetto rispetti l'esigenza del-
la natura dell'uomo che è la ragionevolezza: avere moti-
vi adeguati nel fare i passi verso l'oggetto del conoscere.
La diversità dei metodi stabilisce l'ordine di questi moti-
vi adeguati.
Un metodo è luogo di motivi adeguati.
Pretendere che per essere sicuri del comportamento
dell'uomo si debba applicare il metro scientifico, che se
non si può applicare quello non si può raggiungere cer-
tezza, questo è irragionevole.
Perché è una posizione che non ha motivi adeguati,
come dimostra un'osservazione sulla esperienza.
Inversamente, raggiungere la certezza sull'umano
comportamento può benissimo avere motivi adeguati e
perciò avvenire con estrema ragionevolezza.
La nostra vita è fatta di questo tipo di ragionevolezza.
Parlo dellnostra vita più interessante, quella dei rapporti, ma an-
che alla fin fine quella dei rapporti che stabiliscono la
storia e attraverso i quali si tramandano i reperti anche
delle scoperte fatte con altri metodi.
Notiamo anche da ultimo che l'uomo può sbagliare
nell'usare il metodo scientifico, o il metodo fìlosofìco, o
il metodo matematico.
Così si può sbagliare nello stabilire un giudizio di certezza
sul comportamento umano.
Ciò non toglie il fatto che col metodo scientifico si pos-
sano raggiungere certezze; e così con il metodo della co-
noscenza «morale»!
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fine II cap.
(continua)



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